La bellissima
estate, che aveva avvolto Londra con il suo caldo e soleggiato
abbraccio, si insinuava quasi timorosa dalla finestra spalancata,
agitando leggermente le lunghe tende bianche con una pigra brezza
mattutina. Sherlock Holmes era sveglio da ore, ma era rimasto sdraiato
nel grande letto vuoto, a fissare i giochi di chiaroscuro che si
susseguivano sul soffitto, con il trascorrere del tempo. Ogni tanto
accendeva una sigaretta e la fumava lentamente. Sapeva che la signora
Hudson, l’anziana padrona di casa, avrebbe disapprovato
fermamente che lui fumasse non solo in casa, ma soprattutto in camera,
ma Sherlock non aveva tempo per le eventuali rimostranze della donna.
C’era qualcosa che lo tormentava da una settimana. La sua mente
cercava di fargli comprendere che gli era sfuggito un dettaglio
importante. Il problema principale era che ogni sua riflessione
arrivava inesorabilmente a John Watson. Per quanti sforzi il giovane
Holmes facesse per evitare di pensare al dottore, John finiva sempre al
centro dei suoi ragionamenti. Non solo perché villa Morstan era
il fulcro dell’indagine. Sherlock non poteva dimenticare il loro
bacio. E l’addio di John, durante il loro ultimo incontro.
Una risata allegra e cristallina irruppe nella stanza dalla finestra.
Il viso di John si materializzò nella mente di Sherlock, con la
sua voce dolce e pacata, la sua risata discreta e coinvolgente. La spia
scalciò il lenzuolo, che lo copriva fino ai fianchi, si sedette
sul bordo del letto con i piedi nudi sul pavimento freddo e spense la
sigaretta nel posacenere con un gesto stizzito. Il resto del mondo
avrebbe anche potuto essere meno felice, mentre lui scendeva a patti
con la parte più oscura della sua anima. Quella governata dai
sentimenti, a lui sconosciuti. Sherlock non avrebbe mai perdonato John
per avere scatenato la tempesta, che gli impediva di riflettere in modo
razionale sull’assurda situazione in cui si trovava. C’era
un’unica soluzione. Affrontare il dottore apertamente, definire
precisamente i confini della loro relazione e andare avanti. Lo avrebbe
fatto quel pomeriggio stesso, durante il loro incontro settimanale.
Sì. Aveva finalmente preso la decisione giusta. Sherlock si
alzò con uno spirito più consono alla bella giornata che
filtrava dalla finestra, pronto ad affrontare e sconfiggere il suo
ferale nemico: l’amore non corrisposto che provava per John
Watson.
Nel tramonto
La stanza era in penombra. Le leggere tende bianche si muovevano
appena, bloccate dai pesanti tendaggi color crema, che impedivano alla
luce del sole di entrare nella stanza. John non sentiva rumori o suoni.
Solo il canto degli uccelli, che abitavano gli alberi del parco,
riusciva a raggiungerlo. Null’altro. Theodore e Mary lo avevano
isolato dal resto del mondo. Solo loro entravano nella stanza. Lo
imboccavano. Lo accompagnavano in bagno. Per la maggior parte del
tempo, John era immerso in una sorta di dormiveglia. Mary non dormiva
nemmeno più con lui. Non doveva salvare le apparenze. La
servitù sapeva che il medico era ammalato ed era normale che la
moglie si fosse trasferita in un’altra stanza, per la notte.
Theodore e Mary lo lasciavano spesso solo. John non aveva alcuna
possibilità di fuggire. La porta della camera era chiusa a
chiave. Il telefono era stato portato via dal comodino, insieme al
cellulare; “Così nessuno disturberà il suo riposo e
guarirà prima,” avevano spiegato Theodore e Mary, a
beneficio della servitù e dei loro soci, ignari della reale
situazione di John. La stanza era al primo piano e il dottore non
avrebbe mai potuto fuggire dal balcone. Non tanto per l’altezza.
Erano le forze a mancargli. Nei pochi momenti di lucidità, il
giovane medico si chiedeva per quanto tempo ancora i Morstan gli
avrebbero concesso di vivere. Quale fosse il periodo che ritenessero
consono prima della sua prematura dipartita. L’unica sua
consolazione era la consapevolezza che Sherlock Holmes lo avrebbe
vendicato. Non perché gli importasse di lui, ma per portare a
termine la propria missione. Sherlock Holmes avrebbe compreso che John
era stato assassinato e avrebbe arrestato i due colpevoli, che
avrebbero pagato per tutti i loro misfatti. Era un peccato che John non
sarebbe stato presente, per ammirare la giovane spia nei panni
dell’implacabile vendicatore. Però non importava.
Giustizia sarebbe stata fatta e John non sarebbe morto inutilmente.
Il parco era pieno di persone, come sempre. Turisti e abitanti di
Londra approfittavano delle alte piante di Kensington Park per trovarvi
refrigerio, durante le ore più calde del giorno. Sherlock non
poteva lamentarsi della folla. Avevano stabilito di incontrarsi nel
parco proprio per nascondersi in mezzo alla gente. Ciò che lo
irritava era il ritardo di John. Era strano che il dottore non fosse
ancora arrivato. Agli altri appuntamenti si era sempre presentato
puntuale. Doveva essere accaduto qualcosa, che gli aveva impedito di
venire e di avvisare Sherlock che l’incontro era saltato.
L’immagine di un John pallido e quasi barcollante apparve
prepotentemente nella mente della spia, che si chiuse nel proprio
palazzo mentale. Sherlock osservò con attenzione il ricordo
dell’ultimo incontro con John, focalizzandosi sull’aspetto
del dottore.
Improvvisamente capì.
L’illuminazione lo colpì con la forza di un pugno nello stomaco: “Stava male, non era ubriaco!”
“Finalmente lo hai capito! Per essere così intelligente,
sei stato veramente lento,” sbottò una voce accanto a
Sherlock, che si voltò interdetto. Davanti a lui c’era
John, che indossava lo smoking blu della sera in cui era andato a cena
a villa Morstan. Holmes aveva visto il dottore vestito in tanti modi,
ma non gli era mai sembrato così bello come in quella occasione.
La sua presenza, comunque, era destabilizzante e sorprendente:
“Che cosa ci fai qui?” Domandò in tono secco.
“Volevo farti notare quanto tu fossi stato stupido. Mi hai visto
ubriaco, certo, ma una sola volta. Sai che non sono un bevitore
abituale. Tu e tuo fratello avete fatto controlli approfonditi sul mio
passato, prima di coinvolgermi nel vostro caso. Sai che non bevo, fino
a perdere il controllo. L’esercito non mi avrebbe mai affidato il
comando di una squadra d’emergenza medica in zona di guerra, se
avessi avuto problemi con il bere. Voi fratelli Holmes non mi avreste
mai trasformato nel vostro burattino, se fossi stato un ubriacone. Non
avreste mai corso il rischio di mandare tutto a monte, ingaggiando un
inaffidabile alcolista. Ho cercato di farti capire che io non ero
ubriaco e che stavo male, ma tu no! Tu non ti sei degnato di
ascoltarmi!”
“Non puoi rinfacciarmi nulla. Non puoi sapere che cosa io pensassi,” borbottò Sherlock, irrigidendosi.
“Certo che posso! Sono nella tua testa! Io sono il John generato dalla tua mente. Devo spiegarti
io, come funzioni il
tuo palazzo mentale?” Sbuffò Watson, incrociando le braccia sul petto.
“Certo che no. Però mi stai facendo perdere tempo
prezioso. Deve esserti accaduto qualcosa di molto grave. I Morstan
devono avere scoperto la nostra incursione in cantina, capito il tuo
doppio gioco e deciso di ucciderti. Non eri ubriaco! Ti stanno
avvelenando!”
“Bravo! Che cosa aspetti a venire a salvarmi? Un invito scritto?”
Sherlock spalancò gli occhi, si alzò di scatto e corse
verso l’uscita. Doveva fare in fretta. Doveva salvare John. Fosse
anche stata l’ultima cosa che avrebbe fatto per l’MI6.
Nell’ufficio non entrava la luce del sole né l’aria
della calda estate. La luce artificiale illuminava sapientemente le
carte che Mycroft Holmes stava firmando, mentre il condizionatore
manteneva una temperatura confortevole. Tutto era calmo e tranquillo,
fino a quando la porta fu spalancata con forza. Mycroft non si
scompose. Alzò appena un sopracciglio per osservare severamente
chi avesse osato disturbare il suo lavoro.
“Lo stanno avvelenando,” esordì Sherlock, senza tanti preamboli.
Mycroft non aveva bisogno di sapere a chi si stesse riferendo il fratello: “Ne sei sicuro?”
“Sì. Oggi John non si è presentato
all’appuntamento. La scorsa settimana era pallido e barcollante.
Io ho pensato che fosse ubriaco, ma non erano i sintomi di una sbornia.
John stava male. Sono stato un vero idiota a non capirlo subito e a
lasciarlo tornare in quella casa.”
“Premesso che lungi da me il non concordare con te sul fatto che
tu sia un idiota, non avresti potuto fare altro che lasciare tornare
John a villa Morstan.”
“Perché?” Ringhiò Sherlock.
“Lo sai bene perché. Non siamo pronti a procedere con gli
arresti. Se anche riuscissimo a fare condannare i Morstan con
l’accusa di tentato omicidio nei confronti di John, non sappiamo
che cosa succeda nella fabbrica nello Yorkshire. I complici ci
sfuggirebbero e dovremmo ricominciare tutto da capo,”
affermò Mycroft, mettendo la penna sulla scrivania e appoggiando
la schiena alla poltrona.
“John
morirà,” urlò Sherlock.
“Non mi sembrava che la cosa ti turbasse tanto, quando abbiamo
deciso di coinvolgerlo nel caso. È cambiato qualcosa?”
Domandò Mycroft, curioso.
Sherlock si bloccò. Non avrebbe mai confessato i propri
sentimenti per John al fratello. Non prima di averne parlato con John
stesso. Il dottore meritava almeno questo. Di vivere. E che Sherlock
fosse onesto su ciò che provava verso lui. Come era entrato,
così il giovane Holmes uscì dall’ufficio del
fratello.
“Il vento dell’est è arrivato per punire i draghi
malvagi. Avvisi il reparto veleni del Bart’s e mandi una squadra
d’appoggio fuori da villa Morstan. Sherlock dovrebbe riuscire a
salvare il suo dottore da solo, ma è meglio essere preparati a
intervenire in loro aiuto. Mi tenga informato,” ordinò
alla sua assistente.
“Sarà fatto, signore,” sorrise Anthea, lasciando
solo il maggiore degli Holmes. Con un sospiro, Mycroft si augurò
che Sherlock arrivasse in tempo a salvare John. Il dottore poteva
essere la salvezza per il suo fratellino, se fosse sopravvissuto, ma la
sua morte avrebbe devastato e annientato Sherlock.
Il sole aveva iniziato la sua lunga discesa verso la sera, quando
Sherlock bussò alla porta di villa Morstan. Edgar gli
aprì e nascose la sorpresa di trovarselo davanti:
“Buonasera, signor Holmes. In cosa posso essere utile?”
“Devo vedere il dottor Watson. È urgente e importante.”
“Mi dispiace, signore. Il dottore non sta bene e non riceve visite.”
“Non importa. Devo vederlo. So che i padroni di casa hanno
ospiti. Posso mettermi a chiamare John a gran voce, attirando
l’attenzione degli invitati, oppure lei mi spiega dove lui si
trovi e mi lascia entrare senza opporsi. In questo caso, nessuno si
accorgerà della mia presenza.”
Dopo qualche secondo di riflessione, Edgar si fece da parte: “Il
dottor Watson si trova nella prima stanza a sinistra, al primo
piano.”
Sherlock si precipitò su per le scale, mentre Edgar andò
da Mary, a riferire che cosa stesse accadendo. Sherlock spalancò
la porta della stanza. La camera era in penombra, ma il giovane Holmes
vide subito la sagoma distesa sul letto. Immobile. Il respiro era
appena percettibile. Il cuore di Sherlock saltò un colpo. Si
precipitò da John e accese una lampada: “John! John! Apri
gli occhi. Rispondimi!” Chiamò, in tono disperato.
John si riscosse e aprì faticosamente gli occhi:
“Sherlock?” Domandò, incredulo. Alzò una
mano, sfiorando la guancia dell’altro uomo, per assicurarsi che
non fosse un sogno. I polpastrelli toccarono gli zigomi sporgenti,
sotto la pelle bianca come l’alabastro: “Sherlock…
sei proprio tu… sei qui… sei venuto…”
mormorò, con voce flebile.
“Sì, sono qui, John. Sono qui. Per te. Che cosa ti hanno fatto, amore mio?”
“Mi hanno avvelenato… mi hai chiamato amore mio? Tu mi ami?” Sussurrò John, sorridendo felice.
“Sì. Ti amo. Sono stato un idiota. Avrei dovuto dirtelo il
primo giorno che ti ho visto. Avrei dovuto impedirti di sposarti.
Invece ho negato i miei sentimenti, anche a me stesso. Perdonami,
John.”
“Non hai nulla da farti perdonare. Anche io non ho avuto il
coraggio di dirti che ti amo. Credevo che tu non fossi
interessato a me. Pensavo di non essere degno di te,”
sospirò, chiudendo gli occhi.
“Nononono. Non chiudere gli occhi. Resta sveglio. Rimani con me.
Non addormentarti. Ora ti porto via. Ti porto al sicuro,” lo
sollecitò Sherlock.
“Che cosa succede qui?” Chiese una voce tagliente e gelida.
Sherlock non si voltò nemmeno a guardare Mary. Spostò le
coperte, prese una vestaglia dal fondo del letto e sollevò John
praticamente di peso: “Forza. Appoggiati a me. Andiamo via.”
“Dove crede di portare mio marito?” Sibilò Mary, avvicinandosi ai due uomini.
“Porto John in ospedale. Poi manderò qualcuno ad arrestare
te e tuo padre,” ribatté Sherlock, appoggiando la
vestaglia sulle spalle di John e sorreggendolo, mentre si avviavano
verso la porta della stanza.
“Arrestarci? Per cosa? Lasci mio marito e se ne vada o...”
“O cosa? Spiegherà ai suoi soci che ha sposato un uomo che
lavora per l’MI6? Sono sicuro che saranno molto comprensivi. Come
lo sono stati con Steve Ballard,” la interruppe Sherlock,
sarcastico.
Erano arrivati in cima alle scale. Sherlock sorreggeva sempre John,
mentre Mary li seguiva. Theodore li raggiunse, interdetto: “John
sta male. Dove lo sta portando?”
“In ospedale. Dove gli somministreranno l’antidoto al
veleno che gli avete dato,” rispose Sherlock, in tono secco e
deciso.
“Mary, non puoi permetterglielo. Quest’uomo non può
portare via John. Gli altri si farebbero delle domande. Potrebbero
capire che qualcosa non va. Devi fermarlo o andare con loro.”
“Provate a fermarmi, se ci riuscite,” li sfidò Sherlock.
I soci dei Morstan uscirono dall’ufficio di Mary e osservarono la scena, sospettosi.
“Che cosa sta succedendo. Chi è quell’uomo? Dove sta portando John?” Chiese Albert Newman.
“Il signor Holmes è un amico di John. È venuto a
trovarlo e lo ha trovato peggiorato. Abbiamo deciso di portarlo in
ospedale,” rispose Theodore, con voce leggermente tremante.
“Era ora che vi decideste a portare John in ospedale. Sono giorni
che ve lo ripeto,” interloquì Thomas Raynolds.
“Infatti. Ora Mary e il signor Holmes accompagneranno John in
ospedale. Tutto si sistemerà. Dillo anche tu, Mary.”
“Certo. John starà bene. Non mi ero resa conto che le sue
condizioni fossero così peggiorate. Per fortuna il signor Holmes
è passato a vederlo. Ora andremo al pronto soccorso. Tutti
insieme. Vero, signor Holmes?” Anche la voce di Mary era
incrinata. Sherlock continuava a scendere le scale, tenendo un braccio
intorno ai fianchi di John. Non diceva una parola. Sentiva solo il
respiro di John, sempre più debole. Impiegarono un tempo che
sembrò eterno, per arrivare all’auto. Sherlock mise
gentilmente John dalla parte del passeggero, allacciò la cintura
di sicurezza e salì dalla parte del guidatore.
“Mi faccia salire. Se non vengo con voi, comprenderanno che la
sicurezza della nostra missione è stata compromessa per colpa
mia e mi uccideranno. Le rivelerò tutto, ma mi porti con
voi,” lo supplicò Mary.
Sherlock allungò un braccio e chiuse la sicura della portiera:
“Non è un mio problema,” sibilò. Avviò
l’auto e non si voltò mai indietro. Mary li osservò
andare via. Impietrita.
“Mary, potresti rientrare? Credo che tu abbia delle spiegazioni
da darci,” la richiamò Phillip Chappel in tono gelido. Un
brivido freddo attraversò la schiena della donna.
Era paura.
Non poteva fuggire da nessuna parte. Non aveva una spiegazione
ragionevole da fornire ai suoi soci. Sapeva che non avrebbe mai potuto
sperare nella loro pietà. Con la morte nel cuore, Mary
rientrò in casa, andando incontro al proprio destino.
Arrivato al cancello, Sherlock fermò l’auto e
abbassò il finestrino. Anthea si avvicinò e
osservò il dottore, che sembrava appisolato: “Vi stanno
aspettando al Bart’s. Ho fatto arrivare i migliori medici ed
esperti di veleni del paese. Un’auto della polizia vi
scorterà fino all’ospedale, a sirene spiegate,” la
donna informò Sherlock.
“Andate pure dentro. I Morstan saranno così contenti di
vedervi, che vi racconteranno tutto prima ancora che facciate loro
anche solo una domanda,” ribatté Holmes.
Anthea annuì e fece un cenno a un’auto, che accese la
sirena e partì a forte velocità. Sherlock la
seguì, senza alcuna esitazione. John socchiuse gli occhi. Il
sole stava tramontando alle loro spalle. Girò il viso verso
Sherlock e lo osservò sorridendo. Il rosso fuoco che infiammava
il cielo, faceva risaltare i lineamenti decisi del giovane Holmes,
intento a guidare.
“Grazie per essere venuto,” mormorò.
“Avrei dovuto arrivare prima. Andrà tutto bene, John. I
medici ti cureranno. Vivrai. Non ti lascerò mai
più.”
“Allora è vero che mi ami? Me lo hai detto veramente? Non me lo sono sognato?”
“Ti amo, John. Ti ho sempre amato. Tu ti salverai e
trascorrerò il resto delle nostre vite a dimostrarti quanto io
ti ami. Resisti. Siamo quasi arrivati. Ti amo, John.”
“Anche io ti amo, Sherlock,” sussurrò John, con un
sorriso dolce sulle labbra pallide, mentre chiudeva gli occhi. Il sole
infuocato aveva terminato il proprio percorso nel cielo, lasciando il
posto alla luna e alle stelle. Un amore era nato. Travagliato e
incerto, ma talmente forte che nessuno sarebbe mai riuscito a separare
John Watson e Sherlock Holmes.
Angolo dell’autrice
Anche questa storia è arrivata alla fine. Spero che vi sia piaciuta, che conosceste il film oppure no.
Grazie a chi abbia condiviso questa avventura con me, leggendo il racconto.
Grazie a emerenziano e meiousetsuna per le bellissime recensioni lasciate ai vari capitoli.
Prima o poi ci rivedremo da queste parti. Intanto, approfitto
dell’occasione per augurare a tutti Buone Feste e un felicissimo
2019, che porti pace, serenità e tanta salute, e che realizzi
tutti i vostri desideri.
Ciao!