I'm
back, bitches! [cit]
Emh.
Eccoci finalmente di ritorno dopo le vacanze estive! Spero di esservi
mancata. Vi siete
divertiti? Ma soprattutto, vi ricordate dove eravamo rimasti e che al
mio ritorno vi aspettava un bellissimo stand alone? :D Beh,
sarà un
po' difficile da seguire, ma se potete state attenti: questo capitolo
è molto importante per il passato, il presente e il futuro
della fan
fiction. E chi vuole cogliere (?), colga!
Buona
lettura!
Ricordava
la sirena dell'ambulanza, parcheggiata di fronte a casa Taylor, che
girava ininterrottamente. Petra lo aveva chiamato per andarla a
prendere e si era mosso subito da casa, aveva parcheggiato l'auto a
pochi metri ed era sceso reggendosi i capelli alle spalle,
spettinandosi, spalancando gli occhi di terrore. Aveva iniziato a
correre senza rendersene conto ed era già davanti alla porta
di
casa, aperta. Qualcuno lo aveva afferrato per le spalle e forse aveva
detto qualcosa, era sicuro che avesse detto qualcosa, ma non aveva
sentito, non ricordava una sola parola di quel momento
perché,
l'unica cosa che davvero aveva sentito, era la sua tachicardia che si
appoggiava a un attacco di panico crescente. Cos'era successo? Doveva
andarla a prendere, doveva solo andarla a prendere e… Rhea.
Aveva
visto quella ragazzina, lì, a pochi metri dalla porta. Dei
poliziotti la circondavano: le avevano messo sulle spalle una coperta
e cercavano di parlarle, ma lei non emetteva fiato. Era immobile, si
guardava le mani. Aveva visto come si guardava le mani. E dopo aveva
visto lei
e sì che ricordava le urla. Sembravano distanti, provenire
da
qualcun altro, ma erano sue: strazianti, disumane come ciò
che aveva
provato. Aveva gridato il suo nome e si era messo a correre, nessuno
poteva fermarlo. Petra giaceva a fondo delle scale: gli occhi aperti,
la bocca socchiusa, un braccio girato al contrario, riverso sulla
schiena. Più cercava di ricordare quel momento,
più Adrian Zod la
ricordava fredda, di pietra, di un colore più simile al
marmo che a
quello di un cadavere. Il suo cervello si sforzava per sostituire le
reali immagini con ciò che indicavano le sue emozioni. Non
voleva
perdere quelle immagini, ma non poteva fermarle. Ci provava sempre.
Voleva ricordare Petra com'era morta davvero, non come l'aveva
sentita allora e la sentiva oggi. Voleva ricordare Petra com'era
morta, e non solo il suo sorriso e com'era fare l'amore con lei.
Voleva ricordare Petra com'era morta e Rhea che si guardava le mani.
«Non
fategliela toccare! Spostatelo da lì». I
poliziotti lo avevano
tirato indietro e lui aveva urlato di nuovo.
Avevano
coperto il corpo di Petra Taylor con un telo e il giovane Dru Zod
aveva lanciato un'occhiata irosa alla quindicenne Rhea Taylor, che
ancora si guardava le mani. «Tu! Sei stata tu!»,
aveva gridato e
lei sobbalzato, spalancando gli occhi impauriti, tornando un passo
indietro. «Lo so che sei stata tu». L'aveva poi
indicata ai
poliziotti: «È stata lei! Ha ucciso la mia Petra!
Era gelosa! È
stata lei».
Tremando,
Rhea aveva continuato a guardarlo mentre lo trascinavano fuori.
Allora aveva paura e, in questo momento, ne provava altrettanto,
perché erano soli in quella saletta delle visite, divisi da
una
grata e un bancone che lui poteva sorpassare e lei no, ammanettata a
un gancio. Le telecamere erano spente, la porta chiusa e con le
tapparelle abbassate. C'era uno specchio ma non era sicura che,
dall'altra parte, qualcuno stesse tenendo d'occhio il loro colloquio.
E poi, anche fosse, non aveva dubbi su come Fort Rozz fosse sotto il
suo comando. Nessuno sarebbe venuto a salvarla, se a Dru Zod fosse
venuto in mente di ammazzarla. «Sei venuto qui per
guardarmi?», gli
domandò. Voleva provargli come non avesse paura, ma era
inutile se
la gola le si seccava e le mani, tenute strette sul banco, tremavano.
«Stavo
osservando i tuoi occhi», disse piano, attento a non perdersi
un suo
solo movimento di ciglia. «Non avevo mai fatto caso a quanto
fossero
diversi da allora». Lei alzò un sopracciglio e
lui, serio, rispose:
«A quando uccidesti Petra».
Lei
spalancò le narici e cercò di stringere i pugni,
ma non poteva.
«Non ho ucciso mia sorella. È stato
un-».
«Incidente»,
la interruppe. «Dicesti questo. Dicesti molte cose, al
tempo»,
prese una pausa, aprendo la bocca ancor prima che gli uscisse una
parola. «Sei stata lucida, poi confusa, di nuovo lucida. Ho
riguardato così spesso i file del caso, da quando sono
entrato in
polizia, da sapere ogni virgola dei fascicoli a memoria. Hai fatto di
tutto per farti considerare una testimone inaffidabile: la povera
sorellina incapace di ricordare cos'era veramente successo, troppo
scossa emotivamente, troppo», si alzò dalla sedia
e lei sussultò,
«turbata. Un incidente, però c'era qualcun altro
in casa, poi di
nuovo un incidente. Non ci sono mai stati elementi per riaprire il
caso. Te la sei sempre cavata».
«Che
cosa vuoi, Dru? Uccidermi per vendicarti? Almeno sii chiaro…
Finirai per uccidermi di noia», barbottò infine,
non troppo
convinta. «Petra è caduta dalle scale,
no-».
«Lo
so che l'hai spinta tu!», urlò all'improvviso,
battendo le mani sul
banco.
Lei
restò ferma, ghiacciata. Un brivido di paura le percorse
tutto il
corpo come una scossa di terremoto.
«Ma
non voglio ucciderti», specificò con voce
più calma, tirando le
labbra fini. «Voglio che confessi».
«Così
da… Così da», riprese un po' di
coraggio, «farmi uccidere dal
sistema? Vuoi chiedere la pena di morte? Per questo hai fatto in modo
che non la chiedessero al processo su Lar?».
Lui
si rimise dritto con la schiena, sistemando la giacca e i polsini.
«No. Non hai capito, Rhea: la confessione è per
me. Per Adrian Zod,
non per il sistema. Tu resterai qui dentro, viva, controllata, alla
mia mercé. Tu resterai qui per me perché sei
più utile da viva,
che da morta».
Lei
lo fissò con aria di supplica, ma doveva sapere che non
sarebbe
servito. «Non… confesserò»,
strinse i denti, «mai». Scosse la
testa e lui sospirò.
«Lo
farai. Ma ora mi serve un favore, sarà Astra a parlartene.
Andate
d'accordo? Sì?».
«Come
farai quando il tuo cagnolino uscirà di qui?»,
domandò lei,
irrigidendo le labbra. «Lo farà presto, no? Il
processo inizierà a
giorni. Hai già addestrato qualcuno di fiducia? Come fai a
sapere
che non ti tradiranno di nuovo, come quella poverina di Faora Hui?
L'hai addestrata tu», rise, «l'hai cresciuta quasi
come una figlia
e lei ha preferito me a te. Ho sentito che si è risvegliata
dal
coma. Cosa le succederà?».
Zod
abbassò lo sguardo e dopo si avvicinò lentamente.
Le poggiò una
mano su una spalla e la sentì tremare sotto di lui, con
evidente
paura. L'uomo si limitò a picchiettare. «Pensa
alla tua
confessione». Dopodiché la lasciò,
chiudendo la porta della
saletta dietro di lui. Charlie Kweskill era seduto sulla panchina
lì
in corridoio e si alzò di scatto appena lo vide, andandogli
incontro. «No, non ha confessato ma lo
farà», rispose a una sua
occhiata.
«E…
E se non lo farà?», domandò incerto,
tenendosi indietro a lui di
un passo. «Cosa faremo per tirarle fuori le parole dalla
bocca,
Generale?».
Lui
sospirò a labbra strette, decidendo di non rispondere.
«Com'è
andata con Maggie Sawyer, stamane?».
«Oh,
bene. Stiamo legando, come avevo previsto», annuì
accompagnando un
sorriso soddisfatto. «Mi racconta della sua bambina
all'asilo, ha
iniziato a frequentarlo. Parliamo del più e del meno. Sembra
fidarsi».
«Non
fare il passo più lungo della gamba, Charlie»,
chiosò lui ed
entrambi entrarono in un ascensore.
Il
ragazzo pigiò il pulsante e si tenne distante da lui un
passo,
aggrottando la fronte. «Non lo faccio, Generale. Cerco solo
di
essere accomodante, per favorire un rapporto di amicizia. Mi piace
quella ragazza, magari riesco a farla aprire su cosa pensa di noi per
il turno pomeridiano», guardò l'orologio sul
polso, mordicchiando
un labbro. «Sì, ho giusto il tempo di mettere
qualcosa sotto i
denti e vado. Vuole unirsi a me per un milkshake a gusto
unicorno?».
Lui
si accarezzò la pancia che iniziava a brontolare, facendo
una
smorfia con la bocca. «Mia moglie mi ha messo a dieta,
passo».
«A
dieta lei? Noo»,
corrucciò la fronte, esterrefatto. «Non lei,
Generale! Io non la
trovo affatto ingrassato, magari giusto un po' sui fianchi, ma
è per
via dell'età». Deglutì e
impallidì quando l'altro si volto per
fissarlo assottigliando gli occhi. «Ma non si
nota», aggiunse di
fretta, «anzi, lei è un bell'uomo! Vorrei essere
ancora così
affascinante alla sua… dove
sta lei».
«Sai,
Charlie», si girò di nuovo verso le porte
dell'ascensore,
disponendo le mani dietro la schiena. «Un giovane
intelligente come
te dovrebbe sapere quando è ora di tirarsi indietro a una
discussione prima di peggiorare la situazione». Diede
un'occhiata al
suo cellulare, per poi nasconderlo in un taschino.
«Sì,
Generale».
«E
cambio di programmi: non avrai il turno pomeridiano con Sawyer, lei
è
con me, sono arrivati i pacchi. Fatevi sostituire e vai a trovare
Faora in ospedale».
«Oh,
volevo giusto andare a vedere come sta. Dev'essere difficile
riprendersi, nella sua condizione», gli venne da sorridere
involontariamente, prima di ricordarsi che la ragazza aveva tradito
il Generale e che ora il suo futuro era appeso a un filo.
«Meno
pagliacciate, più professionalità», gli
ricordò Zod, in risposta
al suo entusiasmo. «Fammi sapere come sta; passerò
a trovarla
domani».
Le
porte dell'ascensore si spalancarono e Alex Danvers sbarrò
gli
occhi. I due le fecero spazio e la salutarono con gesti silenziosi
mentre uscivano, che lei ricambiò, fredda. Le porte stavano
per
richiudersi che Alex serrò le labbra e le bloccò
con una mano,
andando incontro ai due, chiamando il capitano Zod. La
guardò, in
attesa, e lei prese fiato, decidendo di fare buon viso a cattivo
gioco. «Volevo ringraziarla per il posto all'asilo per Jamie.
A lei
piace molto, può conoscere altri bambini e… si
diverte», tentò
un sorriso. Lo vide annuire e, dopo poco, voltarsi, così
proseguì:
«Mi chiedevo solo quando ci farà pagare questo
favore. E come».
Charlie
Kweskill piegò le sopracciglia con curiosità e
Dru Zod la guardò
con insistenza, prima di proferire parola: «Pensa che ci sia
un
prezzo da pagare? La felicità e l'istruzione della bambina
non è
sufficiente?».
Alex
abbozzò una risata sarcastica, guardando intorno a lei come
le
guardie di Fort Rozz giravano in tondo come vespe, fingendo
disinvoltura, assicurandosi di non perdere ogni suo movimento. Era
certa che se avesse provato a prendere la pistola dalla fondina,
sarebbero schizzati su di lei per bloccarla. «Non
è così che
funziona con voi, solitamente», scrollò le spalle,
facendo
intendere di non avere intenzioni bellicose.
«È
chiaro che si sbaglia e ci confonde per qualcos'altro, agente
Danvers», mormorò il capitano Zod. «Le
mie intenzioni sono
cristalline e lo sono sempre state per Maggie Sawyer, e
perché non
dovrebbero esserlo per lei, che è la sua compagna. Non
c'è
nient'altro».
Alex
ingurgitò saliva, prendendo fiato a narici spalancante.
«Prima o
poi la metterò agli arresti… Generale».
«In
attesa che arrivi quel giorno», soffiò lui, senza
scomporsi, «le
auguro una buona giornata». Si allontanò e Charlie
lo seguì a
ruota, affermando quanto non sembravano starle simpatici.
Alex
li tenne d'occhio fino a quando non uscirono dal complesso e
sparirono dalla sua vista, tornando indietro verso l'ascensore.
Sbuffò, quando le porte le si chiusero davanti. Sentiva
anche lei la
frustrazione che gravava sulle spalle del suo capo, John Jonzz.
Sapevano di Zod e avevano le mani legate, in assenza di prove. E lui
poteva continuare a fare ciò che voleva, indisturbato. Come
monopolizzare la centrale di polizia, o così le disse
Maggie: anche
lì non avevano prove atte a dimostrarlo ma, da quando l'FBI
aveva
lasciato il distretto ed erano arrivate le nuove reclute per
sostituire la perdita degli uomini e donne che avevano rapito Jamie
quella volta, aveva avuto come la sensazione sulla pelle che fossero
tutti sotto gli ordini di Zod e non come capitano della polizia, ma
come presidente dell'organizzazione, come Generale.
Erano omega. O come monopolizzare quel posto, il carcere Fort Rozz.
Nessuna prova anche qui, ma l'aria che si respirava da quelle parti
tirava inequivocabilmente in un senso ben preciso. Se solo fosse
riuscita a impossessarsi delle chiavette con i dati che i terroristi
di Rhea Gand avevano cercato di immettere nei punti colpiti…
Grazie
a Kara, ora sapeva che una di quelle pennine usb era nelle mani di
Clark Kent e Lois Lane, ma era comunque in alto mare per tutto il
resto. Doveva solo sperare che Indigo Brainer non avesse niente a che
vedere con l'organizzazione, in modo che il direttore della prigione
non le mentisse e poteva risolvere qualcosa. In mezzo a tutto quel
disastro, almeno una cosa.
Le
dissero di accomodarsi e lo stesso direttore, seduto dietro la
scrivania, le indicò la sedia. Era un uomo in carne, pochi
capelli
brizzolati ai lati, occhialetti fini e tondi sorretti dal naso dalla
pelle grassa e butterata. Le sorrise e le strinse una mano, mentre
Alex si sedeva. «Qual buon vento la porta qui, agente
Danvers?».
Notò
come l'uomo si sfregava le mani e forzava un sorriso, quasi fosse
nervoso. Ma nervoso perché? Sapeva già
perché si trovava lì?
Maggie
era nervosa. Le sue mani tremavano: cercava di stringerle sul grembo,
seduta con lo schienale dritto sull'automobile a lato del guidatore,
ma le sfuggivano dalle dita e, subito, schizzavano al suo controllo.
Zod notò la sua bocca muoversi con incertezza, quasi volesse
prendere parola per poi cambiare idea sul momento di farlo.
Dopotutto, le aveva detto che le serviva per qualcosa di urgente, ma
non aveva specificato dove sarebbero andati e perché.
Parcheggiarono
vicino ad altre macchine e si tolsero la cintura di sicurezza, ma lui
non aprì la portiera e lei attese.
«Voglio
metterti al corrente, Sawyer: ciò che troverai non ti
piacerà».
Lei lo guardò con un misto di curiosità e paura.
«Ma devi sapere
che avrai il potere decisionale. Che tutto dipenderà da
te».
«Non
so ancora di cosa si tratta, signore».
«Ti
spiegherò quando ci sarai davanti», le disse
serio. «Credi di
essere pronta?».
Maggie
non rispose subito. Scosse la testa poco, stringendo le labbra e
guardando in avanti: si trovavano in un deposito di box. Cosa mai
avrebbe potuto contenere lì? E che potere decisionale
avrebbe dovuto
avere in merito? Sperava solo che non ci fossero cadaveri
perché
ormai iniziava a immaginarsi il peggio. «La verità
è che… non lo
so», scrollò le spalle e lui annuì, in
ascolto. «Il mio ingresso
nell'organizzazione non potrà avvenire dentro un box. Ne
sono
certa».
«No,
difatti», anche lui guardò in avanti, solo un
momento. «Ma spero
che ciò per cui siamo qui oggi avrà un relativo
peso sulla tua
decisione di unirti a noi».
Beh,
allora non l'avrebbe uccisa dentro quel box. Era il suo secondo
pensiero. In ogni caso, aveva la pistola nella fondina della divisa.
«È che…», sospirò,
formando un sorriso malinconico. «Quando mi
sono iscritta nella polizia, non pensavo mi sarei ritrovata in
situazioni di questo tipo, mi trova impreparata, l'accademia non
accennava a niente di simile», abbozzò una risata,
durata poco.
Allora deglutì, scuotendo ancora la testa. «Era
mio padre il mio
mentore… e non posso chiedergli consigli di questo
genere»,
inclinò la testa da un lato, focalizzando un punto lontano
del
parcheggio, senza interesse. «Da quando mi vuole nella sua
organizzazione, mi chiedo cosa avrebbe fatto lui al posto
mio».
Cosa…
avrebbe fatto. Zod abbassò lo sguardo perdendosi nei
ricordi,
rivedendo Petra che, incerta, camminava avanti e indietro sui propri
passi. Che cosa avrebbe fatto?
«Ho
cambiato idea e non so come dirglielo», aveva detto Petra,
cercando
di forzare un sorriso. Si era portata i capelli sciolti dietro le
orecchie e ripreso a camminare. «Rhea non è pronta
e anzi, sai che
cosa comincio a pensare? Di non esserlo nemmeno io! Che non dovrebbe
esserlo nessuno», aveva ripreso a dire, frenetica.
«Pensavo che
nell'organizzazione avremo cambiato questa città, ma i
Luthor… i
Luthor no, Dru, non sono normali, si comportano come
mafiosi».
«Non
puoi cambiare idea, Petra», aveva risposto lui, aggrottando
la
fronte. «Abbiamo firmato i contratti, non puoi fingere che
non sia
successo e», aveva sorriso e anche lui si era tirato i
capelli
lunghi dietro le orecchie quasi a sventola, «abbandonare
perché
loro non ti piacciono».
Petra
si era fermata di scatto lisciando convulsamente la rigida gonna alle
ginocchia, color porpora, che indossava. «Questo
però non mi
obbliga a iniziare la mia sorellina di quindici anni! Tu lo faresti,
al posto mio? Non dormo al pensiero di cosa avrebbe fatto Rhea al
posto mio».
Zod
scosse lentamente la testa, sforzandosi per tornare alla
realtà.
Uscirono dall'auto e, chiavi in mano, la guidò all'interno
del
complesso, districandosi tra i corridoi fino alla serranda del box
interessato. Non c'era alcun rumore, nessun altro che cercava il
proprio box, solo gli uccellini che cantavano sugli alberi davanti al
parcheggio e qualche clacson lontano. La vedeva come ispezionasse
ciò
che le stava intorno e come, probabilmente, cercasse di memorizzare
il percorso verso il box: era una poliziotta ma, soprattutto, una
poliziotta che ancora non si fidava del tutto di lui. «Ho
prenotato
il deposito completo per quarantotto ore: non disturberà
nessuno».
Maggie gli annuì, ma le sue pupille erano dilatate e gli
occhi
schizzavano da una parte all'altra: aveva paura. Inserì la
chiave
nel lucchetto e sollevò la serranda. Lei entrò
all'interno del box
solo dopo di lui, con la mano destra che aleggiava intorno alla
fondina della pistola. C'era buio. L'uomo riabbassò la
serranda e
superarono l'ingresso coperto da teli di plastica, sollevandoli al
loro passaggio. Appena li vide, Maggie Sawyer si comportò
esattamente come si aspettava: cercò di raggiungerli in
fretta per
poi bloccarsi all'ultimo, domandandosi perché quella coppia
fosse
legata e imbavagliata a una sedia, girandosi con sconcerto verso di
lui. «Non ti agitare. Ricorda che hai tu il potere
decisionale».
Maggie
manteneva gli occhi spalancati, guardando lui e di nuovo loro. Cosa
stava succedendo?
Lui
era un uomo alto, talmente che la sedia sembrava fatta per dei
bambini; la fronte ampia, gli occhialetti rettangolari e sporchi che
gli scivolavano dal naso sudato; era vestito elegante, con completo
grigio a scacchi e una cravatta anonima. Anche la donna era elegante,
indossando un vestito estivo a tema floreale, i capelli cotonati che
ricadevano sulle spalle, le scarpe col tacco. Oh, una le era
scivolata via dal piede.
Erano
legati e non potevano parlare perché il bavaglio glielo
impediva, ma
lo facevano abbastanza con gli occhi spiritati che la seguivano, in
cerca di aiuto.
Aveva
paura di trovare cadaveri, o che volesse ucciderla, ma le persone
rapite proprio non le erano venute in mente. «Chi sono? Che
cosa
hanno fatto per essere qui?». Incurvò la testa,
cercando di
scorgere dettagli che a un semplice sguardo sarebbero passati
inosservati.
«Considerali
un regalo», mormorò da un angolo del box mentre li
osservava
dibattersi. «I miei li hanno rintracciati prima che
lasciassero il
continente per fare ritorno in Russia. Ti presento il signore e la
signora Petrov, che erano pronti a prendere tua figlia e partire con
lei verso una nuova casa».
A
quelle parole, Maggie ebbe un brivido, fermandosi. Loro erano la
coppia a cui quei poliziotti che l'avevano rapita l'avrebbero
consegnata? Tornò indietro di un passo e aggrottò
la fronte,
fissando i loro sguardi colmi di terrore. No, non era pronta a
questo, perché…? Credeva che la faccenda si fosse
conclusa e che
vivesse solo nelle sue paure più nere che la spingevano a
controllarla perché dormisse o che giocasse e non fosse
sparita. La
sua bambina… Chiamata Jamie per simboleggiare la
libertà, rapita,
venduta e trascinata in un paese repressivo dove essere gay, come la
sua mamma, era un crimine. Per un attimo pensò di sentirsi
male, ma
c'era un'ultima lettura più terrificante di
quell'avvenimento: il
suo potere decisionale in cosa consisteva? Cosa voleva che facesse
con quella coppia?
Come
potesse leggerle nella mente, Zod si allontanò dalla parete
e la
raggiunse mentre si sedeva sul cemento, guardando con lei i signori
Petrov che ballavano sulla sedia per cercare inutilmente di
liberarsi. Le poggiò una mano una spalla e Maggie
sussultò, per poi
scuotere la testa e reggersi la fronte. «Non eri preparata a
questo», mormorò, «ma era qualcosa di
irrisolto. Non era mia
intenzione turbarti».
«Ci
è… Ci è riuscito lo stesso. Da quando
tempo sono qui?».
«Sono
arrivati questa mattina. Hanno viaggiato con la mia squadra per
qualche giorno». Parlava con naturalezza, come se fosse stato
normale. «Hanno controllato la cronologia del loro
pc».
«Chi?».
«La
mia squadra. Li conoscerai», rispose pacato. «Il
signor Petrov è
sterile, sono fuori dalla lista di adozioni per via dell'età
e non
volevano perdere altro tempo seguendo le delicate procedure per
l'inseminazione artificiale, ma hanno soldi. In questo modo»,
le
lasciò la spalla, facendo un passo indietro mentre Maggie
era
intenta a guardare negli occhi di una e poi dell'altro,
«pensavano
di velocizzare il tutto partendo per un continente straniero
e…
prendendo un bambino piccolo che qualcuno, per loro, avrebbe fatto
sparire».
Maggie
deglutì, fissando gli occhi verdi di lei che la fissavano a
sua
volta, sperando nella salvezza.
«Il
rapimento di minori è in continua crescita. Spariscono per
traffici
sessuali, di organi o, da paesi come il nostro, per andare incontro a
famiglie come i signori Petrov. Cambiano nome, taglio di capelli, una
nuova identità», fece una smorfia con le labbra,
scrollando le
spalle, «ed è fatta». Camminò
di nuovo verso una parete,
controllando la reazione della ragazza: stringeva un pugno, ma
tratteneva bene le emozioni. «I signori Petrov cercavano una
femminuccia. Non bianca perché avevano già la
storiella pronta da
raccontare ai vicini, vero, signori Petrov?», li
interpellò e due
sgranarono gli occhi, ricominciando a dimenarsi sulla sedia.
«Adottata dai paesi meno fortunati. Perché loro
tengono al parere
dei vicini».
Una
normale coppia di mezza età, incapace di difendersi,
impaurita,
legata, che rappresentava esattamente quanto di più marcio
esistesse
negli esseri umani. Così innocui a prima vista, era la
seconda volta
che i signori Petrov erano tanto vicini dal portarsi via una bambina
strappata a qualcun altro. Era proprio lì che Dru Zod voleva
vedere
come avrebbe reagito Maggie Sawyer. I due non erano solo clienti
della compravendita di minori, ma avrebbero preso la sua, di bambina,
se le cose fossero andate come quei poliziotti che volevano fargliela
pagare fossero riusciti nell'intento.
«E
cosa posso fare io?», domandò, rialzandosi con
pesantezza dal
pavimento. Le gambe a stento riuscivano a tenerla sollevata.
«Non…
Non so cosa…». Non aveva parole ed era spaventata,
confusa, e
arrabbiata, probabilmente molto arrabbiata. Che cosa voleva da lei?
Che per entrare a far parte di quell'organizzazione, uccidesse quei
due a sangue freddo davanti a lui? Come se la paura di ciò
che
sarebbe successo a Jamie, a primo impatto, non le suggerisse
già di
premere il grilletto. Se li avesse lasciati andare, d'altronde, cosa
le diceva che non ci avrebbero provato ancora con un'altra bambina?
Ma era tutto sbagliato. Non avrebbe davvero ceduto agli istinti o
come avrebbe riguardato Jamie in faccia? Se voleva spingerla a
uccidere per entrare in quell'organizzazione, allora avevano chiuso.
«Non li ucciderò, io», scosse la testa,
indicandoli e guardando
Zod, «non lo farò».
Lui
si avvicinò e annuì, abbassando lo sguardo.
«Sei ben cosciente
che, se li lasciamo andare, non potremo fare più niente? Se
tornano
in Russia, li avremo persi».
Maggie
sospirò con stanchezza, provata. Riguardò loro
che le rivolgevano
occhi di supplica e scosse brevemente la testa, iniziando a
sorridere, senza capire perché. «Non posso farlo.
Se questo è un
test, allora non sono la donna giusta, capitano»,
scrollò le
spalle.
«Li
lascerai andare?», chiese di nuovo e Maggie annuì.
«Li
lascio andare. Non… posso», lo guardò,
«Non posso», ripeté.
Tornò indietro, sollevò i teli di plastica e
riaprì la serranda,
uscendo fuori.
Dru
Zod non si scompose: lentamente guardò i due, i teli di
plastica e
prese il suo cellulare da un taschino, componendo un numero.
«Qui ho
finito», esclamò, infilando l'altra mano in tasca
dei pantaloni.
«Puoi venire a pulire», aggiunse, ignorando i
signori Petrov che lo
imploravano sotto i bavagli. Quando uscì nel parcheggio,
trovò
Sawyer seduta sul bordo di un muretto di un'aiuola, sotto l'ombra di
un albero. Aveva il cappello della divisa tra le gambe e lo stringeva
mentre lo fissava senza interesse. Temeva sarebbe scappata: voleva
chiedergli scusa e avere una nuova occasione per entrare
nell'organizzazione per conto della sua missione verso il D.A.O., o
non aveva così paura di lui come in realtà a
volte dimostrava?
«Cosa avrebbe fatto tuo padre, se i signori Petrov avrebbero
cercato
di rapire te, da bambina?», le domandò una volta
seduto al suo
fianco, senza guardarla.
Lei
sorrise ancora, spegnendolo a breve. «Preferisco non
pensarci.
Sicuramente, lui non l'avrebbe delusa».
«E
tu pensi di averlo fatto?».
«Non
è così?».
«Hai
dimostrato sangue freddo in una situazione che avrebbe fatto uscire
di testa chiunque», disse piano, scorgendo un punto distante,
vacuo.
«Il fine di questo incontro non doveva per forza coincidere
con la
conclusione che avevi in mente. Siedi in macchina, ti riporto in
centro».
Si
alzò e non la guardò nemmeno per un'istante,
lasciandola
disorientata. Perché tanta premura? Si occupava di persona
di ogni
membro che aspirava a entrare nell'organizzazione oppure era in cerca
di qualcosa in particolare?
Sono
sempre più convinta che stia usando me per arrivare a te.
Scrisse velocemente il messaggio, in auto. Io
non ho nulla che gli interessi, ma tu stai lavorando al suo caso per
il D.A.O., Danvers. È chiaro.
Aveva
sempre voluto dei figli. Anche Petra. Quando sua figlia Melanie aveva
cinque anni, aveva registrato un filmino con una vecchia cinepresa e
ancora amava riguardarlo, la notte, quando non riusciva a prendere
sonno: la bambina lo chiama perché si vergogna a farsi
riprendere e
sventola la gonna del vestitino che indossa, agita il capello di
paglia, gioca in giardino con dei bambini invitati alla festa e
infine spegne le candeline della torta, regalandogli un immenso
sorriso. Melanie era emotiva, inglobata dal lavoro che amava, moglie
di un marito presente, madre di un bimbo timido che vorrebbe
proteggere dal mondo. E il secondogenito Chris, tredicenne, un figlio
inaspettato alla sua età. Avere lui era stato riscoprire il
mondo
con occhi nuovi. Testardo, spiritoso, svogliato come non era lui alla
sua età. Anche Petra voleva dei figli e aveva sempre
immaginato, che
quel figlio avuto tanto tardi, fosse un dono da parte sua. Chris
somigliava a Petra.
«Notato?
Lo stanno per chiamare», aveva detto il signor Luthor a bassa
voce a
un giovane Adrian Zod, appena seduto al suo fianco. Gli aveva
lasciato il posto libero. In realtà, aveva un'intera fila di
posti
liberi all'interno dell'auditorium, davanti a due guardie armate. Le
luci erano fioche, illuminavano il palco e un uomo che parlava. Dopo
gli applausi, un ragazzetto rigido e ben vestito di un completo blu
scuro era salito per avvicinarsi al leggio con un plico di fogli in
mano. Il signor Luthor aveva tiepidamente applaudito, insieme alla
sala. «Non ci ha dormito la notte», aveva
sussurrato, «Lionel
vuole lasciare il segno, in questa scuola».
Il
ragazzo aveva iniziato a parlare circa il suo progetto per la fine
dell'anno scolastico e Zod si era perso nei suoi pensieri, sbirciando
Levi Luthor al suo fianco che guardava il figlio con espressione
seria. Il discorso, il progetto che stava spiegando così
come
avrebbe fatto un uomo adulto e come incantasse tutti non avrebbe,
forse, dovuto renderlo fiero? Aveva diciassette anni e usava le
espressioni di un laureando. Eppure, Levi era a un passo
dall'annoiarsi. Poi lo aveva visto scuotere la testa e sospirare,
attirando la sua curiosità.
«Lionel…»,
aveva ripreso a sussurrare, «non è
adatto».
«A
cosa?».
«Al
nostro progetto, quello a cui lavoriamo ormai da quattro
anni», si
era girato per guardarlo, «Sì, sono passati
quattro anni. Il tempo
ci sfugge di mano».
«Perché
non lo è?», gli aveva chiesto con disinvoltura.
«Lionel è
intelligente, maturo; gestisce bene la
contabilità-», si era
fermato, vedendolo scuotere la testa di nuovo.
«Gli
manca una cosa», aveva puntato un dito indice, «Una
cosa. Ed è la
cosa più importante di tutte». Dru Zod si era
accigliato e Levi
Luthor non si era lasciato attendere: «Il ragazzo sa
ragionare bene,
ma gira troppo intorno alle cose, non ha un punto fermo, la
risolutezza. Non è adatto», aveva ribadito.
«E tu hai con te la
lista dei novizi?». Zod aveva velocemente annuito, aprendo la
borsa
che portava con sé e mostrandogli una cartella. Levi Luthor
l'aveva
subito aperta e letto i nomi uno dopo l'altro, seguendo con un dito.
«Manca Rhea Taylor. Perché?».
Dru
aveva deglutito. «Petra ha cambiato idea. È
convinta sia ancora
troppo giovane».
«Un
gran peccato», aveva commentato lui, richiudendo la cartella.
«L'età
è indicativa, le qualità che cerchiamo vanno
subito a galla e a lei
non mancano di certo». Aveva sporto la cartella indietro alle
spalle
e una delle guardie l'aveva presa con sé. «Prendi
Lionel», aveva
continuato a bassa voce, indicando il figlio al centro del palco, con
un gesto del capo, «Se non le trovo una donna da affiancargli
che
sopperisca a questa sua mancanza, un giorno potrebbe distruggere
tutto quello per cui stiamo lavorando oggi». Si era zittito e
aveva
ascoltato pochi minuti del discorso di suo figlio, assottigliando gli
occhi. «La ricerca dell'erede», aveva scosso la
testa, «non è
facile. Voglio bene a Lionel, l'ho cresciuto io e nel miglior modo
possibile, ma non potrà essere il mio erede»,
aveva sospirato
pesantemente, guardando nella sua direzione. «Non deve
saperlo. È
emotivo e potrebbe fraintendere le mie parole, Dru.
Comprendi?». Il
giovane aveva annuito, pur dispiaciuto. «Lionel
sarà sempre mio
figlio, ma qualcun altro dovrà prendere il mio
posto», aveva
aggiunto con decisione, guardando di nuovo l'altro. «Tu e
Petra?
Metterete su famiglia?».
«Ah,
sì, sì, certo», si era accigliato con
decisione, «Non appena ci
sposeremo. Faremo le cose per bene».
«Siete
già in ritardo», aveva ribattuto, riguardando
Lionel sul palco che
intratteneva l'auditorium. «Dovete sperare di non incorrere
in
qualche problema. Non avete ancora provato a cercarne…? No?
Senza
il matrimonio, meglio così. Dà
stabilità a una famiglia», aveva
continuato, vedendolo scuotere la testa. «Spero che siate
fortunati.
Noi…», aveva sospirato. «Abbiamo cercato
a lungo un figlio prima
di Lionel».
Zod
strinse gli occhi. Un altro ricordo stava venendo a galla. Petra,
certo. Sempre Petra. Gli parlava, era arrabbiata perché
aveva
litigato con Rhea. Succedeva spesso, in quel periodo.
«Non
mi piace», aveva detto. Sentiva la sua voce lontana e doveva
sforzarsi per vedere il suo volto. «Hai visto anche tu come
quella
donna passa il suo tempo sempre intorno a mia sorella! Ovviamente lei
vuole entrare a far parte dell'organizzazione: in modo che possa
stare sempre vicina ai Luthor. Questa mattina la credevo sola, non
c'era la scuola e mamma le ha detto di restare a casa. Torno e la
trovo là, con Rhea».
Il
giovane se stesso aveva sorriso. «Non capisci, Petra. Per lei
è
probabilmente come una figlia».
«…
prima di Lionel. Abbiamo perso un figlio», gli aveva detto
Levi
Luthor, mentre il diciassettenne Lionel spiegava dal palco.
«Non
riusciva a restare incinta e quando poi è
successo… lo abbiamo
perso. Tre mesi. Aborto spontaneo. È una maledizione di
famiglia»,
aveva lentamente scosso la testa, amareggiato. «E dopo
Lionel, non
ci siamo più riusciti. Da tre
fratelli…».
«Di
cosa stai parlando?», aveva continuato Petra e Dru Zod aveva
abbassato gli occhi, vergognandosi di dire una cosa tanto intima che
doveva restare privata.
«Lara
Luthor non può avere figli», si era stretto nelle
spalle e Petra
aveva sospirato. «Me lo ha confessato Levi, l'altra mattina.
Loro
hanno faticato ad avere Lionel, Lara non può e
Louie… sappiamo
com'è andata con Louie».
Levi
Luthor si era zittito e aveva sorriso di gioia quando una delle
guardie gli aveva portato davanti, per mano, una bambina con indosso
un vestito scuro a pois bianchi lungo alle ginocchia, con i capelli
neri stretti in une due basse code. «Lorna»,
l'aveva chiamata,
dandole la mano per seguirli a sedere. «Sei una signorina, ma
guardati. Allora non ti siederai sulle gambe dello zio?».
Lei
aveva prontamente scosso la testa, accompagnando il gesto da un verso
con la gola. «Ho dodici anni, sono grande per queste
cose», si era
seduta al lato opposto, «Sono qui solo per ascoltare
Lionel».
Petra
si era messa le braccia a conserte. «Non mi convince lo
stesso! Lo
so che sembro pazza, ma se non può avere dei figli, allora
perché
ha detto a Rhea che è meglio non averne? Io ero
là e ho ascoltato
parti della loro conversazione». A un certo punto si era
messa le
mani fra i capelli e si era andata a sedere vicino al suo fidanzato.
«Forse sto davvero diventando pazza», l'aveva
guardato con occhi
grandi, stanchi, e lui le aveva circondato il viso con le mani per
accarezzarla. «Se non può avere dei figli, per
questo si convince
che sia meglio stare senza?».
«Hai
tanti pensieri per la testa», le aveva bisbigliato prima di
baciarla
teneramente sulle labbra. «Pensiamo al nostro matrimonio,
adesso.
Dimentica l'organizzazione e i Luthor; non litigare con Rhea. Pensa a
noi due, al nostro sì.
Ai nostri futuri figli».
Petra
aveva sorriso, allungando le labbra per baciarlo a sua volta.
«Ai
nostri eredi?».
«I
nostri eredi».
Si
erano baciati e Zod, nel presente, sentiva che si stava svegliando.
Aprì gli occhi pian piano e la sensazione di vuoto che gli
comprimeva il petto gli rammentò che Petra non c'era
più. Era come
non avere aria per respirare; non importava che fossero passati quasi
quarant'anni dalla sua morte o che lui si fosse sposato con un'altra
e avesse avuto con lei dei figli. Dei figli che non erano eredi.
Si
stropicciò gli occhi e uscì dall'automobile,
passando sulle strisce
pedonali per attraversare. Charlie Kweskill lo aspettava seduto in
una corsia dell'ospedale, appoggiato tra lo schienale e il davanzale
di una finestra, con gli occhi chiusi, le braccia a conserte e le
gambe accavallate. Gli altri poliziotti che facevano di guardia alla
cuccetta di Faora Hui lo indicavano per prenderlo in giro, senza
emettere un verso. Appena lo videro arrivare si portarono
sull'attenti e Zod si fermò a un passo dall'altro, pensando
di
sferrargli un calcetto per svegliarlo: Charlie sobbalzò,
sbatté un
piede a terra, perse l'equilibrio e cadde dalla panca, facendo ridere
i colleghi. Almeno fino a quando il capitano non si voltò
verso di
loro e pensarono bene di ammutolirsi. «Stai dormendo durante
la
notte, Charlie?».
Lui
si toccò il petto muscoloso, sospirando e dopo sollevandosi.
«Non
proprio, Generale», forzò un sorriso,
spolverandosi il pantalone.
Si
vergognava a dire che si preoccupava per Faora ora che si era
risvegliata? Dru Zod ben conosceva il legame che li univa e poteva
immaginare. Dopotutto, lui stesso era preoccupato. «Siamo in
due»,
confessò, per poi chiedere al gruppo dove fosse l'agente che
mancava
all'appello. Aprì la porta della cuccetta e pensò
che trovare al
suo interno le sorelle Danvers gli avrebbe fatto venire subito in
mente qualcosa di pungente da dire, ma la prima persona che vide fu
Faora e tutte le intenzioni morirono sul nascere. I capelli sudati e
schiacciati contro il cuscino, immobilizzata sul materasso sollevato
per metà, la pelle quasi gialla, emaciata, lo sguardo
terrorizzato
nel vederlo lì. «Lasciateci soli», si
rivolse alla guardia
all'interno, che annuì, che ad Alex e Kara, sedute a fianco
del
letto, «Per piacere».
Kara
lo guardò sorto e uscì fuori inviperita, intanto
che Alex si teneva
più distante: «Degli agenti del D.A.O. verranno
presto, ho ottenuto
il permesso di darle una scorta. Una scorta vera. Non ha parlato, ma
se avrà bisogno di sfogarsi, saprà di poter
contare su di me». Gli
lanciò uno sguardo di sfida e uscì, lasciando Zod
a un lungo
sospiro.
«Anche
tu, Charlie».
«Com-
Pensavo
non sapesse che ero dietro di lei».
Zod
si voltò a sottecchi e il ragazzo mostrò i palmi,
tornando
indietro. Guardò Faora un'ultima volta, con paura, prima di
richiudere la porta. L'uomo prese la sedia lasciata da una delle
sorelle e si sedette, mentre lei alzava gli occhi al soffitto e
deglutiva.
«Ho…
paura», disse lei, lentamente. La gola bruciava ora che
ricominciava
a parlare.
«Mi
hai tradito», esclamò di rimando.
«Potevo aspettarmelo da tanti,
ma da te, Faora, proprio no. Da te, come da Charlie, proprio
no». Si
sforzava affinché la voce apparisse dura. Alzò
gli occhi solo
quando la sentì piangere: scosse la testa tra le lacrime,
tenuta
appoggiata sul cuscino, e provò a stringere i denti.
«Lo
so che… è tardi, Generale. Ma… mi
dispiace… così tanto».
Zod
non proferì parola, passandogli nella mente le immagini di
lei e
Charlie, in campagna, che si allenavano a sparare alle lattine. Un
gioco, più che un allenamento. I sorrisi, i suoi due ragazzi
che si
davano il cinque. «Che cosa…», la voce
gli si strozzò, ma tentò
con tutte le sue forze di mantenersi lucido, «ti aveva
promesso Rhea
Gand?».
Lei
deglutì e prese fiato. «Di… diventare
beta», aveva sorriso, solo
per poco. «Una beta… e la sua erede».
Zod
aveva scosso la testa. «E tu ci hai creduto. Oh,
Faora… Quella
donna non ama nessuno pari a se stessa. Forse solo suo
figlio».
«Non
lo avrebbe… iniziato mai».
«No.
È vero», concordò, «Non
è adatto».
«Non
volevo deluderla… Generale. Volo
solo…», fissò il soffitto
bianco, «essere notata».
«Pensavi
che, con me, non avresti avuto speranze? È questa l'idea che
ti ho
dato?».
Faora
allora chiuse gli occhi, formando un flebile sorriso. «Ha
sempre
preferito… Charlie».
Zod
si alzò, sentendo l'irrefrenabile impulso di camminare.
Quelle
parole lo ferivano quasi quanto il tradimento stesso e i sorrisi di
Charlie e Faora, in campagna, sbiadivano.
«Mi
uccideranno… vero?», borbottò a un
certo punto. «I colleghi qui…
ne conosco uno solo, ed è l'unico… che non mi
guarda… da
traditrice», continuò e lui ascoltava, voltandosi.
«Le cose sono
cambiate… me l'hanno detto».
«Non
ti uccideranno», rispose pacato. «Ci
sarà una convocazione dei
beta, presto. Voterò per te».
Lei
scosse la testa. «La votazione non funziona, Generale. Non
ha…
funzionato in passato e… non funzionerà
adesso». Strinse le
labbra e il viso le si rigò di altre lacrime.
«Ricorda quando… ci
ha raccontato… i suoi rimpianti, Generale? Il suo
alunno… è
morto perché la votazione ha… fallito».
«Non
è stata la votazione a fallire».
Lei
sorrise amaramente. «Sarei dovuta morire quando…
Alex Danvers mi
ha… sparato. Era qui perché… vuole
proteggermi», cercò di
ridere, ma le mancò il fiato.
«Proteggermi… da voi. Sarei dovuta
morire… quando mi ha sparato».
Zod
pensò di dire qualcosa, ma preferì uscire. Chiese
agli agenti se la
famiglia era passata a trovarla e, a risposta positiva, decise di
andarsene. Charlie Kweskill voleva seguirlo ma infine restò
indietro, a fare da guardia. A proteggerla.
La
votazione non aveva fallito. Continuava a ripeterselo, sforzando i
suoi ricordi a venir fuori. Dava consigli a Faora, rimproverava
Charlie, dava la parola a Jor El che, dal banco, aveva alzato una
mano. Era tornato più indietro, più indietro. Sua
moglie era in
procinto di partorire Melanie, la loro primogenita, e si sforzava
perché non le mancasse niente, a stento dormiva,
districandosi tra
il preparare gli argomenti da portare in classe e la sua presenza
all'organizzazione così, quando a lezione uno studente
alzava la
mano, per lui era sempre una manna dal cielo. E lui, il ragazzo che
si faceva chiamare Jor, era lo studente più preparato e
capace a cui
avesse mai avuto il piacere di insegnare. Sapeva che anche suo
fratello, che per tutti era Zor, due classi più
giù, era un
sollievo per il corpo insegnante. Aveva tante cose da fare e una
bimba in arrivo, ma aveva piacere di restare oltre l'orario per
discutere con loro di temi scientifici, dare qualche dritta,
confrontarsi e, perché no, fare loro da mentore.
Lo
aveva visto da lontano. Ricordava il sole caldo di quel pomeriggio,
andando avanti nel tempo. In quel periodo, lavorava per le forze
dell'ordine a Metropolis ed era tornato a National City solo per
parlargli. Sapeva che portava in quel parco a giocare suo figlio e
sua nipote, così lo aveva raggiunto. Mani nelle tasche dei
jeans
scuri, camicia color pastello, corta, sbottonata sotto il collo, Dru
Zod si era avvicinato lentamente alla panchina dov'era seduto e
leggeva da un cellulare. Dopo un ventennio di potere,
l'organizzazione sperava di rinforzarsi in fretta dopo lo scivolone
dato dall'arresto di alcuni beta con l'arrivo del nuovo millennio;
servivano menti fresche e sapeva dove trovarle. Lo aveva visto
abbassare l'apparecchio e sospirare: si aspettava il suo arrivo, dopo
che per giorni aveva rifiutato le sue telefonate. «James,
detto Jor,
El», si era seduto al suo fianco e il giovane aveva sorriso,
mettendo via il telefono.
«Professore».
«Non
sono più un professore da tempo. Qual è il tuo
campione?».
Jor
aveva alzato la testa e seguito il suo sguardo verso dei bambini che
giocavano a pallone, poi aveva abbozzato una risata e scosso la
testa. «No, no, Kal è quello
laggiù», lo aveva indicato,
dall'altra parte: seduto sull'erba a gambe incrociate e appoggiato
contro una giostra per l'infanzia, aveva i capelli lisci tirati
dietro le orecchie, neri, gli occhiali da vista che si tirava in su,
mentre leggeva concentrato un fumetto. Sulla giostra alle sue spalle,
una bimba dai capelli biondi legati in due code lo guardava
dall'alto, affacciandosi.
Zod
aveva sorriso di rimando. «Tale padre…
Perché non leggere a
casa?».
«E
il rischio di avere un contatto sociale di qualche tipo?».
«Proprio
tu parli», lo aveva finalmente guardato negli occhi,
strabuzzando i
suoi, «che la tua vita sociale comprendeva unicamente tuo
fratello?
Ricordo ancora le vostre pause pranzo a disegnare quel logo».
Lui
aveva riso divertito, inclinando la testa da un lato.
«L'emblema
degli El», aveva ricambiato lo sguardo, «Significa speranza».
«Ci
perdevate dietro tanto di quel tempo. James e Zachary El, meglio
ancora Jor e Zor El che, tra un progetto scientifico e l'altro,
disegnavano speranza».
Avevano
sorriso di nuovo, guardando in direzione dei bambini.
«Perché è
qui, professore?», aveva chiesto dopo, con la voce
più seria e
malinconica mentre l'altro si piegava in avanti.
«Lo
sai perché. Ti chiedo formalmente, a te e tuo fratello, di
venire a
lavorare per noi», lo aveva guardato e allungato una mano con
un
biglietto da visita. «Potete chiamare a quel numero in
qualsiasi
momento». Aveva squadrato Jor prenderlo ed esaminarlo.
«Non
pretendo una risposta subito. Teniamo d'occhio i vostri lavori per la
comunità dal sito online e saremo entusiasti di avervi in
squadra.
Siamo pronti a finanziare qualsiasi-».
«No»,
lo aveva bloccato e Zod era rimasto con le parole in bocca, odiando
che lo si interrompesse. «Lusingati, rifiutiamo».
«Non
vorrai parlarne con Zor prima di prendere una decisione? Con le
vostre mogli?».
«Siamo
già d'accordo su questo», aveva annuito cercando
di forzare un
sorriso. «Sapevamo perché ci teneva a parlare con
noi, professore.
Ma non possiamo: la vostra visione del mondo non coincide con la
nostra».
«Potresti
sbagliarti».
«No,
non penso», aveva accennato una risata. Gli stava restituendo
il
biglietto da visita, ma Zod gli aveva suggerito di tenerlo con
sé,
in caso sarebbe servito. Si era alzato e aveva richiamato i bambini.
«Non
finirò mai di corteggiare il vostro genio», si era
premurato di
dirgli prima di vederlo andar via. «Tu e tuo fratello siete
preziosi
e adatti. Vi ricontatterò non appena avrò
occasione».
Jor
si era limitato a sorridere. Aveva preso in braccio la nipotina Kara
e, a fianco del piccolo Clark, si erano allontanati.
Le
immagini al telegiornale gli avevano bloccato la digestione, quel
giorno di un ricordo più recente. Lo ricordava bene, era
avvenuto
quasi sei anni più tardi da quell'incontro al parco. Stava
per
uscire di casa per tornare a lavoro che il programma che stava
guardando sua moglie in televisione si era interrotto per lasciare
spazio a un'edizione straordinaria del telegiornale, mostrando la
casa di Zor El in fiamme, o ciò che era rimasto, i pompieri,
i
vicini che parlavano con la polizia. Sapeva che era stata Rhea, che
il suo piano per conquistare la presidenza dell'organizzazione era
ufficialmente iniziato.
«È
sano come un pesce, signor Zod».
Lui
si ridestò, passandosi due dita in mezzo agli occhi. Era
sdraiato su
un lettino. «È sicura?».
La
dottoressa annuì, poggiando le braccia a conserte sulla
scrivania.
«Il suo cervello non ha nulla che non vada, mi creda. Si
comporta
come un qualunque cervello sotto stress», aggiunse,
«E non mi
stupisce, con quello che ha passato».
Zod
si innervosì di scatto, rialzandosi e specchiandosi nei suoi
enormi
occhi neri. «Allora perché tende a sostituire i
miei ricordi con
altri, a confonderli, a farmi credere di aver
visto…», si era
fermato, abbassando gli occhi, «il corpo di Petra fatto di
marmo,
invece del suo reale… reale corpo senza vita?».
«Signor
Zod, lei pretende troppo», scosse la testa. «Se
continua a vivere
nel passato, nei suoi ricordi invece di andare avanti, la sua mente
avrà sempre più difficoltà a ricordare
nel dettaglio perché
aggiunge qualcosa di nuovo ogni volta. Qualcosa di ciò che
sente»,
spiegò, corrucciando la fronte. «Le dico che
è fisicamente
impossibile ricordare una vita di dettagli e i suoi sentimenti
giocano un ruolo predominante, in questo campo: ricordiamo solo gli
avvenimenti che per qualcosa ci hanno colpito, quando il corpo
capisce che è bene ricordare e registra, per qualcosa di
molto
felice oppure, naturalmente, di molto triste e traumatico».
«Ma
i ricordi solo l'unica cosa che mi resta. La pago affinché
mi aiuti
a ricordare, a non perdere nulla».
La
donna sospirò e infine si arrese. «Molto bene.
Cosa ricorda della
morte di Petra, signor Zod?».
«Rhea
che si fregava le mani», disse subito, senza nemmeno
pensarci.
«E
dopo? Cos'è successo dopo la sua morte, signor Zod? Cosa
ricorda dei
momenti successivi?».
L'uomo
chiuse gli occhi, cercando quelle immagini. Il corpo di Petra sotto
le scale, Rhea quindicenne che lo guardava spaventata. Più
avanti.
Il giorno successivo, dai Luthor. La voce di Lara Luthor, dolce. Gli
stringeva le spalle e cercava di farsi guardare, ma lui era un corpo
esanime, un pupazzo cucito con carne e vuoto. Cosa gli diceva? Farsi
forza? Contare su di loro, ovviamente. Una tragedia, già.
Qualcosa
sul non fare pazzie, oh… Cercava di consolarlo e poi era
arrivata
Rhea e aveva stretto lei tra le braccia, forte. Lui aveva alzato il
volto il tanto giusto per ritrovare il suo vuoto riflesso sugli occhi
di quella ragazzina. Aveva gli occhi imperlati di lacrime, Rhea. Ma
non aveva emesso un solo verso quando Lara l'aveva tenuta con
sé.
Non aveva ricambiato l'abbraccio. Era anche lei fredda come il marmo.
«Lara
Luthor non poteva avere figli», disse, mantenendo gli occhi
ben
chiusi. «Rhea era per lei come la figlia che non aveva mai
avuto».
«I
Luthor tengono molto alla famiglia, non è
così?», aveva domandato
la dottoressa. «Così mi ha specificato anche la
settimana scorsa,
signor Zod. I Luthor avevano accolto lei e Petra, e anche Rhea, in
famiglia».
«I
Luthor hanno sempre dato molta importanza al loro nome. All'avere dei
figli ed eredi. Se non per una cosa, per l'altra: portare avanti la
propria stirpe. Ci avevano accolti, ma non eravamo dei loro. Non lo
siamo stati mai. Il sangue del loro sangue è la cosa
più importante
che hanno».
Mentre
lo diceva, gli era subito venuto in mente quando aveva raggiunto
Lillian nell'hotel dell'aeroporto dove lei e sua moglie Eliza avevano
soggiornato prima di partire verso Aruba in viaggio di nozze. E al
suo secco no,
quando le aveva proposto di tornare nell'organizzazione. Eppure, era
la sua eredità.
«Ne
sei sicura?», aveva insistito per poi sorseggiare la sua
soda,
seduti intorno a un tavolino. «Sarai al mio fianco, a
guidarmi».
La
donna aveva ordinato un altro dolcetto e aveva chiesto che fosse
incartato per sua moglie. «Sono sicura di averti
già risposto,
Dru», aveva chiosato, stringendo le labbra fini.
«Il
tempo ti ha cambiato, Lillian. Levi Luthor ne resterebbe molto
deluso, se potesse sentirti».
«Ma
non può, non è così?».
«Eri
la sua erede».
Lei
aveva ridacchiato appena, ringraziando il cameriere che le aveva
portato il piccolo incarto. «Che sciocchezze. Ora osservo le
cose da
un'altra ottica, Dru: ho una moglie e una famiglia che non voglio
perdere. Se prima era il successo a guidarmi, adesso rispondo ad
altro. E no, non ci sarà modo in cui mi potrai far cambiare
idea»,
aveva aggiunto alla fine, senza neppure guardarlo in faccia.
Allora
lui si era alzato dalla sedia, sistemando le pieghe dei pantaloni.
«Ebbene, in questo caso tolgo il disturbo».
«Dru»,
lo aveva chiamato all'ultimo e si era girato verso la donna che,
finalmente, lo aveva degnato di un lungo e serio sguardo.
«Non tanta
fretta: voglio chiederti di non proporlo ai miei figli. Lasciali
fuori da tutta questa storia, non li riguarda».
«Io
penso di sì, Lillian», aveva risposto con aria
altezzosa, mettendo
le mani nelle tasche dei pantaloni. «E sono adulti in grado
di
prendere da soli le proprie decisioni».
Come
se non avesse già contattato Lex Luthor giorni fa. Anche lui
gli
aveva risposto negativamente, ma sapeva che era solo questione di
tempo.
«E
Lena?», gli chiese la dottoressa a un certo punto e Zod
sospirò.
«Cosa ne pensa della figlia adottata?».
«Non
è adatta», decretò con voce fredda.
«Non so se lo sarà mai».
Lasciò
lo studio della dottoressa con un mal di testa maggiore di quando era
entrato. Sentiva la sua memoria come un fiume in piena e non era
sicuro di riuscire a controllare la sua deriva, ma non voleva
perdersi niente, non voleva dimenticare una sola virgola di
ciò che
era stato e gli era stato portato via. Petra, una vita con lei e i
loro figli. Jor e Zor che discutevano di scienza disegnando un
simbolo di speranza. Charlie e Faora uniti che si sfidavano a chi
colpiva più lattine. Lionel ragazzo che, un giorno, decise
di
rivolgergli la parola e accettarlo in famiglia. O quel che era.
L'amicizia con Lar Gand lunga anni. E Rhea che era la causa di quasi
tutti i suoi rimpianti più grandi.
«Mi
ha portato via anche Faora e senza che me accorgessi», disse
davanti
alla cornetta della saletta delle visite del carcere, separato da un
vetro da Astra Inze. Era stanco, provato, e sentiva che lei era
l'unica che poteva davvero comprendere la sua frustrazione, portando
nel suo cuore rimpianti di un peso simile al suo, quanto delicato.
«Faora è scivolata dal nido perché lei
l'ha chiamata. Poteva
scegliere chiunque, ma aveva mandato lei per ferirmi».
«Il
mio voto lo conosci», rispose lei, sospirando. «Se
tutto andrà
come deve, Faora andrà in carcere per aver lavorato con
Rhea, e non
parlerà», scosse la testa. «Non ti
tradirà di nuovo. E almeno
sarà viva». Lo vide alzare gli occhi scuri
attorniati da profonde
occhiaie e trattenne a stento un commosso sorriso. «Cosa
dicono gli
altri beta?».
«Devo
ancora interpellare gran parte di loro, sono giorni molto pieni. Sai
qual è la cosa più brutta di questa
faccenda?». Lei restò in
ascolto, aspettando. «Che una parte di me vorrebbe punirla
per aver
tradito la mia fiducia, dopo che per me era come… una
figlia»,
ammise, per poi scuotere la testa. «Da domani si
aprirà il tuo
nuovo processo. Come ti senti?».
Lei
non trattenne un sorriso e si portò una mano contro la
bocca.
«Eccitata. E nervosa. Ma fiduciosa che andrà tutto
bene! Presto
potrò uscire di qui e riprendere la mia vita da dov'ero
rimasta».
«Te
lo auguro».
In
tempo per l'inizio del nuovo processo su Astra Inze, il D.A.O. si
mosse rapidamente quando Rhea Gand fece i nomi di chi, quel giorno di
quasi dodici anni prima, mise la bomba in casa El dove morirono i
genitori di Kara e quelli di Clark. Seppure cercassero di forzarla
con la promessa di protezione, la donna non aveva mai avanzato l'idea
di parlare, sapevano che era manipolata da Zod e che se lei aveva
fatto quei nomi, allora era perché lui voleva che li
facesse, ma era
comunque un passo in avanti e qualcuno festeggiò come se
fosse una
vittoria. Non certo Alex Danvers. Dopo aver lasciato Fort Rozz, Dru
Zod tornò in ospedale e, questa volta, davanti alla cuccetta
di
Faora c'era un gran fermento: i genitori della ragazza, Charlie e
altri poliziotti, Maggie Sawyer e la sua compagna Alex Danvers, e poi
lei, l'unica che se restava distante dal vespaio, l'agente del D.A.O.
che avevano messo di guardia, Carina Carvex.
Alex
Danvers si era molto arrabbiata quando, dai piani alti del D.A.O.,
avevano appoggiato la sua scelta di una guardia per Faora Hui ma che,
invece delle cinque persone che aveva richiesto, ne avevano accettate
due sole, per il cambio turno. Prendere o lasciare. Qualcuno doveva
essersi convinto che non avrebbero toccato una di loro. Oppure che
non era importante proteggere una persona che non avrebbe parlato,
quando avevano disponibile Rhea Gand, un pesce molto più
grosso.
Il
padre di Faora teneva tra le braccia la moglie e Charlie e un altro
poliziotto cercavano di tenerli distanti dall'agente Danvers. Era
chiaro come i signori scaricassero la responsabilità e la
rabbia per
ciò che era successo alla figlia su chi le aveva sparato.
Maggie
tentava di mettersi in mezzo e Alex minacciava di andarsene. Si
stupì
come non fosse intervenuto ancora un medico per costringerli a fare
silenzio.
Si
zittirono quando scorsero lui in corridoio, lasciando la scena al
pianto disperato della signora Hui. Allora la donna lasciò
il marito
e corse incontro a Zod, finendo tra le sue calde braccia.
«Io
non ci credo che la mia bambina cospirava in questa… in
questa
organizzazione, per conto di quella donna malvagia. Io non ci
credo»,
disse fra i singhiozzi. «Glielo dica, signor Zod. Lei conosce
bene
Faora, glielo dica! Qui c'è stato un grande malinteso e
Faora ha
paura di quella Gand! E lei-», puntò Alex Danvers
con un dito, «lei
dovrebbe essere processata per quello che ha fatto alla mia
bambina»,
sputò con odio. «Dovrebbe vergognarsi».
Stava per andare di nuovo
incontro ad Alex che la fermò e dopo il marito, decidendo di
trascinarla via. Salutarono Faora e lasciarono l'ospedale con lei che
ancora piangeva.
«Io
non ce la faccio», sospirò a un certo punto Alex
Danvers, alzandosi
dalla panca in corridoio. Guardò Maggie al suo fianco e
scosse la
testa, reggendosela. Era così esausta. «Me ne devo
andare, ho
bisogno di prendere aria e… ho tante cose a cui pensare, non
voglio
sentirmi anche in colpa per aver scelto mia sorella a lei».
Deglutì
e lanciò uno sguardo a Zod, sospirando di nuovo.
Lui
notò come avrebbe voluto dire dell'altro ma come
cambiò idea,
sapendo di essere ascoltata.
«Vai
in macchina, ti raggiungo subito», le sorrise Maggie
inclinando
appena la testa da un lato, comprensiva, tenendole una mano con le
sue.
Alex
voleva chiederle di andare con lei adesso, ma sapeva che sarebbe
stato inutile poiché aveva una missione da portare a
termine. Fissò
di nuovo Zod e diede ordini a Carvex prima di lasciare il corridoio.
Charlie
Kweskill era dentro con Faora e lo sentì ridere dalla porta
chiusa,
intanto che si avvicinava al capitano affacciato davanti a una
finestra con una posa rigida e le braccia dietro la schiena. Era come
se l'aspettasse. «Se posso, conosce da tanto i genitori di
Faora
Hui, capitano?», domandò Maggie.
L'uomo
annuì. «Da quando Faora entrò in
accademia, a Metropolis»,
sospirò. «Era una promessa, non mi stupisce che i
genitori non
accettino la verità. Anche io fatico a farlo»,
confessò, non
distogliendo lo sguardo dai palazzi di fronte, al di là del
vetro.
Maggie
gli notò una strana luce negli occhi.
«Tuo
padre cos'avrebbe fatto al posto loro, Sawyer?».
Lei
delineò appena un sorriso e scosse la testa, aprendo la
bocca prima
ancora di sapere cosa rispondere. «Probabilmente non ci
avrebbe
creduto come fanno loro. Ma mi aspetterei di tutto dall'uomo che
cercò di cacciarmi quando gli dissi che intendevo vivere la
mia
omosessualità alla luce del sole»,
scrollò le spalle e lui le
scoccò un'occhiata. «Devo andare»,
abbassò la testa. «Apprezzo
il gesto dei nomi degli assassini degli El. Perché lei lo
sappia».
Lo lasciò e lui gonfiò il petto, sapendo di aver
acquistato un
punto.
Ma
rimase sovrappensiero poiché, davvero, non si aspettava
quella
risposta su suo padre. Si era sempre immaginato come un uomo
all'antica ma non aveva mai, mai pensato che
l'omosessualità, così
come altri orientamenti non eterosessuali, fossero motivo per
discriminare qualcuno né, di certo, aveva mai pensato che
fosse
normale non accettare un figlio per questo. Un figlio che, infatti,
non andava accettato, ma compreso e ascoltato così come
aveva fatto
Levi con Lionel o lui con Melanie e Chris, consapevole che, in un
posto come l'organizzazione, loro non avrebbero potuto vivere una
vita vera e piena. Non erano adatti. Così come non era
adatta Kara
Danvers, la figlia di Zor El: sapeva che il pensiero sfiorava la
testa di Astra da quando la possibilità di uscire da Fort
Rozz si
concretizzò, ma era già pronto a rifiutare la sua
proposta per il
futuro. Non avendo figli suoi, non le restava che la nipote che, per
lei, era come tale.
Il
giorno dopo si terrò la prima chiamata del nuovo processo,
quello
per la scarcerazione. A giorni ci sarebbe stato quello di suo marito
Non. Erano presenti Kara e Alex Danvers, Maggie Sawyer, Lena Luthor,
e anche Clark Kent e la sua fidanzata, Lois Lane. Li
incrociò
durante la pausa, fuori dall'aula. Rivedere Clark, che somigliava
così tanto a suo padre Jor, era sempre un colpo al cuore,
per lui.
Lo rivedeva bambino al parco e poi rivedeva Jor in classe alzare la
mano. Non fece in tempo a perdersi in ricordi che la figlia di Zor
gli si piazzò davanti con aria di sfida.
«Non
cambia niente, deve saperlo». Lena Luthor le era vicina, Alex
Danvers, e si mosse anche Clark Kent.
«Come,
prego?».
«Ha
fatto dire a Rhea Gand i nomi degli assassini dei nostri genitori, ma
non cambia niente, per noi. Non è che la prendiamo in
simpatia o
qualcosa del genere, adesso», gonfiò il petto,
facendo una smorfia.
«Non
so di cosa tu stia parlando».
Kara
stava per riaprire bocca che Clark si spiazzò tra i due e
spinse
indietro lei, alle braccia della sorella e della sorellastra.
Lui
e Zod si guardarono a lungo ed entrambi non emisero fiato. Dopo poco
tornarono in aula e Astra si sedette accanto al suo avvocato non
mancando di allungare uno sguardo a Kara. Le era mancata durante quei
tanti anni a Fort Rozz. Le era mancata davvero come una figlia.
Dru
Zod tenne d'occhio il cellulare e uscì quando ricevette una
chiamata, mentre Astra Inze parlava di fronte a tutti. Aveva
finalmente ottenuto il verdetto della decisione dei beta su Faora
Hui, ma non era ciò che si aspettava.
Quella
notte non tornò a casa e chiamò sua moglie per
dirle che restava
fino a tardi in centrale. Era rimasto davvero lì, chiuso nel
suo
ufficio e con le tapparelle abbassate, una luce gialla e fioca dalla
lampada sulla scrivania. Stappò una bottiglia di vino rosso
e ne
versò in un bicchiere, aspettando a bere. Non avrebbe fatto
nient'altro. Era il presidente e non aveva alternative se non
comportarsi da tale o fare come Lionel e Lillian in passato, quando
la votazione aveva scelto di rapire una bambina, Kara, per farla
pagare alla giudice, lasciando l'incarico. Faora aveva tracciato il
suo destino quando scelse Rhea e non provò a immaginare di
qualcuno
che entrava nella sua cuccetta durante la notte e le toglieva la
vita. No, non voleva pensarlo. Prese il bicchiere e mandò
giù d'un
fiato. Era come sua figlia. Quasi un'erede. E adesso un nuovo
rimpianto. Lasciò il bicchiere sul banco e
appoggiò la schiena allo
schienale della sedia, chiudendo gli occhi. Ora era pronto per
ricordare lei e Charlie che si sfidavano a chi sparava più
lattine
in campagna, in una giornata felice, dandosi il cinque.
E
così, alla fine Faora ha pagato il prezzo del suo
tradimento.
Immaginavate sarebbe finita così? Prima di scrivere
metà capitolo,
io no (a volte, le cose si scoprono solo mentre si va per scriverle).
Ma non c'era altro che si potesse fare, temo: non potevano fidarsi di
lei, restava un problema. Ed era appena uscita dal coma, poveraccia.
Questo fatto avrà conseguenze?
Abbiamo
seguito Zod in varie fasi del suo passato e del suo presente in
questo capitolo: un Lionel diciassettenne, qualcosa in più
sulla
famiglia Luthor di allora e sulla nascita dell'organizzazione, come
Zod avesse cercato di reclutare Jor e Zor El, il nuovo processo di
Astra che si apre, i signori Petrov e Maggie che non sa come
comportarsi (e voi lo avreste saputo?), Lillian che rifiuta di
entrare di nuovo nell'organizzazione, la morte di Petra e Rhea che si
guardava le mani. Cosa vi ha colpito di più? Scrivetemi le
vostre
impressioni e, chissà, magari ciò che avete colto
:3
Zod
è un uomo tormentato, ha la sua età e ha visto
tante cose: l'idea
di scrivere di lui seguendo i suoi ricordi mi ha affascinato. Ma non
so quanto possono essere stati confusionari, ecco XD
E
ora qualche nota doverosa ~
-
Non so quanti anni di differenza ci siano tra Jor-El e Zor-El nei
fumetti, so solo che il primo è il maggiore e il secondo il
minore
(o mi sbaglio? Dubbi
esistenziali e dove trovarli).
Per comodità, avendo dovuto fare un schemino di date che non
vi dico
per scrivere questo capitolo, ne ho messi due.
-
Essendo questa fan fiction AU dove quei due non sono alieni, ho
optato per loro due nomi normali (come ho fatto con Zod) e tenuto Jor
e Zor
come soprannomi. James
e Zachary
erano quelli che ho trovato più in sintonia. E James
è davvero un nome comune e sfruttato un sacco, quindi ci
sta
sempre, come il formaggio.
-
In una scena abbiamo un medico che parla di stress, cervello,
ricordi, sostituzione di elementi nei ricordi in base alle
sensazioni, ecc: tengo a specificare che è tutto scritto in
funzione
alla narrazione, io davvero non mi intendo di niente di tutto questo
e quando ho fatto delle ricerche in merito non avevo trovato
granché.
È fantasia.
-
Abbiamo un nuovo personaggio (che verrà presentato meglio
sui
prossimi capitoli): Carina Carvex. Avete idee su di lei? Carina
ci stava tantissimo come nome, le sta bene.
-
Una curiosità. Pubblico su Wattpad da un
po', eppure ho
scoperto solo durante queste vacanze estive che, tra le varie
funzioni del sito, c'è una cosetta molto interessante che ti
permette di vedere da quali parti del mondo hai lettori. Con mio
immenso stupore, ho scoperto che seguono Our home
anche in
Francia (sul 5% del totale, mica poco), in Spagna, negli Stati Uniti,
in Svizzera, in Israele e addirittura in Senegal. Magari si parla
sempre di italiani in giro per il mondo, ma in ogni caso mi fa un
piacere enorme! Si aggiorna ogni tot di giorni, quindi segna solo i
lettori recenti e a volte escono fuori paesi nuovi, ma Francia e
Stati Uniti non sono mai spariti. Scoprire questa cosa mi ha fatto
andare in un brodo di giuggiole? Sì. Abbastanza, ahah!
Piccole
conquiste personali.
C'è
anche il modo di scoprire la percentuale di età tra i
lettori e il
sesso, se specificati. E altre statistiche. Ci vorrebbero cose di
questo tipo anche su EFP.
Sperando
che il capitolo vi sia piaciuto, è un piacere darvi di nuovo
appuntamento con il capitolo 52 per lunedì 9 settembre e si
intitolerà Chi
sono io?
Un
personaggio in particolare tornerà sulla scena!
|