Scendemmo dal treno che erano quasi le sei. Si sentiva già
un’aurea da crepuscolo. Sul cielo affilate dita arancioni e rosa strappavano
quelle nuvole candide che per tutta una giornata accompagnarono i miei terrori.
Eravamo di nuovo a Tokyo.
Frotte di ragazzine in divisa scolastica invadevano il centro con borse e
borsette: probabilmente si erano dedicate ad un po’ di shopping insieme dopo
l’orario scolastico. Impiegati in giacca e cravatta tornavano a casa dalle loro
mogliettine, che aspettano in ansia e preparano tempura e sushi. Il cane che
scodinzola sull’uscio. Bambini delle elementari intenti a giocare con la
fontana del parco pubblico.
Solo nel momento in cui scesi dal treno e vidi quelle scene
capii quanto avrei voluto una vita normale, forse troppo banale, ma sicuramente
più gradita. Mi accorsi di quanto si potesse nascondersi dietro la banalità
delle cose. Di quanta bellezza ci potesse essere nel mondo.
Camminai fino a casa, con Shuya appresso. Tremavo, tremavo
per quella cosa che avrei visto in soffitta.
La chiave schioccò nella serratura e il mio cuore cominciò a battere
freneticamente, come una pompa. Mi domandavo se fossi ancora viva.
Entrammo, a passi lenti.
Senza mia madre e mio padre la mia casa serena sembrava quasi spettrale. La
porta si chiuse dietro Shuya. Abbandonai lo zaino sull’ingresso e invitai Shuya
a togliersi la giacca e ad appenderla sull’attaccapanni.
“Sei pronta?” mi chiese.
Lo guardai e non risposi. Non sapevo cosa dire. La paura non riusciva nemmeno a
farmi parlare, mi ingoiava le parole che volevo espellere. Dopo essermi tolta
le scarpe, corsi in cucina a versarmi un bicchiere di the freddo.
Shuya mi raggiunse dubbioso “Non vuoi?”.
Quella frase fece scoppiare in me una criptica ilarità.
Appariva quasi come un doppiosenso erotico.
“Prima devo fare una cosa” dissi io. Ricordandomi di aver
inserito la fotografia spiegazzata di quell’uomo nella tasca dei pantaloni. Mi
riportava tremendamente qualcuno che avevo già visto nel mio album di famiglia.
In una sola mossa, mi appropriai del the freddo al limone che avevo versato
nell’alto e stretto bicchiere di vetro. Lo portai alla bocca e lo ingurgitai,
deglutendo.
“Ne vuoi un po’ anche tu?” chiesi a Shuya “Serviti…” dissi,
mentre mi stavo per dirigere verso il salotto, dov’erano conservati gli album
di famiglia.
“Tu dove vai, ora?”
“A vedere una cosa… tu bevi del the…poi proviamo a salire in soffitta”
Annuì, mentre io mi nascondevo, accovacciata, dietro il
divano bianco aprendo il primo album che mi capitò sottomano. Lo sfogliai
ferocemente e con velocità, quasi come se fossi affetta da isterismo.
Pagina dopo pagina. Io sorridente da piccola, mia mamma che
mi abbracciava, io alle elementari vestita in kimono colorato alla festa dei
ciliegi, mia madre e mio padre che si baciano da giovani. Ricordi, ricordi,
ricor…all’improvviso l’album mi cadde dalle mani e finì su una pagina ben
definita, che mi sconvolse. Presi l’album e mi alzai in piedi, fissa su quella
foto inquietante. Uno scatto identico a quello che avevo trovato in camera di
Kayako. Questa volta però il viso era completo. Ancora sconvolta, lasciai
cadere a terra l’album e iniziai ad annaspare dal terrore.
Sentii Shuya appoggiare il bicchiere sul tavolo della
cucina, forse si stava versando del the. Cercai di pensare a lui, ma il pensiero
di ciò che avevo appena visto mi formò un groppo in gola.
All’improvviso sentii qualcosa che gracchiava verso destra.
Mi voltai, dunque, verso la finestra e vidi chiaramente una mano che dall’alto
si appoggiava al vetro, strisciando le unghie sulla superficie trasparente. E
fu in quel momento che qualcosa mi colpì alla testa, qualcosa di pesante come
una mazza da baseball. E caddi inevitabilmente a terra.