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Autore: Ghen    29/03/2019    4 recensioni
Dopo anni dal divorzio, finalmente Eliza Danvers ha accanto a sé una persona che la rende felice e inizia a conviverci. Sorprese e disorientate, Alex e Kara tornano a casa per conoscere le persone coinvolte. Tutto si è svolto molto in fretta e si sforzano perché la cosa possa funzionare, ma Kara Danvers non aveva i fatti i conti con Lena Luthor, la sua nuova... sorella.
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Non solo quello che sembra! AU (no poteri/alieni) con il susseguirsi di personaggi rielaborati e crossover, 'Our home' è commedia, romanticismo e investigazione seguendo l'ombra lasciata da un passato complicato e travagliato, che porterà le due protagoniste di fronte a verità omesse e persone pericolose.
'Our home' è di nuovo in pausa. Lo so, la scrittura di questa fan fiction è molto altalenante. Ci tengo molto a questa storia e ultimamente non mi sembra di riuscire a scriverla al meglio, quindi piuttosto che scrivere capitoli compitino, voglio prendermi il tempo per riuscire a metterci di nuovo un'anima. Alla prossima!
Genere: Azione, Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Altri, Kara Danvers, Lena Luthor
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Ours'
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43. Anime rotte


La sveglia suonò tre volte. Un mugolio e dopo una mano pallida si sporse fuori dalle coperte per schiacciarla. La mancò. La mancò di nuovo, ma la mosse e cadde a terra. Il rumore fece sobbalzare la ragazza e si scoperchiò, sbadigliando rumorosamente: aveva tutti i capelli da un lato, le occhiaie e, si toccò un angolo della bocca, saliva secca. Brontolò, decise di alzarsi ma inciampò sulla sveglia, sbatté le ginocchia per terra e scacciò un urlo di rabbia, dandole un pugno, facendosi male di nuovo. No, proprio no. Prima un incubo ancora vivido nella mente dove un uomo la rincorreva per cercare di ucciderla, e ora questo. No, ripensò rialzando la testa dopo aver sputato il dentifricio sul lavandino e sbattendola contro il mobile rimasto aperto. Decisamente no. Siobhan Smythe non si sentiva affatto pronta ad affrontare la giornata, se quelle erano le premesse. Da quando Rhea Gand era stata rilasciata, dormiva sempre con un occhio vigile perché temeva mandasse qualcuno ad ammazzarla come aveva fatto con Kara Danvers. Dannazione, Danvers: lei era un ninja ed era riuscita a sfuggire a quel destino una volta, dunque avrebbe potuto proteggerla almeno al lavoro, e invece era ancora sospesa. Sentiva che sarebbe successo qualcosa di brutto; se lo sentiva nelle ossa. Ignorò i rumori dei camion che passavano sotto il suo appartamento e aprì una finestra solo per scacciare un piccione che si era adagiato sul davanzale, lasciandoci sopra un ricordino. Odiava quei dannati topi volanti. Dopo andò in cucina e aprì il piccolo e ammaccato frigo. Che desolazione: se non l'avesse fatta uccidere quella donna, ci avrebbe pensato la fame prima che si ricordasse di fare la spesa. Si preparò due fette di pane con ingredienti rimasti a caso, ed evitò a ultimo che una colata di mostarda le finisse sulle calze a rete. Mandò giù un morso dopo l'altro con ingordigia, ascoltando sulla tv, al telegiornale, un pezzo del discorso pre-campagna elettorale di Rhea Gand andato in onda ieri pomeriggio: la sala piena di invitati seduti intorno ai tavoli, la donna sul palco, affiancata dal sindaco che, chiaramente, la supportava.
«Il mio amato marito sognava questo percorso da quando era ragazzo e lo porterò avanti per lui».
«Bla, bla, bla. Mariticida», fece il verso, prima di mordere ancora la sua colazione.
«Mi impegnerò affinché le strade siano davvero sicure. Questa è la mia priorità».
Siobhan spense la piccola tv che doveva ancora ingoiare l'ultimo boccone, si assicurò di avere i denti puliti davanti allo specchio all'ingresso, e uscì di casa guardando avanti e indietro con apprensione; scese le scale e, avvicinandosi al portone dell'edificio, ricercò le chiavi della macchina in borsa.
«Buongiorno, signorina Smythe». Grembiule sporco di cibo legato in vita e al collo, il ragazzo del ristorante cinese sotto casa la salutò come ogni mattina, affacciandosi dalla porta sul retro.
E lei, come ogni mattina, si limitò a girare la faccia mentre continuava a camminare nel viottolo e a regalargli un forzato sorriso a labbra strette. Brontolò quando calpestò una cartaccia a terra e si riguardò di nuovo indietro, con la paura addosso. Lei sapeva della pistola. Sarebbe andata a cercarla, prima o poi. Deglutì e mise male un piede, inciampando sulle grate di un tombino. Cercò di tirarsi su, ma urlò quando capì che un tacco le era rimasto incastrato e che il ragazzo cinese stava correndo per soccorrerla. Le macchiò la borsa e mezzo cappotto con pezzi di carapace di gamberetti e per questo lo costrinse alla fuga picchiettandolo con la scarpa non appena lui riuscì a liberargliela. «Tu e i tuoi gamberetti orientali», urlò nel vicolo. Si rimise la scarpa e per poco non sbandò contro un motorino parcheggiato, mettendo male un piede. Si accostò all'auto bianca e avvertì dei passi che si avvicinavano. Oh, no. Era lì per lei. Era successo, alla fine. A chi avrebbe assegnato la sua scrivania Cat Grant? Era dietro di lei. Adesso. Urlò. Si voltò velocemente e con forza gli sbatté la borsa in pieno viso. Lui ondeggiò e imprecò dal dolore; non paga, Siobhan afferrò lo spray al peperoncino da una tasca e, mostrandogli tutti i denti, più agguerrita che mai, glielo spruzzò sugli occhi senza provare pena. «Nessuno si prenderà la mia scrivania, è chiaro?».
Cat Grant la fissò, una volta alla CatCo; gli occhi che si stringevano in due fessure.
«La polizia mi ha lasciato andare alle nove e mezza passate, non è colpa mia», sventolò una mano. «Uscito dall'ospedale ha detto che ritirerà la denuncia e sarei più felice se lo facesse perché ha capito come abbia agito per legittima difesa, ma teme che lo maledica», spalancò gli occhi, guardandola grave. «Come potevo sapere che era il proprietario di quella stupida moto? Mi ha chiamato banshee, ci crede? Doveva pensare che non sapessi cosa significa, ma nessuno mi dà del mostro solo perché-».
«Siobhan», la richiamò con voce dura, zittendola all'istante. «Che qualcuno maledica me se dovessi mai azzardarmi di nuovo chiederti il perché di un ritardo». Roteò gli occhi e la lasciò alla sua scrivania con la sua evidente voglia di chiacchierare.
Siobhan Smythe però sapeva che stava per succedere qualcosa, se lo sentiva nelle ossa. Guardò verso la finestra e deglutì, prima di iniziare a lavorare.

7:40, Centro di National City - 11 ore e 50 minuti all'Operazione

Da quando si era alzato quella mattina, Dru Zod controllava assiduamente l'orologio; più di altri giorni. Sua moglie era ai fornelli e lui leggeva il giornale, mentre il figlio tredicenne scendeva dal piano di sopra per fare colazione, in divisa scolastica. Quel ragazzino era sempre in ritardo. La donna lo sgridò in modo che si sbrigasse prima dell'arrivo del pulmino e l'uomo non li degnò di sguardi, leggendo con attenzione il discorso di Rhea Gand trasmesso in tv. Era la quarta volta che lo sentiva e leggeva, dal giorno prima. Il bodyguard non la lasciava mai sola, notò dalle foto. Riguardò l'orologio. Il figlio corse di nuovo di sopra e il campanello di casa suonò. La sua attenzione si rivolse tutta lì. Era curioso. Si alzò dalla sedia, ma sua moglie fu più veloce e la vide ritornare sorridendo e scuotendo la testa.
«Il tuo amico reporter».
Philip Mcbrown. Zod sospirò: la CatCo Worldwide Media era a poco da lì e lui lavorava per il giornale di Cat Grant da qualche anno; era venuto a trovarlo altre volte, prima di andare a lavoro. Si erano stretti la mano come due vecchi amici e Zod lo fece accomodare a tavola, intanto che sua moglie gli serviva il caffè caldo e lui la ringraziava come suo solito.
«Allora», l'amico gli scoccò un'occhiata quando la donna si allontanò per richiamare il figlio dalle scale, e così sorseggiò dalla tazzina. Come Zod lo guardò, lui accennò al giornale, alla faccia di Rhea in una foto. «Cosa ne pensi? Ti aveva avvertito di questa idea?». Poi rise scrollando le spalle, poggiando la tazzina vuota sul tavolo e dando i suoi complimenti alla donna, che andava a sistemare la cucina. «Vuole i nostri voti? L'appoggio di… tutti, sai? So che non siamo più il gruppo di un tempo, ma…».
«Rhea vuole sempre l'appoggio di tutti», rispose il Generale, pacato.
«Quella ha il pepe in zucca e forse non solo lì», rise. «Ehi, ti spiace se vado in bagno…?». Si alzò dalla sedia con uno scatto e si voltò immediatamente alla signora Zod già in modalità d'attacco, dicendole che chiaramente sarebbe salito di sopra perché il bagno al piano terra non era sistemato. Era solito, lo sapeva. E in casa Zod, tutti erano abitudinari. Salì le scale e il Generale, severo, lo tenne d'occhio. Mcbrown entrò in bagno e si guardò allo specchio, assumendo un'espressione seria e prese fiato; si sistemò la giacchetta e tirò lo sciacquone, uscendo dal bagno coperto dal rumore. Si guardò intorno ed entrò con passo felpato nella camera padronale. Si avvicinò a un comodino, si mise un guanto e aprì la giacchetta, tirando fuori una pistola. Prese fiato e lo fece: aprì un cassetto e la infilò dentro. Pensava di non essere visto da nessuno, ma un giovane Zod era proprio davanti alla porta in quel momento; cartella della scuola in spalla, pronto per uscire, gli mancavano solo le scarpe. Tornò verso camera sua e prese il cellulare da una tasca.
Da Chris a Me
Ehi pa', il tuo amico ti ha messo qualcosa nel cassetto del comodino. Sembra sospetto, poi non dire che non ho preso da te il naso da sbirro!
Il Generale lesse la sequela di faccine sorridenti e alzò gli occhi al soffitto. Philip Mcbrown aveva scelto, dunque? Non che fosse una sorpresa. Il bip del cellulare interruppe il suo rimuginare:
Ehi pa', posso andare al cinema domani sera? Ci vanno tutti i miei amici!
Lui alzò gli occhi di nuovo.
Da Me a Chris
Chiedilo a tua madre.

9:52, Sunrise National City University – 9 ore e 38 minuti all'Operazione

Sudore, fiato corto, all'improvviso un giramento di testa e Kara dovette fermare la corsa, stringendo i denti. Le aveva detto che non ci sarebbero più stati quegli spiacevoli effetti collaterali, accidenti a Lord.
Lui aveva sorriso divertito e scosso brevemente la testa quando qualcuno andò a dirgli in laboratorio che una certa Kara Danvers era lì in visita. L'aveva fatta salire nel suo ufficio e l'aveva raggiunta dopo qualche minuto, il tempo di rendersi presentabile. Normalmente avrebbe preferito che fosse l'altra Danvers ad andare a trovarlo, ma in quel momento gli era sembrata la notizia migliore del mondo: Kara aveva provato gli effetti della sua pillola rossa, al locale, e quando aveva sentito per cos'era andata lì, il suo cuore si era riempito di gioia.
«Pensavo non le piacesse l'idea delle pillole, signorina Danvers. Cosa le ha fatto cambiare idea?».
Kara aveva abbassato gli occhi, non proprio certa di quale fosse la risposta. «Non… Non ho cambiato idea». Lui le aveva riservato un'occhiata sorpresa e lei si era spazientita, riprendendo la giacca. «Senta, sa che c'è? Preferisco andarmene, i-io neanche so perché sono qui».
«No, no, no, la prego! Si sieda», le aveva indicato la sedia su cui si stava alzando, diventando serio. «Sa perché è qui e non vuole dirmelo, ma non è un problema. Le darò le pillole. Ho una formula migliorata rispetto a quando l'ha accidentalmente presa l'ultima volta». L'aveva vista fare una smorfia con gli occhi per quel accidentalmente, ma non gli era importato. «Sarebbe un onore che lei le provasse».
«Le pagherò».
«Oh, no, no, si figuri! Offre la casa. In cambio le chiederò solo di spiegarmi come la fanno sentire e», si era preso una pausa, sospirando, «il suo sangue». Lei aveva sbarrato gli occhi ed era pronta a correre via, se non l'avesse fermata in tempo. «Signorina Danvers, il suo sangue mi aiuterà a capire come svolgere il mio lavoro. È per le stesse pillole che lo chiedo, non certo per farla arrabbiare, ci mancherebbe».
Era ovvio che fosse riuscito a convincerla. Non che ci fosse voluto molto, considerando che aveva lottato tanto contro se stessa da giorni per non avvicinarsi ed eppure si trovava lì. Lui l'aveva accompagnata all'interno di un laboratorio e aveva indossato un camice, mentre la ragazza si era guardata intorno, adocchiando le tante persone, anche loro in camice, che andavano e venivano. Gli aveva chiesto di Roulette, se avesse ancora l'abitudine di mettere pillole gratis in drink altrui, ma Maxwell si era limitato a sorridere. Aveva preso le fialette e preparato il braccio sinistro di Kara per l'ago.
«La prenda come una donazione», l'aveva guardata negli occhi, pungendola. «Una donazione per la scienza e il progresso».
Lei si era morsa un labbro e guardato altrove. Aveva sempre odiato gli aghi. «Sto passando un brutto periodo», era riuscita a dire, con gli occhi lucidi. «La pillola al locale mi aveva resa più sicura e…», aveva spalancato la bocca ma le era mancato il fiato.
«Ha paura», aveva detto lui cambiando fialetta, passando quella piena a una ragazza al bancone. «È perfettamente umano provare paura, signorina Danvers. E sono felice di dirle che le mie nuove pillole rosse potranno davvero aiutarla, in questo».
Aveva odiato quel momento in cui si era resa tanto sensibile davanti a lui, accidenti. Ma non si era resa conto di esserlo fino a quel punto, fino a quando lui non le aveva infilato un ago nel braccio in cambio di quelle pillole. Era davvero arrivata a tanto? Rhea l'aveva ridotta in quello stato, o era stato tutto nel suo insieme? Non voleva più sentirsi così fragile, ma neppure così disperata: per quella ragione, pur avendo le pillole, le aveva nascoste nell'armadio per precauzione, sperando di non cedere.
«Questa bellezza la chiamiamo kryptonite rossa», le aveva rivelato Max, in una risata, mostrandole il barattolino di vetro. Lei si era subito accigliata. «L'idea è stata di Roulette, non mia», si era giustificato subito. «Ed è stata lei a dargliela: la sua squadra, al lacrosse: vi fate chiamare le kryptoniane. Beh, sì, anch'io ho visto qualche video delle sue partite. A Roulette è piaciuto e ci stiamo facendo l'abitudine, spero non sia un nome registrato. Non mi guardi in quel modo, nemmeno io l'ho registrato, lo usiamo solo tra noi».
Kara aveva stretto il barattolo e si erano guardati negli occhi, solo un momento.
«Cosa ne penserà sua sorella, vedendole le pillole?».
Il volto di Kara si era irrigidito: «Non lo saprà».
Scosse la testa piano, serrando gli occhi con forza, inchinandosi e tenendo le ginocchia.
«Kara?».
Lei prese fiato a pieni polmoni e così riprese a correre con uno scatto rapido, tanto veloce che superò il ragazzo prima ancora che si accorgesse della sua ripresa. Era davvero felice che il suo amico Barry fosse tornato a trovarla in vista della sua prima partita dopo la sospensione. Correre al suo fianco era sempre stimolante, ma gli parse un po' bruciato dalla sconfitta dopo tante corse alla pari. Kara era concentrata, non un tentennamento. La pillola rossa le infondeva una sensazione di libertà che forse non aveva mai provato davvero; fortunatamente il mal di testa era solo momentaneo e non le veniva spesso: notava come Maxwell Lord doveva averci lavorato molto per perfezionarle. Lo superò anche al seguente giro e si fermarono, andando verso gli spalti per recuperare una bottiglietta d'acqua. Gli diede una pacca sulla schiena, ridendo, raggiungendo la panca per prima.
«Accidenti», soffiò Barry, passandosi l'asciugamano sotto il collo. «Stai iniziando aprile coi fiocchi: o tu sei diventata incredibilmente veloce, o oggi non è la mia giornata». Rise e Kara con lui, anche lei asciugando il sudore.
«È che sto cercando di concentrarmi sui miei obiettivi».
«Già», il ragazzo annuì, fissandola tanto che lei rise, battendogli di nuovo la schiena.
«Non guardarmi in quel modo, sto bene! Cerco solo di tenermi impegnata». Misero le bottigliette e gli asciugamani dentro lo zainetto della ragazza, che si portò sulle spalle.
«No, beh, ti capisco», sorrise, alzando le spalle. «Sono anch'io sotto pressione, ultimamente: il caso di mio padre è riaperto, ho mollato il lacrosse, vengo seguito da un allenatore sulla corsa e ho vinto la borsa di studio degli Star Labs indetta dello scienziato e multimiliardario Harrison Wells che è interessato ai miei progressi come scienziato e sulla corsa», disse tutto d'un fiato, mettendosi per un attimo sui talloni. La sua eccitazione era alle stelle. «E poi ho conosciuto una ragazza e…».
«Aspetta! Una ragazza?», si accigliò. «Credevo che per te ci fosse solo Iris».
«Beh, sì, c'è Iris… ma», gonfiò le guance, «sta con Eddie e lei è carina, così… Lavora agli Star Labs, l'ho conosciuta lì».
«Uscite insieme?».
«No».
«Okay, ma quindi parlate spesso…?».
«No, ma-».
«Barry… almeno sa della tua esistenza?», lo fissò, socchiudendo gli occhi.
«Sì, certo», scrollò le spalle. «Conto di riuscire a rivolgerle la parola entro la settimana. O il mese, se proprio…».
«Oggi è due».
«Appunto, quindi ho ottime possibilità», si grattò la nuca e si diedero il cinque. «Poi sì, voglio dire, tutto questo non è nulla in confronto alla tua quasi ex suocera che ti vuole morta». Si allontanarono dagli spalti e Kara adocchiò un giovane che, alcuni scalini sopra, si mosse con loro per scendere. «Tu vinci a mani basse, senza dubbi. Anche per quanto è successo con Lena e la sua famiglia… la tua famiglia, cioè… mh. Sta-Stai bene, riguardo questo?».
Lei annuì subito, ascoltando i passi dietro di loro: li stava seguendo. «Sì», sorrise, «Te l'ho detto: mi concentro sui miei obiettivi, non ci penso più». Lo vide riaprire la bocca, ma lei lo tappò, sussurrando di correre al suo segnale: lo lasciò e, al suo cenno con la testa, scattarono, seminando il povero agente.
Ripresero fiato dietro un muro, ricominciando a camminare. «Ti stanno ancora dietro, eh?».
«Li odio», sentenziò fredda. «Perché devono seguirmi anche qua dentro?». Fu lui a batterle la schiena per darle il suo appoggio, a quel punto. Camminarono verso la vietta che separava l'università dal campus, quando un ragazzo passò troppo vicino a Barry e lo urtò, continuando a camminare. Lui non ci badò neppure, forse per gentilezza, ma a lei diede fastidio e si voltò all'istante. «Ehi! Hai spintonato il mio amico e non gli hai chiesto scusa».
Barry sorrise un po' a disagio, mentre il ragazzo fermato scrollava le spalle. «Kara, non importa».
«Sì che importa, ti ha spinto e non si è fermato», lo fissò, senza spostarsi di un centimetro: «Chiedigli scusa, ho detto».
Con Barry immobile, gli altri due si guardarono fino a quando il ragazzo non cedette, mostrandole un sorriso incerto. «Sicuro. Scusa, amico! Starò più attento a dove cammino, Supergirl», alzò le mani e sparì.
Barry la guardò mentre, sicura di sé, lo invitava a seguirlo, come se fosse tutto normale. Ma era normale? Cos'era appena successo?

10:46, base del D.A.O. a National City – 8 ore e 44 minuti all'Operazione

Lena deglutì guardando Maggie mentre, restando ferma, le sistemavano un microfono aggiuntivo sotto la maglia, oltre a quello a un orecchio. Era una prova per vedere come sarebbe stata, mentre gli agenti del D.A.O. le spiegavano le cosa fare e come funzionavano. Le possibilità che la scoprissero erano davvero alte.
Ne avevano parlato il giorno prima, ritrovandosi tutte a casa di Alex. Maggie aveva cercato con difficoltà di evitare un discorso serio con Charlie Kweskill quella mattina; lui non aveva fatto altro che lanciarle l'amo sul come non vedesse l'ora di discutere insieme sui grandi progetti che avevano in mente per National City. E anche lei non vedeva l'ora, di sicuro, ma con un microfono attaccato. Lena aveva appoggiato la sua idea, seppure riconoscesse il rischio, Alex aveva continuato a mostrare la sua contrarierà e Kara, dopo un bel po' che era rimasta soprappensiero, aveva detto che era una buona idea. Una buona idea. Alex non voleva crederci e quasi neppure Lena. Lo aveva detto con tale nonchalance da non sembrare quasi lei. Immaginavano che tutto quello che stava succedendo la stesse mettendo davvero a dura prova, ma… E dopo avevano parlato delle foto ritrovate da Lena con l'aiuto di Indigo, a cui Kara fece una smorfia. Nessuno di loro aveva mai sentito parlare di una sorella scomparsa di Rhea, era stata una sorpresa, e mai quanto sapere che un giovane Zod ne era il futuro sposo. Anche sapere che nemmeno Rhea era sfuggita agli effetti devastanti dell'adolescenza era stato interessante. Ma indubbiamente, i suoi brufoli erano passati in secondo piano rispetto al resto. Ora più che mai sapevano che avrebbero dovuto scavare sul passato di quanti più membri certi dell'organizzazione conoscessero e scoprire come era nata. Intanto, Maggie sarebbe stata la loro voce dall'interno. Se non l'avessero scoperta prima, almeno.
Alex si mise al suo fianco, appoggiandosi contro un tavolo. Si mangiava le unghie e respirava con affanno.
«Ci riuscirà», sussurrò Lena, vedendola voltarsi solo un momento.
«Non ho dubbi che ci riuscirà», soffiò tra le unghie. Scorse Lena alzare un sopracciglio e Alex sbuffò, mettendo le braccia a conserte. «Sapere che potrebbe non riuscirci è tragico, va bene? Ma sarò pronta a intervenire; lo saremo tutti. Ho più problemi a pensare che ci riuscirà. In quel caso…».
«Temi possa diventare una di loro a tutti gli effetti?».
Si scambiarono uno sguardo e Alex sospirò. «Non so cosa pensare. Non è che Maggie si lasci influenzare, ma Zod ha un certo potere su di lei», strinse i denti, scuotendo la testa. «Nonostante sapesse che era uno di loro, ha continuato a dargli una sorta di fiducia che non meritava. E la cosa quindi non mi piace».
Come darle torto, pensò Lena. «Senti, hai…».
«No», sospirò di nuovo, anticipando la domanda, «Non vedo né sento Kara da ieri. Forse è solo molto scossa e sta cercando di reagire in modo freddo e scostante per non farle male, sai… Forse-», si portò una mano contro i capelli e fece una smorfia, stringendo le labbra. «Sarà passeggero, vedrai! Ti perdonerà anche lei, prima o poi. E tornerete quelle di prima».
Lena spalancò gli occhi, annuendo lentamente. «Quindi tu… mi hai perdonato?».
«È work in progress», alzò il mento. «Ma falla soffrire di nuovo e sei fuori, Luthor. Sorellastre o no».
«Afferrato». Emise un piccolo sorriso e Alex le diede una spallata inaspettata.
«Perché non passi a trovarla, più tardi? Ha la partita, io non potrò esserci, ma-».
Lena fissò un punto vuoto, deglutendo. «Non… Non sono sicura di riuscire a starle vicino, adesso», sospirò e continuò prima che le chiedesse dell'altro: «Mi manca, mi manca… tanto. Ma sento che non mi vuole vicino e mi guarda in un modo che-». Smise di parlare quando le si fecero gli occhi lucidi.
Alex stava per dire qualcosa che John Jonzz le interruppe, mettendosi vicino: «A che ora hai detto che parleranno?».
«Questo pomeriggio alle cinque e mezza», gli rispose, cercando di non fargli notare il suo disappunto.
«Accidenti», sospirò, con le braccia sui fianchi. A un'occhiata dell'agente, lui sospirò di nuovo: «Non potrò esserci, sarò fuori National City». Le due lo guardarono spalancando gli occhi e lui scrollò le spalle. «Mi sono preso il pomeriggio libero dopo la partita, anch'io ho una vita privata di cui non devo rendere a voi. Soprattutto a lei, signorina Luthor. Non mi è nemmeno chiaro il motivo per cui si trova qui».
Lena rumoreggiò con la gola e fece un passo di lato. «Vi lascio parlare da soli».
Si allontanò verso Maggie, mentre l'uomo sistemava le braccia a conserte e Alex gli diceva che lei era lì per supporto psicologico. «Certo che ha la sua vita privata, è solo che oggi… proprio oggi, sta succedendo questo e-».
Lui la affiancò e annuì più volte, pensando. «Capisco, lo so. È una missione di vitale importanza, soprattutto se pensiamo alla lettera di chiusura dell'indagine che ci è arrivata questa mattina, e lei è la persona più importante della tua vita e sta rischiando tutto, per questo seguirò da telefono e tu, Alex Danvers, sarai il capo al comando».
«Oh, no», scosse la testa.
«Oh, sì», insisté.
«Oh, no».
«Oh, sì. Smettila di ripeterlo, ho poca pazienza da quando-», si portò due dita in mezzo agli occhi.
«È stato lasciato», soffiò Alex quasi senza accorgersene. «Conosco anch'io Megan e-».
«Non ne voglio parlare-».
«so quanto si è risentita-».
«soprattutto con i miei sottoposti-».
«ma se vuole la mia opinione, lei è davvero innamorata e-».
«e prima che diventi imbarazzante, ti ordino di chiuderla qui», la guardò e lei si zittì. «Da-Davvero innamorata, hai detto?».
Lui restò a bocca aperta e per un attimo Alex sorrise, cambiando di fretta espressione: «Che mi venga un colpo, Megan aveva un appuntamento stasera. Deve uscire con lei, mentre la mia ragazza rischia la vita?».
Lui la indicò, aprì bocca per dirle qualcosa e la chiuse di nuovo, stringendo gli occhi. «Non prendo mai una vacanza e ricorda che sono il tuo capo», chiosò serio, chiudendo la questione mentre si allontanava.
Alex si portò la mano destra sulla tempia e sospirò. Era vero, il suo capo non si prendeva mai una vacanza: un po' come lei che doveva destreggiarsi tra il D.A.O. e la boutique, anche lui aveva il lavoro e l'impegno come coach all'università di sua sorella. Poi aggrottò la fronte. Lei odiava la boutique e la sua copertura era saltata, perché andava ancora a lavorare lì? Ah, già: un buon doppio stipendio. Strinse le labbra e annuì, riguardando Maggie: le stavano togliendo i microfoni. E adesso volevano andare a vivere insieme, in una casa un po' più grande, quei soldi le avrebbero fatto comodo. Magari ci usciva anche quella moto di cui avevano discusso. La vide sorridere mentre parlava con Lena e provò un brivido, stringendo le labbra di nuovo e facendosi più seria: Zod la voleva dalla sua parte? Non sarebbe riuscito a portargliela via.

13:14, Basilica del Santo Padre – 6 ore e 16 minuti all'Operazione

La basilica era vuota, a quell'ora. I loro passi rimbombavano tra le navate. Rhea guardò in alto, verso il grande mosaico sul soffitto che rappresentava gli angeli in canto, e dopo ordinò al grosso uomo che la seguiva, il suo bodyguard, di aspettarla lì. Si andò a sedere e infine si inginocchiò davanti al Gesù in croce, chiudendo gli occhi. «Adesso sono sola, Petra», sussurrò, nominando la sorella maggiore scomparsa parecchi anni prima. «Lar se n'è andato. Non è stato facile come sicuramente penserai, lui credeva in me e io l'ho deluso. Era evidente che, dopo tutti questi anni, avevamo due idee diverse del futuro. Siamo sempre stati una cosa sola, ma adesso porterò avanti i sogni di tutti e due. Chiedigli di perdonarmi, se può», riaprì gli occhi e fissò le sculture. Poi li richiuse. «Ti chiedo di vegliare su di me, Petra. Non credevi in me, ma dopo questa sera, sarai costretta a cambiare idea. Mi prenderò con la forza il posto che è mio di diritto, sono stanca di aspettare. Questa città sarà ai miei piedi. E dopo lo saranno gli Stati Uniti d'America». Riaprì di nuovo gli occhi e si alzò, facendo il segno della croce. «Guida Mike affinché ritrovi la strada di casa: è l'ultima cosa che ti chiedo, sorella mia. Lui è tutto ciò che conta».
Rhea lasciava la chiesa in compagnia della sua nuova guardia del corpo, ricordando Petra, intanto che Dru Zod, nello stesso momento ma in centrale, chiuso nel suo ufficio, faceva lo stesso, tenendo in una mano una piccola e logorata foto di loro due ragazzi, abbracciati, con i sorrisi speranzosi di chi sognava una vita migliore. Una vita insieme. Petra non c'era più, ma nei suoi ricordi non era mai morta. Si era sposato e aveva avuto due figli, pur con il groppo in gola di ciò che aveva perso, di ciò che doveva succedere e non era successo. Vedeva i suoi figli crescere, una dopo l'altro, con la sensazione sulla pelle che non doveva andare così, la sua vita. Con l'ombra di un mostro sempre presente a ricordargli che lui non si trovava dove doveva stare, che un pezzo di sé era scomparso con lei, sotto quelle scale. Strinse i denti e chiuse la foto in un cassetto della scrivania, pensando che la resa dei conti era vicina.

15:18, Campus del Sunrise National City University – 4 ore e 12 minuti all'Operazione

Lena camminò per le scale del dormitorio con apprensione. Si torceva le mani, cercava di tenere controllato il respiro, la gola si seccava tanto che le bruciava. Era davvero diventato così difficile pensare di vederla? Oh, perché le era successo di innamorarsi; perché poi proprio di lei. Sembrava che il destino gliel'avesse voluto fare di proposito: ecco una piccola Luthor, la discendente diretta delle persone che non avevano fermato l'assassinio di una famiglia, ebbene dovrà innamorarsi della bimba sopravvissuta. Era talmente cattiva che sarebbe venuta in mente solo a Lillian per farle pagare di essere la figlia del marito. Forse ancora non lo sapeva, ma era la principessa di una favola dei fratelli Grimm. Di quelle che finivano male, in un modo o nell'altro.
Si fermò quando arrivò al piano giusto, spalancando gli occhi: le porte delle camere erano quasi tutte aperte e le ragazze disposte intorno a dei tavolini lungo il corridoio; ridevano, gridavano e facevano baldoria con dolci e bibite gassate. C'erano anche dei ragazzi; sembrava proprio una festa e adesso capiva il perché di tanto schiamazzare da quando aprì il portone d'ingresso. Inquadrò un lenzuolo appeso da una porta a un'altra che festeggiava il ritorno di Supergirl dopo la sospensione. E poi la vide e le mancò il fiato. Con lei al suo tavolo c'era Megan e anche Barry Allen. Erano rossi, dovevano ridere parecchio. La vide urlare in risata alle giocatrici di smetterla di mangiare se volevano scendere in campo senza dover rimettere, poi si alzò da tavola riempendo un piattino di dolcetti e rientrare così nella sua camera, sicuramente per portare cibo a quello sfortunato di Gand, che non poteva uscire. Kara non aveva bisogno di lei che le ricordava, ora, che le aveva mentito e cosa la sua famiglia le aveva fatto. Una ragazza vicina la fermò per chiederle se voleva unirsi, ma Lena ringraziò di fretta e si voltò per tornare verso le scale.
Kara uscì in quel momento dalla stanza e il suo cuore sussultò appena la vide. Era stato un attimo, un attimo solo, ma l'avrebbe riconosciuta sempre, anche in un mare di persone: era lei, era venuta a trovarla ma all'ultimo aveva deciso di scappare. Si portò una mano sotto al collo e sospirò pesantemente, sentendo riaffiorare tutto: Lena le aveva mentito, si amavano, voleva solo stare con lei ma i Luthor avevano fatto parte dell'organizzazione e non avevano salvato i suoi genitori e i suoi zii. Lo scoppio. Rhea Gand che tentava di ucciderla e lei che si sentiva impotente. Lo sparo. Non sarebbe mai stata abbastanza forte. Gli occhi le si spalancarono e riempirono di lacrime. Perché doveva farle così, adesso? L'aveva vista il giorno prima, andava tutto bene. Lena le mancava, ma andava tutto bene. Cosa succedeva al suo corpo? Aveva bisogno di sentire Lena vicino, ma non la voleva. I battiti del suo cuore aumentarono, il fiato si fece corto; trovò la forza di deglutire e strinse gli occhi, tornando indietro alla camera e chiudendo la porta. Le serviva una pillola. L'effetto stava svanendo, ecco cosa stava succedendo. Ma Mike era lì, seduto a gambe incrociate sul suo letto che giocava col tablet e mangiava pasticcini. Non sarebbe mai riuscita a prenderla con lui di mezzo.
«Mi hai già portato la cola? Sei stata veloce». Si girò con un pronto sorriso ma, appena vide la sua espressione persa, il ragazzo si alzò e, andandole incontro, si lasciò stringere in un forte abbraccio, ricambiando. «Cos'è successo, adesso? Eri felice fino a un momento fa, stavi ridendo, mi hai sgridato di non tenere le scarpe sul letto e ora piangi?».
«I-Io non piango». Si fregò subito una guancia, quando le scese una lacrima.
«E io non avevo le scarpe sul letto», controbatté lui, lasciando che si staccasse. «Allora, che succede? Puoi dirmelo? Se vuoi dirmelo, io sono qui. Ci sono per te, come tu ci sei per me, no?», le sorrise, distanziandosi di poco.
Kara lo sorpassò, poi si girò, fece altri due passi e si rigirò verso l'armadio. Si fregò gli occhi rossi e ansimò. «È che-». Lui aggrottò la fronte, ascoltando. «Ho visto Lena».
«Quando?».
«A-Adesso. Era fuori, era lì e… e-e lei… beh, lei se n'è andata. Cavolo…», strinse i denti, guardando l'orologio: erano quasi le tre e mezza, aveva la partita tra non molto e non poteva permettersi di deludere tutte le persone là fuori che contavano su di lei. Accidenti, accidenti, accidenti. Tra quasi due ore, Maggie sarebbe andata a parlare con Zod e il suo galoppino e lei non ci sarebbe stata. Come poteva non essere al fianco di Alex, in un momento come quello? Era stata davvero così egoista? Sapeva che era la cosa più sensata da fare, ma…
«Ehi, Kara», Mike la strinse a un braccio, cercando di alzarle il viso per guardarla negli occhi. «Se continui così, rischi un attacco di panico. Guardami», la forzò e Kara deglutì, cercando di calmarsi. «Prima sei tesa, sicura, hai rischiato di cacciare Selina Kyle ieri notte perché non ti aveva dato un orario in cui sarebbe tornata, ora piangi… Non stai bene».
«Sto bene», soffiò con sicurezza e, prendendo fiato, si agitò, scrollandoselo di dosso. «Sono solo stanca».
«Ci credo, non fai che correre e dormi poco. Senti-», si sedette sul letto e Kara fece lo stesso, abbassando gli occhi. «Lascia perdere Lena, okay? Hai me. Lo so cosa ci siamo detti, abbiamo sbagliato entrambi in modi diversi, ma è acqua passata. Adesso siamo di nuovo noi, no?». La vide scuotere brevemente la testa e Mike sospirò. «Lena ti fa stare male, ti ha mentito. Ci sono io al tuo fianco, non lei», proseguì, toccandosi il petto. «Lo sai che non ti lascerei mai sola, vero?».
«Non lo hai mai fatto», sibilò distratta e lui le prese il mento, sollevandole il viso verso il suo. Voleva baciarla ma Kara si scansò, rimettendosi in piedi. «Che stai facendo?».
«Quello che-», il ragazzo rise, scrollando le spalle, «Quello che volevamo. Non lo volevamo? Non ti lascerò mai sola eccetera».
«Eccetera?», si accigliò. «Me lo dicevi solo per farmi tornare con te? Era questo che avevi in mente fin da subito?».
«No». Anche lui si alzò e aggrottò la fronte, sentendosi accusato. «Certo che no, ma-».
«Ma?».
«Smettila di attaccarmi, pensavo che stessimo facendo pace», si toccò la fronte e tornò indietro di un passo, per poi stringere le labbra e riprendere fiato. «Tu sei unica per me, lo sai questo? Pensavo che tu e Lena… che fosse solo momentaneo, l'hai detto anche tu, ti fa soffrire».
«Non l'ho detto: tu l'hai detto».
«Pensavo che ormai stessi voltando pagina. Non l'hai detto ma lo pensavi! Ero solo convinto che… anche io fossi unico per te». Si portò di nuovo una mano contro il petto e Kara prese fiato, scuotendo la testa.
«Stai cercando di passare per vittima? Non sei la vittima, smettila».
«Mi accusi di questo? Oh, certo», lui alzò gli occhi al cielo e fece dei passi indietro. «Pensare che volessi fare pace è da vittima? Ma è sempre colpa mia, giusto? Sono… egocentrico, no? Mi avevi chiamato così? Mi hai accusato di sminuirti».
«E non ci credo che ci stavo cascando ancora».
«Vero? Povera ragazza», sbottò Mike con ironia. «Credevo che fossimo sulla stessa barca, che mi aiutavi per questo, ma ora capisco perché lo fai. Adesso capisco bene, vedo le cose con lucidità».
Gli occhi di Kara si riempirono di nuovo di lacrime e si passò le dita, fregandoli. «Ah, sì? E cosa vedi?». Nemmeno gli schiamazzi fuori dalla porta avrebbero potuto interromperli.
«Vedo il reale motivo per cui sono qui: pena. Io ti faccio pena, Kara. Il povero ragazzo la cui madre ha ucciso il padre! Senza un posto dove andare, solo al mondo, accolto anche se non mi vuoi», gridò ferito. «Sono bisognoso di aiuto e per questo interessante ai tuoi occhi: perché tu devi sentirti indispensabile, Kara. Quello che fai è correre dalla gente che ha bisogno perché è l'unico modo che conosci per sentirti amata». La vide piegare le labbra e scuotere la testa, ma non aveva intenzione di fermarsi: «La tua famiglia è morta e hai bisogno di sentirti importante per gli altri per non essere abbandonata ancora».
«Perché mi fai questo?».
Fu allora che, dopo aver bussato due volte ma non riuscendo a sentire se avesse ricevuto il permesso di entrare, Barry aprì piano la porta e dopo la spalancò, vedendo Kara in lacrime: bloccò subito il ragazzo. La rabbia sul volto di Mike scomparve, si era sfogato, ma la ragazza era a pezzi: era vero ciò che diceva? Che lo fosse o meno, Mike era sbagliato. Nella sua testa nulla funzionava come dovrebbe e Kara gli aveva permesso di ferirla ancora quando si era giurata di chiuderlo fuori.
«Non metterti in mezzo, tu», Mike spinse Barry, ma quest'ultimo guardava ancora la sua amica.
«Cosa c'è che non va in te, Mike?», riuscì a dirgli lei, stringendo un pugno.
«Oh, cavolo», brontolò, «Forse sono solo fatto così». Lei scosse la testa e si avvicinò alla porta per uscire. «Kara, ti prego! Ho sbagliato, ma posso rimediare! Insieme a te è diverso».
Lei uscì senza dargli una risposta e Barry lo guardò, scuotendo anche lui la testa. Lo lasciò solo e richiuse la porta. Vedendo Kara uscire rapidamente dalla camera, Megan le corse dietro verso i bagni e così fece Barry. La trovarono seduta sulle piastrelle che fissava il vuoto, giocando con la collana sotto il maglioncino. La collana che le aveva regalato Lena a Natale, con il simbolo degli El. «Kara, posso-».
«Lo so», soffiò in risposta prima che finisse di parlare. «Mike è uno stronzo».
«Volevo suggerirti di non giocare alla partita, ma», annuì Barry, «credo si sia comportato proprio da stronzo».
«È tossico per te», suggerì Megan, passandole un fazzoletto: non piangeva più, ma gli occhi erano gonfi e aveva bisogno di rimettersi in sesto. «Ho letto in proposito, quando cercavo su Google se qualcun altra si era ritrovata in una relazione con un agente segreto», sbottò. La fissarono entrambi e scrollò le spalle: «Cosa? Mi ha chiesto di parlare e voglio ridergli in faccia, per questo esco con lui dopo la partita. Ritornando a Mike», puntò in aria un dito, «è quel tipo di persona che riflette sempre l'attenzione su di sé e i suoi sentimenti, cercando di far sentire il partner in colpa. Gli uomini come lui promettono di cambiare, ma non cambiano», strinse una mano di Kara. «Non esiste la favoletta dell'uomo che cambia con la donna giusta. Non cambiano mai e se ti fa male una volta, è capace di farlo sempre».
Barry si abbassò e le prese l'altra mano con le sue. «Non so cosa ti abbia detto di preciso, ma so che tu non meriti di stare così per nessun ragazzo, Kara. Come non meriti di stare male per nessuna ragazza», aggiunse, pensando a Lena e guardando la collana.
«Pensi che sia meglio rinunciare?», chiese allora Megan e Kara si accigliò.
«No. Abbiamo una partita da vincere».
«Sei sicura?», le chiese anche Barry, mentre tutti e tre si rialzavano.
Kara annuì. «Sì. Mi serve un bicchiere d'acqua e sarò come nuova». Uscì dai bagni e i due si guardarono con preoccupazione. Eppure sembrò vero: solo pochi minuti, il tempo a John Jonzz di chiamare a rapporto la squadra, che Kara sembrò rinata. Aveva ancora il viso gonfio e gli occhi rossi, che preoccupò anche il coach, ma non aveva altro pensiero per la testa se non vincere quella partita.
Lena si sedette sugli spalti, non troppo vicino al campo per non essere vista. Non se n'era davvero andata e aveva preferito ingannare l'attesa facendosi un giro. Quando vide la squadra scendere in campo, intercettò subito Kara, casco già infilato, camminata sicura. La sua Supergirl.
«Ehi. È libero?».
Lena si spaventò balzando un poco e il ragazzo si scusò in un sorriso, sedendo vicino, mani nelle tasche dei jeans. Come aveva fatto Barry Allen a notarla?
«Come stai? Per tutta questa storia delle vostre famiglie e, sì, il fatto di averle mentito…», mosse la testa.
«Oh, lo sai?».
«Non che Kara abbia messo i cartelli, ma… sì», annuì. Guardò Lena e la squadra rossa e blu in campo: la numero dieci, Kara, era già in possesso di palla e correva, buttando sull'erba diverse giocatrici in difesa.
Aveva una carica incredibile, pensò Lena. «Come si sente? L'ho vista ieri ed era un po' sulle sue».
«Lo è. Sulle sue. È un po' strana, in effetti: prima piange, poi corre e sprona le altre».
«Stava piangendo?», il suo sguardo si fece grave e Barry prese fiato.
«Ha litigato con Mike: le ha detto delle cose che l'hanno ferita. Ma tu come stai, invece?», insisté, «Perché, beh, non hai risposto alla mia domanda», si grattò, stringendo le labbra.
Lena abbassò gli occhi verdi, unendo le mani sulle cosce. «Bene. Mi tengo impegnata».
Lui annuì, sorridendo. «Ah. Questa l'ho già sentita».
La palla tenuta nella rete della sua stecca da lacrosse, la corsa rapida verso la porta. Kara schivò un'avversaria e dopo un'altra. Una ragazza le fece cenno di passarle la palla, era più vicina di lei alla porta ed era libera. John Jonzz le urlò di lanciargliela. Megan le urlò di lanciargliela. Ma lei poteva farcela: la sorpassò e saltò con tensione, in posizione, e infine lanciò la palla che entrò direttamente in porta. La sua squadra aveva appena racimolato dei punti e si sarebbe sentita orgogliosa se non fosse per i lamenti di qualcuna. Aveva segnato, erano in testa, cos'altro volevano? Supergirl non sarebbe più scesa a compromessi: se stavano al passo bene ma, in caso contrario, restavano indietro.
«C'è qualcosa che non va con Kara», esclamò a un certo punto Barry. «A volte è come se cambiasse radicalmente carattere. Guardala: diresti che solo fino a dieci minuti fa stava seduta a terra in un bagno perché un ragazzo l'aveva trattata male? È come se non le importasse più niente».
Lena strinse gli occhi e mise a fuoco la ragazza che segnava altri punti per la squadra. Come se non le importasse… Anche il giorno prima sembrava aver fatto lo stesso. Cosa le stava succedendo?
La tenne d'occhio e, finita la partita, lei e Barry assistettero dall'alto a quella che sembrava un'animata discussione: alcune giocatrici della squadra se la presero con lei che alla fine si allontanò da sola, gettando il casco sull'erba. Lasciò il ragazzo e scese dagli spalti di fretta, entrando in palestra. Erano tutte lì e, invece di festeggiare, si lamentavano di Kara col coach Jonzz. Scambiò uno sguardo preoccupato con Megan, che le indicò un corridoio. Aprì la porta dei bagni e seguì il rumore dell'acqua che scorreva, trovando Kara che si sciacquava la faccia davanti a un lavandino. La vide alzare la testa subito, adocchiarla attraverso lo specchio appannato che aveva davanti. E sorriderle, per giunta. Aveva ragione Barry Allen, intuì Lena: c'era qualcosa di strano in lei, nei suoi occhi. La guardava in modo diverso.
Chiuse l'acqua e si passò l'asciugamano sul viso, lasciandolo penzoloni sul lavandino. «Credevo te ne fossi andata».
«Sapevi che ero qui?».
«Ti ho vista», scrollò le spalle, annuendo. Si avvicinò squadrandola da capo a piedi tanto a lungo, insistentemente, che Lena si sentì a disagio e si tirò indietro. «Sei scappata».
«N-Non sono scappata», abbozzò un sorriso spento a breve. «Ma-».
«Ma?», le sorrise in modo sfrontato, avvicinandosi ancora, notando che retrocedeva man mano. «Non è quello che stai facendo anche ora?», rise all'improvviso. «Lo so… Ti senti in colpa e allora scappi da me».
Lena si spaventò quando toccò la parete dietro di lei, deglutendo. «Ti comporti in modo strano», le disse, «Sei tu quella che sta scappando».
«Oh, no, a me non sembra proprio», rise ancora. Era così vicina, adesso, che poteva sentire il suo fiato corto sul viso. «Cosa guardi?», le domandò poco più tardi, notando il movimento rapido dei suoi occhi verdi. «Vuoi baciarmi?». Le carezzò una guancia e Lena trattenne il respiro, socchiudendo gli occhi. «Ti manco, eh? Anche tu manchi a me. Sai, potremmo lasciar perdere tutto quanto».
«Ti ho ferita», abbassò gli occhi.
«Sì che lo hai fatto. Mi fidavo di te, Lena», le carezzò con il pollice le labbra e lei provò a tirarsi indietro, così la fermò col proprio corpo sul suo, costringendola a guardarla negli occhi. «Affrontiamola adesso. Vedi che stai scappando?».
«Sei strana».
«Non sono strana, smettila di ripeterlo», si innervosì, abbassando la mano dal viso alla spalla. «Sono lucida, adesso. Sono perfettamente in me».
«Le tue compagne di squadra?». Lasciò che la guardasse con curiosità, prima di continuare: «Anche loro pensano che tu sia perfettamente in te?».
«Si lamentano perché abbiamo vinto! Ci puoi pensare?», sbottò, per poi sorridere. «Chi se ne importa di loro», le carezzò di nuovo la guancia, mentre con l'altra mano le cingeva un fianco, avvicinandola. «Sei qui, parliamo di come mi hai spezzato».
«Spezzato? Oh, per favore… Ho sbagliato, lo so», strinse le labbra. «Mi dispiace, Kara».
«Non voglio i tuoi dispiaceri», scosse la testa, «Non voglio le tue scuse, non servono a niente».
«Che cosa vuoi?».
«Te».
Provò ad avvicinare le labbra alle sue e per un attimo parve funzionare, Lena si mosse solo all'ultimo, cercando di allontanarla. «Non puoi volermi! Lo vedo come mi guardi! Ne riparleremo quando sarai in te».
Kara retrocedette solo un attimo. «Io sono in me, perché non vuoi capirlo?», sforzò un sorriso.
Qualcosa nel suo sguardo la tradiva, come se una parte di sé se ne rendesse conto. «Stai male», le toccò la fronte e Kara le strinse il polso. «Che cosa hai preso? Sembri-».
«Perché non puoi semplicemente accettare che adesso io sia così?», la fissò. «Non vado bene così?».
Kara era molto suscettibile, sicuramente spezzata, ma non in sé. Era quasi violenta e per un attimo, con quella morsa sul polso, temette potesse farle del male. Sapeva che non l'avrebbe fatto, ma il suo sguardo duro le metteva addosso una sensazione che non le piaceva. Tirò il polso e alla fine riuscì a farselo lasciare, massaggiandoselo. «Ne riparleremo quando sarai in te», ribadì. Stava per andarsene che lei la chiamò. Oh, si sarebbe sempre fermata se era lei a chiamarla. Si rivoltò, a quella Kara irriconoscibile.
«Tu pensi», abbassò gli occhi freddi solo un attimo, riflettendo, «che io mi sia innamorata di te perché avevi bisogno di me?».
«Cosa?».
«Eri sola, Lena, pensaci: tuo padre è mancato, non avevi più un ragazzo né una ragazza da cui andare a consolarti, odi tua madre… Eri in difficoltà, forse mi facevi pena», sorrise appena, «Per questo mi sono avvicinata a te: ho visto il tuo dolore e devo sentirmi indispensabile per qualcuno per essere amata».
Lena scosse la testa. Le aveva fatto pena? «È questo che pensi?».
«Non so», alzò le braccia in segno di resa. «Lo chiedevo a te».
«No. Non penso sia così, Kara». Si tirò indietro. «Fammi sapere se è questo ciò che pensi tu. Che ti facevo pena». Se ne andò e lei non la fermò, questa volta. Passò vicino a Barry che entrava, cercando di non guardarlo negli occhi.
«Tutto bene?», chiese e Kara scrollò le spalle.
«Certo, non hai visto? Ho vinto la partita».

17:30, Centrale di Polizia – 2 ore all'Operazione

Maggie Sawyer ingurgitò saliva. Era tesa. Parecchio tesa. Eppure si trovava lì, alla centrale, pronta per la prima missione per conto del D.A.O. sull'organizzazione criminale che le stava aprendo le porte. Si era chiesta spesso perché avevano scelto proprio lei e le erano venute in mente varie ipotesi. Forse gliel'avrebbe chiesto. Charlie Kweskill le aprì la porta dell'ufficio del loro capitano con fierezza e la fece accomodare. Il Generale Zod era già dietro la sua scrivania, con mani intrecciate. La aspettava. Stava per aprire bocca che la sua attenzione si rivolse al collega che si sedeva sul bordo della scrivania. I due si guardarono e Charlie scese, alzando le mani e andando a sedersi accanto a lei, su una sedia.
«Grazie per aver accettato l'appuntamento». Si guardarono e annuì. «Disgraziatamente potremmo trattenerci poco e siamo costretti a parlare un'altra volta». Vide Maggie accigliarsi con curiosità e lui si alzò dalla scrivania, andando ad appoggiarsi sul bordo davanti a loro. «Prima di parlare, devo chiedetti un favore, Sawyer».
«Mi dica».
«Devi-», sospirò e si grattò la nuca, increspando le labbra, «Devi toglierti i microfoni».
Maggie si gelò, reggendosi alla sedia. «C-Come?».
«Kweskill ti aiuterà, se hai bisogno», disse mentre lui annuiva. «Ci stiamo aprendo con te, siamo sinceri. Ci farebbe piacere se la cosa fosse reciproca». Fece un cenno a Charlie e il ragazzo si alzò di scatto, ma Maggie si tirò indietro, dicendo che li avrebbe tolti da sola. Non riusciva e, con delicatezza, l'agente le sfilò quello sulla schiena, mentre lei chiudeva gli occhi e tratteneva il respiro, arresa, ferma. «Nessuno ha intenzione di farti del male, Sawyer. Capisco la tua reticenza, ma è frutto di stereotipi e malintesi».
Maggie riaprì gli occhi e lo fissò con sfida, stringendo le labbra. Intanto, dietro un palazzo, Alex Danvers si mise le mani sui capelli quando perse il segnale, respirando a più riprese. Alcuni agenti erano al suo fianco e aspettavano solo un suo cenno per assaltare la centrale, a pochi metri da lì. Avevano circondato l'edificio ma, come sapeva dei microfoni, era certa che Zod sapesse anche quello. A che gioco stava giocando?
«La tua bambina va a all'asilo?», le chiese una volta seduta di nuovo.
«Sta minacciando mia figlia?».
«Mio figlio, Chris, ha frequentato l'asilo a Metropolis. Anche la mia figlia più grande, Melanie. Adesso è suo figlio ad andare all'asilo. Come passa il tempo», alzò lo sguardo, come se si stesse perdendo in ricordi.
«No», soffiò, «Mia figlia non va all'asilo, non c'era posto».
Il Generale annuì. «Capisco. L'asilo è importante, è là che si fanno le prime amicizie e si impara a stare in gruppo. Tua figlia potrà andare all'asilo da domani, quello che più ti è comodo. Farò una telefonata».
Maggie deglutì e dopo sorrise. «Sta cercando di comprarmi con un posto all'asilo? E comprarmi per cosa, con esattezza? Cosa volete da me?».
«Niente», Charlie scrollò le spalle.
«Non cerco di comprarti, Sawyer, vorrei solo farti comprendere quanto non siamo diversi. Avrai sentito tante storie sull'organizzazione, ti sarai fatta tante idee, sbagliate. Perché dovrei minacciare la tua bambina, quando ho ordinato a Kweskill di infiltrarsi tra quei poliziotti per proteggerla e proteggere te? Il mio nipotino ha quasi l'età di tua figlia. Non toccherei dei bambini».
«Questo è interessante perché», prese una pausa, «la sorella minore della mia ragazza è stata adottata perché la sua famiglia è stata uccisa dalla vostra organizzazione. E avrebbe ucciso anche lei, se solo non si fosse trovata in giardino». Il cuore le batteva furioso, guardando Zod negli occhi. La centrale era piena, fuori dalla porta. Se si fosse trovata nei guai, magari l'FBI… Poteva sfidarlo, metterlo alla prova.
«Kara Danvers. Le cose sono più complicate di come appaiono: l'organizzazione si era spaccata-».
«Non avete fatto niente per impedire che Rhea Gand li facesse uccidere», gli parlò sopra e Charlie strinse i denti, contrariato, mentre Zod sospirava.
Appoggiò le mani sulla scrivania dietro di lui, mettendosi comodo. «Mi piacerebbe parlare di quanto è accaduto undici anni e mezzo fa nel dettaglio, ma la verità è che non c'è tempo», si rivolse a Charlie che, rapido, annuì e si alzò, uscendo dall'ufficio: Maggie deglutì, capendo che l'aveva appena lasciata sola con lui. «C'è stata una spaccatura. Un terremoto ha diviso l'organizzazione in due e mai come ora questo è visibile. Al contrario di Gand, io preferisco costruire e non distruggere, lei vede dei nemici dove io vedo alleati, per questo sei qui», la guardò negli occhi. «Sì. Tu e la tua ragazza ve lo sareste chieste spesso, Sawyer: sono il presidente e da titolo ti chiedo di unirti a noi».
Maggie strinse le labbra e deglutì. Lo sapeva. Lo sapeva ma sentirglielo dire le aveva fatto entrare i brividi.
Lui la invitò ad alzarsi. «Sei una poliziotta in gamba, ti ho tenuta d'occhio. Hai volontà, intuito, sei pronta a tutto. Qualità che apprezzo». Andò dietro la scrivania e prese un foglietto, scrivendo velocemente a penna qualcosa. «L'organizzazione è un bene per questa città, Sawyer. È vero», disse, stringendo il foglietto. «Scavalchiamo la burocrazia, ci sostituiamo alla legge, nonostante io stesso ne sia un rappresentante. Ma proprio come tua figlia non trova un posto all'asilo, tante persone si ritrovano ad aspettare tempi lunghissimi per avere una casa, un mutuo, un lavoro o, perché no, un disabile è in difficoltà economica perché non gli riconoscono le agevolazioni. I tempi si dilatano, bisogna passare da un ufficio all'altro, ma le persone ne hanno bisogno subito, non in un futuro approssimativo. La verità è che puoi sperare di passare avanti solo se hai soldi. Ma dipende da cosa si tratta, chiaramente».
Maggie si lasciò scappare un verso e lui attese. «L'organizzazione non gira introno ai soldi, cap-», si fermò.
«Sono ancora il tuo capitano, Sawyer, non avere di queste difficoltà», la fissò, indicandole il viso con il foglietto in mano. «Sì. Gira intorno ai soldi. Tutto funziona in base a quelli e con quelli si aprono molte più porte di quanto immagini».
«Anche minacciando le persone. O uccidendole».
Il Generale annuì lentamente. «Bisogna sapersi far rispettare o nessuno ti prenderà sul serio. Ma non approvo le morti inutili, no. Per questo Rhea Gand ed io siamo su due modi di vedere diversi». Le passò il foglietto e Maggie aggrottò la fronte. «Ti chiedo di pensarci. Non ti costringerò, sarai tu a venire da me. Oggi capirai da che parte stare».
Maggie inclinò un poco la testa, leggendo il foglietto e guardando di nuovo il Generale. «Non capisco, cosa…?».
«Consegnalo al D.A.O., di fuori. Avranno i loro terroristi», guardò l'orologio al polso. «Hai ancora circa sei minuti per uscire prima che facciano irruzione, so come funziona».
Maggie trattenne il fiato e gonfiò il petto. Si voltò per tornare indietro, doveva fare presto, ma un pensiero le ronzava per la testa e doveva toglierselo ora che ne aveva l'occasione: «Capitano?», lo chiamò con durezza e lui annuì. «Se lei e Rhea Gand siete così agli antipodi, perché allora non l'ha arrestata? È stata lei».
«È stata lei, lo so. Ci sostituiamo alla legge, ma parliamo del senatore, non potevo permettermi di attirare l'attenzione senza avere in mano qualcosa di schiacciante. Avrei potuto mettere a rischio altre persone o me stesso. Avrai modo di capire che non sempre le cose sono semplici come schioccare le dita, anche si tratta di agire con l'organizzazione», annuì di nuovo. «Avremo modo di parlarne, se lo vorrai», riguardò l'orologio. «Tre minuti».
Dietro il palazzo, Alex guardò l'ora e ordinò ad alcuni uomini, a voce e tramite l'auricolare, su come posizionarsi e tenersi pronti. John Jonzz seguiva tramite cellulare e le diceva di tenersi calma. Ogni tanto il segnale saltava perché si trovava su un tram verso Metropolis, accanto a una Megan interessata alla vicenda, anche se lui cercava di tapparle la visuale. «Dai, Mags… Dai», si passò una mano sulla fronte. Aveva aspettato fin troppo. Fin troppo. Diede il comando di avvicinarsi ma un attimo e la vide uscire, finalmente, mostrando i microfoni scollegati. Fece un sospiro di sollievo, le corse incontro e la abbracciò forte mentre John, vedendola sana e salva, le disse che avrebbe aspettato il rapporto l'indomani, chiudendo la videochiamata.
«Anch'io sono felice di vederti», le sorrise e si staccò, mostrandole il foglietto: «Ma dobbiamo fare presto, abbiamo poco tempo. Mi ha scritto qua alcuni luoghi che verranno colpiti, questa sera».
«Questa sera? Da chi… Cosa? Colpiti? Da Zod?».
«No», scosse la testa, «Rhea Gand. Ha parlato di terroristi, Rhea Gand avrà qualcosa in mente».
Alex strinse il foglietto, leggendo sopra i nomi, un orario: «Diciannove e trenta?», sussurrò tremando, «Ma è tra pochissimo! Devo richiamare John, dobbiamo prepararci».

19:26, Centrale di Polizia – 4 minuti all'Operazione

Mentre Alex Danvers cercava disperatamente di contattare John Jonzz a Metropolis e di mettere su più squadre pronte per fermare qualsiasi cosa sarebbe successa entro pochi minuti, il Generale Zod telefonò alla moglie per ricordarle che lei e Chris dovevano restare a casa, quella sera. Scese nel parcheggio dell'edificio e cercò l'auto. Rhea sarebbe andata a cercarlo, lo sapeva. Mancavano pochi minuti. Alzò le chiavi della macchina che un rumore dietro di lui lo mise in guardia. Alzò le mani, fermo di schiena, quando una decina di uomini vestiti di nero completi di passamontagna lo circondarono, tutti armati. Gli puntarono addosso i loro fucili e le loro pistole. Erano arrivati. Dovevano essere alcuni omega più altri aspiranti che Rhea Gand aveva raccattato in quegli anni, come quel gruppetto di poliziotti che aveva rapito la figlia di Sawyer.
Erano le diciannove e trenta: era iniziato.
I tacchi rimbombarono nel silenzio del parcheggio e Rhea si fermò vicino a un pilastro, con le braccia intrecciate contro il petto. Sguardo serio, duro, irremovibile. Zod era a poco da lei e si girava lentamente. «Senza scherzi, Dru», esclamò, mettendolo in guardia.
«Perché la cosa non riesce a sorprendermi, Rhea?».
«Perché sono determinata e tu hai qualcosa che io voglio. Ma questo non lo sto facendo io, Dru», scosse piano la testa, «lo stai facendo tu», gli regalò un sorriso e lui alzò le sopracciglia, cercando di capire. «Questo è il ritorno alle origini che ci avevi promesso e che sei stato troppo occupato per organizzare! I miei uomini sono liberi per la città, adesso: ogni gruppo assalterà uno specifico luogo a tuo nome, Dru. Lo faranno per cercare i tuoi collegamenti con l'organizzazione e cancellare tutto prima che qualcuno ti scopra».
«Parli di qualcosa che non esiste».
«Oh, esistono adesso. Li ho sistemati e impilati io personalmente e i miei uomini li depositeranno per te. Ciò che sto facendo, è tutto per te. Perché ti odio, Dru Zod», sibilò, contraendo le labbra fini.
«Perché ero l'amore di Petra?».
«Non nominarla», urlò. «Non ne hai diritto, Dru! Tu me l'avevi portata via e lei aveva smesso di credere in me! Ma non importa adesso, è passato», riprese fiato per calmarsi, gonfiando il petto. «È passato. Ciò che è vero, è che tutto qui è per te ma che non sarai in grado di godertelo», scosse la testa. «Hai ucciso Lar perché voleva smascherarti e ora-».
«Tu l'hai ucciso».
«Non interrompermi! Tu odi quando ti interrompono e lo odio anch'io. Ho ucciso mio marito ma sono generosa e lascio a te tutti i meriti! Ti prenderai la colpa della sua morte e di quella delle vittime che l'organizzazione farà questa sera. Devi esserne fiero, te lo dico, perché userò questo espediente per la mia campagna elettorale. E sai perché te lo dico?».
«Perché stai per farmi uccidere», rispose lui, risoluto, senza un minimo cenno di paura.
«Perché sto per farti uccidere», ripeté estasiata. «Bravo. Tanti anni ed è arrivata la fine… Beh, io adesso avrei una cena. O quasi. Addio, Dru». Si voltò e alzò una mano. «Uccidetelo».
Si allontanò in fretta, odiava la vista del sangue. Lo si sentiva dal rumore dei tacchi via via più basso. Quando scomparve, gli uomini che avevano circondato il Generale Zod si misero in posizione. Lui abbassò le mani, non disse una parola, e loro si prepararono a sparare. Ma prima che premessero i grilletti, quattro di loro si girarono verso i loro stessi compagni e fecero fuoco per primi.
Zod degnò appena di uno sguardo i loro corpi esanimi che perdevano sangue a terra. «Hai registrato?».
Uno dei quattro rimasti si tolse il massamontagna e gli sorrise. «Ogni parola, Generale». Charlie Kweskill alzò una mano e gli mostrò un cellulare, tentando poi di togliersi alcuni peletti neri del passamontagna dai denti.


***


19:33, CatCo Worldwide Media – 3 minuti dall'inizio dell'Operazione

Siobhan odiava gli straordinari. Era lì dalla mattina, aveva pranzato con qualcosa di veloce ed era tornata davanti alla sua scrivania per finire un pezzo di cui non trovava le parole. Fortunatamente alle venti avrebbe staccato, non ce la faceva più. Andò in bagno, fregandosi gli occhi stanchi. Accidenti a Kara Danvers. Seppure fosse una spina nel fianco, doveva ammettere che quella ragazzina le tornava utile come correttrice di bozze. Mh. Si fermò, quando sentì un brivido salirle lungo la schiena. Oh, il presentimento che la accompagnava da quella mattina era più forte, adesso. Stava per succedere qualcosa di brutto, se lo sentiva nelle ossa. Si accostò alla porta e la aprì piano, cercando di non far rumore, solo uno spiraglio. Vide delle ombre avvicinarsi e tremò. Quando scorse dei fucili, allora richiuse svelta e strinse i denti, tremandole le gambe. Erano lì per lei, erano lì per lei e l'avrebbero ammazzata. Cominciò a sentire delle urla e si girò, facendo lunghi passi a gambe aperte, chiudendosi dentro uno dei piccoli scomparti, con la porta che cigolava. La strinse per non far rumore e poi, battendo i denti, scivolò accanto al gabinetto a terra. «Sono qui per ammazzarmi, sono qui per ammazzarmi», borbottò in preda al panico, cercando di digitare il nove uno uno con le dita che tremavano. Ma non rispondeva. L'emergenza non rispondeva e cadeva la linea. Cosa stava succedendo? Era la fine del mondo? Deglutì e allora chiamò l'unica persona che sperava l'avrebbe salvata. «… Kara», piegò le labbra in un lamento e si fermò il tempo di tirare su con il naso. «Oggi mi uccideranno, Kara».
































***

Che l'operazione abbia inizio!
Che dite, ce la farà Siobhan a salvarsi o la sua brutta sensazione avrà la meglio?

Mi è piaciuto un sacco scrivere la prima parte con il suo punto di vista, descrivere anche se a tratti dove vive e come non sia poi così perfetta come vuole mostrare. O almeno, a me piace pensarla così. E sì, sono sincerissima, amo il suo personaggio XD
E poi aveva ragione, insomma, qualcosa stava per succedere!
Partendo da Zod, abbiamo avuto uno scorcio della sua vita familiare e come, nonostante sia sposato ed è pure nonno, pensi sempre a Petra, l'amore perso molti anni prima. Come lui stesso dice a Maggie, l'organizzazione ha subito una spaccatura in passato e mai come in questo momento è visibile, con Zod da una parte e Rhea dall'altra. Il Generale si è aperto con lei e, con un discorso, la invita a essere dei loro. Cosa ne pensate? Vi fidereste? E poi Rhea ha cercato di farlo uccidere ma lui è previdente e non le è andata bene. Ops.
E ora Kara. Abbiamo visto come si è procurata le pillole in un flashback e come Maxwell Lord fosse entusiasta; come le pillole non la rendano molto stabile e anche come sia restia a riconoscerlo. Se da una parte, la pillola rossa la rende più concentrata e veloce, dall'altra, oltre al brutto carattere, la fa schizzare in un vortice di sentimenti confusi appena l'effetto va perdendosi, com'è successo quando ha visto Lena di sfuggita in dormitorio. Barry le è vicino, e anche Megan, e poi Lena, beh… Lena ha provato a parlarci, nei bagni, trovandola strana. E sicuramente lo ha pensato a maggior ragione quando le ha chiesto se pensava che si fosse avvicinata a lei per pena. Accidenti a Mike e alle sue teorie! Capito che non attaccava, sperando di avere di più da Kara, ha ben pensato di difendersi con ciò che in quel momento gli è venuto in mente.
Ma ora veniamo alle note!

- Il discorso di Mike è ispirato alle cazz- emh, alle cose che la sua adorata controparte televisiva diceva davvero a Kara. Adorabile.
- Chris Zod: lessi il nome di Chris quando, per l'ennesima volta, spulciai internet alla ricerca di dati e personaggi per la fan fiction. Di sfuggita, è capitato per caso, il figlio di Dru Zod dovrebbe davvero chiamarsi Chris sulla Terra. Se qualcuno ne sa di più, che mi informi!
- In questo capitolo, Zod parla di precedenze, soldi, mutui e via discorrendo e io in questa materia non sono proprio ferrata, dunque spero di non aver scritto castronerie D:
- Kryptonite rossa, banshee… Mi piace inserire riferimenti alla serie.
- L'effetto della pillola rossa, ora come ora, non è così paragonabile a quello della vera kryptonite rossa della tv. A parte che Maxwell Lord ci sta ancora lavorando, non posso rendere Kara malvagia davvero, che questa fan fiction è solo un AU innocente XD Se Kara avesse avuto i poteri, ci avrei probabilmente marciato di più :/ Ma chissà.

Bando alle ciance, la chiudo qui! Spero che il capitolo vi sia piaciuto almeno un po' di come piace a me e col prossimo, finalmente, un grosso punto di svolta! Fatemi sapere cosa ne pensate e ci rileggiamo lunedì 8 aprile con il capitolo 44 che si intitola L'Operazione! Piuttosto eloquente.



   
 
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