La
sveglia suonò tre volte. Un mugolio e dopo una mano pallida
si
sporse fuori dalle coperte per schiacciarla. La mancò. La
mancò di
nuovo, ma la mosse e cadde a terra. Il rumore fece sobbalzare la
ragazza e si scoperchiò, sbadigliando rumorosamente: aveva
tutti i
capelli da un lato, le occhiaie e, si toccò un angolo della
bocca,
saliva secca. Brontolò, decise di alzarsi ma
inciampò sulla
sveglia, sbatté le ginocchia per terra e scacciò
un urlo di rabbia,
dandole un pugno, facendosi male di nuovo. No, proprio no. Prima un
incubo ancora vivido nella mente dove un uomo la rincorreva per
cercare di ucciderla, e ora questo. No,
ripensò rialzando la testa dopo aver sputato il dentifricio
sul
lavandino e sbattendola contro il mobile rimasto aperto. Decisamente
no. Siobhan Smythe non si sentiva affatto pronta ad affrontare la
giornata, se quelle erano le premesse. Da quando Rhea Gand era stata
rilasciata, dormiva sempre con un occhio vigile perché
temeva
mandasse qualcuno ad
ammazzarla
come aveva fatto con Kara Danvers. Dannazione, Danvers: lei era un
ninja ed era riuscita a sfuggire a quel destino una volta, dunque
avrebbe potuto proteggerla almeno al lavoro, e invece era ancora
sospesa. Sentiva che sarebbe successo qualcosa di brutto; se lo
sentiva nelle ossa. Ignorò i rumori dei camion che passavano
sotto
il suo appartamento e aprì una finestra solo per scacciare
un
piccione che si era adagiato sul davanzale, lasciandoci sopra un
ricordino. Odiava quei dannati topi volanti. Dopo andò in
cucina e
aprì il piccolo e ammaccato frigo. Che desolazione: se non
l'avesse
fatta uccidere quella donna, ci avrebbe pensato la fame prima che si
ricordasse di fare la spesa. Si preparò due fette di pane
con
ingredienti rimasti a caso, ed evitò a ultimo che una colata
di
mostarda le finisse sulle calze a rete. Mandò giù
un morso dopo
l'altro con ingordigia, ascoltando sulla tv, al telegiornale, un
pezzo del discorso pre-campagna elettorale di Rhea Gand andato in
onda ieri pomeriggio: la sala piena di invitati seduti intorno ai
tavoli, la donna sul palco, affiancata dal sindaco che, chiaramente,
la supportava.
«Il
mio amato marito sognava questo percorso da quando era ragazzo e lo
porterò avanti per lui».
«Bla,
bla, bla.
Mariticida», fece il verso, prima di mordere ancora la sua
colazione.
«Mi
impegnerò affinché le strade siano davvero
sicure. Questa è la mia
priorità».
Siobhan
spense la piccola tv che doveva ancora ingoiare l'ultimo boccone, si
assicurò di avere i denti puliti davanti allo specchio
all'ingresso,
e uscì di casa guardando avanti e indietro con apprensione;
scese le
scale e, avvicinandosi al portone dell'edificio, ricercò le
chiavi
della macchina in borsa.
«Buongiorno,
signorina Smythe». Grembiule sporco di cibo legato in vita e
al
collo, il ragazzo del ristorante cinese sotto casa la salutò
come
ogni mattina, affacciandosi dalla porta sul retro.
E
lei, come ogni mattina, si limitò a girare la faccia mentre
continuava a camminare nel viottolo e a regalargli un forzato sorriso
a labbra strette. Brontolò quando calpestò una
cartaccia a terra e
si riguardò di nuovo indietro, con la paura addosso. Lei
sapeva
della pistola. Sarebbe andata a cercarla, prima o poi.
Deglutì e
mise male un piede, inciampando sulle grate di un tombino.
Cercò di
tirarsi su, ma urlò quando capì che un tacco le
era rimasto
incastrato e che il ragazzo cinese stava correndo per soccorrerla. Le
macchiò la borsa e mezzo cappotto con pezzi di carapace di
gamberetti e per questo lo costrinse alla fuga picchiettandolo con la
scarpa non appena lui riuscì a liberargliela. «Tu
e i tuoi
gamberetti orientali», urlò nel vicolo. Si rimise
la scarpa e per
poco non sbandò contro un motorino parcheggiato, mettendo
male un
piede. Si accostò all'auto bianca e avvertì dei
passi che si
avvicinavano. Oh, no. Era lì per lei. Era successo, alla
fine. A chi
avrebbe assegnato la sua scrivania Cat Grant? Era dietro di lei.
Adesso.
Urlò. Si voltò velocemente e con forza gli
sbatté la borsa in
pieno viso. Lui ondeggiò e imprecò dal dolore;
non paga, Siobhan
afferrò lo spray al peperoncino da una tasca e, mostrandogli
tutti i
denti, più agguerrita che mai, glielo spruzzò
sugli occhi senza
provare pena. «Nessuno si prenderà la mia
scrivania, è chiaro?».
Cat
Grant la fissò, una volta alla CatCo; gli occhi che si
stringevano
in due fessure.
«La
polizia mi ha lasciato andare alle nove e mezza passate, non
è colpa
mia», sventolò una mano. «Uscito
dall'ospedale ha detto che
ritirerà la denuncia e sarei più felice se lo
facesse perché ha
capito come abbia agito per legittima difesa, ma teme che lo
maledica», spalancò gli occhi, guardandola grave.
«Come potevo
sapere che era il proprietario di quella stupida moto? Mi ha chiamato
banshee,
ci crede? Doveva pensare che non sapessi cosa significa, ma nessuno
mi dà del mostro solo perché-».
«Siobhan»,
la richiamò con voce dura, zittendola all'istante.
«Che qualcuno
maledica me
se dovessi mai azzardarmi di nuovo chiederti il perché di un
ritardo». Roteò gli occhi e la lasciò
alla sua scrivania con la
sua evidente voglia di chiacchierare.
Siobhan
Smythe però sapeva che stava per succedere qualcosa, se lo
sentiva
nelle ossa. Guardò verso la finestra e deglutì,
prima di iniziare a
lavorare.
7:40,
Centro di National City - 11 ore e 50 minuti all'Operazione
Da
quando si era alzato quella mattina, Dru Zod controllava assiduamente
l'orologio; più di altri giorni. Sua moglie era ai fornelli
e lui
leggeva il giornale, mentre il figlio tredicenne scendeva dal piano
di sopra per fare colazione, in divisa scolastica. Quel ragazzino era
sempre in ritardo. La donna lo sgridò in modo che si
sbrigasse prima
dell'arrivo del pulmino e l'uomo non li degnò di sguardi,
leggendo
con attenzione il discorso di Rhea Gand trasmesso in tv. Era la
quarta volta che lo sentiva e leggeva, dal giorno prima. Il bodyguard
non la lasciava mai sola, notò dalle foto.
Riguardò l'orologio. Il
figlio corse di nuovo di sopra e il campanello di casa
suonò. La sua
attenzione si rivolse tutta lì. Era curioso. Si
alzò dalla sedia,
ma sua moglie fu più veloce e la vide ritornare sorridendo e
scuotendo la testa.
«Il
tuo amico reporter».
Philip
Mcbrown. Zod sospirò: la CatCo Worldwide Media era a poco da
lì e
lui lavorava per il giornale di Cat Grant da qualche anno; era venuto
a trovarlo altre volte, prima di andare a lavoro. Si erano stretti la
mano come due vecchi amici e Zod lo fece accomodare a tavola, intanto
che sua moglie gli serviva il caffè caldo e lui la
ringraziava come
suo solito.
«Allora»,
l'amico gli scoccò un'occhiata quando la donna si
allontanò per
richiamare il figlio dalle scale, e
così sorseggiò dalla
tazzina. Come Zod lo guardò, lui accennò al
giornale, alla faccia
di Rhea in
una foto. «Cosa ne pensi? Ti aveva avvertito di questa
idea?». Poi
rise scrollando le spalle, poggiando la tazzina vuota sul tavolo e
dando i suoi complimenti alla donna, che andava a sistemare la
cucina. «Vuole i nostri voti? L'appoggio di… tutti,
sai? So che non siamo più il gruppo di un tempo,
ma…».
«Rhea
vuole sempre l'appoggio di tutti», rispose il Generale,
pacato.
«Quella
ha il pepe in zucca e forse non solo lì», rise.
«Ehi, ti spiace se
vado in bagno…?». Si alzò dalla sedia
con uno scatto e si voltò
immediatamente alla signora Zod già in modalità
d'attacco,
dicendole che chiaramente sarebbe salito di sopra perché il
bagno al
piano terra non era sistemato. Era solito, lo sapeva. E in casa Zod,
tutti erano abitudinari. Salì le scale e il Generale,
severo, lo
tenne d'occhio. Mcbrown entrò in bagno e si
guardò allo specchio,
assumendo un'espressione seria e prese fiato; si sistemò la
giacchetta e tirò lo sciacquone, uscendo dal bagno coperto
dal
rumore. Si guardò intorno ed entrò con passo
felpato nella camera
padronale. Si avvicinò a un comodino, si mise un guanto e
aprì la
giacchetta, tirando fuori una pistola. Prese fiato e lo fece:
aprì
un cassetto e la infilò dentro. Pensava di non essere visto
da
nessuno, ma un giovane Zod era proprio davanti alla porta in quel
momento; cartella della scuola in spalla, pronto per uscire, gli
mancavano solo le scarpe. Tornò verso camera sua e prese il
cellulare da una tasca.
Da
Chris a Me
Ehi
pa', il tuo amico ti ha messo qualcosa nel cassetto del comodino.
Sembra sospetto, poi non dire che non ho preso da te il naso da
sbirro!
Il
Generale lesse la sequela di faccine sorridenti e alzò gli
occhi al
soffitto. Philip Mcbrown aveva scelto, dunque? Non che fosse una
sorpresa. Il bip del cellulare interruppe il suo rimuginare:
Ehi
pa', posso andare al cinema domani sera? Ci vanno tutti i miei amici!
Lui
alzò gli occhi di nuovo.
Da
Me a Chris
Chiedilo
a tua madre.
9:52,
Sunrise National City University – 9 ore e 38 minuti
all'Operazione
Sudore,
fiato corto, all'improvviso un giramento di testa e Kara dovette
fermare la corsa, stringendo i denti. Le aveva detto che non ci
sarebbero più stati quegli spiacevoli effetti collaterali,
accidenti
a Lord.
Lui
aveva sorriso divertito e scosso brevemente la testa quando qualcuno
andò a dirgli in laboratorio che una certa Kara Danvers era
lì in
visita. L'aveva fatta salire nel suo ufficio e l'aveva raggiunta dopo
qualche minuto, il tempo di rendersi presentabile. Normalmente
avrebbe preferito che fosse l'altra Danvers ad andare a trovarlo, ma
in quel momento gli era sembrata la notizia migliore del mondo: Kara
aveva provato gli effetti della sua pillola rossa, al locale, e
quando aveva sentito per cos'era andata lì, il suo cuore si
era
riempito di gioia.
«Pensavo
non le piacesse l'idea delle pillole, signorina Danvers. Cosa le ha
fatto cambiare idea?».
Kara
aveva abbassato gli occhi, non proprio certa di quale fosse la
risposta. «Non… Non ho cambiato idea».
Lui le aveva riservato
un'occhiata sorpresa e lei si era spazientita, riprendendo la giacca.
«Senta, sa che c'è? Preferisco andarmene, i-io
neanche so perché
sono qui».
«No,
no, no, la prego! Si sieda», le aveva indicato la sedia su
cui si
stava alzando, diventando serio. «Sa
perché è qui e non vuole dirmelo, ma non
è un problema. Le darò
le pillole. Ho una formula migliorata rispetto a quando l'ha
accidentalmente presa l'ultima volta». L'aveva vista fare una
smorfia con gli occhi per quel accidentalmente,
ma non gli era importato. «Sarebbe un onore che lei le
provasse».
«Le
pagherò».
«Oh,
no, no, si figuri! Offre la casa. In cambio le chiederò solo
di
spiegarmi come la fanno sentire e», si era preso una pausa,
sospirando, «il suo sangue». Lei aveva sbarrato gli
occhi ed era
pronta a correre via, se non l'avesse fermata in tempo.
«Signorina
Danvers, il suo sangue mi aiuterà a capire come svolgere il
mio
lavoro. È per le stesse pillole che lo chiedo, non certo per
farla
arrabbiare, ci mancherebbe».
Era
ovvio che fosse riuscito a convincerla. Non che ci fosse voluto
molto, considerando che aveva lottato tanto contro se stessa da
giorni per non avvicinarsi ed eppure si trovava lì. Lui
l'aveva
accompagnata all'interno di un laboratorio e aveva indossato un
camice, mentre la ragazza si era guardata intorno, adocchiando le
tante persone, anche loro in camice, che andavano e venivano. Gli
aveva chiesto di Roulette, se avesse ancora l'abitudine di mettere
pillole gratis in drink altrui, ma Maxwell si era limitato a
sorridere. Aveva preso le fialette e preparato il braccio sinistro di
Kara per l'ago.
«La
prenda come una donazione», l'aveva guardata negli occhi,
pungendola. «Una donazione per la scienza e il
progresso».
Lei
si era morsa un labbro e guardato altrove. Aveva sempre odiato gli
aghi. «Sto passando un brutto periodo», era
riuscita a dire, con
gli occhi lucidi. «La pillola al locale mi aveva resa
più sicura
e…», aveva spalancato la bocca ma le era mancato
il fiato.
«Ha
paura», aveva detto lui cambiando fialetta, passando quella
piena a
una ragazza al bancone. «È perfettamente umano
provare paura,
signorina Danvers. E sono felice di dirle che le mie nuove pillole
rosse potranno davvero aiutarla, in questo».
Aveva
odiato quel momento in cui si era resa tanto sensibile davanti a lui,
accidenti. Ma non si era resa conto di esserlo fino a quel punto,
fino a quando lui non le aveva infilato un ago nel braccio in cambio
di quelle pillole. Era davvero arrivata a tanto? Rhea l'aveva ridotta
in quello stato, o era stato tutto nel suo insieme? Non voleva
più
sentirsi così fragile, ma neppure così disperata:
per quella
ragione, pur avendo le pillole, le aveva nascoste nell'armadio per
precauzione, sperando di non cedere.
«Questa
bellezza la chiamiamo kryptonite
rossa»,
le aveva rivelato Max, in una risata, mostrandole il barattolino di
vetro. Lei si era subito accigliata. «L'idea è
stata di Roulette,
non mia», si era giustificato subito. «Ed
è stata lei a dargliela:
la sua squadra, al lacrosse: vi fate chiamare le kryptoniane. Beh,
sì, anch'io ho visto qualche video delle sue partite. A
Roulette è
piaciuto e ci stiamo facendo l'abitudine, spero non sia un nome
registrato. Non mi guardi in quel modo, nemmeno io l'ho registrato,
lo
usiamo solo tra noi».
Kara
aveva stretto il barattolo e si erano guardati negli occhi, solo un
momento.
«Cosa
ne penserà sua sorella, vedendole le pillole?».
Il
volto di Kara si era irrigidito: «Non lo
saprà».
Scosse
la testa piano, serrando gli occhi con forza, inchinandosi e tenendo
le ginocchia.
«Kara?».
Lei
prese fiato a pieni polmoni e così riprese a correre con uno
scatto
rapido, tanto veloce che superò il ragazzo prima ancora che
si
accorgesse della sua ripresa. Era davvero felice che il suo amico
Barry fosse tornato a trovarla in vista della sua prima partita dopo
la sospensione. Correre al suo fianco era sempre stimolante, ma gli
parse un po' bruciato dalla sconfitta dopo tante corse alla pari.
Kara era concentrata, non un tentennamento. La pillola rossa le
infondeva una sensazione di libertà che forse non aveva mai
provato
davvero; fortunatamente il mal di testa era solo momentaneo e non le
veniva spesso: notava come Maxwell Lord doveva averci lavorato molto
per perfezionarle. Lo superò anche al seguente giro e si
fermarono,
andando verso gli spalti per recuperare una bottiglietta d'acqua. Gli
diede una pacca sulla schiena, ridendo, raggiungendo la panca per
prima.
«Accidenti»,
soffiò Barry, passandosi l'asciugamano sotto il collo.
«Stai
iniziando aprile coi fiocchi: o tu sei diventata incredibilmente
veloce, o oggi non è la mia giornata». Rise e Kara
con lui, anche
lei asciugando il sudore.
«È
che sto cercando di concentrarmi sui miei obiettivi».
«Già»,
il ragazzo annuì, fissandola tanto che lei rise, battendogli
di
nuovo la schiena.
«Non
guardarmi in quel modo, sto bene! Cerco solo di tenermi
impegnata».
Misero le bottigliette e gli asciugamani dentro lo zainetto della
ragazza, che si portò sulle spalle.
«No,
beh, ti capisco», sorrise, alzando le spalle. «Sono
anch'io sotto
pressione, ultimamente: il caso di mio padre è riaperto, ho
mollato
il lacrosse, vengo seguito da un allenatore sulla corsa e ho vinto la
borsa di studio degli Star Labs indetta dello scienziato e
multimiliardario Harrison Wells che è interessato ai miei
progressi
come scienziato e sulla corsa», disse tutto d'un fiato,
mettendosi
per un attimo sui talloni. La sua eccitazione era alle stelle.
«E
poi ho conosciuto una ragazza e…».
«Aspetta!
Una ragazza?», si accigliò. «Credevo che
per te ci fosse solo
Iris».
«Beh,
sì, c'è Iris… ma»,
gonfiò le guance, «sta con Eddie e lei
è
carina, così… Lavora agli Star Labs, l'ho
conosciuta lì».
«Uscite
insieme?».
«No».
«Okay,
ma quindi parlate spesso…?».
«No,
ma-».
«Barry…
almeno sa della tua esistenza?», lo fissò,
socchiudendo gli occhi.
«Sì,
certo», scrollò le spalle. «Conto di
riuscire a rivolgerle la
parola entro la settimana. O il mese, se
proprio…».
«Oggi
è due».
«Appunto,
quindi ho ottime possibilità», si
grattò la nuca e
si diedero il cinque.
«Poi sì, voglio dire, tutto questo non
è nulla in confronto alla
tua quasi ex suocera che ti vuole morta». Si allontanarono
dagli
spalti e Kara adocchiò un giovane che, alcuni scalini sopra,
si
mosse con loro per scendere. «Tu vinci a mani basse, senza
dubbi.
Anche per quanto è successo con Lena e la sua
famiglia… la tua
famiglia, cioè… mh. Sta-Stai bene, riguardo
questo?».
Lei
annuì subito, ascoltando i passi dietro di loro: li stava
seguendo.
«Sì», sorrise, «Te l'ho detto:
mi concentro sui miei obiettivi,
non ci penso più». Lo vide riaprire la bocca, ma
lei lo tappò,
sussurrando di correre al suo segnale: lo lasciò e, al suo
cenno con
la testa, scattarono, seminando il povero agente.
Ripresero
fiato dietro un muro, ricominciando a camminare. «Ti stanno
ancora
dietro, eh?».
«Li
odio», sentenziò fredda.
«Perché devono seguirmi anche qua
dentro?». Fu lui a batterle la schiena per darle il suo
appoggio, a
quel punto. Camminarono verso la vietta che separava
l'università
dal campus, quando un ragazzo passò troppo vicino a Barry e
lo urtò,
continuando a camminare. Lui non ci badò neppure, forse per
gentilezza, ma a lei diede fastidio e si voltò all'istante.
«Ehi!
Hai spintonato il mio amico e non gli hai chiesto scusa».
Barry
sorrise un po' a disagio, mentre il ragazzo fermato scrollava le
spalle. «Kara, non importa».
«Sì
che importa, ti ha spinto e non si è fermato», lo
fissò, senza
spostarsi di un centimetro: «Chiedigli scusa, ho
detto».
Con
Barry immobile, gli altri due si guardarono fino a quando il ragazzo
non cedette, mostrandole un sorriso incerto. «Sicuro. Scusa,
amico!
Starò più attento a dove cammino,
Supergirl», alzò le mani e
sparì.
Barry
la guardò mentre, sicura di sé, lo invitava a
seguirlo, come se
fosse tutto normale. Ma era normale? Cos'era appena successo?
10:46,
base del D.A.O. a National City – 8 ore e 44 minuti
all'Operazione
Lena
deglutì guardando Maggie mentre, restando ferma, le
sistemavano un
microfono aggiuntivo sotto la maglia, oltre a quello a un orecchio.
Era una prova per vedere come sarebbe stata, mentre gli agenti del
D.A.O. le spiegavano le cosa fare e come funzionavano. Le
possibilità
che la scoprissero erano davvero alte.
Ne
avevano parlato il giorno prima, ritrovandosi tutte a casa di Alex.
Maggie aveva cercato con difficoltà di evitare un discorso
serio con
Charlie Kweskill quella mattina; lui non aveva fatto altro che
lanciarle l'amo sul come non vedesse l'ora di discutere insieme sui
grandi progetti che avevano in mente per National City. E anche lei
non vedeva l'ora, di sicuro, ma con un microfono attaccato. Lena
aveva appoggiato la sua idea, seppure riconoscesse il rischio, Alex
aveva continuato a mostrare la sua contrarierà e Kara, dopo
un bel
po' che era rimasta soprappensiero, aveva detto che era una buona
idea. Una buona idea. Alex non voleva crederci e quasi neppure Lena.
Lo aveva detto con tale nonchalance da non sembrare quasi lei.
Immaginavano che tutto quello che stava succedendo la stesse mettendo
davvero a dura prova, ma… E dopo avevano parlato delle foto
ritrovate da Lena con l'aiuto di Indigo, a cui Kara fece una smorfia.
Nessuno di loro aveva mai sentito parlare di una sorella scomparsa di
Rhea, era stata una sorpresa, e mai quanto sapere che un giovane Zod
ne era il futuro sposo. Anche sapere che nemmeno Rhea era sfuggita
agli effetti devastanti dell'adolescenza era stato interessante. Ma
indubbiamente, i suoi brufoli erano passati in secondo piano rispetto
al resto. Ora più che mai sapevano che avrebbero dovuto
scavare sul
passato di quanti più membri certi dell'organizzazione
conoscessero
e scoprire come era nata. Intanto, Maggie sarebbe stata la loro voce
dall'interno. Se non l'avessero scoperta prima, almeno.
Alex
si mise al suo fianco, appoggiandosi contro un tavolo. Si mangiava le
unghie e respirava con affanno.
«Ci
riuscirà», sussurrò Lena, vedendola
voltarsi solo un momento.
«Non
ho dubbi che ci riuscirà», soffiò tra
le unghie. Scorse Lena
alzare un sopracciglio e Alex sbuffò, mettendo le braccia a
conserte. «Sapere che potrebbe non riuscirci è
tragico, va bene? Ma
sarò pronta a intervenire; lo saremo tutti. Ho
più problemi a
pensare che ci riuscirà. In quel
caso…».
«Temi
possa diventare una di loro a tutti gli effetti?».
Si
scambiarono uno sguardo e Alex sospirò. «Non so
cosa pensare. Non è
che Maggie si lasci influenzare, ma Zod ha un certo potere
su di lei», strinse i denti, scuotendo la testa.
«Nonostante
sapesse che era uno di loro, ha continuato a dargli una sorta di
fiducia che non meritava. E
la cosa quindi
non mi piace».
Come
darle torto, pensò Lena. «Senti,
hai…».
«No»,
sospirò di nuovo, anticipando la domanda, «Non
vedo né sento Kara
da ieri. Forse è solo molto scossa e sta cercando di reagire
in modo
freddo e scostante per non farle male, sai…
Forse-», si portò una
mano contro i capelli e fece una smorfia, stringendo le labbra.
«Sarà
passeggero, vedrai! Ti perdonerà anche lei, prima o poi. E
tornerete
quelle di prima».
Lena
spalancò gli occhi, annuendo lentamente. «Quindi
tu… mi hai
perdonato?».
«È
work
in progress»,
alzò il mento. «Ma falla soffrire di nuovo e sei
fuori, Luthor.
Sorellastre o no».
«Afferrato».
Emise un piccolo sorriso e Alex le diede una spallata inaspettata.
«Perché
non passi a trovarla, più tardi? Ha la partita, io non
potrò
esserci, ma-».
Lena
fissò un punto vuoto, deglutendo. «Non…
Non sono sicura di
riuscire a starle vicino, adesso», sospirò e
continuò prima che le
chiedesse dell'altro: «Mi manca, mi manca… tanto.
Ma sento che non
mi vuole vicino e mi guarda in un modo che-». Smise di
parlare
quando le si fecero gli occhi lucidi.
Alex
stava per dire qualcosa che John Jonzz le interruppe, mettendosi
vicino: «A che ora hai detto che parleranno?».
«Questo
pomeriggio alle cinque e mezza», gli rispose, cercando di non
fargli
notare il suo disappunto.
«Accidenti»,
sospirò, con le braccia sui fianchi. A un'occhiata
dell'agente, lui
sospirò di nuovo: «Non potrò esserci,
sarò fuori National City».
Le due lo guardarono spalancando gli occhi e lui scrollò le
spalle.
«Mi sono preso il pomeriggio libero dopo la partita, anch'io
ho una
vita privata di cui non devo rendere a voi. Soprattutto a lei,
signorina Luthor. Non mi è nemmeno chiaro il motivo per cui
si trova
qui».
Lena
rumoreggiò con la gola e fece un passo di lato.
«Vi lascio parlare
da soli».
Si
allontanò verso Maggie, mentre l'uomo sistemava le braccia a
conserte e Alex gli diceva che lei era lì per supporto
psicologico.
«Certo che ha la sua vita privata, è solo che
oggi… proprio
oggi,
sta succedendo questo e-».
Lui
la affiancò e annuì più volte,
pensando. «Capisco, lo so. È una
missione di vitale importanza, soprattutto se pensiamo alla lettera
di chiusura dell'indagine che ci è arrivata questa mattina,
e lei è
la persona più importante della tua vita e sta rischiando
tutto, per
questo seguirò da telefono e tu, Alex Danvers, sarai il capo
al
comando».
«Oh,
no», scosse la testa.
«Oh,
sì», insisté.
«Oh,
no».
«Oh,
sì.
Smettila di ripeterlo, ho poca pazienza da quando-», si
portò due
dita in mezzo agli occhi.
«È
stato lasciato», soffiò Alex quasi senza
accorgersene. «Conosco
anch'io Megan e-».
«Non
ne voglio parlare-».
«so
quanto si è risentita-».
«soprattutto
con i miei sottoposti-».
«ma
se vuole la mia opinione, lei è davvero innamorata
e-».
«e
prima che diventi imbarazzante, ti ordino di chiuderla qui»,
la
guardò e lei si zittì. «Da-Davvero
innamorata, hai detto?».
Lui
restò a bocca aperta e per un attimo Alex sorrise, cambiando
di
fretta espressione: «Che mi venga un colpo, Megan aveva un
appuntamento stasera. Deve uscire con lei, mentre la mia ragazza
rischia la vita?».
Lui
la indicò, aprì bocca per dirle qualcosa e la
chiuse di nuovo,
stringendo gli occhi. «Non prendo mai una vacanza e ricorda
che sono
il tuo capo», chiosò serio, chiudendo la questione
mentre si
allontanava.
Alex
si portò la mano destra sulla tempia e sospirò.
Era vero, il suo
capo non si prendeva mai una vacanza: un po' come lei che doveva
destreggiarsi tra il D.A.O. e la boutique, anche lui aveva il lavoro
e l'impegno come coach all'università di sua sorella. Poi
aggrottò
la fronte. Lei odiava la boutique e la sua copertura era saltata,
perché andava ancora a lavorare lì? Ah,
già: un buon doppio
stipendio. Strinse le labbra e annuì, riguardando Maggie: le
stavano
togliendo i microfoni. E adesso volevano andare a vivere insieme, in
una casa un po' più grande, quei soldi le avrebbero fatto
comodo.
Magari ci usciva anche quella moto di cui avevano discusso. La vide
sorridere mentre parlava con Lena e provò un brivido,
stringendo le
labbra di nuovo e facendosi più seria: Zod la voleva dalla
sua
parte? Non sarebbe riuscito a portargliela via.
13:14,
Basilica del Santo Padre – 6 ore e 16 minuti all'Operazione
La
basilica era vuota, a quell'ora. I loro passi rimbombavano tra le
navate. Rhea guardò in alto, verso il grande mosaico sul
soffitto
che rappresentava gli angeli in canto, e dopo ordinò al
grosso uomo
che la seguiva, il suo bodyguard, di aspettarla lì. Si
andò a
sedere e infine si inginocchiò davanti al Gesù in
croce, chiudendo
gli occhi. «Adesso sono sola, Petra»,
sussurrò, nominando la
sorella maggiore scomparsa parecchi anni prima. «Lar se
n'è andato.
Non è stato facile come sicuramente penserai, lui credeva in
me e io
l'ho deluso. Era evidente che, dopo tutti questi anni, avevamo due
idee diverse del futuro. Siamo sempre stati una cosa sola, ma adesso
porterò avanti i sogni di tutti e due. Chiedigli di
perdonarmi, se
può», riaprì gli occhi e
fissò le sculture. Poi li richiuse. «Ti
chiedo di vegliare su di me, Petra. Non credevi in me, ma dopo questa
sera, sarai costretta a cambiare idea. Mi prenderò con la
forza il
posto che è mio di diritto, sono stanca di aspettare. Questa
città
sarà ai miei piedi. E dopo lo saranno gli Stati Uniti
d'America».
Riaprì di nuovo gli occhi e si alzò, facendo il
segno della croce.
«Guida Mike affinché ritrovi la strada di casa:
è l'ultima cosa
che ti chiedo, sorella mia. Lui è tutto ciò che
conta».
Rhea
lasciava la chiesa in compagnia della sua nuova guardia del corpo,
ricordando Petra, intanto che Dru Zod, nello stesso momento ma in
centrale, chiuso nel suo ufficio, faceva lo stesso, tenendo in una
mano una piccola e logorata foto di loro due ragazzi, abbracciati,
con i sorrisi speranzosi di chi sognava una vita migliore. Una vita
insieme. Petra non c'era più, ma nei suoi ricordi non era
mai morta.
Si era sposato e aveva avuto due figli, pur con il groppo in gola di
ciò che aveva perso, di ciò che doveva succedere
e non era
successo. Vedeva i suoi figli crescere, una dopo l'altro, con la
sensazione sulla pelle che non doveva andare così, la sua
vita. Con
l'ombra di un mostro sempre presente a ricordargli che lui non si
trovava dove doveva stare, che un pezzo di sé era scomparso
con lei,
sotto quelle scale. Strinse i denti e chiuse la foto in un cassetto
della scrivania, pensando che la resa dei conti era vicina.
15:18,
Campus del Sunrise National City University – 4 ore e 12
minuti
all'Operazione
Lena
camminò per le scale del dormitorio con apprensione. Si
torceva le
mani, cercava di tenere controllato il respiro, la gola si seccava
tanto che le bruciava. Era davvero diventato così difficile
pensare
di vederla? Oh, perché le era successo di innamorarsi;
perché poi
proprio di lei. Sembrava che il destino gliel'avesse voluto fare di
proposito: ecco una piccola Luthor, la discendente diretta delle
persone che non avevano fermato l'assassinio di una famiglia, ebbene
dovrà innamorarsi della bimba sopravvissuta. Era talmente
cattiva
che sarebbe venuta in mente solo a Lillian per farle pagare di essere
la figlia del marito. Forse ancora non lo sapeva, ma era la
principessa di una favola dei fratelli Grimm. Di quelle che finivano
male, in un modo o nell'altro.
Si
fermò quando arrivò al piano giusto, spalancando
gli occhi: le
porte delle camere erano quasi tutte aperte e le ragazze disposte
intorno a dei tavolini lungo il corridoio; ridevano, gridavano e
facevano baldoria con dolci e bibite gassate. C'erano anche dei
ragazzi; sembrava proprio una festa e adesso capiva il
perché di
tanto schiamazzare da quando aprì il portone d'ingresso.
Inquadrò
un lenzuolo appeso da una porta a un'altra che festeggiava il ritorno
di Supergirl dopo la sospensione. E poi la vide e le mancò
il fiato.
Con lei al suo tavolo c'era Megan e anche Barry Allen. Erano rossi,
dovevano ridere parecchio. La vide urlare in risata alle giocatrici
di smetterla di mangiare se volevano scendere in campo senza dover
rimettere, poi si alzò da tavola riempendo un piattino di
dolcetti e
rientrare così nella sua camera, sicuramente per portare
cibo a
quello sfortunato di Gand, che non poteva uscire. Kara non aveva
bisogno di lei che le ricordava, ora, che le aveva mentito e cosa la
sua famiglia le aveva fatto. Una ragazza vicina la fermò per
chiederle se voleva unirsi, ma Lena ringraziò di fretta e si
voltò
per tornare verso le scale.
Kara
uscì in quel momento dalla stanza e il suo cuore
sussultò appena la
vide. Era stato un attimo, un attimo solo, ma l'avrebbe riconosciuta
sempre, anche in un mare di persone: era lei, era venuta a trovarla
ma all'ultimo aveva deciso di scappare. Si portò una mano
sotto al
collo e sospirò pesantemente, sentendo riaffiorare tutto:
Lena le
aveva mentito, si amavano, voleva solo stare con lei ma i Luthor
avevano fatto parte dell'organizzazione e non avevano salvato i suoi
genitori e i suoi zii. Lo scoppio. Rhea Gand che tentava di ucciderla
e lei che si sentiva impotente. Lo sparo. Non sarebbe mai stata
abbastanza forte. Gli occhi le si spalancarono e riempirono di
lacrime. Perché doveva farle così, adesso?
L'aveva vista il giorno
prima, andava tutto bene. Lena le mancava, ma andava tutto bene. Cosa
succedeva al suo corpo? Aveva bisogno di sentire Lena vicino, ma non
la voleva. I battiti del suo cuore aumentarono, il fiato si fece
corto; trovò la forza di deglutire e strinse gli occhi,
tornando
indietro alla camera e chiudendo la porta. Le serviva una pillola.
L'effetto stava svanendo, ecco cosa stava succedendo. Ma Mike era
lì,
seduto a gambe incrociate sul suo letto che giocava col tablet e
mangiava pasticcini. Non sarebbe mai riuscita a prenderla con lui di
mezzo.
«Mi
hai già portato la cola? Sei stata veloce». Si
girò con un pronto
sorriso ma, appena vide la sua espressione persa, il ragazzo si
alzò
e, andandole incontro, si lasciò stringere in un forte
abbraccio,
ricambiando. «Cos'è successo, adesso? Eri felice
fino a un momento
fa, stavi ridendo, mi hai sgridato di non tenere le scarpe sul letto
e ora piangi?».
«I-Io
non piango». Si fregò subito una guancia, quando
le scese una
lacrima.
«E
io non avevo le scarpe sul letto», controbatté
lui, lasciando che
si staccasse. «Allora, che succede? Puoi dirmelo? Se vuoi
dirmelo,
io sono qui. Ci sono per te, come tu ci sei per me, no?», le
sorrise, distanziandosi di poco.
Kara
lo sorpassò, poi si girò, fece altri due passi e
si rigirò verso
l'armadio. Si fregò gli occhi rossi e ansimò.
«È che-». Lui
aggrottò la fronte, ascoltando. «Ho visto
Lena».
«Quando?».
«A-Adesso.
Era fuori, era lì e… e-e lei… beh, lei
se n'è andata. Cavolo…»,
strinse i denti, guardando l'orologio: erano quasi le tre e mezza,
aveva la partita tra non molto e non poteva permettersi di deludere
tutte le persone là fuori che contavano su di lei.
Accidenti,
accidenti, accidenti. Tra quasi due ore, Maggie sarebbe andata a
parlare con Zod e il suo galoppino e lei non ci sarebbe stata. Come
poteva non essere al fianco di Alex, in un momento come quello? Era
stata davvero così egoista? Sapeva che era la cosa
più sensata da
fare, ma…
«Ehi,
Kara», Mike la strinse a un braccio, cercando di alzarle il
viso per
guardarla negli occhi. «Se continui così, rischi
un attacco di
panico. Guardami», la forzò e Kara
deglutì, cercando di calmarsi.
«Prima sei tesa, sicura, hai rischiato di cacciare Selina
Kyle ieri
notte perché non ti aveva dato un orario in cui sarebbe
tornata, ora
piangi… Non stai bene».
«Sto
bene», soffiò con sicurezza e, prendendo fiato, si
agitò,
scrollandoselo di dosso. «Sono solo stanca».
«Ci
credo, non fai che correre e dormi poco. Senti-», si sedette
sul
letto e Kara fece lo stesso, abbassando gli occhi. «Lascia
perdere
Lena, okay? Hai me. Lo so cosa ci siamo detti, abbiamo sbagliato
entrambi in modi diversi, ma è acqua passata. Adesso siamo
di nuovo
noi, no?». La vide scuotere brevemente la testa e Mike
sospirò.
«Lena ti fa stare male, ti ha mentito. Ci sono io al tuo
fianco, non
lei», proseguì, toccandosi il petto. «Lo
sai che non ti lascerei
mai sola, vero?».
«Non
lo hai mai fatto», sibilò distratta e lui le prese
il mento,
sollevandole il viso verso il suo. Voleva baciarla ma Kara si
scansò,
rimettendosi in piedi. «Che stai facendo?».
«Quello
che-», il ragazzo rise, scrollando le spalle,
«Quello che volevamo.
Non lo volevamo? Non ti lascerò mai sola eccetera».
«Eccetera?»,
si accigliò. «Me lo dicevi solo per farmi tornare
con te? Era
questo che avevi in mente fin da subito?».
«No».
Anche lui si alzò e aggrottò la fronte,
sentendosi accusato. «Certo
che no, ma-».
«Ma?».
«Smettila
di attaccarmi, pensavo che stessimo facendo pace», si
toccò la
fronte e tornò indietro di un passo, per poi stringere le
labbra e
riprendere fiato. «Tu sei unica per me, lo sai questo?
Pensavo che
tu e Lena… che fosse solo momentaneo, l'hai detto anche tu,
ti fa
soffrire».
«Non
l'ho detto: tu l'hai detto».
«Pensavo
che ormai stessi voltando pagina. Non l'hai detto ma lo pensavi! Ero
solo convinto che… anche io fossi unico per te».
Si portò di
nuovo una mano contro il petto e Kara prese fiato, scuotendo la
testa.
«Stai
cercando di passare per vittima? Non sei la vittima,
smettila».
«Mi
accusi di questo? Oh, certo», lui alzò gli occhi
al cielo e fece
dei passi indietro. «Pensare che volessi fare pace
è da vittima? Ma
è sempre colpa mia, giusto? Sono… egocentrico,
no? Mi avevi chiamato così? Mi hai accusato di
sminuirti».
«E
non ci credo che ci stavo cascando ancora».
«Vero?
Povera ragazza», sbottò Mike con ironia.
«Credevo che fossimo
sulla stessa barca, che mi aiutavi per questo, ma ora capisco
perché
lo fai. Adesso capisco bene, vedo le cose con
lucidità».
Gli
occhi di Kara si riempirono di nuovo di lacrime e si passò
le dita,
fregandoli. «Ah, sì? E cosa vedi?».
Nemmeno gli schiamazzi fuori
dalla porta avrebbero potuto interromperli.
«Vedo
il reale motivo per cui sono qui: pena. Io ti faccio pena, Kara. Il
povero ragazzo la cui madre ha ucciso il padre! Senza un posto dove
andare, solo al mondo, accolto anche se non mi vuoi»,
gridò ferito.
«Sono bisognoso di aiuto e per questo interessante ai tuoi
occhi:
perché tu devi sentirti indispensabile, Kara. Quello che fai
è
correre dalla gente che ha bisogno perché è
l'unico modo che
conosci per sentirti amata». La vide piegare le labbra e
scuotere la
testa, ma non aveva intenzione di fermarsi: «La tua famiglia
è
morta e hai bisogno di sentirti importante per gli altri per non
essere abbandonata ancora».
«Perché
mi fai questo?».
Fu
allora che, dopo aver bussato due volte ma non riuscendo a sentire se
avesse ricevuto il permesso di entrare, Barry aprì piano la
porta e
dopo la spalancò, vedendo Kara in lacrime: bloccò
subito il
ragazzo. La rabbia sul volto di Mike scomparve, si era sfogato, ma la
ragazza era a pezzi: era vero ciò che diceva? Che lo fosse o
meno,
Mike era sbagliato. Nella sua testa nulla funzionava come dovrebbe e
Kara gli aveva permesso di ferirla ancora quando si era giurata di
chiuderlo fuori.
«Non
metterti in mezzo, tu», Mike spinse Barry, ma quest'ultimo
guardava
ancora la sua amica.
«Cosa
c'è che non va in te, Mike?», riuscì a
dirgli lei, stringendo un
pugno.
«Oh,
cavolo», brontolò, «Forse sono solo
fatto così». Lei scosse la
testa e si avvicinò alla porta per uscire. «Kara,
ti prego! Ho
sbagliato, ma posso rimediare! Insieme a te è
diverso».
Lei
uscì senza dargli una risposta e Barry lo guardò,
scuotendo anche
lui la testa. Lo lasciò solo e richiuse la porta. Vedendo
Kara
uscire rapidamente dalla camera, Megan le corse dietro verso i bagni
e così fece Barry. La trovarono seduta sulle piastrelle che
fissava
il vuoto, giocando con la collana sotto il maglioncino. La collana
che le aveva regalato Lena a Natale, con il simbolo degli El.
«Kara,
posso-».
«Lo
so», soffiò in risposta prima che finisse di
parlare. «Mike è uno
stronzo».
«Volevo
suggerirti di non giocare alla partita, ma», annuì
Barry, «credo
si sia comportato proprio da stronzo».
«È
tossico per te», suggerì Megan, passandole un
fazzoletto: non
piangeva più, ma gli occhi erano gonfi e aveva bisogno di
rimettersi
in sesto. «Ho letto in proposito, quando cercavo su Google
se
qualcun altra si era ritrovata in una relazione con un agente
segreto», sbottò. La fissarono entrambi e
scrollò le spalle:
«Cosa? Mi ha chiesto di parlare e voglio
ridergli in faccia,
per questo esco con lui dopo la partita. Ritornando a Mike»,
puntò
in aria un dito, «è quel tipo di persona che
riflette sempre
l'attenzione su di sé e i suoi sentimenti, cercando di far
sentire
il partner in colpa. Gli uomini come lui promettono di cambiare, ma
non cambiano», strinse una mano di Kara. «Non
esiste la favoletta
dell'uomo che cambia con la donna giusta. Non cambiano mai e se ti fa
male una volta, è capace di farlo sempre».
Barry
si abbassò e le prese l'altra mano con le sue.
«Non so cosa ti
abbia detto di preciso, ma so che tu non meriti di stare
così per
nessun ragazzo, Kara. Come non meriti di stare male per nessuna
ragazza», aggiunse, pensando a Lena e guardando la collana.
«Pensi
che sia meglio rinunciare?», chiese allora Megan e Kara si
accigliò.
«No.
Abbiamo una partita da vincere».
«Sei
sicura?», le chiese anche Barry, mentre tutti e tre si
rialzavano.
Kara
annuì. «Sì. Mi serve un bicchiere
d'acqua e sarò come nuova».
Uscì dai bagni e i due si guardarono con preoccupazione.
Eppure
sembrò vero: solo pochi minuti, il tempo a John Jonzz di
chiamare a
rapporto la squadra, che Kara sembrò rinata. Aveva ancora il
viso
gonfio e gli occhi rossi, che preoccupò anche il coach, ma
non aveva
altro pensiero per la testa se non vincere quella partita.
Lena
si sedette sugli spalti, non troppo vicino al campo per non essere
vista. Non se n'era davvero andata e aveva preferito ingannare
l'attesa facendosi un giro. Quando vide la squadra scendere in campo,
intercettò subito Kara, casco già infilato,
camminata sicura. La
sua Supergirl.
«Ehi.
È libero?».
Lena
si spaventò balzando un poco e il ragazzo si
scusò in un sorriso,
sedendo vicino, mani nelle tasche dei jeans. Come aveva fatto Barry
Allen a notarla?
«Come
stai? Per tutta questa storia delle vostre famiglie e, sì,
il fatto
di averle mentito…», mosse la testa.
«Oh,
lo sai?».
«Non
che Kara abbia messo i cartelli, ma…
sì», annuì. Guardò Lena e
la squadra rossa e blu in campo: la numero dieci, Kara, era
già in
possesso di palla e correva, buttando sull'erba diverse giocatrici in
difesa.
Aveva
una carica incredibile, pensò Lena. «Come si
sente? L'ho vista ieri
ed era un po' sulle sue».
«Lo
è. Sulle sue. È un po' strana, in effetti: prima
piange, poi corre
e sprona le altre».
«Stava
piangendo?», il suo sguardo si fece grave e Barry prese
fiato.
«Ha
litigato con Mike: le ha detto delle cose che l'hanno ferita. Ma tu
come stai, invece?», insisté,
«Perché, beh, non hai risposto alla
mia domanda», si grattò, stringendo le labbra.
Lena
abbassò gli occhi verdi, unendo le mani sulle cosce.
«Bene. Mi
tengo impegnata».
Lui
annuì, sorridendo. «Ah. Questa l'ho già
sentita».
La
palla tenuta nella rete della sua stecca da lacrosse, la corsa rapida
verso la porta. Kara schivò un'avversaria e dopo un'altra.
Una
ragazza le fece cenno di passarle la palla, era più vicina
di lei
alla porta ed era libera. John Jonzz le urlò di
lanciargliela. Megan
le urlò di lanciargliela. Ma lei poteva farcela: la
sorpassò e
saltò con tensione, in posizione, e infine lanciò
la palla che
entrò direttamente in porta. La sua squadra aveva appena
racimolato
dei punti e si sarebbe sentita orgogliosa se non fosse per i lamenti
di qualcuna. Aveva segnato, erano in testa, cos'altro volevano?
Supergirl non sarebbe più scesa a compromessi: se stavano al
passo
bene ma, in caso contrario, restavano indietro.
«C'è
qualcosa che non va con Kara», esclamò a un certo
punto Barry. «A
volte è come se cambiasse radicalmente carattere. Guardala:
diresti
che solo fino a dieci minuti fa stava seduta a terra in un bagno
perché un ragazzo l'aveva trattata male? È come
se non le
importasse più niente».
Lena
strinse gli occhi e mise a fuoco la ragazza che segnava altri punti
per la squadra. Come se non le importasse… Anche il giorno
prima
sembrava aver fatto lo stesso. Cosa le stava succedendo?
La
tenne d'occhio e, finita la partita, lei e Barry assistettero
dall'alto a quella che sembrava un'animata discussione: alcune
giocatrici della squadra se la presero con lei che alla fine si
allontanò da sola, gettando il casco sull'erba.
Lasciò il ragazzo e
scese dagli spalti di fretta, entrando in palestra. Erano tutte
lì
e, invece di festeggiare, si lamentavano di Kara col coach Jonzz.
Scambiò uno sguardo preoccupato con Megan, che le
indicò un
corridoio. Aprì la porta dei bagni e seguì il
rumore dell'acqua che
scorreva, trovando Kara che si sciacquava la faccia davanti a un
lavandino. La vide alzare la testa subito, adocchiarla attraverso lo
specchio appannato che aveva davanti. E sorriderle, per giunta. Aveva
ragione Barry Allen, intuì Lena: c'era qualcosa di strano in
lei,
nei suoi occhi. La guardava in modo diverso.
Chiuse
l'acqua e si passò l'asciugamano sul viso, lasciandolo
penzoloni sul
lavandino. «Credevo te ne fossi andata».
«Sapevi
che ero qui?».
«Ti
ho vista», scrollò le spalle, annuendo. Si
avvicinò squadrandola
da capo a piedi tanto a lungo, insistentemente, che Lena si
sentì a
disagio e si tirò indietro. «Sei
scappata».
«N-Non
sono scappata», abbozzò un sorriso spento a breve.
«Ma-».
«Ma?»,
le sorrise in modo sfrontato, avvicinandosi ancora, notando che
retrocedeva man mano. «Non è quello che stai
facendo anche ora?»,
rise all'improvviso. «Lo so… Ti senti in colpa e
allora scappi da
me».
Lena
si spaventò quando toccò la parete dietro di lei,
deglutendo. «Ti
comporti in modo strano», le disse, «Sei tu quella
che sta
scappando».
«Oh,
no, a me non sembra proprio», rise ancora. Era
così vicina, adesso,
che poteva sentire il suo fiato corto sul viso. «Cosa
guardi?», le
domandò poco più tardi, notando il movimento
rapido dei suoi occhi
verdi. «Vuoi baciarmi?». Le carezzò una
guancia e Lena trattenne
il respiro, socchiudendo gli occhi. «Ti manco, eh? Anche tu
manchi a
me. Sai, potremmo lasciar perdere tutto quanto».
«Ti
ho ferita», abbassò gli occhi.
«Sì
che lo hai fatto. Mi fidavo di te, Lena», le
carezzò con il pollice
le labbra e lei provò a tirarsi indietro, così la
fermò col
proprio corpo sul suo, costringendola a guardarla negli occhi.
«Affrontiamola adesso. Vedi che stai scappando?».
«Sei
strana».
«Non
sono strana, smettila di ripeterlo», si innervosì,
abbassando la
mano dal viso alla spalla. «Sono lucida, adesso. Sono
perfettamente
in me».
«Le
tue compagne di squadra?». Lasciò che la guardasse
con curiosità,
prima di continuare: «Anche loro pensano che tu sia
perfettamente in
te?».
«Si
lamentano perché abbiamo vinto! Ci puoi pensare?»,
sbottò, per poi
sorridere. «Chi se ne importa di loro», le
carezzò di nuovo la
guancia, mentre con l'altra mano le cingeva un fianco, avvicinandola.
«Sei qui, parliamo di come mi hai spezzato».
«Spezzato?
Oh, per favore… Ho sbagliato, lo so», strinse le
labbra. «Mi
dispiace, Kara».
«Non
voglio i tuoi dispiaceri», scosse la testa, «Non
voglio le tue
scuse, non servono a niente».
«Che
cosa vuoi?».
«Te».
Provò
ad avvicinare le labbra alle sue e per un attimo parve funzionare,
Lena si mosse solo all'ultimo, cercando di allontanarla. «Non
puoi
volermi! Lo vedo come mi guardi! Ne riparleremo quando sarai in
te».
Kara
retrocedette solo un attimo. «Io sono in me,
perché non vuoi
capirlo?», sforzò un sorriso.
Qualcosa
nel suo sguardo la tradiva, come se una parte di sé se ne
rendesse
conto. «Stai male», le toccò la fronte e
Kara le strinse il polso.
«Che cosa hai preso? Sembri-».
«Perché
non puoi semplicemente accettare che adesso io sia
così?», la
fissò. «Non vado bene così?».
Kara
era molto suscettibile, sicuramente spezzata, ma non in sé.
Era
quasi violenta e per un attimo, con quella morsa sul polso, temette
potesse farle del male. Sapeva che non l'avrebbe fatto, ma il suo
sguardo duro le metteva addosso una sensazione che non le piaceva.
Tirò il polso e alla fine riuscì a farselo
lasciare,
massaggiandoselo. «Ne riparleremo quando sarai in
te», ribadì.
Stava per andarsene che lei la chiamò. Oh, si sarebbe sempre
fermata
se era lei a chiamarla. Si rivoltò, a quella Kara
irriconoscibile.
«Tu
pensi», abbassò gli occhi freddi solo un attimo,
riflettendo, «che
io mi sia innamorata di te perché avevi bisogno di
me?».
«Cosa?».
«Eri
sola, Lena, pensaci: tuo padre è mancato, non avevi
più un ragazzo
né una ragazza da cui andare a consolarti, odi tua
madre… Eri in
difficoltà, forse mi facevi pena», sorrise appena,
«Per questo mi
sono avvicinata a te: ho visto il tuo dolore e devo sentirmi
indispensabile per qualcuno per essere amata».
Lena
scosse la testa. Le aveva fatto pena? «È questo
che pensi?».
«Non
so», alzò le braccia in segno di resa.
«Lo chiedevo a te».
«No.
Non penso sia così, Kara». Si tirò
indietro. «Fammi sapere se è
questo ciò che pensi tu. Che ti facevo pena». Se
ne andò e lei non
la fermò, questa volta. Passò vicino a Barry che
entrava, cercando
di non guardarlo negli occhi.
«Tutto
bene?», chiese e Kara scrollò le spalle.
«Certo,
non hai visto? Ho vinto la partita».
17:30,
Centrale di Polizia – 2 ore all'Operazione
Maggie
Sawyer ingurgitò saliva. Era tesa. Parecchio tesa. Eppure si
trovava
lì, alla centrale, pronta per la prima missione per conto
del D.A.O.
sull'organizzazione criminale che le stava aprendo le porte. Si era
chiesta spesso perché avevano scelto proprio lei e le erano
venute
in mente varie ipotesi. Forse gliel'avrebbe chiesto. Charlie Kweskill
le aprì la porta dell'ufficio del loro capitano con fierezza
e la
fece accomodare. Il Generale Zod era già dietro la sua
scrivania,
con mani intrecciate. La aspettava. Stava per aprire bocca che la sua
attenzione si rivolse al collega che si sedeva sul bordo della
scrivania. I due si guardarono e Charlie scese, alzando le mani e
andando a sedersi accanto a lei, su una sedia.
«Grazie
per aver accettato l'appuntamento». Si guardarono e
annuì.
«Disgraziatamente potremmo trattenerci poco e siamo costretti
a
parlare un'altra volta». Vide Maggie accigliarsi con
curiosità e
lui si alzò dalla scrivania, andando ad appoggiarsi sul
bordo
davanti a loro. «Prima di parlare, devo chiedetti un favore,
Sawyer».
«Mi
dica».
«Devi-»,
sospirò e si grattò la nuca, increspando le
labbra, «Devi
toglierti i microfoni».
Maggie
si gelò, reggendosi alla sedia.
«C-Come?».
«Kweskill
ti aiuterà, se hai bisogno», disse mentre lui
annuiva. «Ci stiamo
aprendo con te, siamo sinceri. Ci farebbe piacere se la cosa fosse
reciproca». Fece un cenno a Charlie e il ragazzo si
alzò di scatto,
ma Maggie si tirò indietro, dicendo che li avrebbe tolti da
sola.
Non riusciva e, con delicatezza, l'agente le sfilò quello
sulla
schiena, mentre lei chiudeva gli occhi e tratteneva il respiro,
arresa, ferma. «Nessuno ha intenzione di farti del male,
Sawyer.
Capisco la tua reticenza, ma è frutto di stereotipi e
malintesi».
Maggie
riaprì gli occhi e lo fissò con sfida, stringendo
le labbra.
Intanto, dietro un palazzo, Alex Danvers si mise le mani sui capelli
quando perse il segnale, respirando a più riprese. Alcuni
agenti
erano al suo fianco e aspettavano solo un suo cenno per assaltare la
centrale, a pochi metri da lì. Avevano circondato l'edificio
ma,
come sapeva dei microfoni, era certa che Zod sapesse anche quello. A
che gioco stava giocando?
«La
tua bambina va a all'asilo?», le chiese una volta seduta di
nuovo.
«Sta
minacciando mia figlia?».
«Mio
figlio, Chris, ha frequentato l'asilo a Metropolis. Anche la mia
figlia più grande, Melanie. Adesso è suo figlio
ad andare
all'asilo. Come passa il tempo», alzò lo sguardo,
come se si stesse
perdendo in ricordi.
«No»,
soffiò, «Mia figlia non va all'asilo, non c'era
posto».
Il
Generale annuì. «Capisco. L'asilo è
importante, è là che si
fanno le prime amicizie e si impara a stare in gruppo. Tua figlia
potrà andare all'asilo da domani, quello che più
ti è comodo. Farò
una telefonata».
Maggie
deglutì e dopo sorrise. «Sta cercando di comprarmi
con un posto
all'asilo? E comprarmi per cosa, con esattezza? Cosa volete da
me?».
«Niente»,
Charlie scrollò le spalle.
«Non
cerco di comprarti, Sawyer, vorrei solo farti comprendere quanto non
siamo diversi. Avrai sentito tante storie sull'organizzazione, ti
sarai fatta tante idee, sbagliate. Perché dovrei minacciare
la tua
bambina, quando ho ordinato a Kweskill di infiltrarsi tra quei
poliziotti per proteggerla e proteggere te? Il mio nipotino ha quasi
l'età di tua figlia. Non toccherei dei bambini».
«Questo
è interessante perché», prese una
pausa, «la sorella minore della
mia ragazza è stata adottata perché la sua
famiglia è stata uccisa
dalla vostra organizzazione. E avrebbe ucciso anche lei, se solo non
si fosse trovata in giardino». Il cuore le batteva furioso,
guardando Zod negli occhi. La centrale era piena, fuori dalla porta.
Se si fosse trovata nei guai, magari l'FBI… Poteva sfidarlo,
metterlo alla prova.
«Kara
Danvers. Le cose sono più complicate di come appaiono:
l'organizzazione si era spaccata-».
«Non
avete fatto niente per impedire che Rhea Gand li facesse
uccidere»,
gli parlò sopra e Charlie strinse i denti, contrariato,
mentre Zod
sospirava.
Appoggiò
le mani sulla scrivania dietro di lui, mettendosi comodo. «Mi
piacerebbe parlare di quanto è accaduto undici anni e mezzo
fa nel
dettaglio, ma la verità è che non c'è
tempo», si rivolse a
Charlie che, rapido, annuì e si alzò, uscendo
dall'ufficio: Maggie
deglutì, capendo che l'aveva appena lasciata sola con lui.
«C'è
stata una spaccatura. Un terremoto ha diviso l'organizzazione in due
e mai come ora questo è visibile. Al contrario di Gand, io
preferisco costruire e non distruggere, lei vede dei nemici dove io
vedo alleati, per questo sei qui», la guardò negli
occhi. «Sì. Tu
e la tua ragazza ve lo sareste chieste spesso, Sawyer: sono il
presidente e da titolo ti chiedo di unirti a noi».
Maggie
strinse le labbra e deglutì. Lo sapeva. Lo sapeva ma
sentirglielo
dire le aveva fatto entrare i brividi.
Lui
la invitò ad alzarsi. «Sei una poliziotta in
gamba, ti ho tenuta
d'occhio. Hai volontà, intuito, sei pronta a tutto.
Qualità che
apprezzo». Andò dietro la scrivania e prese un
foglietto, scrivendo
velocemente a penna qualcosa. «L'organizzazione è
un bene per
questa città, Sawyer. È vero», disse,
stringendo il foglietto.
«Scavalchiamo la burocrazia, ci sostituiamo alla legge,
nonostante
io stesso ne sia un rappresentante. Ma proprio come tua figlia non
trova un posto all'asilo, tante persone si ritrovano ad aspettare
tempi lunghissimi per avere una casa, un mutuo, un lavoro o,
perché
no, un disabile è in difficoltà economica
perché non gli
riconoscono le agevolazioni. I tempi si dilatano, bisogna passare da
un ufficio all'altro, ma le persone ne hanno bisogno subito, non in
un futuro approssimativo. La verità è che puoi
sperare di passare
avanti solo se hai soldi. Ma dipende da cosa si tratta,
chiaramente».
Maggie
si lasciò scappare un verso e lui attese.
«L'organizzazione non
gira introno ai soldi, cap-», si fermò.
«Sono
ancora il tuo capitano, Sawyer, non avere di queste
difficoltà», la
fissò, indicandole il viso con il foglietto in mano.
«Sì. Gira
intorno ai soldi. Tutto funziona in base a quelli e con quelli si
aprono molte più porte di quanto immagini».
«Anche
minacciando le persone. O uccidendole».
Il
Generale annuì lentamente. «Bisogna sapersi far
rispettare o
nessuno ti prenderà sul serio. Ma non approvo le morti
inutili, no.
Per questo Rhea Gand ed io siamo su due modi di vedere
diversi». Le
passò il foglietto e Maggie aggrottò la fronte.
«Ti chiedo di
pensarci. Non ti costringerò, sarai tu a venire da me. Oggi
capirai
da che parte stare».
Maggie
inclinò un poco la testa, leggendo il foglietto e guardando
di nuovo
il Generale. «Non capisco, cosa…?».
«Consegnalo
al D.A.O., di fuori. Avranno i loro terroristi»,
guardò l'orologio
al polso. «Hai ancora circa sei minuti per uscire prima che
facciano
irruzione, so come funziona».
Maggie
trattenne il fiato e gonfiò il petto. Si voltò
per tornare
indietro, doveva fare presto, ma un pensiero le ronzava per la testa
e doveva toglierselo ora che ne aveva l'occasione:
«Capitano?», lo
chiamò con durezza e lui annuì. «Se lei
e Rhea Gand siete così
agli antipodi, perché allora non l'ha arrestata?
È stata lei».
«È
stata lei, lo so. Ci sostituiamo alla legge, ma parliamo del
senatore, non potevo permettermi di attirare l'attenzione senza avere
in mano qualcosa di schiacciante. Avrei potuto mettere a rischio
altre persone o me stesso. Avrai modo di capire che non sempre le
cose sono semplici come schioccare le dita, anche si tratta di agire
con l'organizzazione», annuì di nuovo.
«Avremo modo di parlarne,
se lo vorrai», riguardò l'orologio. «Tre
minuti».
Dietro
il palazzo, Alex guardò l'ora e ordinò ad alcuni
uomini, a voce e
tramite l'auricolare, su come posizionarsi e tenersi pronti. John
Jonzz seguiva tramite cellulare e le diceva di tenersi calma. Ogni
tanto il segnale saltava perché si trovava su un tram verso
Metropolis, accanto a una Megan interessata alla vicenda, anche se
lui cercava di tapparle la visuale. «Dai, Mags…
Dai», si passò
una mano sulla fronte. Aveva aspettato fin troppo. Fin troppo. Diede
il comando di avvicinarsi ma un attimo e la vide uscire, finalmente,
mostrando i microfoni scollegati. Fece un sospiro di sollievo, le
corse incontro e la abbracciò forte mentre John, vedendola
sana e
salva, le disse che avrebbe aspettato il rapporto l'indomani,
chiudendo la videochiamata.
«Anch'io
sono felice di vederti», le sorrise e si staccò,
mostrandole il
foglietto: «Ma dobbiamo fare presto, abbiamo poco tempo. Mi
ha
scritto qua alcuni luoghi che verranno colpiti, questa sera».
«Questa
sera? Da chi… Cosa? Colpiti? Da Zod?».
«No»,
scosse la testa, «Rhea Gand. Ha parlato di terroristi, Rhea
Gand
avrà qualcosa in mente».
Alex
strinse il foglietto, leggendo sopra i nomi, un orario:
«Diciannove
e trenta?», sussurrò tremando, «Ma
è tra pochissimo! Devo
richiamare John, dobbiamo prepararci».
19:26,
Centrale di Polizia – 4 minuti all'Operazione
Mentre
Alex Danvers cercava disperatamente di contattare John Jonzz a
Metropolis e di mettere su più squadre pronte per fermare
qualsiasi
cosa sarebbe successa entro pochi minuti, il Generale Zod
telefonò
alla moglie per ricordarle che lei e Chris dovevano restare a casa,
quella sera. Scese nel parcheggio dell'edificio e cercò
l'auto. Rhea
sarebbe andata a cercarlo, lo sapeva. Mancavano pochi minuti.
Alzò
le chiavi della macchina che un rumore dietro di lui lo mise in
guardia. Alzò le mani, fermo di schiena, quando una decina
di uomini
vestiti di nero completi di passamontagna lo circondarono, tutti
armati. Gli puntarono addosso i loro fucili e le loro pistole. Erano
arrivati. Dovevano essere alcuni omega più altri aspiranti
che Rhea
Gand aveva raccattato in quegli anni, come quel gruppetto di
poliziotti che aveva rapito la figlia di Sawyer.
Erano
le diciannove e trenta: era iniziato.
I
tacchi rimbombarono nel silenzio del parcheggio e Rhea si
fermò
vicino a un pilastro, con le braccia intrecciate contro il petto.
Sguardo serio, duro, irremovibile. Zod era a poco da lei e si girava
lentamente. «Senza scherzi, Dru»,
esclamò, mettendolo in guardia.
«Perché
la cosa non riesce a sorprendermi, Rhea?».
«Perché
sono determinata e tu hai qualcosa che io voglio. Ma questo non lo
sto facendo io, Dru», scosse piano la testa, «lo
stai facendo tu»,
gli regalò un sorriso e lui alzò le sopracciglia,
cercando di
capire. «Questo è il ritorno alle origini che ci
avevi promesso e
che sei stato troppo occupato per organizzare! I miei uomini sono
liberi per la città, adesso: ogni gruppo
assalterà uno specifico
luogo a tuo nome, Dru. Lo faranno per cercare i tuoi collegamenti con
l'organizzazione e cancellare tutto prima che qualcuno ti
scopra».
«Parli
di qualcosa che non esiste».
«Oh,
esistono adesso. Li ho sistemati e impilati io personalmente e i miei
uomini li depositeranno per te. Ciò che sto facendo,
è tutto per
te. Perché ti odio, Dru Zod», sibilò,
contraendo le labbra fini.
«Perché
ero l'amore di Petra?».
«Non
nominarla», urlò. «Non ne hai diritto,
Dru! Tu me l'avevi portata
via e lei aveva smesso di credere in me! Ma non importa adesso,
è
passato», riprese fiato per calmarsi, gonfiando il petto.
«È
passato. Ciò che è vero, è che tutto
qui è per te ma che non
sarai in grado di godertelo», scosse la testa. «Hai
ucciso Lar
perché voleva smascherarti e ora-».
«Tu
l'hai ucciso».
«Non
interrompermi! Tu odi quando ti interrompono e lo odio anch'io. Ho
ucciso mio marito ma sono generosa e lascio a te tutti i meriti! Ti
prenderai la colpa della sua morte e di quella delle vittime che
l'organizzazione farà questa sera. Devi esserne fiero, te lo
dico,
perché userò questo espediente per la mia
campagna elettorale. E
sai perché te lo dico?».
«Perché
stai per farmi uccidere», rispose lui, risoluto, senza un
minimo
cenno di paura.
«Perché
sto per farti uccidere», ripeté estasiata.
«Bravo. Tanti anni ed è
arrivata la fine… Beh, io adesso avrei una cena. O quasi.
Addio, Dru». Si voltò e alzò una mano.
«Uccidetelo».
Si
allontanò in fretta, odiava la vista del sangue. Lo si
sentiva dal
rumore dei tacchi via via più basso. Quando scomparve, gli
uomini
che avevano circondato il Generale Zod si misero in posizione. Lui
abbassò le mani, non disse una parola, e loro si prepararono
a
sparare. Ma prima che premessero i grilletti, quattro di loro si
girarono verso i loro stessi compagni e fecero fuoco per primi.
Zod
degnò appena di uno sguardo i loro corpi esanimi che
perdevano
sangue a terra. «Hai registrato?».
Uno
dei quattro rimasti si tolse il massamontagna e gli sorrise.
«Ogni
parola, Generale». Charlie Kweskill alzò una mano
e gli mostrò un
cellulare, tentando poi di togliersi alcuni peletti neri del
passamontagna dai denti.
19:33,
CatCo Worldwide Media – 3 minuti dall'inizio dell'Operazione
Siobhan
odiava gli straordinari. Era lì dalla mattina, aveva
pranzato con
qualcosa di veloce ed era tornata davanti alla sua scrivania per
finire un pezzo di cui non trovava le parole. Fortunatamente alle
venti avrebbe staccato, non ce la faceva più.
Andò in bagno,
fregandosi gli occhi stanchi. Accidenti a Kara Danvers. Seppure fosse
una spina nel fianco, doveva ammettere che quella ragazzina le
tornava utile come correttrice di bozze. Mh.
Si fermò, quando sentì un brivido salirle lungo
la schiena. Oh, il
presentimento che la accompagnava da quella mattina era più
forte,
adesso. Stava per succedere qualcosa di brutto, se lo sentiva nelle
ossa. Si accostò alla porta e la aprì piano,
cercando di non far
rumore, solo uno spiraglio. Vide delle ombre avvicinarsi e
tremò.
Quando scorse dei fucili, allora richiuse svelta
e
strinse i denti, tremandole le gambe. Erano lì per lei,
erano lì
per lei e l'avrebbero ammazzata. Cominciò a sentire delle
urla e si
girò, facendo lunghi passi a gambe aperte, chiudendosi
dentro uno
dei piccoli scomparti, con la porta che cigolava. La strinse per non
far rumore e poi, battendo i denti, scivolò accanto al
gabinetto a
terra. «Sono qui per ammazzarmi, sono qui per
ammazzarmi», borbottò
in preda al panico, cercando di digitare il nove
uno uno
con le dita che tremavano. Ma non rispondeva. L'emergenza
non rispondeva e cadeva la linea. Cosa stava succedendo? Era la fine
del mondo? Deglutì e allora chiamò l'unica
persona che sperava
l'avrebbe salvata. «… Kara»,
piegò le labbra in un lamento e si
fermò il tempo di tirare su con il naso. «Oggi mi
uccideranno,
Kara».
Che
l'operazione
abbia inizio!
Che
dite, ce la farà Siobhan a salvarsi o la sua brutta
sensazione avrà
la meglio?
Mi
è piaciuto un sacco scrivere la prima parte con il suo punto
di
vista, descrivere anche se a tratti dove vive e come non sia poi
così
perfetta come vuole mostrare. O almeno, a me piace pensarla
così. E
sì, sono sincerissima, amo il suo personaggio XD
E
poi aveva ragione, insomma, qualcosa stava per succedere!
Partendo
da Zod, abbiamo avuto uno scorcio della sua vita familiare e come,
nonostante sia sposato ed è pure nonno, pensi sempre a
Petra,
l'amore perso molti anni prima. Come lui stesso dice a
Maggie, l'organizzazione ha subito una spaccatura in passato e mai
come in questo momento è visibile, con Zod da una parte e
Rhea
dall'altra. Il Generale si è aperto con lei e, con un
discorso, la
invita a essere dei loro. Cosa ne pensate? Vi fidereste? E poi Rhea
ha cercato di farlo uccidere ma lui è previdente e non le
è andata
bene. Ops.
E
ora Kara. Abbiamo visto come si è procurata le pillole in un
flashback e come Maxwell Lord fosse entusiasta; come le pillole non
la rendano molto stabile e anche come sia restia a riconoscerlo. Se
da una parte, la pillola rossa la rende più concentrata e
veloce,
dall'altra, oltre al brutto carattere, la fa schizzare in un vortice
di sentimenti confusi appena l'effetto va perdendosi, com'è
successo
quando ha visto Lena di sfuggita in dormitorio. Barry le è
vicino, e
anche Megan, e poi Lena, beh… Lena ha provato a parlarci,
nei
bagni, trovandola strana. E sicuramente lo ha pensato a maggior
ragione quando le ha chiesto se pensava che si fosse avvicinata a lei
per pena. Accidenti a Mike e alle sue teorie! Capito che non
attaccava, sperando di avere di più da Kara, ha ben pensato
di
difendersi con ciò che in quel momento gli è
venuto in mente.
Ma
ora veniamo alle note!
-
Il discorso di Mike è ispirato alle cazz- emh,
alle cose
che la sua adorata controparte televisiva diceva davvero a Kara.
Adorabile.
-
Chris Zod: lessi il nome di Chris
quando, per l'ennesima volta, spulciai internet alla ricerca di dati
e personaggi per la fan fiction. Di sfuggita, è capitato per
caso,
il figlio di Dru Zod dovrebbe davvero chiamarsi Chris
sulla Terra. Se qualcuno ne sa di più, che mi informi!
-
In questo capitolo, Zod parla di precedenze, soldi, mutui e via
discorrendo e io in questa materia non sono proprio ferrata, dunque
spero di non aver scritto castronerie D:
-
Kryptonite rossa, banshee… Mi piace inserire riferimenti
alla
serie.
-
L'effetto della pillola rossa, ora come ora, non è
così
paragonabile a quello della vera kryptonite rossa della tv. A parte
che Maxwell Lord ci sta ancora lavorando, non posso rendere Kara
malvagia davvero, che questa fan fiction è solo un AU
innocente XD
Se Kara avesse avuto i poteri, ci avrei probabilmente marciato di
più
:/ Ma chissà.
Bando
alle ciance, la chiudo qui! Spero che il capitolo vi sia piaciuto
almeno un po' di come piace a me e col prossimo, finalmente, un
grosso punto di svolta! Fatemi sapere cosa ne pensate e ci rileggiamo
lunedì 8 aprile con il capitolo 44 che si intitola L'Operazione!
Piuttosto eloquente.
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