Rhea
sgambettò con soddisfazione fino a una berlina bianca ferma
all'ingresso del parcheggio. Il bodyguard la aspettava in piedi ed
entrambi sollevarono la testa nel sentire gli spari. Lui le
aprì la
portiera destra posteriore e si andò a sedere all'altro
lato, mentre
l'autista metteva in moto. Trafficò con un tablet,
stringendo gli
occhi, e dopo glielo passò senza dire una parola.
«Oh,
bene. Abbiamo un posto in prima fila», sorrise, selezionando
delle
icone e cambiando video.
«Ogni
caposquadra ha la microcamera installata sotto il passamontagna, come
aveva ordinato», rispose l'uomo al suo fianco, mentre la
macchina
usciva svelta dal parcheggio e si allontanava dalla centrale.
«Oh! E
le centraline sono state sabotate,
naturalmente.
Ci metteranno un po' a rimetterle in funzione su tutta la
città.
Abbiamo campo libero, signora Rhea».
Rhea
selezionò proprio quella del caposquadra che spianava la
strada al
distretto di National City: urlavano e ordinavano agli agenti di
allontanarsi dalle proprie scrivanie. «Mi piace quello che
vedo, mi
piace», annuì. «Se fanno i bravi, si
farà male meno gente
possibile». Cambiò telecamera e cambiò
ancora, sentendo persone
che urlavano, vedendo i suoi omega che rincorrevano qualcuno e lo
sbattevano al muro, facendo irruzione in testate giornalistiche,
uffici pubblici e oh,
sorrise con gaudio, alla Lord Technologies ci stavano impiegando
più
tempo del dovuto, ma era quasi cosa fatta. «Ma dove
sono…?»,
cambiò ripresa su ripresa, «Dove sono quelli
che-».
Il
sorriso dell'uomo si spense e mortificato le prese il tablet dalle
mani. «Aspetti, aspetti, è uscita».
«Non
sono uscita, non ho cliccato-», cercò di
riprenderglielo.
«No,
aspetti, è uscita, vede».
«Ridammelo».
«Un
attimo, aspetti, e-ecco! Ecco».
Lei
fece una smorfia, strappandoglielo dalle dita e schiaffeggiandolo.
«Potevi dirmi dove cliccare». Riguardò
con attenzione e sorrise
maligna, seguendo la corsa di una squadra su per le scale della
Luthor Corp. «Allora non sei solo petto peloso e muscoli,
uh», si
rivolse di nuovo a lui, che arrossì imbarazzato.
Cambiò. La
microcamera riprendeva un uomo entrare in un campus universitario e,
cambiando ancora, un'altra mostrava la squadra all'interno di
un'automobile, mentre si infilavano i passamontagna. Erano quelli che
più le interessavano. Ah, finalmente tutto quello per cui
aveva
lavorato fin da ragazzina stava diventando suo. Sua sorella ne
sarebbe stata orgogliosa, adesso?
«Non
puoi impedirmi di farne parte, non puoi farlo», ricordava
ancora le
parole di quella sera. L'ultima
sera.
«Sì
che posso e non urlarmi, Rhea! Sei piccola ed è un giro che
non mi
piace. Non infastidirmi».
Aveva
cambiato idea. Glielo aveva promesso e aveva cambiato idea proprio
quando aveva accettato
di sposare
Adrian Zod. Sarebbe andata a vivere con lui, l'avrebbe lasciata
indietro da tutto, quando prima si preoccupava solo di lei, la sua
sorellina. La donna strinse le labbra secche con rabbia, al ricordo
e, aprendo la sua borsetta, prese uno specchietto e il rossetto
rosso, sistemandosi il trucco. Doveva entrare in scena.
Avrebbe
voluto occuparsi delle persone scomode una volta divenuta presidente
dell'organizzazione, ma perché perdere tempo? Aveva a
disposizione
un esercito adesso e quelle sarebbero passate in sordina come vittime
casuali. Quasi dodici anni. Quasi dodici anni da quando il posto le
era stato sottratto alle elezioni da Zod. Quasi dodici anni a tramare
vendetta, a racimolare consensi e a raccattare uomini e donne per il
colpo, per urlare a gran voce che National City era sua. Tutto per
arrivare a oggi. Non pensava lo avrebbe messo in pratica
così di
fretta, ma ora che si era liberata di quell'uomo, doveva togliere di
mezzo Lillian Luthor. Aveva dovuto agire prima che si coalizzassero.
Forse Zod non si sarebbe sporcato le mani, ma lei… Non
poteva di
certo sottovalutare la minaccia: se voleva avere per sé il
potere,
Lillian Luthor doveva sparire. Rhea aveva pensato a tutto.
Proprio
come lei, anche Lillian ed Eliza erano appena entrate in auto,
guidata da Ferdinand. Da quando aveva minacciato Rhea Gand, villa
Luthor-Danvers era rimasta sorvegliata da alcuni uomini che
lavoravano nella sicurezza della Luthor Corp e quattro di loro le
seguivano ora con un'altra berlina a pochi metri. Era una situazione
che a Eliza non piaceva, ma capiva che erano necessari. Avevano
finalmente parlato di ciò che era successo nel passato e
Lillian
l'aveva messa in guardia su Rhea, le aveva spiegato che minaccia
rappresentasse per loro e per Kara, e sua moglie aveva compreso,
dimostrando preoccupazione. Non le piaceva che fosse andata a
minacciare quella donna, anche se sapeva bene perché lo
avesse
fatto. Avevano giurato di non tenere più segreti tra loro.
Il loro
rapporto, da quest'ottica, ne stava di certo giovando, anche se non
era ancora tutto tornato com'era e, forse, non sarebbe accaduto fino
a quando quella situazione sarebbe aleggiata sopra le loro teste come
una nuvola di sventure. Forse Eliza aveva sempre capito che donna era
sua moglie, ma quella situazione non coincidenza affatto con la sua
idea di vivere una vita normale. Senza contare che, per lei, avrebbe
dovuto mentire a Jeremiah e non l'aveva mai fatto. Lui portava il
lavoro a casa, al tempo, e Lillian ciò che Jeremiah
condannava.
Quando dall'ufficio del sindaco erano arrivati i soliti inviti per la
prima cena dopo la morte del senatore, aveva accettato di
accompagnare Lillian perché voleva guardare in faccia la
donna che
aveva ucciso i genitori di Kara e minacciato la sua vita. Sapeva che
non avrebbe potuto dirle nulla, ma voleva vederla in faccia. Doveva
capire che volto avesse tanto odio.
«So
che le cose sono ancora strane, tra noi», mormorò
Lillian
abbassando lo sguardo, notando con la coda dell'occhio che Eliza era
girata verso il finestrino. «Ma ci tenevo a dirti quanto io
mi senta
fiera di te, in questo momento. So che questa situazione ti fa paura,
ma-».
«Non
mi fa paura», la interruppe con la voce sulla sua,
voltandosi. «Non
paura, Lillian: mi terrorizza. Il solo pensiero che possa succedere
qualcosa a Kara, o a te…», prese fiato e scosse la
testa, «Non do
a te la colpa: anche se non ti avessi sposato, sarei sempre la madre
di Kara e il passato sarebbe tornato a cercarla prima o poi,
ma-».
«Posso
proteggerci», affermò con sicurezza e la moglie
sospirò. Le loro
mani si sfiorarono.
«È
proprio questo che mi spaventa», confessò. La vide
mettere su
un'espressione curiosa ma non avere il tempo di dirle nulla che si
scusò di dover rispondere al telefono:
«Sei
sicuro?».
Eliza
la scorse mentre increspava il viso e dopo riattaccare. «Cosa
succede?».
«Ci
seguono».
«Cosa?
Come… Chi ci segue?», cercò di
guardarsi indietro dal finestrino.
«Un
auto, dietro, sta cercando di superare i miei uomini. Sta
accelerando», la guardò negli occhi,
«Beh… Probabilmente Rhea
sta cercando di farmi uccidere».
Eliza
sgranò gli occhi. E lo diceva con tanta naturalezza?
Di
certo, Alex non pensava di dover avvertire sua madre. Zod aveva
scritto sul foglietto alcuni dei punti che sarebbero stati colpiti,
quelli di cui sapevano con esattezza, non certo tutti. Lei e Maggie
non potevano immaginare quante parti di National City sarebbero state
occupate con la forza quella sera. Aveva convinto degli agenti del
D.A.O. a collaborare ma, senza il permesso di John Jonzz, rischiavano
che Rhea Gand si trovasse la strada spianata. La verità era
che
appena scoccarono le diciannove e trenta, non volò una
mosca: non un
singolo servizio al telegiornale, né un messaggio criptico
proveniente da una delle zone colpite, niente di niente. Se una delle
poche squadre del D.A.O. persuase a intervenire non avessero fatto
irruzione in uno studio televisivo, nessuno avrebbe scoperto cosa
stava accadendo, che degli uomini armati e in passamontagna stavano
davvero tenendo in ostaggio delle persone mentre, alcuni di loro,
controllavano e cercavano qualcosa negli appunti dei tg e visionavano
servizi che ancora dovevano andare in onda. Avevano bloccato il
colpo, disarmato quelle persone e messe in arresto, decisi a stare
zitti: se avessero lanciato un allarme, avrebbero potuto mettere in
pericolo la vita di altri ostaggi in altri dei punti colpiti. La
città doveva restare coperta dal silenzio.
«Ho
parlato con Kweskill», Maggie si avvicinò, intanto
che Alex metteva
giù il cellulare seccata, poiché John ancora non
le rispondeva.
Aveva provato a mettersi in contatto con suo padre a Metropolis, ma
il segnale era disturbato e
non voleva cercarlo al numero personale o sarebbe entrato in panico.
«Lui e una squadra sono entrati in centrale e li stanno
accerchiando: presto la libereranno e avremo aiuto».
Alex
aggrottò la fronte. «Molti tuoi colleghi si
trovavano in centrale e
parlo anche dell'FBI… quindi cosa intende con squadra,
con esattezza?».
Maggie
scrollò le spalle. «Lui li ha chiamati omega:
l'organizzazione».
«Ovviamente».
«Ho
spuntato questi», le mostrò il foglietto con due
nomi sbarrati. «Se
ne stanno occupando loro. A noi resta…».
«Oh,
ma guarda, c'è anche la Lord Tech. Non vedevo l'ora di
rivedere Max»,
rispose sarcastica. Si allontanò solo per sgridare una
dipendente
dell'emittente televisiva che scriveva sul cellulare: «Non
può
mandare messaggini, rischia di compromettere l'operazione, lo metta
via. Me lo dia».
Maggie
ansimò, vedendola discutere. Ricordava bene cosa si erano
dette e
come non si fidassero di Zod, ma era anche vero che, senza quei nomi,
lei e Alex sarebbero tornate a casa come in una qualunque altra
giornata. E di certo, non poteva perdere l'occasione di avvicinarsi
così tanto all'organizzazione: chiamò di nuovo
Kweskill e attese,
sperando di non metterlo nei guai. «Sì, qui tutto
okay, ma mi
chiedevo… se potessi essere dei vostri. Per dare una mano e
per
capire… Va bene, vi raggiungo». Chiuse la chiamata
con decisione e
disse a un'agente del D.A.O. di dire a Danvers che se n'era dovuta
andare. Che avrebbe capito.
Chi
non poteva comprendere perché Alex Danvers cercasse ancora
di
contattarlo era John Jonzz: due chiamate perse, poi se non altro
aveva smesso. Lui e Megan passeggiavano con il bastoncino dello
zucchero filato in mano tra gli stand e le giostre a tutto volume. La
ragazza sarebbe stata davvero felice di vedere il nuovo parco
divertimenti di Metropolis dal vivo se non fosse stata in compagnia
di John e del suo strano umore: era snervante il suo scusarsi per
aver dovuto fare il suo lavoro e quindi mentirle, che era come non
scusarsi affatto.
«Perché
non la richiami?», sbuffò, vedendolo pensieroso.
«Perché
mi sono preso un pomeriggio libero e volevo-»,
sospirò, alzando un
braccio, «passarlo in tua compagnia. È il mio
lavoro ad averti
indispettito e non voglio che si metta in mezzo anche oggi».
«Non
è il tuo lavoro ad avermi indispettito», scosse la
testa, alzando
gli occhi al cielo. «Sei grande e grosso, eppure a volte
ragioni
come un ragazzino», lo sgridò.
«Richiama, se devi. Peggio di
così».
«Pensavo
saresti stata felice, so quanto ti piacciono i luna park»,
seguì
con gli occhi due bambini ridere divertiti sopra una una giostra a
forma di polpo. «Se devi dirmi qualcosa, dilla. Se non
è stato il
mio lavoro a indispettirti, allora parlane. Invece di fare tu la
bambina e tenermi il broncio».
«Non
ti tengo il broncio».
John
le si piazzò davanti e la guardò contrariato.
«Peggio
di così»,
le fece il verso e Megan abbozzò un sorriso, solo uno,
voltandosi.
«Era
riferito a questa giornata storta. Tanto per fare un esempio: in
campo, Kara ha giocato come se fosse l'unica, se lo hai notato. E
prima non stava esattamente una meraviglia, ha litigato
con-»,
ingigantì gli occhi e John la spronò a
continuare, «con… con un
ragazzo, al campus, uno con cui…», si
grattò la fronte con un
mignolo, «non lo conosci, un tipo. Però piangeva
ed era a terra,
pensavo non avrebbe voluto giocare e poi invece bem,
si è ripresa in tempo record e non la poteva fermare
nessuno. E io
ci ho provato a mettermi nei suoi panni, forse voleva distrarsi,
però
le altre si sono arrabbiate. Da qualche giorno, si comporta come se
un alieno si fosse impadronito del suo corpo».
John
si zittì per poco, riflettendoci intanto che continuavano a
camminare. Si stava facendo buio e i giochi di luce delle giostre
rendevano il parco più magico. «Avevo notato
anch'io che era
strana, ma non mi permetto di dirle niente: era già
abbastanza
arrabbiata per averle nascosto
la
mia identità-».
«Tutti
gli altri invece l'accettano che è una
meraviglia», tuonò
sarcastica.
«E
mi pento di averle tolto il lacrosse per un periodo. Anche se era il
meglio per la squadra».
«Con
me come capitano, siamo andate che è un bijou»,
fece una smorfia.
«Vuoi davvero parlare di Kara Danvers a un
appuntamento?». John
aggrottò la fronte e restò perplesso,
finché lei non rise. «Ti
prendo in giro, lo so che l'ho nominata io! Parliamo di nuovo di come
tu mi abbia mentito, invece, e sii più originale. Andiamo.
Ma prima
un ottovolante».
Quasi
certamente, Kara non era l'argomento che avrebbero preferito
affrontare quei due a Metropolis, ma indubbiamente era il pensiero di
Lena. A parte l'uscire vivi dalla Luthor Corp, ovviamente. Lei e
James Olsen erano sgusciati via dal suo ufficio e si erano nascosti
sotto la scrivania vuota di Winn, che speravano fosse al sicuro,
quando avevano notato che l'ascensore era in movimento. Qualcuno
stava salendo a quel piano.
Tornando
indietro, a poco da quelle diciannove e trenta, Kara era davvero
l'unico pensiero di Lena. Continuava a pensare e ripensare alle sue
parole, a come doveva averle fatto pena e per questo si era
avvicinata a lei. Si era innamorata di lei. A come voleva rendersi
indispensabile per essere ricambiata. Cosa le prendeva? Da dove era
uscito un pensiero come quello? Era una cosa così stupida,
così…
Però aveva capito una cosa, se non altro: voleva lei. Per
uno strano
motivo, Kara era stata più diretta del solito. Per lei che
non
riusciva più a guardarla negli occhi senza sentirsi in
colpa, o per
Kara stessa che non l'aveva perdonata, si erano di nuovo fatte
tremendamente distanti. Girava il bracciale sul polso come incantata,
prendendo fiato. Il bracciale che le aveva regalato lei a Natale.
Come sentiva lei la sua assenza, doveva essere lo stesso per Kara,
anche se non era chiaramente in sé. In quel momento, era
seduta
davanti alla scrivania nel suo ufficio, con un grosso libro aperto
sotto il naso e altri tomi impilati intorno. Doveva studiare,
invece…
Credeva che l'aria della Luthor Corp avrebbe potuto distrarla e
almeno si era sentita fortunata che sua madre non l'avesse invitata
ad andare con lei ed Eliza alla consueta cena col sindaco. Pensare a
Kara le faceva perdere tempo: doveva studiare, solo studiare, ma
bussarono alla porta.
«Sono
mortificato, signorina Luthor, so che doveva studiare e che…
emh,
che m-mi aveva chiesto di restare fuori e-».
«Winslow»,
lo aveva richiamato, «Vai al dunque».
«Emh,
sì, lui ha insistito e non sono capace di mentire, quindi
gli ho
detto che c'era e spero, sì, che non le
dispiaccia». A una sua
conseguente occhiataccia, Winn si era grattato i capelli e annuito:
«Vuole parlarle un fotografo freelance, dice di conoscerla:
James
Olsen».
Lena
aveva infilato un segnalibro fra le pagine e chiuso il libro,
mettendolo da una parte intanto che lui entrava. Si era alzata e teso
la mano che il ragazzo si era slanciato per stringere. «Cosa
devo
l'onore?». Gli aveva indicato una sedia e lui aveva sorriso,
decidendo di sedersi dopo un breve girarsi intorno.
«Mi
trovavo a National City per lavoro e sono passato per-»,
aveva
sorriso di nuovo e abbassato lo sguardo, come se si fosse
imbarazzato. Lena aveva intrecciato le dita delle mani sulla
scrivania, alzando un sopracciglio. «Considerando che mi
trovavo in
giro, Lois mi ha chiesto di farvi avere una notizia, sta ultimando
adesso l'articolo che ne parlerà, ma-», aveva
deglutito.
«Ti
stai mangiando le parole. C'è un motivo per cui sei qui
o…?».
«Oh,
sì, sì, certo», aveva ridacchiato.
«Sono solo stanco. Lois mi ha
chiesto di dirvi che è arrivata al dunque con il caso del
carcerato
che aveva ascoltato a Fort Rozz: si è concluso tutto in
fretta e non
ha avuto il tempo di difendersi, ma pare che sia colpevole, a conti
fatti. O lei è arrivata a questa conclusione».
Aveva fatto una
smorfia e alzato le spalle, ma Lena aveva mancato il momento di
rispondergli che un allarme aveva iniziato a suonare nell'intero
edificio ed entrambi si erano alzati di scatto. «Cosa sta
succedendo?».
Lena
si era chinata verso il laptop, riattivandolo. «Qualcuno deve
essersi introdotto».
«I-Introdotto
come…?».
Non
aveva risposto, ma aveva temuto il peggio e sperato che le guardie
stessero agendo in fretta. Il laptop non era abbastanza veloce, ma
voleva accedere alle telecamere, accidenti. La vibrazione del
cellulare l'aveva fatta spaventare e lo stesso James.
Da
Anonimo a Me
Devi
uscire. Adesso.
Indigo.
E chi altri poteva essere, altrimenti? Lena non si era neppure
stupita del fatto che conoscesse il suo numero e aveva cercato di
calmare James che, di fronte a lei, sperava di non dare a vedere come
gli tremassero le gambe.
«Stanno
arrivando», mormorò il ragazzo con voce grossa,
scorgendo le luci
dell'ascensore dietro la scrivania, tornando al presente.
«Posso
fare qualcosa…? Non c'è un'altra via di uscita,
da questo piano?».
«Certo
che c'è», sibilò Lena. «Il
piano è diviso in due, qui c'è solo
un corridoio e il mio ufficio, ma ci sono dei laboratori al di
là
del muro», prese fiato, cercando di accedere alle telecamere
attraverso il cellulare. Non era il mezzo che preferiva, per questo
genere di cose. «C'è una porta segreta».
«Una
porta segreta?», si voltò, sgranando gli occhi.
«Dove?».
Lena
lo zittì quando udì l'ascensore fermarsi ed
entrambi si nascosero
meglio, sperando di non essere visti. Le porte si aprirono e i due
trattennero il respiro, appiattendosi. I lenti passi di quegli
stivali rimbombavano nel corridoio vuoto come i loro cuori
spaventati. James cercò di guardare senza esporsi troppo, ma
non
riuscì a capire in quanti fossero. Erano in trappola. Li
sentirono
spalancare la porta socchiusa dell'ufficio ed entrare e sapevano che
loro, per arrivare alla porta segreta, avrebbero dovuto passare
proprio lì davanti.
Da
Anonimo a Me
Fammi
entrare. Lena
aggrottò la fronte.
Dammi i dati d'accesso della Luthor Corp, vedrò per te.
«Dov'è
la porta segreta?», chiese James, in ansia. Sentivano rumori
e voci
all'interno dell'ufficio, come se lo stessero mettendo sottosopra e,
sapevano che se volevano passare, era quello il momento per farlo.
Lena
rilesse il messaggio e guardò il ragazzo: dovevano tentare.
Scivolarono dietro la scrivania e, pian piano, si rimisero in piedi e
camminarono appiccicati al muro fino alla porta aperta, sentendoli
chiacchierare.
«Sul
bordo», mormorò uno, «Il portatile
è sul bordo della scrivania.
Doveva essere qui un attimo fa».
James
la fermò quando tentò di passare avanti per
prima. Cercò di
mimarle quanto fosse rischioso, ma che passasse per ultima, a quel
punto, aveva davvero importanza? Lui le strinse un polso e decisero
di passare insieme. Un passo avanti e Lena spalancò gli
occhi quando
scorse di fretta che il divanetto era stato rovesciato, che era tutto
a terra. Non li videro. Lena corse fino a una presa di corrente e
James restò di guardia vicino alla porta, guardando avanti e
lei
dietro: davvero c'era un passaggio nascosto, su quel muro?
«Hai
sentito anche tu?».
James
le si avvicinò di corsa, sussurrando che non avevano
più tempo.
Intanto, lei mise la mano destra nella presa di corrente e
tirò
verso di sé come un cassetto, trovando un tastierino
numerico
olografico.
«Ho
sentito dei passi», continuò dall'ufficio e lo
udirono avvicinarsi.
«Signorina Luthor, è lei? Siamo qui per lei,
sa?», cantilenò e
udirono un'altra voce ridacchiare.
James
le ordinò di sbrigarsi e Lena digitò con
sicurezza, per poi
imprimere l'impronta del pollice destro sul tastierino. Udirono un
forte rumore di qualcosa che si spostava aprendo il muro e
così i
due uomini correre verso il corridoio. James la spinse all'interno e
si infilò appena in tempo, sfiorando due proiettili. La
porta si
richiuse poco dopo, quando Lena digitò dal tastierino
dall'altra
parte. Li avevano quasi presi. Quasi.
James
prese un bel respiro e Lena si toccò il petto. Per poco le
gambe non
le cedevano dall'ansia.
Da
Anonimo a Me
Lena.
Fammi entrare, ti scongiuro. Dimmi che stai bene.
Lesse
il nuovo messaggio e strinse gli occhi, appoggiandosi al muro. Indigo
poteva entrare nel sistema di sicurezza della Luthor Corp senza i
suoi dati d'accesso, perché continuava a chiederli?
«Ti
senti bene?», James le si avvicinò veloce e le
strinse un braccio.
Lena
guardò lui e adocchiò la mano, scansandosi. Forse
pensava di dover
fare l'uomo forte e proteggerla, ma di sicuro non lo trovava
necessario. Lo notò seguirla e così guardarsi
intorno: quel
corridoio era più stretto e buio, interno al palazzo diviso
tra
laboratori e il suo ufficio; di certo, ora quegli uomini armati
dovevano chiedersi come raggiungerli.
«Non
ci credo», lui
si
passò una mano in fronte e sulla nuca, sforzandosi per non
tremare.
«Sai chi sono?». Si rispose da solo in un lampo:
«Ma certo:
l'organizzazione. Pensavo ce l'avessero con Kara, ma devono aver
aumentato gli obiettivi».
Lena
prese passo deciso verso una porta a vetri e James le stette dietro,
mentre le piccole luci del corridoio si accendevano ai lati con il
loro passaggio. Accesero la luce all'interno e si affrettarono verso
un computer, avviandolo. Lui si girò indietro e
notò qualche
bancone coperto da teli, dei microscopi, celle in plexiglass, dei
figo e scaffali coperti anche quelli, chiedendosi cosa facessero
lì.
Le arrivò un altro messaggio e prese il cellulare in fretta
pensando
a Kara, ma era ancora Indigo che la pregava. Davvero non riusciva a
capirla. Lena avrebbe voluto cercare Kara, accidenti, ma non voleva
farla preoccupare. Se ancora si sarebbe preoccupata per lei, ora come
ora. Quando riuscì ad entrare nel sistema, notò
subito che alcune
telecamere erano state oscurate, che diversi uomini armati e in
passamontagna erano sparpagliati per la Luthor Corp, che almeno sei
di loro avevano radunato tutti all'interno del magazzino. Le guardie
non c'erano.
«Ehi,
ma lui», James indicò una finestrella e Lena la
ingrandì. «È il
ragazzo che mi ha fatto entrare».
«Il
mio assistente», si gelò, vedendo Winn sbattuto
contro una
scrivania mentre veniva minacciato con una pistola alla tempia.
«Sono
nell'ufficio di mio padre», borbottò.
«Certo»,
sentenziò d'un tratto e lei lo fissò attraverso
il vetro dello
schermo. «Come vecchio membro, staranno cercando qualcosa e
forzano
il tuo assistente ad aiutarli».
Odiava
ammettere che, questa volta, James Olsen poteva avere ragione.
«Forse», annuì, riprendendo in mano il
cellulare. Voleva cercare
Kara? Doveva almeno sapere se era al sicuro. Deglutì e fece
uno
squillo alla polizia, ma non rispondeva nessuno e la cosa mise in
agitazione il ragazzo. «Mio padre non ha lasciato nulla negli
archivi della Luthor Corp che portano all'organizzazione o li avrei
già trovati», mormorò e lui si
accigliò, «Non ha senso…
Perché
adesso?», scosse la testa. «Sono quasi due anni che
mio padre non
c'è più, è strano che si facciano vivi
solo ora. Devono avere un
altro piano, c'è qualcos'altro che vogliono».
«E
cosa potrebbe essere? È chiaro come sia tutto collegato a
voi
Luthor», si pentì di averlo detto nello stesso
istante in cui lo
disse, vedendola fare un'espressione strana. «No, aspetta,
non
volevo dire che-».
Lena
si alzò e gli passò davanti, ignorandolo. Prese
il cellulare e
lesse il nuovo disperato tentativo di Indigo per avere ciò
che
desiderava in cambio del suo aiuto, come se fosse realmente
preoccupata per lei. Se non aveva accesso alle telecamere della
Luthor Corp, come sapeva dell'attacco? Non le rispose e
provò a
chiamare Kara. Restò in attesa, in attesa, ma la linea era
occupata.
Come poteva essere occupata anche lei?
«Mi
uccideranno»,
Kara ascoltava i singhiozzi lamentosi di Siobhan. «Io
non voglio morire, Kara… Non voglio morire».
Lei distanziò il cellulare dall'orecchia, facendosi seria.
«Respira?», domandò.
Barry
Allen era chino su un corpo steso a terra, trovato vicino ai
cassonetti dietro il dormitorio. Era l'agente che li seguiva quella
mattina, ma non aveva documenti con sé. Il ragazzo prese
fiato e
scosse la testa. Si alzò e analizzò la scena.
«Deve essere stato
trasportato, non ci sono tracce di sangue e sembra averne perso
molto. Devono essere stati almeno in due, il corpo è
pesante»,
riguardò distrattamente il buco al petto.
«Considerando che non è
scoppiato nessun allarme, potrebbero aver usato un
silenziatore»,
guardò la ragazza e deglutì. «Lui era
qui per proteggerti, Kara».
«Lo
so… è il nuovo tentativo di Rhea Gand»,
aggrottò lo sguardo,
sentendo Siobhan piangere.
Quello
era senza dubbio il modo migliore per concludere quella pessima
giornata: la litigata con Mike, la discussione con Lena e quella con
le compagne di squadra che si erano risentite per aver vinto senza
fare grandi sforzi non bastavano, ci mancava il tentato omicidio con
omicidi di agenti che le facevano da scorta annessi. Eppure doveva
saperlo che ci avrebbe riprovato, ma mandare gli uomini
dell'organizzazione anche alla CatCo per Siobhan Smythe? Lo aveva
fatto perché lei sapeva della pistola? E Zod ne era al
corrente?
Prima
di quelle diciannove e trenta, si sentiva ancora in forma e, appena
uscita dagli spogliatoi, aveva inviato un messaggio a Selina Kyle per
dirle che accettava di entrare alla Lord Technologies con lei e
mettere naso negli affari di Maxwell Lord. Quelle pillole rosse
venivano perfezionate anche grazie ai suoi dati, quindi
perché non
scoprire in cosa consisteva esattamente il progetto?
«Ti
va una passeggiata?».
Oh,
Barry Allen aveva provato a farla aprire e dopo ci aveva riprovato
con la scusa di una passeggiata. «Sì»,
aveva scrollato le spalle,
«Perché no?». Non importava che non
avesse fatto altro che correre
fino a quel momento, in fondo camminando poteva prendere tempo.
Chissà cosa faceva Lena. No, si era fermata e scosso la
testa. Non
doveva pensare alla loro discussione, non doveva. La pillola doveva
tenerla lontana dalla sua testa! Si era accorta tardi che Barry la
stava fissando. «Cosa c'è?», aveva
sbottato.
Lui
ci aveva messo un po' a risponderle, pensieroso. «Tu,
emh… Credevo
non avresti accettato, hai finito adesso una partita, dovresti essere
stremata e invece non c'è neanche l'ombra di tutto questo,
in te».
«Non
capisco, c'è qualcosa di male a essere carichi?».
Lui
era rimasto a bocca aperta e poi si era grattato dietro la nuca.
«No,
ma-».
«Nessun
ma.
Vuoi passeggiare o no?».
«No»,
aveva scosso la testa. «Sono stanco e mi è passata
la voglia».
Erano
le diciannove e trenta quando si erano accorti, tornando verso il
campus, di essere seguiti di nuovo. A Kara sembrava di riconoscere
qualcuno, ma non aveva potuto dire con certezza se quelle facce erano
già presenti al campus prima o se erano lì per
lei. Fecero il giro
del dormitorio per seminarli sotto insistenza della ragazza, di certo
Barry non voleva alimentare il suo nervosismo, ma lì avevano
trovato
il corpo e Siobhan aveva chiamato.
«Kara,
se vogliono farti fuori…», borbottò,
nel presente.
Lei
sbiancò. «Mike».
Corsero
di fretta, sorpassando ragazze e ragazzi che brindavano al piano
terra. Come la videro, gridarono Supergirl
in preda alla contentezza e un ragazzo cercò di fermarla
solo per
dirle con un alito che sapeva di birra di aver registrato la sua
esibizione col telefono e che presto sarebbe stata virale. Dovette
scansarlo da sé con la forza e corsero alle scale.
«Aspetta…
è una festa, quella che sento? È-È
musica? Tu ti diverti mentre io
sto per morire?».
Kara
sbuffò. «No, carina, è la gente che
festeggia la mia vittoria,
naturalmente! Ho vinto una partita, questo pomeriggio, sai, non
esisti solo tu».
Barry
le fece cenno di tacere, mentre si avvicinavano al piano giusto: gli
assassini potevano essere ovunque.
«Tu
vinci le partite mentre io sto per morire? … aspetta: carina,
prego? Come ti perme-».
«Adesso
chiudi quella bocca se vuoi che sopravviva per venirti a salvare. E
devi uscire da quel bagno».
«Oh,
Kara… sono stata così cattiva con te»,
ricominciò a singhiozzare e piangere, tanto che Barry la
guardò
storto. «Così cattiva e tu non lo
meritavi… E-E non mi abbandoni,
oh, Kara! Giuro che non ti tratterò mai più
così male, Kara.
Kara?».
Siobhan tolse il cellulare dall'orecchio e lo passò sulla
gonna per
pulirlo, vedendo che la chiamata era stata interrotta.
«Quella
stronza ha riattaccato».
Kara
e Barry si armarono di una pentola lui e un'insalatiera lei, ancora
sporchi e lasciati allo sbando dal pranzo in corridoio, e si
avvicinarono furtivamente alla sua camera. La porta era aperta,
accidenti.
Mike
era sdraiato sul letto di Kara. Muoveva un piede a ritmo della musica
che aveva nelle orecchie, gli occhi chiusi, incurante del pericolo
che correva: proprio a pochi passi da lui, un uomo armato di pistola
e con passamontagna si avvicinava lentamente.
«Cosa?», disse
sorpreso, «Signorino Gand?».
Mike
sgranò gli occhi e si tolse una cuffietta mentre, dietro
l'intruso,
Kara e Barry colpirono senza pietà.
«Ha
riattaccato, ha riattaccato» ripeté Siobhan,
portandosi le mani sui
capelli e iniziando a ciondolare con paura. «Non posso stare
troppo
a lungo in questo bagno, ha ragione, puzzerò di candeggina e
pipì
marcia, ma ha riattaccato e non so che fare… Che fare!
Quella
stronza, bugiarda, traditri- Oh,
Kara»,
rispose al telefono, incurvando la bocca in un lamento.
«Temevo mi
avessi abbandonato».
«Ne
abbiamo catturato uno»,
disse lei con soddisfazione, «Ma
pensiamo possa essercene almeno un altro qui al campus e dobbiamo
trovarlo. Dopo potrò venire da te, Siobhan, ma non puoi
restare
chiusa in quel bagno, ti troveranno».
«Oh,
Kara», si odorò i capelli e incurvò di
nuovo la bocca, continuando
a lamentarsi. «Puzzo di pipì…
Troveranno il mio cadavere che
puzzerà di pipì».
«Non
troveranno nessun cadavere».
«Ma
puzzerò di pipì quando ci saranno i
soccorsi».
«Ringrazia
se non puzzerai di cadavere»,
la rimproverò. «Devi
uscire di lì».
«Ma
mi uccideranno, non so che fare, Kara, non so che fare».
«No.
Ti sarò vicino, okay? Ma ascoltami, devi uscire da quel
bagno
adesso».
Siobhan
tese le orecchie, zittendo il cellulare con una mano. Sentì
delle
voci, non potevano essere solo sue impressioni perché le
stava anche
formicolando la schiena e, o era di nuovo la brutta sensazione che la
metteva in allarme, o se l'era fatta addosso. Erano proprio voci.
Erano voci. «Kara, stanno arrivando! Mi
uccideranno». Stufa di
sentirsi ripetere di uscire da quel bagno, prese lo spray al
peperoncino dalla borsetta e lo tese in avanti, provando a uscire,
con calma. Scappò alzando i tacchi e allargando le gambe nel
tentativo di fare più piano, nascondendosi dietro un muro.
Li
ascoltò avvicinarsi: quei pazzi ridevano e urlavano, come se
si
stessero divertendo. Lei moriva di paura e puzzava di pipì,
mentre
loro ostentavano felicità. Strinse i denti e
abbassò il volume del
cellulare al minimo, provando ad allontanarsi: se riusciva a entrare
nell'ascensore…
«Zod»,
udì la voce di una donna, «Dobbiamo nominare Zod.
Chiamarlo
Generale».
«Perché?»,
chiese l'altra, anche quella di una donna. «Non ho capito
questa
cosa».
«La
signora Gand è stata chiara, tu fallo e basta! Ci
inizierà appena
sarà presidente, pensa a questo».
Siobhan
si ghiacciò e cercò di spiegare a Kara, a bassa
voce, cosa stavano
dicendo. Le sentì entrare nei bagni, accidenti. Nei bagni.
Se non
fosse uscita, l'avrebbero trovata. Corse verso l'ascensore, contando
che restassero ancora lì il più a lungo
possibile. «Prendo
l'ascensore e me ne vado», disse, battendo i denti.
«Fortunata
quella stronza di Willis», borbottò, schiacciando
convulsamente i
pulsanti per chiamarlo, continuando a voltarsi indietro.
«Starà
bevendo alcol in un sudicio bar e io qui rischio la vita. Se ci fosse
stata, sarebbe stata la prima a cui sarebbero andati a cercare,
questo è sicuro».
«Sei
preoccupata di essere l'unico obiettivo?»,
domandò Kara.
«Certo»,
sbottò. «Sarei scappata mentre le sparavano, non
sono mica matta».
Le porte dell'ascensore si spalancarono e Siobhan sgranò gli
occhi,
il collega di fronte sgranò gli occhi, ma erano soli. Lui le
prese
un polso e la tirò dentro. «Chiudi,
chiudi», cercò di urlargli a
denti stretti.
Agitato,
lui si gettò sui pulsanti a lato insieme a lei, premendo un
pulsante
e le porte si richiusero. «Che fine avevi fatto?»,
domandò l'uomo,
a bocca aperta. «Oh mio Dio, la CatCo è presa
d'assalto e tu eri
sparita, pensavamo ti avessero ucciso! Parlavano di un tale, un
Generale,
devono essere dei terroristi».
Siobhan
si portò il telefono all'interno del taschino della giacca
quando
non sentì più la voce di Kara risponderle, ma non
chiuse la
chiamata, intanto che metteva via lo spray. «Io sono esausta!
Per
poco non mi ammazzavano davvero», spalancò la
bocca, trattenendosi
dall'urlare.
Si
appoggiò e tirò un sospiro di sollievo, quando
lui si avvicinò per
odorarla e fare una faccia disgustata. «Ehi, Smythe, puzzi
di-».
«Non
ti azzardare!»,
gli puntò contro un dito. Solo allora vide che l'ascensore
non stava
scendendo, ma salendo. «Dove…? Razza di
rincretinito seriale,
dovevamo uscire, ci stai portando in pasto ai terroristi».
«No,
io… No»,
si portò le mani sui capelli corti, spalancando gli occhi.
«No, no…
No! I-Io non l'ho fatto apposta, tu mi dicevi di chiudere e io ho
schiacciato- Questa situazione mi fa uscire di testa».
Gli
fece cenno di tacere quando capì che l'ascensore si stava
fermando.
Dovevano farlo ripartire per portarli al piano terra. Solo farlo
ripartire. Le porte si aprirono, videro uno dei terroristi col fucile
venire verso la loro parte e si voltarono, quando scoprirono con
orrore che l'ascensore si stava richiudendo perché era stato
richiamato: uscirono di corsa e aprirono e chiusero la prima porta
che trovarono, quella di una piccola saletta per le interviste.
Un
piano più in alto, invece, gli uomini e le donne col
passamontagna
nero avevano circondato l'ufficio di Cat Grant: alcuni trafficavano
nelle scrivanie e nell'ufficio della donna erano in due. Lei si
teneva in disparte, vicino a un divanetto color panna. Guardava
quella che le puntava addosso un fucile, l'altro che le svuotava la
scrivania e controllava il portatile e, fuori, verso gli altri che
terrorizzavano e accerchiavano i suoi impiegati intanto che buttavano
tutto all'aria. Di tanto in tanto, qualcuno urlava con paura e loro
gridavano più forte. Nessuno fino a quel momento era stato
ferito.
Cat Grant avrebbe fatto qualsiasi cosa per farli andar via il prima
possibile. «Se posso dare una mano»,
esclamò a un certo punto,
attirando l'attenzione di entrambi. «State cercando qualcosa,
il
minimo che possa fare è darvi indicazioni su dove trovarla.
Credo di
conoscere abbastanza bene il mio ufficio». Li vide guardarsi.
«Vuoi
fare la spiritosa?», la donna si accostò.
«Cerchi di farci
arrabbiare?».
«Oh
no, al contrario. Speravo proprio di aiutarvi», si
portò le braccia
a conserte e lei avvicinò il viso coperto al suo, come
un'intimidazione: la signora Grant tenne alta la testa, pur avendo
paura, certo, ma non lo avrebbe ammesso. Non si era mai lasciata
spaventare da nessuno e non intendeva iniziare oggi.
«Cerchiamo
materiale su tu sai cosa, Grant», disse l'uomo, mentre
l'altra la
teneva d'occhio.
Cat
Grant non rispose: non c'era nulla sull'organizzazione nel suo
ufficio né in tutta la CatCo ma, se avesse detto quella
parola, le
avrebbero sparato? Da anni avevano cercato di convincerla a entrare e
si era tenuta ben distante, senza inimicarseli, ma ora cosa avevano
in mente? Senza contare che tutti, da quando erano entrati, non
facevano che nominare il Generale Zod. Perché fare dei nomi?
Certi
errori non erano da loro. A meno che, e la signora Grant
deglutì,
non fossero errori.
«Dillo,
Grant: l'organizzazione. Credi di essere intoccabile? Di poter fare
quello che vuoi alle nostre spalle?», rise lui, «Ci
stiamo
riprendendo il potere e dobbiamo portare via ogni cosa che ci
riguardi».
«Non-»,
si fece coraggio, stringendo le labbra, «Non esiste niente
del
genere, qui».
«No?»,
lui rise, portando in alto una cartella con documenti all'interno.
«E
questa? Volevi incastrare il nostro Generale, forse?».
Cosa?
Cat
Grant non aveva mai visto quella cartella prima di quel momento.
In
un sudicio bar a bere alcol non sarebbe stata una giornata sprecata,
ma per una volta, Leslie Willis poteva dire di stare divertendosi di
più, che Siobhan Smythe ci credesse o meno. Prima di quelle
fatidiche diciannove e trenta, infatti, era sdraiata sul letto del
suo appartamento a gemere insieme alla sua nuova frequentazione. Lui
era peloso e con le maniglie dell'amore: Leslie amava il suo fisico
che trasudava mascolinità. Uscivano da poco, ma era la
miglior cosa
che le era capitata nella vita dopo il ketchup sulla pizza. E di
certo aveva di che distrarsi per la sospensione alla CatCo. Quella
sera, però, era il suo uomo a essere distratto, cosa che non
capitava spesso quando era con lei: controllava sempre che ora fosse,
almeno prima che gli iniziasse a fare i grattini sulla schiena.
«Ti
piace così? O dovrei andare più in
basso…?», Leslie aveva riso
mentre, mordendo il labbro inferiore, spingeva i suoi grattini sempre
più giù, scoprendogli le natiche dal lenzuolo
fucsia.
Lui
aveva sorriso e, con gli occhi chiusi, si stava proprio rilassando. O
almeno fino a quando non ebbe udito un rumore sospetto in casa e
aveva sbarrato gli occhi. «Che ore sono, cicci?».
«Non
ti serve sapere l'ora, ragazzone. A meno che tu non intenda
l'ora…
di un bis?», si era sdraiata sulla sua schiena ma lui si era
scansato di colpo ed era scivolata sul materasso. Lo aveva visto
prendere la sveglia e così scendere di corsa dal letto,
cercando i
boxer. «Devi prendere la medicina? E che diavolo».
«Vestiti»,
aveva bisbigliato e, coperto le parti intime, ricercato i suoi
pantaloni per recuperare la pistola.
«Oh,
mai mettersi con un poliziotto: lo diceva sempre mia madre che siete
tutti paranoici e- aah».
Aveva
schivato un proiettile quando l'uomo aveva tirato dalla sua parte il
lenzuolo e l'aveva fatta cadere dall'altro lato. Poi si era messo a
sparare verso la porta e qualcuno si era nascosto. Più di
qualcuno
continuava a sparare all'interno della camera padronale e il
poliziotto aveva camminato a gattoni fino a lei.
«Stai
bene, mia topina?».
«Tua
topina un cazzo»,
aveva urlato, cercando di ripararsi la testa. «Mi stanno
distruggendo l'arredamento! Che cosa sta succedendo? Parla o giuro
che ti strappo un'orecchia a morsi».
«Devo
proteggerti, cuore», aveva detto smielato, voltandosi per
sparare
ancora. Forse aveva colpito qualcuno perché avevano sentito
qualcosa
cadere e un lamento. «Devo chiamare i rinforzi.
Nasconditi».
«Non
andrò sotto al letto», aveva sentenziato ma,
quando lui si era
mosso per recuperare la radio, un proiettile aveva sfiorato il
comodino e si era infilata sotto al letto più veloce di una
pantegana.
La
sparatoria era durata altri pochi minuti, il tempo a quattro uomini e
donne armati di entrare nell'appartamento e sparare agli intrusi.
Quando i compagni lo avevano visto in boxer a righe e cuori, lui si
era coperto, tornando defilato in camera. Aveva tratto in salvo
Leslie dal letto, dato il tempo di mettersi addosso qualcosa e
così
caricata all'interno di un furgoncino. Solo allora, quel poliziotto
conosciuto il giorno del suo interrogatorio per la morte di Gand, le
aveva rivelato cosa stesse succedendo a National City e che erano
entrati in casa sua per ammazzarla per conto di Rhea: loro sapevano
che Leslie Willis poteva essere un bersaglio, anche se non sapevano
dove l'avrebbero trasportata per far passare il suo assassinio per
accidentale. Di certo non dovevano aspettarsi una sparatoria nel suo
appartamento.
«Ti
sei avvicinato a me per questo? Bambolone dai piedi palmati, non ci
voglio credere che sono andata a letto con te»,
spalancò gli occhi.
«Due volte. Oggi». La donna e l'uomo con loro
fecero finta di
niente, spalancando gli occhi e grattandosi gli stinchi.
«No,
no», scosse la testa, avvicinandosi. «I-Io non l'ho
saputo prima di
pochi giorni fa, quando il Generale-», si fermò e
Leslie trattenne
il fiato, appoggiandosi per non essere sballottata dal movimento.
«Sei
uno di loro…», soffiò.
«Topina
mia, l'organizzazione non è ciò che pensi
tu», scrollò le spalle.
«Non è Rhea Gand».
Rhea
Gand. Maxwell Lord sapeva che quelle persone armate erano lì
per
conto suo. Li avevano radunati quasi tutti in sala mensa, mentre lui
e pochi altri erano stati fatti scortare davanti a dei monitor,
minacciati con pistole e fucili. Cosa volessero, restava un mistero.
Chi era ben sicura di sapere cosa voleva era Selina Kyle: si era
appena rimessa in postazione per studiare il perimetro del complesso
quando un gruppo di gente armata si era divisa ed entrata con la
forza sparando alle guardie, manomettendo i sistemi di sicurezza. Una
situazione che dalle diciannove e trenta stava paralizzando la
città,
per lei era una manna dal cielo. Le dispiaceva di non poter aspettare
Kara ma aveva approfittato della confusione per tenersi sul retro di
un furgone ed entrare, scappando in fretta per non essere vista,
nascondendosi dietro dei pacchi quando aveva sentito le urla ordinare
di alzare le mani: due uomini armati e in passamontagna avevano
chiuso le saracinesche del magazzino e spinto i dipendenti a seguirli
all'interno. Allontanati, Selina si era mossa veloce verso la porta e
spiato prima di uscire. Aveva sentito le grida spaventate, qualche
sparo finito chissà dove e aveva chiuso gli occhi,
appiattendosi al
muro per paura. «Cosa cavolo sta
succedendo…», aveva borbottato.
Si era nascosta dietro una porta quando aveva scorso delle ombre che
si avvicinavano e tentato di chiamare Kara, trovando occupato. Di
certo non poteva chiamare la polizia. Così aveva acceso la
torcia
tascabile che si portava dietro e si era guardata attorno, trovando
solo stracci, secchi e scope. «Uff… Allora, sono
Maxwell Lord,
dove terrei le cose losche?». Era certa che, riuscendo a
scendere di
sotto, nei laboratori, qualcosa l'avrebbe trovata.
La
situazione era meno rosea là sopra: la gente armata aveva
ordinato
ad alcuni dipendenti davanti ai pc di cercare file in memoria su date
che loro stessi fornivano. Maxwell era tenuto d'occhio, da un lato:
manteneva un'espressione enigmatica, come se fosse infastidito quanto
curioso. «Sapete? Non siete tenuti a farlo, potete parlarne
con me»,
si era indicato, «Invece di puntare le armi contro il mio
personale». Le donne e gli uomini ai pc si erano girati verso
di
lui, quasi sperando in un aiuto.
«Chiudi
quella fogna», gli ordinò una voce maschile,
accanto. «Ti sento
spesso in tv, sei solo tante chiacchiere, Lord. Ma ho sempre saputo
che hai la puzza al naso».
Lui
sorrise, annuendo un poco. Tirò fuori un cellulare da una
tasca dei
jeans, quando nessuno guardava. Scrisse velocemente qualcosa, prima
di essere sorpreso: l'uomo gli puntò la pistola e se lo fece
consegnare, per poi lanciarlo a terra. «Oh, è
nuovo. Tanto non
prendeva».
«Chiudi-quella-fogna».
«Posso
almeno sperare di sapere cosa fate qui?».
L'altro
si portò le mani in testa e dopo gli puntò di
nuovo contro la
pistola, seccato. «Ti potrei uccidere, lo sai, questo?
Perché non
stai zitto?».
Lord
sospirò, increspando le labbra. «No, non credo. Se
avessi voluto
spararmi, lo avresti già fatto, lo so, posso essere
irritante»,
alzò le spalle. «O non avete il permesso di farlo,
o vi manca il
coraggio e questo mi fa pensare che siate, in fondo, dei
dilettanti».
«Cosa?»,
strabuzzò gli occhi e gli puntò l'arma al petto,
ma la mano gli
tremava. Dopo si voltò e ordinò alle persone ai
pc di muoversi,
perché erano ancora fermi. Gli altri terroristi seguirono
l'esempio,
gridando.
«Non
dilettanti allo sbaraglio, avete una certa manualità, ma
sicuramente
questa è la vostra prima missione del genere. Mi
sbaglio?»,
assottigliò gli occhi e si accostò all'uomo,
sorridendo. «Lo so
chi siete e chi vi ha mandato», scosse la testa,
«Ma non c'è
niente per voi, qui», sussurrò infine.
L'uomo
col passamontagna non seppe cosa dire, ma presto non ce ne sarebbe
stato bisogno: si udirono spari, urla e tutti si voltarono verso due
dei loro uomini che presero a sparare contro gli stessi compagni.
Iniziò una sparatoria e Lord ordinò al personale
di mettersi al
riparo che, in quel momento, intravide Alex Danvers: oh, aveva forse
appena iniziato a sognare? Alex Danvers era venuta a salvarlo? Si
coprì dietro un muretto e la vide saltare su un tavolo con
estrema
precisione e sparare, abbassarsi e sparare, colpire un terrorista
alla spalla e sparare ancora verso altri uomini giunti sul posto. Gli
agenti con lei le davano man forte, certo, ma la vera star era solo
Alex Danvers. Aspettò che si riparasse contro
il
muretto a fianco a lui per salutarla: «Non puoi sapere quanto
sia
felice di vederti», attirò la sua attenzione,
«La mia giornata ha
appena iniziato ad avere un senso».
Lei
incurvò le labbra. «Chiudi la fogna»,
sbottò, alzandosi per
sparare ancora.
«Ah.
Dev'essere l'espressione del giorno».
Rhea
Gand era ancora in macchina, parcheggiata a un lato della strada:
sbottò con ferocia quando vide dal tablet che la centrale di
polizia
era stata liberata, era successo lo stesso a due emittenti
televisive, al municipio e ora il D.A.O. era entrato alla Lord
Technologies. Cosa stava succedendo al suo piano perfetto? Come
faceva il D.A.O. a sapere della sua operazione? «Qualcuno mi
ha
tradito», ringhiò, salendole la pressione. Aveva
chiaramente visto
dalle telecamere nascoste dai passamontagna dei capisquadra come
alcuni dei loro si erano ribellati. «Avevo pensato a tutto, a
tutto!
Come possono essermi sfuggiti questi dissidenti?». Aveva
anche
notato le facce conosciute di alcuni omega dalle riprese, persone che
aveva sperato di mettere dalla sua ma che si erano rivelati troppo
fedeli a Zod.
Il
bodyguard al suo fianco scrollò le spalle. «Il
Generale Zod deve
averla scoperta, signora Rhea».
«Non
dirlo: lui è morto. Abbiamo sentito gli spari».
Gli
spari, chiaro. Il bodyguard annuì ma non proferì
oltre, mentre lei
cambiava inquadrature. Accidenti, la squadra inviata a uccidere
Lillian Luthor si era esposta: li videro sparare verso l'auto in
pieno traffico, la gente per strada scappare, una macchina a fianco
sparare di rimando verso di loro.
«No,
no, no», strinse un labbro coi denti, sbavando il rossetto.
«Dovevano riuscire a creare un incidente, cos'è
questa porcheria?
Sono degli incompetenti». Lui alzò le spalle di
nuovo.
Gli
uomini alla Luthor Corp tenevano ancora in ostaggio il personale e
avevano fatto fuori le guardie, come programmato. Qualcosa da quel
macello poteva ancora salvarsi, dopotutto. «Devono solo
infilare una
chiavetta e inserire quei dati su Zod, perché ci mettono
tanto?
Incolperanno sia lui che i Luthor».
«Che
senso ha, signora Rhea? Pensavo volesse farli uccidere».
«Sì,
sì, certo», disse, «Ma con questo
morirà anche la loro
reputazione. Resterebbe quel Lex, ma lui non conta: si sa che ha dei
problemi, dagli una bella tragedia famigliare e cadrà in
depressione».
Il
bodyguard la fissò curioso: «Non lo fa uccidere
perché al momento
si trova a Metropolis, non è vero?».
«Certo
che è vero. Posso accontentarmi», rispose con
sufficienza e
riguardò il tablet. «Oh, pare che siano riusciti a
entrare: presto
troveranno Lena Luthor e sarà un nome da spuntare in
agenda».
Odiava
i Luthor. Forse non li avrebbe fatti uccidere se Lillian non l'avesse
minacciata, ma sarebbe stato un sospiro di sollievo non averli
più
intorno. Quando era più piccola e si affacciava al loro
mondo le
prime volte, nutriva una certa stima nei loro confronti. Erano una
famiglia potente e Levi Luthor era una specie di colonna portante.
Anche se sapeva, certo, che non era lui il vero re. Avrebbe dato
qualsiasi cosa per essere come loro e sapeva di potercela fare, erano
il suo esempio. Conobbe Lillian che era la fidanzata perfetta di
Lionel Luthor e stavano per convolare a nozze. Lei era già
membro
dell'organizzazione ma sapeva che Lillian, solo per andare in moglie
a lui, l'avrebbe scavalcata. Eppure al tempo non le interessava
poiché Lillian era bella, elegante, severa e, seppure poco
più
piccola di lei, un modello da seguire. Per questa ragione quando Levi
Luthor morì, era felice che Lionel e Lillian prendessero il
suo
posto in presidenza. Solo con l'andare del tempo capì che
loro non
erano che un miraggio, che non erano degni del posto in carica
né
del loro cognome, e che con la sua guida, l'organizzazione avrebbe
potuto dare molto di più. Ricercò consensi
già allora, instillò
dubbi sulla loro condotta e, quando trovò qualcuno adatto da
additare come nemico, sapeva che quei due sarebbero caduti in fallo.
Lionel era debole e avrebbe trascinato Lillian con sé. Non
si
aspettava di certo che Zod, dall'alto della sua influenza, che era
sempre stato leale ai Luthor come un cane, si sarebbe candidato
contro di lei. Aveva vinto per poco. E così aveva iniziato
ad
aspettare un momento migliore. Proprio lui, maledetto, che gli aveva
portato via sua sorella e voleva portarle via tutto il resto.
«È
stato lui, ammettilo! Dru ti ha fatto cambiare idea sulla mia
iniziazione». Le tornò alla mente il ricordo di
allora, ancora
nitido nonostante i tanti anni trascorsi.
Petra era così bella che si era domandata spesso se, alla
sua età,
anche lei lo sarebbe stata. Si vedeva allo specchio e trovava solo
una ragazzina in carne con una brutta espressione accigliata e i
brufoli sul mento, anche se già allora, un certo Lar Gand le
diceva
di essere bellissima. Non lo aveva scelto a sproposito; lui aveva
sempre avuto il dono di farla sentire speciale. Ma se dentro
sé già
covava la fiamma della determinazione, era in realtà molto
insicura
e senza persone come Lar, o come Petra, non avrebbe buttato
giù il
muro che ogni tanto rinforzava per proteggersi dal mondo. Entrare a
far parte dell'organizzazione era tutto ciò che voleva
perché loro
riuscivano a capirla e accettarla, a far emergere se stessa. A darle
uno scopo.
«Ti
prego, Petra! Non puoi abbandonarmi così», aveva
stretto i pugni e
lei l'aveva guardata con apprensione, avvicinandosi alle scale di
casa.
«Io
non ti abbandono, Rhea! Vado a vivere con lui, ma tu resti la mia
sorellina», si era avvicinata ma, quando lei era tornata
indietro
con odio, si era bloccata sui suoi passi. «Non puoi fare in
questo
modo, tu credi di conoscere quelle persone, ma non è
così! Sì, ti
fanno sentire speciale e parte di qualcosa di più grande, ma
c'è
dell'altro! Non fanno solo cose buone», aveva scosso la
testa.
«Vuoi
tenerti tutto per te».
«No!
Sei piccola e non puoi capire. E adesso basta: solo io posso
iniziarti e non intendo farlo».
La
Rhea quindicenne aveva aggrottato la fronte e, a bassa voce,
sibilato: «Non solo tu puoi farlo».
Guardò
il tablet e cercò di calmarsi, prendendo grossi e lenti
respiri.
Lena Luthor era in trappola all'interno della Luthor Corp, non
sarebbe potuta scappare. L'unico rimasto operativo al campus
universitario cercava Kara Danvers, ma insieme al compagno avevano
colpito gli agenti che le facevano da scorta, era questione di poco
prima che la trovasse. E quell'oca starnazzante di Siobhan Smythe era
caduta nella tana del lupo. La sua operazione poteva andare avanti,
non tutto era perduto.
Siobhan
tremò, tenendo il cellulare ben stretto nella tasca. La sua
chiamata
con Kara era ancora aperta, ma non rispondeva più. Doveva
venire a
salvarla, accidenti. A salvarla.
«Forse
qui non ci troveranno», esclamò lui, guardando
verso il vetro della
porta.
«Io
lo sapevo che stamattina me ne sarei dovuta restare al letto, lo
sapevo», ringhiò. «Cosa facevi in
ascensore, a proposito? Come sei
riuscito a scappare?».
«Ah…
s-si erano distratti un attimo e non mi hanno visto. Speravo di
scendere al piano terra ma ero molto nervoso e immagino di aver
sbagliato. Di nuovo», ansimò con ansia, passandosi
una mano sulla
fronte sudata. «Sono un uomo sfortunato». Prese il
cellulare e
provò a cercare campo, abbassando le luci dello schermo per
trattenere la batteria.
«Sfortunato?»,
sbottò lei, «Questa mattina ero alla centrale di
polizia per aver
aggredito un uomo e adesso non so cosa darei per tornare indietro e
farmi trattenere in cella! Tu sei semplicemente l'inetto di sempre,
Mcbrown».
Lui
emise un breve sorriso. «Già, penso tu abbia
ragione». Scrisse un
messaggio sul telefono e inviò:
È
con me. Aspettate il mio segnale.
Che
disastro! Che disastro! L'Operazione
ha chiuso National City in una scatola, ma se da una parte il piano
di Rhea non sta funzionando come dovrebbe (anche grazie a Zod),
dall'altra, le nostre protagoniste sono ancora in trappola.
Come
faranno a cavarsela, adesso? Qualcuno andrà in aiuto ?
Eh
sì, ho dovuto per forza di cose tagliare il capitolo a
questo punto,
sorry. Spero vi piaccia quanto letto finora :P
Facendo
il punto della situazione… Lillian ed Eliza stanno scappando
dalla
macchina inviata da Rhea, creando scompiglio sulle strade. Leslie
Willis se la stava spassando, finché non hanno iniziato a
spararle
addosso. Maxwell Lord, enigmatico come al solito, ha spazientito uno
dei terroristi che chissà se gli avrebbe sparato, distratto
all'ultimo da due dei loro che hanno iniziato a sparare contro i
compagni e dall'entrata in scena di Alex Danvers e del D.A.O.. Maggie
Sawyer è andata ad aiutare la squadra di omega
dell'organizzazione
guidata da Charlie Kweskill. Kara e Barry hanno trovato un corpo al
campus e sono riusciti a catturare uno dei terroristi inviati per
uccidere la ragazza. Lena, invece, si trova con James Olsen
all'interno di una zona nascosta della Luthor Corp, hanno visto dalle
telecamere che Winn è nei guai, ma pare proprio che questi
raggiungeranno presto anche loro; mentre Indigo, scrivendo
direttamente al cellulare di Lena, le chiede con preoccupazione di
darle i dati d'accesso dell'azienda per aiutarla. Siobhan Smythe se
la stava facendo quasi letteralmente sotto e ora crede di essere al
sicuro, ma lo sarà davvero? Tutto questo, intanto che John
Jonzz e
Megan mangiano lo zucchero filato a Metropolis. Ah, l'amor- emh,
che disastro. Davvero, che disastro!
Se
la caveranno tutti? O Rhea riuscirà a portare via almeno
qualcuno di
loro? Si dia il via al totomorte! Ah no, quello è per
l'uscita di
Avengers Endgame :P Si scherza…
In
attesa del prossimo capitolo, vi propongo un giochino
con
questo.
Solitamente,
quando e se metto dei piccoli indizi sul futuro della storia, non ho
l'abitudine di scriverlo e chi è attento se ne accorge,
altrimenti
pazienza. Stavolta, sarà sempre pazienza
se non li cogliete,
ma vi sto dicendo che ci sono. Allora, ci sono ben tre
particolari da scovare in queste righe e, se ne trovate almeno due
su tre, vincete una caramella virtuale!! (Lo so, accontentiamoci. Ci
sarà anche un bravissima/o!!).
- Il primo è facile,
si tratta di una cosa scritta, pulita pulita.
- Il secondo è di
difficoltà media, si tratta di una domanda che potreste
farvi su qualcosa.
- Il terzo è
difficile, si tratta di qualcosa che non è proprio scritto
sulle righe e che potreste capire solo più avanti. Ma se vi
accorgete del particolare in sé, è già
qualcosa.
In
realtà c'è anche un'altra domanda che potreste
porvi, ma non è
chissà quale dettaglio per la trama, anzi, è una
cosa che si saprà
col prossimo stand alone. Quindi la escludo dal giochino.
Non
mi vengono in mente note da scrivere, dunque chiudo e ci rileggiamo
venerdì 19 col prossimo capitolo e la seconda parte sull'Operazione
che si intitola Futuro
:)
Mi
spiace solo che il 21 sarà Pasqua ma il capitolo sulla
Pasqua sarà
il 47. Ero vicina a rilasciarlo per lo stesso periodo del calendario,
per una volta XD Non ci stavo coi tempi, peccato!
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