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Autore: Ghen    08/04/2019    4 recensioni
Dopo anni dal divorzio, finalmente Eliza Danvers ha accanto a sé una persona che la rende felice e inizia a conviverci. Sorprese e disorientate, Alex e Kara tornano a casa per conoscere le persone coinvolte. Tutto si è svolto molto in fretta e si sforzano perché la cosa possa funzionare, ma Kara Danvers non aveva i fatti i conti con Lena Luthor, la sua nuova... sorella.
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Non solo quello che sembra! AU (no poteri/alieni) con il susseguirsi di personaggi rielaborati e crossover, 'Our home' è commedia, romanticismo e investigazione seguendo l'ombra lasciata da un passato complicato e travagliato, che porterà le due protagoniste di fronte a verità omesse e persone pericolose.
'Our home' è di nuovo in pausa. Lo so, la scrittura di questa fan fiction è molto altalenante. Ci tengo molto a questa storia e ultimamente non mi sembra di riuscire a scriverla al meglio, quindi piuttosto che scrivere capitoli compitino, voglio prendermi il tempo per riuscire a metterci di nuovo un'anima. Alla prossima!
Genere: Azione, Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Altri, Kara Danvers, Lena Luthor
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Ours'
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44. L'Operazione


Rhea sgambettò con soddisfazione fino a una berlina bianca ferma all'ingresso del parcheggio. Il bodyguard la aspettava in piedi ed entrambi sollevarono la testa nel sentire gli spari. Lui le aprì la portiera destra posteriore e si andò a sedere all'altro lato, mentre l'autista metteva in moto. Trafficò con un tablet, stringendo gli occhi, e dopo glielo passò senza dire una parola.
«Oh, bene. Abbiamo un posto in prima fila», sorrise, selezionando delle icone e cambiando video.
«Ogni caposquadra ha la microcamera installata sotto il passamontagna, come aveva ordinato», rispose l'uomo al suo fianco, mentre la macchina usciva svelta dal parcheggio e si allontanava dalla centrale. «Oh! E le centraline sono state sabotate, naturalmente. Ci metteranno un po' a rimetterle in funzione su tutta la città. Abbiamo campo libero, signora Rhea».
Rhea selezionò proprio quella del caposquadra che spianava la strada al distretto di National City: urlavano e ordinavano agli agenti di allontanarsi dalle proprie scrivanie. «Mi piace quello che vedo, mi piace», annuì. «Se fanno i bravi, si farà male meno gente possibile». Cambiò telecamera e cambiò ancora, sentendo persone che urlavano, vedendo i suoi omega che rincorrevano qualcuno e lo sbattevano al muro, facendo irruzione in testate giornalistiche, uffici pubblici e oh, sorrise con gaudio, alla Lord Technologies ci stavano impiegando più tempo del dovuto, ma era quasi cosa fatta. «Ma dove sono…?», cambiò ripresa su ripresa, «Dove sono quelli che-».
Il sorriso dell'uomo si spense e mortificato le prese il tablet dalle mani. «Aspetti, aspetti, è uscita».
«Non sono uscita, non ho cliccato-», cercò di riprenderglielo.
«No, aspetti, è uscita, vede».
«Ridammelo».
«Un attimo, aspetti, e-ecco! Ecco».
Lei fece una smorfia, strappandoglielo dalle dita e schiaffeggiandolo. «Potevi dirmi dove cliccare». Riguardò con attenzione e sorrise maligna, seguendo la corsa di una squadra su per le scale della Luthor Corp. «Allora non sei solo petto peloso e muscoli, uh», si rivolse di nuovo a lui, che arrossì imbarazzato. Cambiò. La microcamera riprendeva un uomo entrare in un campus universitario e, cambiando ancora, un'altra mostrava la squadra all'interno di un'automobile, mentre si infilavano i passamontagna. Erano quelli che più le interessavano. Ah, finalmente tutto quello per cui aveva lavorato fin da ragazzina stava diventando suo. Sua sorella ne sarebbe stata orgogliosa, adesso?
«Non puoi impedirmi di farne parte, non puoi farlo», ricordava ancora le parole di quella sera. L'ultima sera.
«Sì che posso e non urlarmi, Rhea! Sei piccola ed è un giro che non mi piace. Non infastidirmi».
Aveva cambiato idea. Glielo aveva promesso e aveva cambiato idea proprio quando aveva accettato di sposare Adrian Zod. Sarebbe andata a vivere con lui, l'avrebbe lasciata indietro da tutto, quando prima si preoccupava solo di lei, la sua sorellina. La donna strinse le labbra secche con rabbia, al ricordo e, aprendo la sua borsetta, prese uno specchietto e il rossetto rosso, sistemandosi il trucco. Doveva entrare in scena.
Avrebbe voluto occuparsi delle persone scomode una volta divenuta presidente dell'organizzazione, ma perché perdere tempo? Aveva a disposizione un esercito adesso e quelle sarebbero passate in sordina come vittime casuali. Quasi dodici anni. Quasi dodici anni da quando il posto le era stato sottratto alle elezioni da Zod. Quasi dodici anni a tramare vendetta, a racimolare consensi e a raccattare uomini e donne per il colpo, per urlare a gran voce che National City era sua. Tutto per arrivare a oggi. Non pensava lo avrebbe messo in pratica così di fretta, ma ora che si era liberata di quell'uomo, doveva togliere di mezzo Lillian Luthor. Aveva dovuto agire prima che si coalizzassero. Forse Zod non si sarebbe sporcato le mani, ma lei… Non poteva di certo sottovalutare la minaccia: se voleva avere per sé il potere, Lillian Luthor doveva sparire. Rhea aveva pensato a tutto.

Proprio come lei, anche Lillian ed Eliza erano appena entrate in auto, guidata da Ferdinand. Da quando aveva minacciato Rhea Gand, villa Luthor-Danvers era rimasta sorvegliata da alcuni uomini che lavoravano nella sicurezza della Luthor Corp e quattro di loro le seguivano ora con un'altra berlina a pochi metri. Era una situazione che a Eliza non piaceva, ma capiva che erano necessari. Avevano finalmente parlato di ciò che era successo nel passato e Lillian l'aveva messa in guardia su Rhea, le aveva spiegato che minaccia rappresentasse per loro e per Kara, e sua moglie aveva compreso, dimostrando preoccupazione. Non le piaceva che fosse andata a minacciare quella donna, anche se sapeva bene perché lo avesse fatto. Avevano giurato di non tenere più segreti tra loro. Il loro rapporto, da quest'ottica, ne stava di certo giovando, anche se non era ancora tutto tornato com'era e, forse, non sarebbe accaduto fino a quando quella situazione sarebbe aleggiata sopra le loro teste come una nuvola di sventure. Forse Eliza aveva sempre capito che donna era sua moglie, ma quella situazione non coincidenza affatto con la sua idea di vivere una vita normale. Senza contare che, per lei, avrebbe dovuto mentire a Jeremiah e non l'aveva mai fatto. Lui portava il lavoro a casa, al tempo, e Lillian ciò che Jeremiah condannava. Quando dall'ufficio del sindaco erano arrivati i soliti inviti per la prima cena dopo la morte del senatore, aveva accettato di accompagnare Lillian perché voleva guardare in faccia la donna che aveva ucciso i genitori di Kara e minacciato la sua vita. Sapeva che non avrebbe potuto dirle nulla, ma voleva vederla in faccia. Doveva capire che volto avesse tanto odio.
«So che le cose sono ancora strane, tra noi», mormorò Lillian abbassando lo sguardo, notando con la coda dell'occhio che Eliza era girata verso il finestrino. «Ma ci tenevo a dirti quanto io mi senta fiera di te, in questo momento. So che questa situazione ti fa paura, ma-».
«Non mi fa paura», la interruppe con la voce sulla sua, voltandosi. «Non paura, Lillian: mi terrorizza. Il solo pensiero che possa succedere qualcosa a Kara, o a te…», prese fiato e scosse la testa, «Non do a te la colpa: anche se non ti avessi sposato, sarei sempre la madre di Kara e il passato sarebbe tornato a cercarla prima o poi, ma-».
«Posso proteggerci», affermò con sicurezza e la moglie sospirò. Le loro mani si sfiorarono.
«È proprio questo che mi spaventa», confessò. La vide mettere su un'espressione curiosa ma non avere il tempo di dirle nulla che si scusò di dover rispondere al telefono:
«Sei sicuro?».
Eliza la scorse mentre increspava il viso e dopo riattaccare. «Cosa succede?».
«Ci seguono».
«Cosa? Come… Chi ci segue?», cercò di guardarsi indietro dal finestrino.
«Un auto, dietro, sta cercando di superare i miei uomini. Sta accelerando», la guardò negli occhi, «Beh… Probabilmente Rhea sta cercando di farmi uccidere».
Eliza sgranò gli occhi. E lo diceva con tanta naturalezza?

Di certo, Alex non pensava di dover avvertire sua madre. Zod aveva scritto sul foglietto alcuni dei punti che sarebbero stati colpiti, quelli di cui sapevano con esattezza, non certo tutti. Lei e Maggie non potevano immaginare quante parti di National City sarebbero state occupate con la forza quella sera. Aveva convinto degli agenti del D.A.O. a collaborare ma, senza il permesso di John Jonzz, rischiavano che Rhea Gand si trovasse la strada spianata. La verità era che appena scoccarono le diciannove e trenta, non volò una mosca: non un singolo servizio al telegiornale, né un messaggio criptico proveniente da una delle zone colpite, niente di niente. Se una delle poche squadre del D.A.O. persuase a intervenire non avessero fatto irruzione in uno studio televisivo, nessuno avrebbe scoperto cosa stava accadendo, che degli uomini armati e in passamontagna stavano davvero tenendo in ostaggio delle persone mentre, alcuni di loro, controllavano e cercavano qualcosa negli appunti dei tg e visionavano servizi che ancora dovevano andare in onda. Avevano bloccato il colpo, disarmato quelle persone e messe in arresto, decisi a stare zitti: se avessero lanciato un allarme, avrebbero potuto mettere in pericolo la vita di altri ostaggi in altri dei punti colpiti. La città doveva restare coperta dal silenzio.
«Ho parlato con Kweskill», Maggie si avvicinò, intanto che Alex metteva giù il cellulare seccata, poiché John ancora non le rispondeva. Aveva provato a mettersi in contatto con suo padre a Metropolis, ma il segnale era disturbato e non voleva cercarlo al numero personale o sarebbe entrato in panico. «Lui e una squadra sono entrati in centrale e li stanno accerchiando: presto la libereranno e avremo aiuto».
Alex aggrottò la fronte. «Molti tuoi colleghi si trovavano in centrale e parlo anche dell'FBI… quindi cosa intende con squadra, con esattezza?».
Maggie scrollò le spalle. «Lui li ha chiamati omega: l'organizzazione».
«Ovviamente».
«Ho spuntato questi», le mostrò il foglietto con due nomi sbarrati. «Se ne stanno occupando loro. A noi resta…».
«Oh, ma guarda, c'è anche la Lord Tech. Non vedevo l'ora di rivedere Max», rispose sarcastica. Si allontanò solo per sgridare una dipendente dell'emittente televisiva che scriveva sul cellulare: «Non può mandare messaggini, rischia di compromettere l'operazione, lo metta via. Me lo dia».
Maggie ansimò, vedendola discutere. Ricordava bene cosa si erano dette e come non si fidassero di Zod, ma era anche vero che, senza quei nomi, lei e Alex sarebbero tornate a casa come in una qualunque altra giornata. E di certo, non poteva perdere l'occasione di avvicinarsi così tanto all'organizzazione: chiamò di nuovo Kweskill e attese, sperando di non metterlo nei guai. «Sì, qui tutto okay, ma mi chiedevo… se potessi essere dei vostri. Per dare una mano e per capire… Va bene, vi raggiungo». Chiuse la chiamata con decisione e disse a un'agente del D.A.O. di dire a Danvers che se n'era dovuta andare. Che avrebbe capito.

Chi non poteva comprendere perché Alex Danvers cercasse ancora di contattarlo era John Jonzz: due chiamate perse, poi se non altro aveva smesso. Lui e Megan passeggiavano con il bastoncino dello zucchero filato in mano tra gli stand e le giostre a tutto volume. La ragazza sarebbe stata davvero felice di vedere il nuovo parco divertimenti di Metropolis dal vivo se non fosse stata in compagnia di John e del suo strano umore: era snervante il suo scusarsi per aver dovuto fare il suo lavoro e quindi mentirle, che era come non scusarsi affatto.
«Perché non la richiami?», sbuffò, vedendolo pensieroso.
«Perché mi sono preso un pomeriggio libero e volevo-», sospirò, alzando un braccio, «passarlo in tua compagnia. È il mio lavoro ad averti indispettito e non voglio che si metta in mezzo anche oggi».
«Non è il tuo lavoro ad avermi indispettito», scosse la testa, alzando gli occhi al cielo. «Sei grande e grosso, eppure a volte ragioni come un ragazzino», lo sgridò. «Richiama, se devi. Peggio di così».
«Pensavo saresti stata felice, so quanto ti piacciono i luna park», seguì con gli occhi due bambini ridere divertiti sopra una una giostra a forma di polpo. «Se devi dirmi qualcosa, dilla. Se non è stato il mio lavoro a indispettirti, allora parlane. Invece di fare tu la bambina e tenermi il broncio».
«Non ti tengo il broncio».
John le si piazzò davanti e la guardò contrariato. «Peggio di così», le fece il verso e Megan abbozzò un sorriso, solo uno, voltandosi.
«Era riferito a questa giornata storta. Tanto per fare un esempio: in campo, Kara ha giocato come se fosse l'unica, se lo hai notato. E prima non stava esattamente una meraviglia, ha litigato con-», ingigantì gli occhi e John la spronò a continuare, «con… con un ragazzo, al campus, uno con cui…», si grattò la fronte con un mignolo, «non lo conosci, un tipo. Però piangeva ed era a terra, pensavo non avrebbe voluto giocare e poi invece bem, si è ripresa in tempo record e non la poteva fermare nessuno. E io ci ho provato a mettermi nei suoi panni, forse voleva distrarsi, però le altre si sono arrabbiate. Da qualche giorno, si comporta come se un alieno si fosse impadronito del suo corpo».
John si zittì per poco, riflettendoci intanto che continuavano a camminare. Si stava facendo buio e i giochi di luce delle giostre rendevano il parco più magico. «Avevo notato anch'io che era strana, ma non mi permetto di dirle niente: era già abbastanza arrabbiata per averle nascosto la mia identità-».
«Tutti gli altri invece l'accettano che è una meraviglia», tuonò sarcastica.
«E mi pento di averle tolto il lacrosse per un periodo. Anche se era il meglio per la squadra».
«Con me come capitano, siamo andate che è un bijou», fece una smorfia. «Vuoi davvero parlare di Kara Danvers a un appuntamento?». John aggrottò la fronte e restò perplesso, finché lei non rise. «Ti prendo in giro, lo so che l'ho nominata io! Parliamo di nuovo di come tu mi abbia mentito, invece, e sii più originale. Andiamo. Ma prima un ottovolante».
Quasi certamente, Kara non era l'argomento che avrebbero preferito affrontare quei due a Metropolis, ma indubbiamente era il pensiero di Lena. A parte l'uscire vivi dalla Luthor Corp, ovviamente. Lei e James Olsen erano sgusciati via dal suo ufficio e si erano nascosti sotto la scrivania vuota di Winn, che speravano fosse al sicuro, quando avevano notato che l'ascensore era in movimento. Qualcuno stava salendo a quel piano.
Tornando indietro, a poco da quelle diciannove e trenta, Kara era davvero l'unico pensiero di Lena. Continuava a pensare e ripensare alle sue parole, a come doveva averle fatto pena e per questo si era avvicinata a lei. Si era innamorata di lei. A come voleva rendersi indispensabile per essere ricambiata. Cosa le prendeva? Da dove era uscito un pensiero come quello? Era una cosa così stupida, così… Però aveva capito una cosa, se non altro: voleva lei. Per uno strano motivo, Kara era stata più diretta del solito. Per lei che non riusciva più a guardarla negli occhi senza sentirsi in colpa, o per Kara stessa che non l'aveva perdonata, si erano di nuovo fatte tremendamente distanti. Girava il bracciale sul polso come incantata, prendendo fiato. Il bracciale che le aveva regalato lei a Natale. Come sentiva lei la sua assenza, doveva essere lo stesso per Kara, anche se non era chiaramente in sé. In quel momento, era seduta davanti alla scrivania nel suo ufficio, con un grosso libro aperto sotto il naso e altri tomi impilati intorno. Doveva studiare, invece… Credeva che l'aria della Luthor Corp avrebbe potuto distrarla e almeno si era sentita fortunata che sua madre non l'avesse invitata ad andare con lei ed Eliza alla consueta cena col sindaco. Pensare a Kara le faceva perdere tempo: doveva studiare, solo studiare, ma bussarono alla porta.
«Sono mortificato, signorina Luthor, so che doveva studiare e che… emh, che m-mi aveva chiesto di restare fuori e-».
«Winslow», lo aveva richiamato, «Vai al dunque».
«Emh, sì, lui ha insistito e non sono capace di mentire, quindi gli ho detto che c'era e spero, sì, che non le dispiaccia». A una sua conseguente occhiataccia, Winn si era grattato i capelli e annuito: «Vuole parlarle un fotografo freelance, dice di conoscerla: James Olsen».
Lena aveva infilato un segnalibro fra le pagine e chiuso il libro, mettendolo da una parte intanto che lui entrava. Si era alzata e teso la mano che il ragazzo si era slanciato per stringere. «Cosa devo l'onore?». Gli aveva indicato una sedia e lui aveva sorriso, decidendo di sedersi dopo un breve girarsi intorno.
«Mi trovavo a National City per lavoro e sono passato per-», aveva sorriso di nuovo e abbassato lo sguardo, come se si fosse imbarazzato. Lena aveva intrecciato le dita delle mani sulla scrivania, alzando un sopracciglio. «Considerando che mi trovavo in giro, Lois mi ha chiesto di farvi avere una notizia, sta ultimando adesso l'articolo che ne parlerà, ma-», aveva deglutito.
«Ti stai mangiando le parole. C'è un motivo per cui sei qui o…?».
«Oh, sì, sì, certo», aveva ridacchiato. «Sono solo stanco. Lois mi ha chiesto di dirvi che è arrivata al dunque con il caso del carcerato che aveva ascoltato a Fort Rozz: si è concluso tutto in fretta e non ha avuto il tempo di difendersi, ma pare che sia colpevole, a conti fatti. O lei è arrivata a questa conclusione». Aveva fatto una smorfia e alzato le spalle, ma Lena aveva mancato il momento di rispondergli che un allarme aveva iniziato a suonare nell'intero edificio ed entrambi si erano alzati di scatto. «Cosa sta succedendo?».
Lena si era chinata verso il laptop, riattivandolo. «Qualcuno deve essersi introdotto».
«I-Introdotto come…?».
Non aveva risposto, ma aveva temuto il peggio e sperato che le guardie stessero agendo in fretta. Il laptop non era abbastanza veloce, ma voleva accedere alle telecamere, accidenti. La vibrazione del cellulare l'aveva fatta spaventare e lo stesso James.
Da Anonimo a Me
Devi uscire. Adesso.
Indigo. E chi altri poteva essere, altrimenti? Lena non si era neppure stupita del fatto che conoscesse il suo numero e aveva cercato di calmare James che, di fronte a lei, sperava di non dare a vedere come gli tremassero le gambe.
«Stanno arrivando», mormorò il ragazzo con voce grossa, scorgendo le luci dell'ascensore dietro la scrivania, tornando al presente. «Posso fare qualcosa…? Non c'è un'altra via di uscita, da questo piano?».
«Certo che c'è», sibilò Lena. «Il piano è diviso in due, qui c'è solo un corridoio e il mio ufficio, ma ci sono dei laboratori al di là del muro», prese fiato, cercando di accedere alle telecamere attraverso il cellulare. Non era il mezzo che preferiva, per questo genere di cose. «C'è una porta segreta».
«Una porta segreta?», si voltò, sgranando gli occhi. «Dove?».
Lena lo zittì quando udì l'ascensore fermarsi ed entrambi si nascosero meglio, sperando di non essere visti. Le porte si aprirono e i due trattennero il respiro, appiattendosi. I lenti passi di quegli stivali rimbombavano nel corridoio vuoto come i loro cuori spaventati. James cercò di guardare senza esporsi troppo, ma non riuscì a capire in quanti fossero. Erano in trappola. Li sentirono spalancare la porta socchiusa dell'ufficio ed entrare e sapevano che loro, per arrivare alla porta segreta, avrebbero dovuto passare proprio lì davanti.
Da Anonimo a Me
Fammi entrare. Lena aggrottò la fronte. Dammi i dati d'accesso della Luthor Corp, vedrò per te.
«Dov'è la porta segreta?», chiese James, in ansia. Sentivano rumori e voci all'interno dell'ufficio, come se lo stessero mettendo sottosopra e, sapevano che se volevano passare, era quello il momento per farlo.
Lena rilesse il messaggio e guardò il ragazzo: dovevano tentare. Scivolarono dietro la scrivania e, pian piano, si rimisero in piedi e camminarono appiccicati al muro fino alla porta aperta, sentendoli chiacchierare.
«Sul bordo», mormorò uno, «Il portatile è sul bordo della scrivania. Doveva essere qui un attimo fa».
James la fermò quando tentò di passare avanti per prima. Cercò di mimarle quanto fosse rischioso, ma che passasse per ultima, a quel punto, aveva davvero importanza? Lui le strinse un polso e decisero di passare insieme. Un passo avanti e Lena spalancò gli occhi quando scorse di fretta che il divanetto era stato rovesciato, che era tutto a terra. Non li videro. Lena corse fino a una presa di corrente e James restò di guardia vicino alla porta, guardando avanti e lei dietro: davvero c'era un passaggio nascosto, su quel muro?
«Hai sentito anche tu?».
James le si avvicinò di corsa, sussurrando che non avevano più tempo. Intanto, lei mise la mano destra nella presa di corrente e tirò verso di sé come un cassetto, trovando un tastierino numerico olografico.
«Ho sentito dei passi», continuò dall'ufficio e lo udirono avvicinarsi. «Signorina Luthor, è lei? Siamo qui per lei, sa?», cantilenò e udirono un'altra voce ridacchiare.
James le ordinò di sbrigarsi e Lena digitò con sicurezza, per poi imprimere l'impronta del pollice destro sul tastierino. Udirono un forte rumore di qualcosa che si spostava aprendo il muro e così i due uomini correre verso il corridoio. James la spinse all'interno e si infilò appena in tempo, sfiorando due proiettili. La porta si richiuse poco dopo, quando Lena digitò dal tastierino dall'altra parte. Li avevano quasi presi. Quasi.
James prese un bel respiro e Lena si toccò il petto. Per poco le gambe non le cedevano dall'ansia.
Da Anonimo a Me
Lena. Fammi entrare, ti scongiuro. Dimmi che stai bene.
Lesse il nuovo messaggio e strinse gli occhi, appoggiandosi al muro. Indigo poteva entrare nel sistema di sicurezza della Luthor Corp senza i suoi dati d'accesso, perché continuava a chiederli?
«Ti senti bene?», James le si avvicinò veloce e le strinse un braccio.
Lena guardò lui e adocchiò la mano, scansandosi. Forse pensava di dover fare l'uomo forte e proteggerla, ma di sicuro non lo trovava necessario. Lo notò seguirla e così guardarsi intorno: quel corridoio era più stretto e buio, interno al palazzo diviso tra laboratori e il suo ufficio; di certo, ora quegli uomini armati dovevano chiedersi come raggiungerli.
«Non ci credo», lui si passò una mano in fronte e sulla nuca, sforzandosi per non tremare. «Sai chi sono?». Si rispose da solo in un lampo: «Ma certo: l'organizzazione. Pensavo ce l'avessero con Kara, ma devono aver aumentato gli obiettivi».
Lena prese passo deciso verso una porta a vetri e James le stette dietro, mentre le piccole luci del corridoio si accendevano ai lati con il loro passaggio. Accesero la luce all'interno e si affrettarono verso un computer, avviandolo. Lui si girò indietro e notò qualche bancone coperto da teli, dei microscopi, celle in plexiglass, dei figo e scaffali coperti anche quelli, chiedendosi cosa facessero lì. Le arrivò un altro messaggio e prese il cellulare in fretta pensando a Kara, ma era ancora Indigo che la pregava. Davvero non riusciva a capirla. Lena avrebbe voluto cercare Kara, accidenti, ma non voleva farla preoccupare. Se ancora si sarebbe preoccupata per lei, ora come ora. Quando riuscì ad entrare nel sistema, notò subito che alcune telecamere erano state oscurate, che diversi uomini armati e in passamontagna erano sparpagliati per la Luthor Corp, che almeno sei di loro avevano radunato tutti all'interno del magazzino. Le guardie non c'erano.
«Ehi, ma lui», James indicò una finestrella e Lena la ingrandì. «È il ragazzo che mi ha fatto entrare».
«Il mio assistente», si gelò, vedendo Winn sbattuto contro una scrivania mentre veniva minacciato con una pistola alla tempia. «Sono nell'ufficio di mio padre», borbottò.
«Certo», sentenziò d'un tratto e lei lo fissò attraverso il vetro dello schermo. «Come vecchio membro, staranno cercando qualcosa e forzano il tuo assistente ad aiutarli».
Odiava ammettere che, questa volta, James Olsen poteva avere ragione. «Forse», annuì, riprendendo in mano il cellulare. Voleva cercare Kara? Doveva almeno sapere se era al sicuro. Deglutì e fece uno squillo alla polizia, ma non rispondeva nessuno e la cosa mise in agitazione il ragazzo. «Mio padre non ha lasciato nulla negli archivi della Luthor Corp che portano all'organizzazione o li avrei già trovati», mormorò e lui si accigliò, «Non ha senso… Perché adesso?», scosse la testa. «Sono quasi due anni che mio padre non c'è più, è strano che si facciano vivi solo ora. Devono avere un altro piano, c'è qualcos'altro che vogliono».
«E cosa potrebbe essere? È chiaro come sia tutto collegato a voi Luthor», si pentì di averlo detto nello stesso istante in cui lo disse, vedendola fare un'espressione strana. «No, aspetta, non volevo dire che-».
Lena si alzò e gli passò davanti, ignorandolo. Prese il cellulare e lesse il nuovo disperato tentativo di Indigo per avere ciò che desiderava in cambio del suo aiuto, come se fosse realmente preoccupata per lei. Se non aveva accesso alle telecamere della Luthor Corp, come sapeva dell'attacco? Non le rispose e provò a chiamare Kara. Restò in attesa, in attesa, ma la linea era occupata. Come poteva essere occupata anche lei?

«Mi uccideranno», Kara ascoltava i singhiozzi lamentosi di Siobhan. «Io non voglio morire, Kara… Non voglio morire». Lei distanziò il cellulare dall'orecchia, facendosi seria. «Respira?», domandò.
Barry Allen era chino su un corpo steso a terra, trovato vicino ai cassonetti dietro il dormitorio. Era l'agente che li seguiva quella mattina, ma non aveva documenti con sé. Il ragazzo prese fiato e scosse la testa. Si alzò e analizzò la scena. «Deve essere stato trasportato, non ci sono tracce di sangue e sembra averne perso molto. Devono essere stati almeno in due, il corpo è pesante», riguardò distrattamente il buco al petto. «Considerando che non è scoppiato nessun allarme, potrebbero aver usato un silenziatore», guardò la ragazza e deglutì. «Lui era qui per proteggerti, Kara».
«Lo so… è il nuovo tentativo di Rhea Gand», aggrottò lo sguardo, sentendo Siobhan piangere.
Quello era senza dubbio il modo migliore per concludere quella pessima giornata: la litigata con Mike, la discussione con Lena e quella con le compagne di squadra che si erano risentite per aver vinto senza fare grandi sforzi non bastavano, ci mancava il tentato omicidio con omicidi di agenti che le facevano da scorta annessi. Eppure doveva saperlo che ci avrebbe riprovato, ma mandare gli uomini dell'organizzazione anche alla CatCo per Siobhan Smythe? Lo aveva fatto perché lei sapeva della pistola? E Zod ne era al corrente?
Prima di quelle diciannove e trenta, si sentiva ancora in forma e, appena uscita dagli spogliatoi, aveva inviato un messaggio a Selina Kyle per dirle che accettava di entrare alla Lord Technologies con lei e mettere naso negli affari di Maxwell Lord. Quelle pillole rosse venivano perfezionate anche grazie ai suoi dati, quindi perché non scoprire in cosa consisteva esattamente il progetto?
«Ti va una passeggiata?».
Oh, Barry Allen aveva provato a farla aprire e dopo ci aveva riprovato con la scusa di una passeggiata. «Sì», aveva scrollato le spalle, «Perché no?». Non importava che non avesse fatto altro che correre fino a quel momento, in fondo camminando poteva prendere tempo. Chissà cosa faceva Lena. No, si era fermata e scosso la testa. Non doveva pensare alla loro discussione, non doveva. La pillola doveva tenerla lontana dalla sua testa! Si era accorta tardi che Barry la stava fissando. «Cosa c'è?», aveva sbottato.
Lui ci aveva messo un po' a risponderle, pensieroso. «Tu, emh… Credevo non avresti accettato, hai finito adesso una partita, dovresti essere stremata e invece non c'è neanche l'ombra di tutto questo, in te».
«Non capisco, c'è qualcosa di male a essere carichi?».
Lui era rimasto a bocca aperta e poi si era grattato dietro la nuca. «No, ma-».
«Nessun ma. Vuoi passeggiare o no?».
«No», aveva scosso la testa. «Sono stanco e mi è passata la voglia».
Erano le diciannove e trenta quando si erano accorti, tornando verso il campus, di essere seguiti di nuovo. A Kara sembrava di riconoscere qualcuno, ma non aveva potuto dire con certezza se quelle facce erano già presenti al campus prima o se erano lì per lei. Fecero il giro del dormitorio per seminarli sotto insistenza della ragazza, di certo Barry non voleva alimentare il suo nervosismo, ma lì avevano trovato il corpo e Siobhan aveva chiamato.
«Kara, se vogliono farti fuori…», borbottò, nel presente.
Lei sbiancò. «Mike».
Corsero di fretta, sorpassando ragazze e ragazzi che brindavano al piano terra. Come la videro, gridarono Supergirl in preda alla contentezza e un ragazzo cercò di fermarla solo per dirle con un alito che sapeva di birra di aver registrato la sua esibizione col telefono e che presto sarebbe stata virale. Dovette scansarlo da sé con la forza e corsero alle scale.
«Aspetta… è una festa, quella che sento? È-È musica? Tu ti diverti mentre io sto per morire?».
Kara sbuffò. «No, carina, è la gente che festeggia la mia vittoria, naturalmente! Ho vinto una partita, questo pomeriggio, sai, non esisti solo tu».
Barry le fece cenno di tacere, mentre si avvicinavano al piano giusto: gli assassini potevano essere ovunque.
«Tu vinci le partite mentre io sto per morire? … aspetta: carina, prego? Come ti perme-».
«Adesso chiudi quella bocca se vuoi che sopravviva per venirti a salvare. E devi uscire da quel bagno».
«Oh, Kara… sono stata così cattiva con te», ricominciò a singhiozzare e piangere, tanto che Barry la guardò storto. «Così cattiva e tu non lo meritavi… E-E non mi abbandoni, oh, Kara! Giuro che non ti tratterò mai più così male, Kara. Kara?». Siobhan tolse il cellulare dall'orecchio e lo passò sulla gonna per pulirlo, vedendo che la chiamata era stata interrotta. «Quella stronza ha riattaccato».
Kara e Barry si armarono di una pentola lui e un'insalatiera lei, ancora sporchi e lasciati allo sbando dal pranzo in corridoio, e si avvicinarono furtivamente alla sua camera. La porta era aperta, accidenti.
Mike era sdraiato sul letto di Kara. Muoveva un piede a ritmo della musica che aveva nelle orecchie, gli occhi chiusi, incurante del pericolo che correva: proprio a pochi passi da lui, un uomo armato di pistola e con passamontagna si avvicinava lentamente. «Cosa?», disse sorpreso, «Signorino Gand?».
Mike sgranò gli occhi e si tolse una cuffietta mentre, dietro l'intruso, Kara e Barry colpirono senza pietà.
«Ha riattaccato, ha riattaccato» ripeté Siobhan, portandosi le mani sui capelli e iniziando a ciondolare con paura. «Non posso stare troppo a lungo in questo bagno, ha ragione, puzzerò di candeggina e pipì marcia, ma ha riattaccato e non so che fare… Che fare! Quella stronza, bugiarda, traditri- Oh, Kara», rispose al telefono, incurvando la bocca in un lamento. «Temevo mi avessi abbandonato».
«Ne abbiamo catturato uno», disse lei con soddisfazione, «Ma pensiamo possa essercene almeno un altro qui al campus e dobbiamo trovarlo. Dopo potrò venire da te, Siobhan, ma non puoi restare chiusa in quel bagno, ti troveranno».
«Oh, Kara», si odorò i capelli e incurvò di nuovo la bocca, continuando a lamentarsi. «Puzzo di pipì… Troveranno il mio cadavere che puzzerà di pipì».
«Non troveranno nessun cadavere».
«Ma puzzerò di pipì quando ci saranno i soccorsi».
«Ringrazia se non puzzerai di cadavere», la rimproverò. «Devi uscire di lì».
«Ma mi uccideranno, non so che fare, Kara, non so che fare».
«No. Ti sarò vicino, okay? Ma ascoltami, devi uscire da quel bagno adesso».
Siobhan tese le orecchie, zittendo il cellulare con una mano. Sentì delle voci, non potevano essere solo sue impressioni perché le stava anche formicolando la schiena e, o era di nuovo la brutta sensazione che la metteva in allarme, o se l'era fatta addosso. Erano proprio voci. Erano voci. «Kara, stanno arrivando! Mi uccideranno». Stufa di sentirsi ripetere di uscire da quel bagno, prese lo spray al peperoncino dalla borsetta e lo tese in avanti, provando a uscire, con calma. Scappò alzando i tacchi e allargando le gambe nel tentativo di fare più piano, nascondendosi dietro un muro. Li ascoltò avvicinarsi: quei pazzi ridevano e urlavano, come se si stessero divertendo. Lei moriva di paura e puzzava di pipì, mentre loro ostentavano felicità. Strinse i denti e abbassò il volume del cellulare al minimo, provando ad allontanarsi: se riusciva a entrare nell'ascensore…
«Zod», udì la voce di una donna, «Dobbiamo nominare Zod. Chiamarlo Generale».
«Perché?», chiese l'altra, anche quella di una donna. «Non ho capito questa cosa».
«La signora Gand è stata chiara, tu fallo e basta! Ci inizierà appena sarà presidente, pensa a questo».
Siobhan si ghiacciò e cercò di spiegare a Kara, a bassa voce, cosa stavano dicendo. Le sentì entrare nei bagni, accidenti. Nei bagni. Se non fosse uscita, l'avrebbero trovata. Corse verso l'ascensore, contando che restassero ancora lì il più a lungo possibile. «Prendo l'ascensore e me ne vado», disse, battendo i denti. «Fortunata quella stronza di Willis», borbottò, schiacciando convulsamente i pulsanti per chiamarlo, continuando a voltarsi indietro. «Starà bevendo alcol in un sudicio bar e io qui rischio la vita. Se ci fosse stata, sarebbe stata la prima a cui sarebbero andati a cercare, questo è sicuro».
«Sei preoccupata di essere l'unico obiettivo?», domandò Kara.
«Certo», sbottò. «Sarei scappata mentre le sparavano, non sono mica matta». Le porte dell'ascensore si spalancarono e Siobhan sgranò gli occhi, il collega di fronte sgranò gli occhi, ma erano soli. Lui le prese un polso e la tirò dentro. «Chiudi, chiudi», cercò di urlargli a denti stretti.
Agitato, lui si gettò sui pulsanti a lato insieme a lei, premendo un pulsante e le porte si richiusero. «Che fine avevi fatto?», domandò l'uomo, a bocca aperta. «Oh mio Dio, la CatCo è presa d'assalto e tu eri sparita, pensavamo ti avessero ucciso! Parlavano di un tale, un Generale, devono essere dei terroristi».
Siobhan si portò il telefono all'interno del taschino della giacca quando non sentì più la voce di Kara risponderle, ma non chiuse la chiamata, intanto che metteva via lo spray. «Io sono esausta! Per poco non mi ammazzavano davvero», spalancò la bocca, trattenendosi dall'urlare.
Si appoggiò e tirò un sospiro di sollievo, quando lui si avvicinò per odorarla e fare una faccia disgustata. «Ehi, Smythe, puzzi di-».
«Non ti azzardare!», gli puntò contro un dito. Solo allora vide che l'ascensore non stava scendendo, ma salendo. «Dove…? Razza di rincretinito seriale, dovevamo uscire, ci stai portando in pasto ai terroristi».
«No, io… No», si portò le mani sui capelli corti, spalancando gli occhi. «No, no… No! I-Io non l'ho fatto apposta, tu mi dicevi di chiudere e io ho schiacciato- Questa situazione mi fa uscire di testa».
Gli fece cenno di tacere quando capì che l'ascensore si stava fermando. Dovevano farlo ripartire per portarli al piano terra. Solo farlo ripartire. Le porte si aprirono, videro uno dei terroristi col fucile venire verso la loro parte e si voltarono, quando scoprirono con orrore che l'ascensore si stava richiudendo perché era stato richiamato: uscirono di corsa e aprirono e chiusero la prima porta che trovarono, quella di una piccola saletta per le interviste.
Un piano più in alto, invece, gli uomini e le donne col passamontagna nero avevano circondato l'ufficio di Cat Grant: alcuni trafficavano nelle scrivanie e nell'ufficio della donna erano in due. Lei si teneva in disparte, vicino a un divanetto color panna. Guardava quella che le puntava addosso un fucile, l'altro che le svuotava la scrivania e controllava il portatile e, fuori, verso gli altri che terrorizzavano e accerchiavano i suoi impiegati intanto che buttavano tutto all'aria. Di tanto in tanto, qualcuno urlava con paura e loro gridavano più forte. Nessuno fino a quel momento era stato ferito. Cat Grant avrebbe fatto qualsiasi cosa per farli andar via il prima possibile. «Se posso dare una mano», esclamò a un certo punto, attirando l'attenzione di entrambi. «State cercando qualcosa, il minimo che possa fare è darvi indicazioni su dove trovarla. Credo di conoscere abbastanza bene il mio ufficio». Li vide guardarsi.
«Vuoi fare la spiritosa?», la donna si accostò. «Cerchi di farci arrabbiare?».
«Oh no, al contrario. Speravo proprio di aiutarvi», si portò le braccia a conserte e lei avvicinò il viso coperto al suo, come un'intimidazione: la signora Grant tenne alta la testa, pur avendo paura, certo, ma non lo avrebbe ammesso. Non si era mai lasciata spaventare da nessuno e non intendeva iniziare oggi.
«Cerchiamo materiale su tu sai cosa, Grant», disse l'uomo, mentre l'altra la teneva d'occhio.
Cat Grant non rispose: non c'era nulla sull'organizzazione nel suo ufficio né in tutta la CatCo ma, se avesse detto quella parola, le avrebbero sparato? Da anni avevano cercato di convincerla a entrare e si era tenuta ben distante, senza inimicarseli, ma ora cosa avevano in mente? Senza contare che tutti, da quando erano entrati, non facevano che nominare il Generale Zod. Perché fare dei nomi? Certi errori non erano da loro. A meno che, e la signora Grant deglutì, non fossero errori.
«Dillo, Grant: l'organizzazione. Credi di essere intoccabile? Di poter fare quello che vuoi alle nostre spalle?», rise lui, «Ci stiamo riprendendo il potere e dobbiamo portare via ogni cosa che ci riguardi».
«Non-», si fece coraggio, stringendo le labbra, «Non esiste niente del genere, qui».
«No?», lui rise, portando in alto una cartella con documenti all'interno. «E questa? Volevi incastrare il nostro Generale, forse?».
Cosa? Cat Grant non aveva mai visto quella cartella prima di quel momento.

In un sudicio bar a bere alcol non sarebbe stata una giornata sprecata, ma per una volta, Leslie Willis poteva dire di stare divertendosi di più, che Siobhan Smythe ci credesse o meno. Prima di quelle fatidiche diciannove e trenta, infatti, era sdraiata sul letto del suo appartamento a gemere insieme alla sua nuova frequentazione. Lui era peloso e con le maniglie dell'amore: Leslie amava il suo fisico che trasudava mascolinità. Uscivano da poco, ma era la miglior cosa che le era capitata nella vita dopo il ketchup sulla pizza. E di certo aveva di che distrarsi per la sospensione alla CatCo. Quella sera, però, era il suo uomo a essere distratto, cosa che non capitava spesso quando era con lei: controllava sempre che ora fosse, almeno prima che gli iniziasse a fare i grattini sulla schiena.
«Ti piace così? O dovrei andare più in basso…?», Leslie aveva riso mentre, mordendo il labbro inferiore, spingeva i suoi grattini sempre più giù, scoprendogli le natiche dal lenzuolo fucsia.
Lui aveva sorriso e, con gli occhi chiusi, si stava proprio rilassando. O almeno fino a quando non ebbe udito un rumore sospetto in casa e aveva sbarrato gli occhi. «Che ore sono, cicci?».
«Non ti serve sapere l'ora, ragazzone. A meno che tu non intenda l'ora… di un bis?», si era sdraiata sulla sua schiena ma lui si era scansato di colpo ed era scivolata sul materasso. Lo aveva visto prendere la sveglia e così scendere di corsa dal letto, cercando i boxer. «Devi prendere la medicina? E che diavolo».
«Vestiti», aveva bisbigliato e, coperto le parti intime, ricercato i suoi pantaloni per recuperare la pistola.
«Oh, mai mettersi con un poliziotto: lo diceva sempre mia madre che siete tutti paranoici e- aah».
Aveva schivato un proiettile quando l'uomo aveva tirato dalla sua parte il lenzuolo e l'aveva fatta cadere dall'altro lato. Poi si era messo a sparare verso la porta e qualcuno si era nascosto. Più di qualcuno continuava a sparare all'interno della camera padronale e il poliziotto aveva camminato a gattoni fino a lei.
«Stai bene, mia topina?».
«Tua topina un cazzo», aveva urlato, cercando di ripararsi la testa. «Mi stanno distruggendo l'arredamento! Che cosa sta succedendo? Parla o giuro che ti strappo un'orecchia a morsi».
«Devo proteggerti, cuore», aveva detto smielato, voltandosi per sparare ancora. Forse aveva colpito qualcuno perché avevano sentito qualcosa cadere e un lamento. «Devo chiamare i rinforzi. Nasconditi».
«Non andrò sotto al letto», aveva sentenziato ma, quando lui si era mosso per recuperare la radio, un proiettile aveva sfiorato il comodino e si era infilata sotto al letto più veloce di una pantegana.
La sparatoria era durata altri pochi minuti, il tempo a quattro uomini e donne armati di entrare nell'appartamento e sparare agli intrusi. Quando i compagni lo avevano visto in boxer a righe e cuori, lui si era coperto, tornando defilato in camera. Aveva tratto in salvo Leslie dal letto, dato il tempo di mettersi addosso qualcosa e così caricata all'interno di un furgoncino. Solo allora, quel poliziotto conosciuto il giorno del suo interrogatorio per la morte di Gand, le aveva rivelato cosa stesse succedendo a National City e che erano entrati in casa sua per ammazzarla per conto di Rhea: loro sapevano che Leslie Willis poteva essere un bersaglio, anche se non sapevano dove l'avrebbero trasportata per far passare il suo assassinio per accidentale. Di certo non dovevano aspettarsi una sparatoria nel suo appartamento.
«Ti sei avvicinato a me per questo? Bambolone dai piedi palmati, non ci voglio credere che sono andata a letto con te», spalancò gli occhi. «Due volte. Oggi». La donna e l'uomo con loro fecero finta di niente, spalancando gli occhi e grattandosi gli stinchi.
«No, no», scosse la testa, avvicinandosi. «I-Io non l'ho saputo prima di pochi giorni fa, quando il Generale-», si fermò e Leslie trattenne il fiato, appoggiandosi per non essere sballottata dal movimento.
«Sei uno di loro…», soffiò.
«Topina mia, l'organizzazione non è ciò che pensi tu», scrollò le spalle. «Non è Rhea Gand».

Rhea Gand. Maxwell Lord sapeva che quelle persone armate erano lì per conto suo. Li avevano radunati quasi tutti in sala mensa, mentre lui e pochi altri erano stati fatti scortare davanti a dei monitor, minacciati con pistole e fucili. Cosa volessero, restava un mistero. Chi era ben sicura di sapere cosa voleva era Selina Kyle: si era appena rimessa in postazione per studiare il perimetro del complesso quando un gruppo di gente armata si era divisa ed entrata con la forza sparando alle guardie, manomettendo i sistemi di sicurezza. Una situazione che dalle diciannove e trenta stava paralizzando la città, per lei era una manna dal cielo. Le dispiaceva di non poter aspettare Kara ma aveva approfittato della confusione per tenersi sul retro di un furgone ed entrare, scappando in fretta per non essere vista, nascondendosi dietro dei pacchi quando aveva sentito le urla ordinare di alzare le mani: due uomini armati e in passamontagna avevano chiuso le saracinesche del magazzino e spinto i dipendenti a seguirli all'interno. Allontanati, Selina si era mossa veloce verso la porta e spiato prima di uscire. Aveva sentito le grida spaventate, qualche sparo finito chissà dove e aveva chiuso gli occhi, appiattendosi al muro per paura. «Cosa cavolo sta succedendo…», aveva borbottato. Si era nascosta dietro una porta quando aveva scorso delle ombre che si avvicinavano e tentato di chiamare Kara, trovando occupato. Di certo non poteva chiamare la polizia. Così aveva acceso la torcia tascabile che si portava dietro e si era guardata attorno, trovando solo stracci, secchi e scope. «Uff… Allora, sono Maxwell Lord, dove terrei le cose losche?». Era certa che, riuscendo a scendere di sotto, nei laboratori, qualcosa l'avrebbe trovata.
La situazione era meno rosea là sopra: la gente armata aveva ordinato ad alcuni dipendenti davanti ai pc di cercare file in memoria su date che loro stessi fornivano. Maxwell era tenuto d'occhio, da un lato: manteneva un'espressione enigmatica, come se fosse infastidito quanto curioso. «Sapete? Non siete tenuti a farlo, potete parlarne con me», si era indicato, «Invece di puntare le armi contro il mio personale». Le donne e gli uomini ai pc si erano girati verso di lui, quasi sperando in un aiuto.
«Chiudi quella fogna», gli ordinò una voce maschile, accanto. «Ti sento spesso in tv, sei solo tante chiacchiere, Lord. Ma ho sempre saputo che hai la puzza al naso».
Lui sorrise, annuendo un poco. Tirò fuori un cellulare da una tasca dei jeans, quando nessuno guardava. Scrisse velocemente qualcosa, prima di essere sorpreso: l'uomo gli puntò la pistola e se lo fece consegnare, per poi lanciarlo a terra. «Oh, è nuovo. Tanto non prendeva».
«Chiudi-quella-fogna».
«Posso almeno sperare di sapere cosa fate qui?».
L'altro si portò le mani in testa e dopo gli puntò di nuovo contro la pistola, seccato. «Ti potrei uccidere, lo sai, questo? Perché non stai zitto?».
Lord sospirò, increspando le labbra. «No, non credo. Se avessi voluto spararmi, lo avresti già fatto, lo so, posso essere irritante», alzò le spalle. «O non avete il permesso di farlo, o vi manca il coraggio e questo mi fa pensare che siate, in fondo, dei dilettanti».
«Cosa?», strabuzzò gli occhi e gli puntò l'arma al petto, ma la mano gli tremava. Dopo si voltò e ordinò alle persone ai pc di muoversi, perché erano ancora fermi. Gli altri terroristi seguirono l'esempio, gridando.
«Non dilettanti allo sbaraglio, avete una certa manualità, ma sicuramente questa è la vostra prima missione del genere. Mi sbaglio?», assottigliò gli occhi e si accostò all'uomo, sorridendo. «Lo so chi siete e chi vi ha mandato», scosse la testa, «Ma non c'è niente per voi, qui», sussurrò infine.
L'uomo col passamontagna non seppe cosa dire, ma presto non ce ne sarebbe stato bisogno: si udirono spari, urla e tutti si voltarono verso due dei loro uomini che presero a sparare contro gli stessi compagni. Iniziò una sparatoria e Lord ordinò al personale di mettersi al riparo che, in quel momento, intravide Alex Danvers: oh, aveva forse appena iniziato a sognare? Alex Danvers era venuta a salvarlo? Si coprì dietro un muretto e la vide saltare su un tavolo con estrema precisione e sparare, abbassarsi e sparare, colpire un terrorista alla spalla e sparare ancora verso altri uomini giunti sul posto. Gli agenti con lei le davano man forte, certo, ma la vera star era solo Alex Danvers. Aspettò che si riparasse contro il muretto a fianco a lui per salutarla: «Non puoi sapere quanto sia felice di vederti», attirò la sua attenzione, «La mia giornata ha appena iniziato ad avere un senso».
Lei incurvò le labbra. «Chiudi la fogna», sbottò, alzandosi per sparare ancora.
«Ah. Dev'essere l'espressione del giorno».

Rhea Gand era ancora in macchina, parcheggiata a un lato della strada: sbottò con ferocia quando vide dal tablet che la centrale di polizia era stata liberata, era successo lo stesso a due emittenti televisive, al municipio e ora il D.A.O. era entrato alla Lord Technologies. Cosa stava succedendo al suo piano perfetto? Come faceva il D.A.O. a sapere della sua operazione? «Qualcuno mi ha tradito», ringhiò, salendole la pressione. Aveva chiaramente visto dalle telecamere nascoste dai passamontagna dei capisquadra come alcuni dei loro si erano ribellati. «Avevo pensato a tutto, a tutto! Come possono essermi sfuggiti questi dissidenti?». Aveva anche notato le facce conosciute di alcuni omega dalle riprese, persone che aveva sperato di mettere dalla sua ma che si erano rivelati troppo fedeli a Zod.
Il bodyguard al suo fianco scrollò le spalle. «Il Generale Zod deve averla scoperta, signora Rhea».
«Non dirlo: lui è morto. Abbiamo sentito gli spari».
Gli spari, chiaro. Il bodyguard annuì ma non proferì oltre, mentre lei cambiava inquadrature. Accidenti, la squadra inviata a uccidere Lillian Luthor si era esposta: li videro sparare verso l'auto in pieno traffico, la gente per strada scappare, una macchina a fianco sparare di rimando verso di loro.
«No, no, no», strinse un labbro coi denti, sbavando il rossetto. «Dovevano riuscire a creare un incidente, cos'è questa porcheria? Sono degli incompetenti». Lui alzò le spalle di nuovo.
Gli uomini alla Luthor Corp tenevano ancora in ostaggio il personale e avevano fatto fuori le guardie, come programmato. Qualcosa da quel macello poteva ancora salvarsi, dopotutto. «Devono solo infilare una chiavetta e inserire quei dati su Zod, perché ci mettono tanto? Incolperanno sia lui che i Luthor».
«Che senso ha, signora Rhea? Pensavo volesse farli uccidere».
«Sì, sì, certo», disse, «Ma con questo morirà anche la loro reputazione. Resterebbe quel Lex, ma lui non conta: si sa che ha dei problemi, dagli una bella tragedia famigliare e cadrà in depressione».
Il bodyguard la fissò curioso: «Non lo fa uccidere perché al momento si trova a Metropolis, non è vero?».
«Certo che è vero. Posso accontentarmi», rispose con sufficienza e riguardò il tablet. «Oh, pare che siano riusciti a entrare: presto troveranno Lena Luthor e sarà un nome da spuntare in agenda».
Odiava i Luthor. Forse non li avrebbe fatti uccidere se Lillian non l'avesse minacciata, ma sarebbe stato un sospiro di sollievo non averli più intorno. Quando era più piccola e si affacciava al loro mondo le prime volte, nutriva una certa stima nei loro confronti. Erano una famiglia potente e Levi Luthor era una specie di colonna portante. Anche se sapeva, certo, che non era lui il vero re. Avrebbe dato qualsiasi cosa per essere come loro e sapeva di potercela fare, erano il suo esempio. Conobbe Lillian che era la fidanzata perfetta di Lionel Luthor e stavano per convolare a nozze. Lei era già membro dell'organizzazione ma sapeva che Lillian, solo per andare in moglie a lui, l'avrebbe scavalcata. Eppure al tempo non le interessava poiché Lillian era bella, elegante, severa e, seppure poco più piccola di lei, un modello da seguire. Per questa ragione quando Levi Luthor morì, era felice che Lionel e Lillian prendessero il suo posto in presidenza. Solo con l'andare del tempo capì che loro non erano che un miraggio, che non erano degni del posto in carica né del loro cognome, e che con la sua guida, l'organizzazione avrebbe potuto dare molto di più. Ricercò consensi già allora, instillò dubbi sulla loro condotta e, quando trovò qualcuno adatto da additare come nemico, sapeva che quei due sarebbero caduti in fallo. Lionel era debole e avrebbe trascinato Lillian con sé. Non si aspettava di certo che Zod, dall'alto della sua influenza, che era sempre stato leale ai Luthor come un cane, si sarebbe candidato contro di lei. Aveva vinto per poco. E così aveva iniziato ad aspettare un momento migliore. Proprio lui, maledetto, che gli aveva portato via sua sorella e voleva portarle via tutto il resto.
«È stato lui, ammettilo! Dru ti ha fatto cambiare idea sulla mia iniziazione». Le tornò alla mente il ricordo di allora, ancora nitido nonostante i tanti anni trascorsi. Petra era così bella che si era domandata spesso se, alla sua età, anche lei lo sarebbe stata. Si vedeva allo specchio e trovava solo una ragazzina in carne con una brutta espressione accigliata e i brufoli sul mento, anche se già allora, un certo Lar Gand le diceva di essere bellissima. Non lo aveva scelto a sproposito; lui aveva sempre avuto il dono di farla sentire speciale. Ma se dentro sé già covava la fiamma della determinazione, era in realtà molto insicura e senza persone come Lar, o come Petra, non avrebbe buttato giù il muro che ogni tanto rinforzava per proteggersi dal mondo. Entrare a far parte dell'organizzazione era tutto ciò che voleva perché loro riuscivano a capirla e accettarla, a far emergere se stessa. A darle uno scopo.
«Ti prego, Petra! Non puoi abbandonarmi così», aveva stretto i pugni e lei l'aveva guardata con apprensione, avvicinandosi alle scale di casa.
«Io non ti abbandono, Rhea! Vado a vivere con lui, ma tu resti la mia sorellina», si era avvicinata ma, quando lei era tornata indietro con odio, si era bloccata sui suoi passi. «Non puoi fare in questo modo, tu credi di conoscere quelle persone, ma non è così! Sì, ti fanno sentire speciale e parte di qualcosa di più grande, ma c'è dell'altro! Non fanno solo cose buone», aveva scosso la testa.
«Vuoi tenerti tutto per te».
«No! Sei piccola e non puoi capire. E adesso basta: solo io posso iniziarti e non intendo farlo».
La Rhea quindicenne aveva aggrottato la fronte e, a bassa voce, sibilato: «Non solo tu puoi farlo».
Guardò il tablet e cercò di calmarsi, prendendo grossi e lenti respiri. Lena Luthor era in trappola all'interno della Luthor Corp, non sarebbe potuta scappare. L'unico rimasto operativo al campus universitario cercava Kara Danvers, ma insieme al compagno avevano colpito gli agenti che le facevano da scorta, era questione di poco prima che la trovasse. E quell'oca starnazzante di Siobhan Smythe era caduta nella tana del lupo. La sua operazione poteva andare avanti, non tutto era perduto.


***


Siobhan tremò, tenendo il cellulare ben stretto nella tasca. La sua chiamata con Kara era ancora aperta, ma non rispondeva più. Doveva venire a salvarla, accidenti. A salvarla.
«Forse qui non ci troveranno», esclamò lui, guardando verso il vetro della porta.
«Io lo sapevo che stamattina me ne sarei dovuta restare al letto, lo sapevo», ringhiò. «Cosa facevi in ascensore, a proposito? Come sei riuscito a scappare?».
«Ah… s-si erano distratti un attimo e non mi hanno visto. Speravo di scendere al piano terra ma ero molto nervoso e immagino di aver sbagliato. Di nuovo», ansimò con ansia, passandosi una mano sulla fronte sudata. «Sono un uomo sfortunato». Prese il cellulare e provò a cercare campo, abbassando le luci dello schermo per trattenere la batteria.
«Sfortunato?», sbottò lei, «Questa mattina ero alla centrale di polizia per aver aggredito un uomo e adesso non so cosa darei per tornare indietro e farmi trattenere in cella! Tu sei semplicemente l'inetto di sempre, Mcbrown».
Lui emise un breve sorriso. «Già, penso tu abbia ragione». Scrisse un messaggio sul telefono e inviò:
È con me. Aspettate il mio segnale.







































***

Che disastro! Che disastro! L'Operazione ha chiuso National City in una scatola, ma se da una parte il piano di Rhea non sta funzionando come dovrebbe (anche grazie a Zod), dall'altra, le nostre protagoniste sono ancora in trappola.
Come faranno a cavarsela, adesso? Qualcuno andrà in aiuto ?
Eh sì, ho dovuto per forza di cose tagliare il capitolo a questo punto, sorry. Spero vi piaccia quanto letto finora :P
Facendo il punto della situazione… Lillian ed Eliza stanno scappando dalla macchina inviata da Rhea, creando scompiglio sulle strade. Leslie Willis se la stava spassando, finché non hanno iniziato a spararle addosso. Maxwell Lord, enigmatico come al solito, ha spazientito uno dei terroristi che chissà se gli avrebbe sparato, distratto all'ultimo da due dei loro che hanno iniziato a sparare contro i compagni e dall'entrata in scena di Alex Danvers e del D.A.O.. Maggie Sawyer è andata ad aiutare la squadra di omega dell'organizzazione guidata da Charlie Kweskill. Kara e Barry hanno trovato un corpo al campus e sono riusciti a catturare uno dei terroristi inviati per uccidere la ragazza. Lena, invece, si trova con James Olsen all'interno di una zona nascosta della Luthor Corp, hanno visto dalle telecamere che Winn è nei guai, ma pare proprio che questi raggiungeranno presto anche loro; mentre Indigo, scrivendo direttamente al cellulare di Lena, le chiede con preoccupazione di darle i dati d'accesso dell'azienda per aiutarla. Siobhan Smythe se la stava facendo quasi letteralmente sotto e ora crede di essere al sicuro, ma lo sarà davvero? Tutto questo, intanto che John Jonzz e Megan mangiano lo zucchero filato a Metropolis. Ah, l'amor- emh, che disastro. Davvero, che disastro!
Se la caveranno tutti? O Rhea riuscirà a portare via almeno qualcuno di loro? Si dia il via al totomorte! Ah no, quello è per l'uscita di Avengers Endgame :P Si scherza…

In attesa del prossimo capitolo, vi propongo un giochino con questo.
Solitamente, quando e se metto dei piccoli indizi sul futuro della storia, non ho l'abitudine di scriverlo e chi è attento se ne accorge, altrimenti pazienza. Stavolta, sarà sempre pazienza se non li cogliete, ma vi sto dicendo che ci sono. Allora, ci sono ben tre particolari da scovare in queste righe e, se ne trovate almeno due su tre, vincete una caramella virtuale!! (Lo so, accontentiamoci. Ci sarà anche un bravissima/o!!).
  • Il primo è facile, si tratta di una cosa scritta, pulita pulita.
  • Il secondo è di difficoltà media, si tratta di una domanda che potreste farvi su qualcosa.
  • Il terzo è difficile, si tratta di qualcosa che non è proprio scritto sulle righe e che potreste capire solo più avanti. Ma se vi accorgete del particolare in sé, è già qualcosa.
In realtà c'è anche un'altra domanda che potreste porvi, ma non è chissà quale dettaglio per la trama, anzi, è una cosa che si saprà col prossimo stand alone. Quindi la escludo dal giochino.

Non mi vengono in mente note da scrivere, dunque chiudo e ci rileggiamo venerdì 19 col prossimo capitolo e la seconda parte sull'Operazione che si intitola Futuro :)
Mi spiace solo che il 21 sarà Pasqua ma il capitolo sulla Pasqua sarà il 47. Ero vicina a rilasciarlo per lo stesso periodo del calendario, per una volta XD Non ci stavo coi tempi, peccato!


   
 
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