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Autore: Ghen    30/08/2019    2 recensioni
Dopo anni dal divorzio, finalmente Eliza Danvers ha accanto a sé una persona che la rende felice e inizia a conviverci. Sorprese e disorientate, Alex e Kara tornano a casa per conoscere le persone coinvolte. Tutto si è svolto molto in fretta e si sforzano perché la cosa possa funzionare, ma Kara Danvers non aveva i fatti i conti con Lena Luthor, la sua nuova... sorella.
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Non solo quello che sembra! AU (no poteri/alieni) con il susseguirsi di personaggi rielaborati e crossover, 'Our home' è commedia, romanticismo e investigazione seguendo l'ombra lasciata da un passato complicato e travagliato, che porterà le due protagoniste di fronte a verità omesse e persone pericolose.
'Our home' è di nuovo in pausa. Lo so, la scrittura di questa fan fiction è molto altalenante. Ci tengo molto a questa storia e ultimamente non mi sembra di riuscire a scriverla al meglio, quindi piuttosto che scrivere capitoli compitino, voglio prendermi il tempo per riuscire a metterci di nuovo un'anima. Alla prossima!
Genere: Azione, Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Altri, Kara Danvers, Lena Luthor
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Ours'
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I'm back, bitches! [cit]
Emh. Eccoci finalmente di ritorno dopo le vacanze estive! Spero di esservi mancata. Vi siete divertiti? Ma soprattutto, vi ricordate dove eravamo rimasti e che al mio ritorno vi aspettava un bellissimo stand alone? :D Beh, sarà un po' difficile da seguire, ma se potete state attenti: questo capitolo è molto importante per il passato, il presente e il futuro della fan fiction. E chi vuole cogliere (?), colga!
Buona lettura!












51. L'erede 


Ricordava la sirena dell'ambulanza, parcheggiata di fronte a casa Taylor, che girava ininterrottamente. Petra lo aveva chiamato per andarla a prendere e si era mosso subito da casa, aveva parcheggiato l'auto a pochi metri ed era sceso reggendosi i capelli alle spalle, spettinandosi, spalancando gli occhi di terrore. Aveva iniziato a correre senza rendersene conto ed era già davanti alla porta di casa, aperta. Qualcuno lo aveva afferrato per le spalle e forse aveva detto qualcosa, era sicuro che avesse detto qualcosa, ma non aveva sentito, non ricordava una sola parola di quel momento perché, l'unica cosa che davvero aveva sentito, era la sua tachicardia che si appoggiava a un attacco di panico crescente. Cos'era successo? Doveva andarla a prendere, doveva solo andarla a prendere e… Rhea. Aveva visto quella ragazzina, lì, a pochi metri dalla porta. Dei poliziotti la circondavano: le avevano messo sulle spalle una coperta e cercavano di parlarle, ma lei non emetteva fiato. Era immobile, si guardava le mani. Aveva visto come si guardava le mani. E dopo aveva visto lei e sì che ricordava le urla. Sembravano distanti, provenire da qualcun altro, ma erano sue: strazianti, disumane come ciò che aveva provato. Aveva gridato il suo nome e si era messo a correre, nessuno poteva fermarlo. Petra giaceva a fondo delle scale: gli occhi aperti, la bocca socchiusa, un braccio girato al contrario, riverso sulla schiena. Più cercava di ricordare quel momento, più Adrian Zod la ricordava fredda, di pietra, di un colore più simile al marmo che a quello di un cadavere. Il suo cervello si sforzava per sostituire le reali immagini con ciò che indicavano le sue emozioni. Non voleva perdere quelle immagini, ma non poteva fermarle. Ci provava sempre. Voleva ricordare Petra com'era morta davvero, non come l'aveva sentita allora e la sentiva oggi. Voleva ricordare Petra com'era morta, e non solo il suo sorriso e com'era fare l'amore con lei. Voleva ricordare Petra com'era morta e Rhea che si guardava le mani.
«Non fategliela toccare! Spostatelo da lì». I poliziotti lo avevano tirato indietro e lui aveva urlato di nuovo.
Avevano coperto il corpo di Petra Taylor con un telo e il giovane Dru Zod aveva lanciato un'occhiata irosa alla quindicenne Rhea Taylor, che ancora si guardava le mani. «Tu! Sei stata tu!», aveva gridato e lei sobbalzato, spalancando gli occhi impauriti, tornando un passo indietro. «Lo so che sei stata tu». L'aveva poi indicata ai poliziotti: «È stata lei! Ha ucciso la mia Petra! Era gelosa! È stata lei».
Tremando, Rhea aveva continuato a guardarlo mentre lo trascinavano fuori. Allora aveva paura e, in questo momento, ne provava altrettanto, perché erano soli in quella saletta delle visite, divisi da una grata e un bancone che lui poteva sorpassare e lei no, ammanettata a un gancio. Le telecamere erano spente, la porta chiusa e con le tapparelle abbassate. C'era uno specchio ma non era sicura che, dall'altra parte, qualcuno stesse tenendo d'occhio il loro colloquio. E poi, anche fosse, non aveva dubbi su come Fort Rozz fosse sotto il suo comando. Nessuno sarebbe venuto a salvarla, se a Dru Zod fosse venuto in mente di ammazzarla. «Sei venuto qui per guardarmi?», gli domandò. Voleva provargli come non avesse paura, ma era inutile se la gola le si seccava e le mani, tenute strette sul banco, tremavano.
«Stavo osservando i tuoi occhi», disse piano, attento a non perdersi un suo solo movimento di ciglia. «Non avevo mai fatto caso a quanto fossero diversi da allora». Lei alzò un sopracciglio e lui, serio, rispose: «A quando uccidesti Petra».
Lei spalancò le narici e cercò di stringere i pugni, ma non poteva. «Non ho ucciso mia sorella. È stato un-».
«Incidente», la interruppe. «Dicesti questo. Dicesti molte cose, al tempo», prese una pausa, aprendo la bocca ancor prima che gli uscisse una parola. «Sei stata lucida, poi confusa, di nuovo lucida. Ho riguardato così spesso i file del caso, da quando sono entrato in polizia, da sapere ogni virgola dei fascicoli a memoria. Hai fatto di tutto per farti considerare una testimone inaffidabile: la povera sorellina incapace di ricordare cos'era veramente successo, troppo scossa emotivamente, troppo», si alzò dalla sedia e lei sussultò, «turbata. Un incidente, però c'era qualcun altro in casa, poi di nuovo un incidente. Non ci sono mai stati elementi per riaprire il caso. Te la sei sempre cavata».
«Che cosa vuoi, Dru? Uccidermi per vendicarti? Almeno sii chiaro… Finirai per uccidermi di noia», barbottò infine, non troppo convinta. «Petra è caduta dalle scale, no-».
«Lo so che l'hai spinta tu!», urlò all'improvviso, battendo le mani sul banco.
Lei restò ferma, ghiacciata. Un brivido di paura le percorse tutto il corpo come una scossa di terremoto.
«Ma non voglio ucciderti», specificò con voce più calma, tirando le labbra fini. «Voglio che confessi».
«Così da… Così da», riprese un po' di coraggio, «farmi uccidere dal sistema? Vuoi chiedere la pena di morte? Per questo hai fatto in modo che non la chiedessero al processo su Lar?».
Lui si rimise dritto con la schiena, sistemando la giacca e i polsini. «No. Non hai capito, Rhea: la confessione è per me. Per Adrian Zod, non per il sistema. Tu resterai qui dentro, viva, controllata, alla mia mercé. Tu resterai qui per me perché sei più utile da viva, che da morta».
Lei lo fissò con aria di supplica, ma doveva sapere che non sarebbe servito. «Non… confesserò», strinse i denti, «mai». Scosse la testa e lui sospirò.
«Lo farai. Ma ora mi serve un favore, sarà Astra a parlartene. Andate d'accordo? Sì?».
«Come farai quando il tuo cagnolino uscirà di qui?», domandò lei, irrigidendo le labbra. «Lo farà presto, no? Il processo inizierà a giorni. Hai già addestrato qualcuno di fiducia? Come fai a sapere che non ti tradiranno di nuovo, come quella poverina di Faora Hui? L'hai addestrata tu», rise, «l'hai cresciuta quasi come una figlia e lei ha preferito me a te. Ho sentito che si è risvegliata dal coma. Cosa le succederà?».
Zod abbassò lo sguardo e dopo si avvicinò lentamente. Le poggiò una mano su una spalla e la sentì tremare sotto di lui, con evidente paura. L'uomo si limitò a picchiettare. «Pensa alla tua confessione». Dopodiché la lasciò, chiudendo la porta della saletta dietro di lui. Charlie Kweskill era seduto sulla panchina lì in corridoio e si alzò di scatto appena lo vide, andandogli incontro. «No, non ha confessato ma lo farà», rispose a una sua occhiata.
«E… E se non lo farà?», domandò incerto, tenendosi indietro a lui di un passo. «Cosa faremo per tirarle fuori le parole dalla bocca, Generale?».
Lui sospirò a labbra strette, decidendo di non rispondere. «Com'è andata con Maggie Sawyer, stamane?».
«Oh, bene. Stiamo legando, come avevo previsto», annuì accompagnando un sorriso soddisfatto. «Mi racconta della sua bambina all'asilo, ha iniziato a frequentarlo. Parliamo del più e del meno. Sembra fidarsi».
«Non fare il passo più lungo della gamba, Charlie», chiosò lui ed entrambi entrarono in un ascensore.
Il ragazzo pigiò il pulsante e si tenne distante da lui un passo, aggrottando la fronte. «Non lo faccio, Generale. Cerco solo di essere accomodante, per favorire un rapporto di amicizia. Mi piace quella ragazza, magari riesco a farla aprire su cosa pensa di noi per il turno pomeridiano», guardò l'orologio sul polso, mordicchiando un labbro. «Sì, ho giusto il tempo di mettere qualcosa sotto i denti e vado. Vuole unirsi a me per un milkshake a gusto unicorno?».
Lui si accarezzò la pancia che iniziava a brontolare, facendo una smorfia con la bocca. «Mia moglie mi ha messo a dieta, passo».
«A dieta lei? Noo», corrucciò la fronte, esterrefatto. «Non lei, Generale! Io non la trovo affatto ingrassato, magari giusto un po' sui fianchi, ma è per via dell'età». Deglutì e impallidì quando l'altro si volto per fissarlo assottigliando gli occhi. «Ma non si nota», aggiunse di fretta, «anzi, lei è un bell'uomo! Vorrei essere ancora così affascinante alla sua… dove sta lei».
«Sai, Charlie», si girò di nuovo verso le porte dell'ascensore, disponendo le mani dietro la schiena. «Un giovane intelligente come te dovrebbe sapere quando è ora di tirarsi indietro a una discussione prima di peggiorare la situazione». Diede un'occhiata al suo cellulare, per poi nasconderlo in un taschino.
«Sì, Generale».
«E cambio di programmi: non avrai il turno pomeridiano con Sawyer, lei è con me, sono arrivati i pacchi. Fatevi sostituire e vai a trovare Faora in ospedale».
«Oh, volevo giusto andare a vedere come sta. Dev'essere difficile riprendersi, nella sua condizione», gli venne da sorridere involontariamente, prima di ricordarsi che la ragazza aveva tradito il Generale e che ora il suo futuro era appeso a un filo.
«Meno pagliacciate, più professionalità», gli ricordò Zod, in risposta al suo entusiasmo. «Fammi sapere come sta; passerò a trovarla domani».
Le porte dell'ascensore si spalancarono e Alex Danvers sbarrò gli occhi. I due le fecero spazio e la salutarono con gesti silenziosi mentre uscivano, che lei ricambiò, fredda. Le porte stavano per richiudersi che Alex serrò le labbra e le bloccò con una mano, andando incontro ai due, chiamando il capitano Zod. La guardò, in attesa, e lei prese fiato, decidendo di fare buon viso a cattivo gioco. «Volevo ringraziarla per il posto all'asilo per Jamie. A lei piace molto, può conoscere altri bambini e… si diverte», tentò un sorriso. Lo vide annuire e, dopo poco, voltarsi, così proseguì: «Mi chiedevo solo quando ci farà pagare questo favore. E come».
Charlie Kweskill piegò le sopracciglia con curiosità e Dru Zod la guardò con insistenza, prima di proferire parola: «Pensa che ci sia un prezzo da pagare? La felicità e l'istruzione della bambina non è sufficiente?».
Alex abbozzò una risata sarcastica, guardando intorno a lei come le guardie di Fort Rozz giravano in tondo come vespe, fingendo disinvoltura, assicurandosi di non perdere ogni suo movimento. Era certa che se avesse provato a prendere la pistola dalla fondina, sarebbero schizzati su di lei per bloccarla. «Non è così che funziona con voi, solitamente», scrollò le spalle, facendo intendere di non avere intenzioni bellicose.
«È chiaro che si sbaglia e ci confonde per qualcos'altro, agente Danvers», mormorò il capitano Zod. «Le mie intenzioni sono cristalline e lo sono sempre state per Maggie Sawyer, e perché non dovrebbero esserlo per lei, che è la sua compagna. Non c'è nient'altro».
Alex ingurgitò saliva, prendendo fiato a narici spalancante. «Prima o poi la metterò agli arresti… Generale».
«In attesa che arrivi quel giorno», soffiò lui, senza scomporsi, «le auguro una buona giornata». Si allontanò e Charlie lo seguì a ruota, affermando quanto non sembravano starle simpatici.
Alex li tenne d'occhio fino a quando non uscirono dal complesso e sparirono dalla sua vista, tornando indietro verso l'ascensore. Sbuffò, quando le porte le si chiusero davanti. Sentiva anche lei la frustrazione che gravava sulle spalle del suo capo, John Jonzz. Sapevano di Zod e avevano le mani legate, in assenza di prove. E lui poteva continuare a fare ciò che voleva, indisturbato. Come monopolizzare la centrale di polizia, o così le disse Maggie: anche lì non avevano prove atte a dimostrarlo ma, da quando l'FBI aveva lasciato il distretto ed erano arrivate le nuove reclute per sostituire la perdita degli uomini e donne che avevano rapito Jamie quella volta, aveva avuto come la sensazione sulla pelle che fossero tutti sotto gli ordini di Zod e non come capitano della polizia, ma come presidente dell'organizzazione, come Generale. Erano omega. O come monopolizzare quel posto, il carcere Fort Rozz. Nessuna prova anche qui, ma l'aria che si respirava da quelle parti tirava inequivocabilmente in un senso ben preciso. Se solo fosse riuscita a impossessarsi delle chiavette con i dati che i terroristi di Rhea Gand avevano cercato di immettere nei punti colpiti… Grazie a Kara, ora sapeva che una di quelle pennine usb era nelle mani di Clark Kent e Lois Lane, ma era comunque in alto mare per tutto il resto. Doveva solo sperare che Indigo Brainer non avesse niente a che vedere con l'organizzazione, in modo che il direttore della prigione non le mentisse e poteva risolvere qualcosa. In mezzo a tutto quel disastro, almeno una cosa.
Le dissero di accomodarsi e lo stesso direttore, seduto dietro la scrivania, le indicò la sedia. Era un uomo in carne, pochi capelli brizzolati ai lati, occhialetti fini e tondi sorretti dal naso dalla pelle grassa e butterata. Le sorrise e le strinse una mano, mentre Alex si sedeva. «Qual buon vento la porta qui, agente Danvers?».
Notò come l'uomo si sfregava le mani e forzava un sorriso, quasi fosse nervoso. Ma nervoso perché? Sapeva già perché si trovava lì?

Maggie era nervosa. Le sue mani tremavano: cercava di stringerle sul grembo, seduta con lo schienale dritto sull'automobile a lato del guidatore, ma le sfuggivano dalle dita e, subito, schizzavano al suo controllo. Zod notò la sua bocca muoversi con incertezza, quasi volesse prendere parola per poi cambiare idea sul momento di farlo. Dopotutto, le aveva detto che le serviva per qualcosa di urgente, ma non aveva specificato dove sarebbero andati e perché. Parcheggiarono vicino ad altre macchine e si tolsero la cintura di sicurezza, ma lui non aprì la portiera e lei attese.
«Voglio metterti al corrente, Sawyer: ciò che troverai non ti piacerà». Lei lo guardò con un misto di curiosità e paura. «Ma devi sapere che avrai il potere decisionale. Che tutto dipenderà da te».
«Non so ancora di cosa si tratta, signore».
«Ti spiegherò quando ci sarai davanti», le disse serio. «Credi di essere pronta?».
Maggie non rispose subito. Scosse la testa poco, stringendo le labbra e guardando in avanti: si trovavano in un deposito di box. Cosa mai avrebbe potuto contenere lì? E che potere decisionale avrebbe dovuto avere in merito? Sperava solo che non ci fossero cadaveri perché ormai iniziava a immaginarsi il peggio. «La verità è che… non lo so», scrollò le spalle e lui annuì, in ascolto. «Il mio ingresso nell'organizzazione non potrà avvenire dentro un box. Ne sono certa».
«No, difatti», anche lui guardò in avanti, solo un momento. «Ma spero che ciò per cui siamo qui oggi avrà un relativo peso sulla tua decisione di unirti a noi».
Beh, allora non l'avrebbe uccisa dentro quel box. Era il suo secondo pensiero. In ogni caso, aveva la pistola nella fondina della divisa. «È che…», sospirò, formando un sorriso malinconico. «Quando mi sono iscritta nella polizia, non pensavo mi sarei ritrovata in situazioni di questo tipo, mi trova impreparata, l'accademia non accennava a niente di simile», abbozzò una risata, durata poco. Allora deglutì, scuotendo ancora la testa. «Era mio padre il mio mentore… e non posso chiedergli consigli di questo genere», inclinò la testa da un lato, focalizzando un punto lontano del parcheggio, senza interesse. «Da quando mi vuole nella sua organizzazione, mi chiedo cosa avrebbe fatto lui al posto mio».
Cosa… avrebbe fatto. Zod abbassò lo sguardo perdendosi nei ricordi, rivedendo Petra che, incerta, camminava avanti e indietro sui propri passi. Che cosa avrebbe fatto?
«Ho cambiato idea e non so come dirglielo», aveva detto Petra, cercando di forzare un sorriso. Si era portata i capelli sciolti dietro le orecchie e ripreso a camminare. «Rhea non è pronta e anzi, sai che cosa comincio a pensare? Di non esserlo nemmeno io! Che non dovrebbe esserlo nessuno», aveva ripreso a dire, frenetica. «Pensavo che nell'organizzazione avremo cambiato questa città, ma i Luthor… i Luthor no, Dru, non sono normali, si comportano come mafiosi».
«Non puoi cambiare idea, Petra», aveva risposto lui, aggrottando la fronte. «Abbiamo firmato i contratti, non puoi fingere che non sia successo e», aveva sorriso e anche lui si era tirato i capelli lunghi dietro le orecchie quasi a sventola, «abbandonare perché loro non ti piacciono».
Petra si era fermata di scatto lisciando convulsamente la rigida gonna alle ginocchia, color porpora, che indossava. «Questo però non mi obbliga a iniziare la mia sorellina di quindici anni! Tu lo faresti, al posto mio? Non dormo al pensiero di cosa avrebbe fatto Rhea al posto mio».
Zod scosse lentamente la testa, sforzandosi per tornare alla realtà. Uscirono dall'auto e, chiavi in mano, la guidò all'interno del complesso, districandosi tra i corridoi fino alla serranda del box interessato. Non c'era alcun rumore, nessun altro che cercava il proprio box, solo gli uccellini che cantavano sugli alberi davanti al parcheggio e qualche clacson lontano. La vedeva come ispezionasse ciò che le stava intorno e come, probabilmente, cercasse di memorizzare il percorso verso il box: era una poliziotta ma, soprattutto, una poliziotta che ancora non si fidava del tutto di lui. «Ho prenotato il deposito completo per quarantotto ore: non disturberà nessuno». Maggie gli annuì, ma le sue pupille erano dilatate e gli occhi schizzavano da una parte all'altra: aveva paura. Inserì la chiave nel lucchetto e sollevò la serranda. Lei entrò all'interno del box solo dopo di lui, con la mano destra che aleggiava intorno alla fondina della pistola. C'era buio. L'uomo riabbassò la serranda e superarono l'ingresso coperto da teli di plastica, sollevandoli al loro passaggio. Appena li vide, Maggie Sawyer si comportò esattamente come si aspettava: cercò di raggiungerli in fretta per poi bloccarsi all'ultimo, domandandosi perché quella coppia fosse legata e imbavagliata a una sedia, girandosi con sconcerto verso di lui. «Non ti agitare. Ricorda che hai tu il potere decisionale».
Maggie manteneva gli occhi spalancati, guardando lui e di nuovo loro. Cosa stava succedendo?
Lui era un uomo alto, talmente che la sedia sembrava fatta per dei bambini; la fronte ampia, gli occhialetti rettangolari e sporchi che gli scivolavano dal naso sudato; era vestito elegante, con completo grigio a scacchi e una cravatta anonima. Anche la donna era elegante, indossando un vestito estivo a tema floreale, i capelli cotonati che ricadevano sulle spalle, le scarpe col tacco. Oh, una le era scivolata via dal piede.
Erano legati e non potevano parlare perché il bavaglio glielo impediva, ma lo facevano abbastanza con gli occhi spiritati che la seguivano, in cerca di aiuto.
Aveva paura di trovare cadaveri, o che volesse ucciderla, ma le persone rapite proprio non le erano venute in mente. «Chi sono? Che cosa hanno fatto per essere qui?». Incurvò la testa, cercando di scorgere dettagli che a un semplice sguardo sarebbero passati inosservati.
«Considerali un regalo», mormorò da un angolo del box mentre li osservava dibattersi. «I miei li hanno rintracciati prima che lasciassero il continente per fare ritorno in Russia. Ti presento il signore e la signora Petrov, che erano pronti a prendere tua figlia e partire con lei verso una nuova casa».
A quelle parole, Maggie ebbe un brivido, fermandosi. Loro erano la coppia a cui quei poliziotti che l'avevano rapita l'avrebbero consegnata? Tornò indietro di un passo e aggrottò la fronte, fissando i loro sguardi colmi di terrore. No, non era pronta a questo, perché…? Credeva che la faccenda si fosse conclusa e che vivesse solo nelle sue paure più nere che la spingevano a controllarla perché dormisse o che giocasse e non fosse sparita. La sua bambina… Chiamata Jamie per simboleggiare la libertà, rapita, venduta e trascinata in un paese repressivo dove essere gay, come la sua mamma, era un crimine. Per un attimo pensò di sentirsi male, ma c'era un'ultima lettura più terrificante di quell'avvenimento: il suo potere decisionale in cosa consisteva? Cosa voleva che facesse con quella coppia?
Come potesse leggerle nella mente, Zod si allontanò dalla parete e la raggiunse mentre si sedeva sul cemento, guardando con lei i signori Petrov che ballavano sulla sedia per cercare inutilmente di liberarsi. Le poggiò una mano una spalla e Maggie sussultò, per poi scuotere la testa e reggersi la fronte. «Non eri preparata a questo», mormorò, «ma era qualcosa di irrisolto. Non era mia intenzione turbarti».
«Ci è… Ci è riuscito lo stesso. Da quando tempo sono qui?».
«Sono arrivati questa mattina. Hanno viaggiato con la mia squadra per qualche giorno». Parlava con naturalezza, come se fosse stato normale. «Hanno controllato la cronologia del loro pc».
«Chi?».
«La mia squadra. Li conoscerai», rispose pacato. «Il signor Petrov è sterile, sono fuori dalla lista di adozioni per via dell'età e non volevano perdere altro tempo seguendo le delicate procedure per l'inseminazione artificiale, ma hanno soldi. In questo modo», le lasciò la spalla, facendo un passo indietro mentre Maggie era intenta a guardare negli occhi di una e poi dell'altro, «pensavano di velocizzare il tutto partendo per un continente straniero e… prendendo un bambino piccolo che qualcuno, per loro, avrebbe fatto sparire».
Maggie deglutì, fissando gli occhi verdi di lei che la fissavano a sua volta, sperando nella salvezza.
«Il rapimento di minori è in continua crescita. Spariscono per traffici sessuali, di organi o, da paesi come il nostro, per andare incontro a famiglie come i signori Petrov. Cambiano nome, taglio di capelli, una nuova identità», fece una smorfia con le labbra, scrollando le spalle, «ed è fatta». Camminò di nuovo verso una parete, controllando la reazione della ragazza: stringeva un pugno, ma tratteneva bene le emozioni. «I signori Petrov cercavano una femminuccia. Non bianca perché avevano già la storiella pronta da raccontare ai vicini, vero, signori Petrov?», li interpellò e due sgranarono gli occhi, ricominciando a dimenarsi sulla sedia. «Adottata dai paesi meno fortunati. Perché loro tengono al parere dei vicini».
Una normale coppia di mezza età, incapace di difendersi, impaurita, legata, che rappresentava esattamente quanto di più marcio esistesse negli esseri umani. Così innocui a prima vista, era la seconda volta che i signori Petrov erano tanto vicini dal portarsi via una bambina strappata a qualcun altro. Era proprio lì che Dru Zod voleva vedere come avrebbe reagito Maggie Sawyer. I due non erano solo clienti della compravendita di minori, ma avrebbero preso la sua, di bambina, se le cose fossero andate come quei poliziotti che volevano fargliela pagare fossero riusciti nell'intento.
«E cosa posso fare io?», domandò, rialzandosi con pesantezza dal pavimento. Le gambe a stento riuscivano a tenerla sollevata. «Non… Non so cosa…». Non aveva parole ed era spaventata, confusa, e arrabbiata, probabilmente molto arrabbiata. Che cosa voleva da lei? Che per entrare a far parte di quell'organizzazione, uccidesse quei due a sangue freddo davanti a lui? Come se la paura di ciò che sarebbe successo a Jamie, a primo impatto, non le suggerisse già di premere il grilletto. Se li avesse lasciati andare, d'altronde, cosa le diceva che non ci avrebbero provato ancora con un'altra bambina? Ma era tutto sbagliato. Non avrebbe davvero ceduto agli istinti o come avrebbe riguardato Jamie in faccia? Se voleva spingerla a uccidere per entrare in quell'organizzazione, allora avevano chiuso. «Non li ucciderò, io», scosse la testa, indicandoli e guardando Zod, «non lo farò».
Lui si avvicinò e annuì, abbassando lo sguardo. «Sei ben cosciente che, se li lasciamo andare, non potremo fare più niente? Se tornano in Russia, li avremo persi».
Maggie sospirò con stanchezza, provata. Riguardò loro che le rivolgevano occhi di supplica e scosse brevemente la testa, iniziando a sorridere, senza capire perché. «Non posso farlo. Se questo è un test, allora non sono la donna giusta, capitano», scrollò le spalle.
«Li lascerai andare?», chiese di nuovo e Maggie annuì.
«Li lascio andare. Non… posso», lo guardò, «Non posso», ripeté. Tornò indietro, sollevò i teli di plastica e riaprì la serranda, uscendo fuori.
Dru Zod non si scompose: lentamente guardò i due, i teli di plastica e prese il suo cellulare da un taschino, componendo un numero. «Qui ho finito», esclamò, infilando l'altra mano in tasca dei pantaloni. «Puoi venire a pulire», aggiunse, ignorando i signori Petrov che lo imploravano sotto i bavagli. Quando uscì nel parcheggio, trovò Sawyer seduta sul bordo di un muretto di un'aiuola, sotto l'ombra di un albero. Aveva il cappello della divisa tra le gambe e lo stringeva mentre lo fissava senza interesse. Temeva sarebbe scappata: voleva chiedergli scusa e avere una nuova occasione per entrare nell'organizzazione per conto della sua missione verso il D.A.O., o non aveva così paura di lui come in realtà a volte dimostrava? «Cosa avrebbe fatto tuo padre, se i signori Petrov avrebbero cercato di rapire te, da bambina?», le domandò una volta seduto al suo fianco, senza guardarla.
Lei sorrise ancora, spegnendolo a breve. «Preferisco non pensarci. Sicuramente, lui non l'avrebbe delusa».
«E tu pensi di averlo fatto?».
«Non è così?».
«Hai dimostrato sangue freddo in una situazione che avrebbe fatto uscire di testa chiunque», disse piano, scorgendo un punto distante, vacuo. «Il fine di questo incontro non doveva per forza coincidere con la conclusione che avevi in mente. Siedi in macchina, ti riporto in centro».
Si alzò e non la guardò nemmeno per un'istante, lasciandola disorientata. Perché tanta premura? Si occupava di persona di ogni membro che aspirava a entrare nell'organizzazione oppure era in cerca di qualcosa in particolare?
Sono sempre più convinta che stia usando me per arrivare a te. Scrisse velocemente il messaggio, in auto. Io non ho nulla che gli interessi, ma tu stai lavorando al suo caso per il D.A.O., Danvers. È chiaro.

Aveva sempre voluto dei figli. Anche Petra. Quando sua figlia Melanie aveva cinque anni, aveva registrato un filmino con una vecchia cinepresa e ancora amava riguardarlo, la notte, quando non riusciva a prendere sonno: la bambina lo chiama perché si vergogna a farsi riprendere e sventola la gonna del vestitino che indossa, agita il capello di paglia, gioca in giardino con dei bambini invitati alla festa e infine spegne le candeline della torta, regalandogli un immenso sorriso. Melanie era emotiva, inglobata dal lavoro che amava, moglie di un marito presente, madre di un bimbo timido che vorrebbe proteggere dal mondo. E il secondogenito Chris, tredicenne, un figlio inaspettato alla sua età. Avere lui era stato riscoprire il mondo con occhi nuovi. Testardo, spiritoso, svogliato come non era lui alla sua età. Anche Petra voleva dei figli e aveva sempre immaginato, che quel figlio avuto tanto tardi, fosse un dono da parte sua. Chris somigliava a Petra.
«Notato? Lo stanno per chiamare», aveva detto il signor Luthor a bassa voce a un giovane Adrian Zod, appena seduto al suo fianco. Gli aveva lasciato il posto libero. In realtà, aveva un'intera fila di posti liberi all'interno dell'auditorium, davanti a due guardie armate. Le luci erano fioche, illuminavano il palco e un uomo che parlava. Dopo gli applausi, un ragazzetto rigido e ben vestito di un completo blu scuro era salito per avvicinarsi al leggio con un plico di fogli in mano. Il signor Luthor aveva tiepidamente applaudito, insieme alla sala. «Non ci ha dormito la notte», aveva sussurrato, «Lionel vuole lasciare il segno, in questa scuola».
Il ragazzo aveva iniziato a parlare circa il suo progetto per la fine dell'anno scolastico e Zod si era perso nei suoi pensieri, sbirciando Levi Luthor al suo fianco che guardava il figlio con espressione seria. Il discorso, il progetto che stava spiegando così come avrebbe fatto un uomo adulto e come incantasse tutti non avrebbe, forse, dovuto renderlo fiero? Aveva diciassette anni e usava le espressioni di un laureando. Eppure, Levi era a un passo dall'annoiarsi. Poi lo aveva visto scuotere la testa e sospirare, attirando la sua curiosità.
«Lionel…», aveva ripreso a sussurrare, «non è adatto».
«A cosa?».
«Al nostro progetto, quello a cui lavoriamo ormai da quattro anni», si era girato per guardarlo, «Sì, sono passati quattro anni. Il tempo ci sfugge di mano».
«Perché non lo è?», gli aveva chiesto con disinvoltura. «Lionel è intelligente, maturo; gestisce bene la contabilità-», si era fermato, vedendolo scuotere la testa di nuovo.
«Gli manca una cosa», aveva puntato un dito indice, «Una cosa. Ed è la cosa più importante di tutte». Dru Zod si era accigliato e Levi Luthor non si era lasciato attendere: «Il ragazzo sa ragionare bene, ma gira troppo intorno alle cose, non ha un punto fermo, la risolutezza. Non è adatto», aveva ribadito. «E tu hai con te la lista dei novizi?». Zod aveva velocemente annuito, aprendo la borsa che portava con sé e mostrandogli una cartella. Levi Luthor l'aveva subito aperta e letto i nomi uno dopo l'altro, seguendo con un dito. «Manca Rhea Taylor. Perché?».
Dru aveva deglutito. «Petra ha cambiato idea. È convinta sia ancora troppo giovane».
«Un gran peccato», aveva commentato lui, richiudendo la cartella. «L'età è indicativa, le qualità che cerchiamo vanno subito a galla e a lei non mancano di certo». Aveva sporto la cartella indietro alle spalle e una delle guardie l'aveva presa con sé. «Prendi Lionel», aveva continuato a bassa voce, indicando il figlio al centro del palco, con un gesto del capo, «Se non le trovo una donna da affiancargli che sopperisca a questa sua mancanza, un giorno potrebbe distruggere tutto quello per cui stiamo lavorando oggi». Si era zittito e aveva ascoltato pochi minuti del discorso di suo figlio, assottigliando gli occhi. «La ricerca dell'erede», aveva scosso la testa, «non è facile. Voglio bene a Lionel, l'ho cresciuto io e nel miglior modo possibile, ma non potrà essere il mio erede», aveva sospirato pesantemente, guardando nella sua direzione. «Non deve saperlo. È emotivo e potrebbe fraintendere le mie parole, Dru. Comprendi?». Il giovane aveva annuito, pur dispiaciuto. «Lionel sarà sempre mio figlio, ma qualcun altro dovrà prendere il mio posto», aveva aggiunto con decisione, guardando di nuovo l'altro. «Tu e Petra? Metterete su famiglia?».
«Ah, sì, sì, certo», si era accigliato con decisione, «Non appena ci sposeremo. Faremo le cose per bene».
«Siete già in ritardo», aveva ribattuto, riguardando Lionel sul palco che intratteneva l'auditorium. «Dovete sperare di non incorrere in qualche problema. Non avete ancora provato a cercarne…? No? Senza il matrimonio, meglio così. Dà stabilità a una famiglia», aveva continuato, vedendolo scuotere la testa. «Spero che siate fortunati. Noi…», aveva sospirato. «Abbiamo cercato a lungo un figlio prima di Lionel».
Zod strinse gli occhi. Un altro ricordo stava venendo a galla. Petra, certo. Sempre Petra. Gli parlava, era arrabbiata perché aveva litigato con Rhea. Succedeva spesso, in quel periodo.
«Non mi piace», aveva detto. Sentiva la sua voce lontana e doveva sforzarsi per vedere il suo volto. «Hai visto anche tu come quella donna passa il suo tempo sempre intorno a mia sorella! Ovviamente lei vuole entrare a far parte dell'organizzazione: in modo che possa stare sempre vicina ai Luthor. Questa mattina la credevo sola, non c'era la scuola e mamma le ha detto di restare a casa. Torno e la trovo là, con Rhea».
Il giovane se stesso aveva sorriso. «Non capisci, Petra. Per lei è probabilmente come una figlia».
«… prima di Lionel. Abbiamo perso un figlio», gli aveva detto Levi Luthor, mentre il diciassettenne Lionel spiegava dal palco. «Non riusciva a restare incinta e quando poi è successo… lo abbiamo perso. Tre mesi. Aborto spontaneo. È una maledizione di famiglia», aveva lentamente scosso la testa, amareggiato. «E dopo Lionel, non ci siamo più riusciti. Da tre fratelli…».
«Di cosa stai parlando?», aveva continuato Petra e Dru Zod aveva abbassato gli occhi, vergognandosi di dire una cosa tanto intima che doveva restare privata.
«Lara Luthor non può avere figli», si era stretto nelle spalle e Petra aveva sospirato. «Me lo ha confessato Levi, l'altra mattina. Loro hanno faticato ad avere Lionel, Lara non può e Louie… sappiamo com'è andata con Louie».
Levi Luthor si era zittito e aveva sorriso di gioia quando una delle guardie gli aveva portato davanti, per mano, una bambina con indosso un vestito scuro a pois bianchi lungo alle ginocchia, con i capelli neri stretti in une due basse code. «Lorna», l'aveva chiamata, dandole la mano per seguirli a sedere. «Sei una signorina, ma guardati. Allora non ti siederai sulle gambe dello zio?».
Lei aveva prontamente scosso la testa, accompagnando il gesto da un verso con la gola. «Ho dodici anni, sono grande per queste cose», si era seduta al lato opposto, «Sono qui solo per ascoltare Lionel».
Petra si era messa le braccia a conserte. «Non mi convince lo stesso! Lo so che sembro pazza, ma se non può avere dei figli, allora perché ha detto a Rhea che è meglio non averne? Io ero là e ho ascoltato parti della loro conversazione». A un certo punto si era messa le mani fra i capelli e si era andata a sedere vicino al suo fidanzato. «Forse sto davvero diventando pazza», l'aveva guardato con occhi grandi, stanchi, e lui le aveva circondato il viso con le mani per accarezzarla. «Se non può avere dei figli, per questo si convince che sia meglio stare senza?».
«Hai tanti pensieri per la testa», le aveva bisbigliato prima di baciarla teneramente sulle labbra. «Pensiamo al nostro matrimonio, adesso. Dimentica l'organizzazione e i Luthor; non litigare con Rhea. Pensa a noi due, al nostro . Ai nostri futuri figli».
Petra aveva sorriso, allungando le labbra per baciarlo a sua volta. «Ai nostri eredi?».
«I nostri eredi».
Si erano baciati e Zod, nel presente, sentiva che si stava svegliando. Aprì gli occhi pian piano e la sensazione di vuoto che gli comprimeva il petto gli rammentò che Petra non c'era più. Era come non avere aria per respirare; non importava che fossero passati quasi quarant'anni dalla sua morte o che lui si fosse sposato con un'altra e avesse avuto con lei dei figli. Dei figli che non erano eredi.
Si stropicciò gli occhi e uscì dall'automobile, passando sulle strisce pedonali per attraversare. Charlie Kweskill lo aspettava seduto in una corsia dell'ospedale, appoggiato tra lo schienale e il davanzale di una finestra, con gli occhi chiusi, le braccia a conserte e le gambe accavallate. Gli altri poliziotti che facevano di guardia alla cuccetta di Faora Hui lo indicavano per prenderlo in giro, senza emettere un verso. Appena lo videro arrivare si portarono sull'attenti e Zod si fermò a un passo dall'altro, pensando di sferrargli un calcetto per svegliarlo: Charlie sobbalzò, sbatté un piede a terra, perse l'equilibrio e cadde dalla panca, facendo ridere i colleghi. Almeno fino a quando il capitano non si voltò verso di loro e pensarono bene di ammutolirsi. «Stai dormendo durante la notte, Charlie?».
Lui si toccò il petto muscoloso, sospirando e dopo sollevandosi. «Non proprio, Generale», forzò un sorriso, spolverandosi il pantalone.
Si vergognava a dire che si preoccupava per Faora ora che si era risvegliata? Dru Zod ben conosceva il legame che li univa e poteva immaginare. Dopotutto, lui stesso era preoccupato. «Siamo in due», confessò, per poi chiedere al gruppo dove fosse l'agente che mancava all'appello. Aprì la porta della cuccetta e pensò che trovare al suo interno le sorelle Danvers gli avrebbe fatto venire subito in mente qualcosa di pungente da dire, ma la prima persona che vide fu Faora e tutte le intenzioni morirono sul nascere. I capelli sudati e schiacciati contro il cuscino, immobilizzata sul materasso sollevato per metà, la pelle quasi gialla, emaciata, lo sguardo terrorizzato nel vederlo lì. «Lasciateci soli», si rivolse alla guardia all'interno, che annuì, che ad Alex e Kara, sedute a fianco del letto, «Per piacere».
Kara lo guardò sorto e uscì fuori inviperita, intanto che Alex si teneva più distante: «Degli agenti del D.A.O. verranno presto, ho ottenuto il permesso di darle una scorta. Una scorta vera. Non ha parlato, ma se avrà bisogno di sfogarsi, saprà di poter contare su di me». Gli lanciò uno sguardo di sfida e uscì, lasciando Zod a un lungo sospiro.
«Anche tu, Charlie».
«Com- Pensavo non sapesse che ero dietro di lei».
Zod si voltò a sottecchi e il ragazzo mostrò i palmi, tornando indietro. Guardò Faora un'ultima volta, con paura, prima di richiudere la porta. L'uomo prese la sedia lasciata da una delle sorelle e si sedette, mentre lei alzava gli occhi al soffitto e deglutiva.
«Ho… paura», disse lei, lentamente. La gola bruciava ora che ricominciava a parlare.
«Mi hai tradito», esclamò di rimando. «Potevo aspettarmelo da tanti, ma da te, Faora, proprio no. Da te, come da Charlie, proprio no». Si sforzava affinché la voce apparisse dura. Alzò gli occhi solo quando la sentì piangere: scosse la testa tra le lacrime, tenuta appoggiata sul cuscino, e provò a stringere i denti.
«Lo so che… è tardi, Generale. Ma… mi dispiace… così tanto».
Zod non proferì parola, passandogli nella mente le immagini di lei e Charlie, in campagna, che si allenavano a sparare alle lattine. Un gioco, più che un allenamento. I sorrisi, i suoi due ragazzi che si davano il cinque. «Che cosa…», la voce gli si strozzò, ma tentò con tutte le sue forze di mantenersi lucido, «ti aveva promesso Rhea Gand?».
Lei deglutì e prese fiato. «Di… diventare beta», aveva sorriso, solo per poco. «Una beta… e la sua erede».
Zod aveva scosso la testa. «E tu ci hai creduto. Oh, Faora… Quella donna non ama nessuno pari a se stessa. Forse solo suo figlio».
«Non lo avrebbe… iniziato mai».
«No. È vero», concordò, «Non è adatto».
«Non volevo deluderla… Generale. Volo solo…», fissò il soffitto bianco, «essere notata».
«Pensavi che, con me, non avresti avuto speranze? È questa l'idea che ti ho dato?».
Faora allora chiuse gli occhi, formando un flebile sorriso. «Ha sempre preferito… Charlie».
Zod si alzò, sentendo l'irrefrenabile impulso di camminare. Quelle parole lo ferivano quasi quanto il tradimento stesso e i sorrisi di Charlie e Faora, in campagna, sbiadivano.
«Mi uccideranno… vero?», borbottò a un certo punto. «I colleghi qui… ne conosco uno solo, ed è l'unico… che non mi guarda… da traditrice», continuò e lui ascoltava, voltandosi. «Le cose sono cambiate… me l'hanno detto».
«Non ti uccideranno», rispose pacato. «Ci sarà una convocazione dei beta, presto. Voterò per te».
Lei scosse la testa. «La votazione non funziona, Generale. Non ha… funzionato in passato e… non funzionerà adesso». Strinse le labbra e il viso le si rigò di altre lacrime. «Ricorda quando… ci ha raccontato… i suoi rimpianti, Generale? Il suo alunno… è morto perché la votazione ha… fallito».
«Non è stata la votazione a fallire».
Lei sorrise amaramente. «Sarei dovuta morire quando… Alex Danvers mi ha… sparato. Era qui perché… vuole proteggermi», cercò di ridere, ma le mancò il fiato. «Proteggermi… da voi. Sarei dovuta morire… quando mi ha sparato».
Zod pensò di dire qualcosa, ma preferì uscire. Chiese agli agenti se la famiglia era passata a trovarla e, a risposta positiva, decise di andarsene. Charlie Kweskill voleva seguirlo ma infine restò indietro, a fare da guardia. A proteggerla.

La votazione non aveva fallito. Continuava a ripeterselo, sforzando i suoi ricordi a venir fuori. Dava consigli a Faora, rimproverava Charlie, dava la parola a Jor El che, dal banco, aveva alzato una mano. Era tornato più indietro, più indietro. Sua moglie era in procinto di partorire Melanie, la loro primogenita, e si sforzava perché non le mancasse niente, a stento dormiva, districandosi tra il preparare gli argomenti da portare in classe e la sua presenza all'organizzazione così, quando a lezione uno studente alzava la mano, per lui era sempre una manna dal cielo. E lui, il ragazzo che si faceva chiamare Jor, era lo studente più preparato e capace a cui avesse mai avuto il piacere di insegnare. Sapeva che anche suo fratello, che per tutti era Zor, due classi più giù, era un sollievo per il corpo insegnante. Aveva tante cose da fare e una bimba in arrivo, ma aveva piacere di restare oltre l'orario per discutere con loro di temi scientifici, dare qualche dritta, confrontarsi e, perché no, fare loro da mentore.
Lo aveva visto da lontano. Ricordava il sole caldo di quel pomeriggio, andando avanti nel tempo. In quel periodo, lavorava per le forze dell'ordine a Metropolis ed era tornato a National City solo per parlargli. Sapeva che portava in quel parco a giocare suo figlio e sua nipote, così lo aveva raggiunto. Mani nelle tasche dei jeans scuri, camicia color pastello, corta, sbottonata sotto il collo, Dru Zod si era avvicinato lentamente alla panchina dov'era seduto e leggeva da un cellulare. Dopo un ventennio di potere, l'organizzazione sperava di rinforzarsi in fretta dopo lo scivolone dato dall'arresto di alcuni beta con l'arrivo del nuovo millennio; servivano menti fresche e sapeva dove trovarle. Lo aveva visto abbassare l'apparecchio e sospirare: si aspettava il suo arrivo, dopo che per giorni aveva rifiutato le sue telefonate. «James, detto Jor, El», si era seduto al suo fianco e il giovane aveva sorriso, mettendo via il telefono.
«Professore».
«Non sono più un professore da tempo. Qual è il tuo campione?».
Jor aveva alzato la testa e seguito il suo sguardo verso dei bambini che giocavano a pallone, poi aveva abbozzato una risata e scosso la testa. «No, no, Kal è quello laggiù», lo aveva indicato, dall'altra parte: seduto sull'erba a gambe incrociate e appoggiato contro una giostra per l'infanzia, aveva i capelli lisci tirati dietro le orecchie, neri, gli occhiali da vista che si tirava in su, mentre leggeva concentrato un fumetto. Sulla giostra alle sue spalle, una bimba dai capelli biondi legati in due code lo guardava dall'alto, affacciandosi.
Zod aveva sorriso di rimando. «Tale padre… Perché non leggere a casa?».
«E il rischio di avere un contatto sociale di qualche tipo?».
«Proprio tu parli», lo aveva finalmente guardato negli occhi, strabuzzando i suoi, «che la tua vita sociale comprendeva unicamente tuo fratello? Ricordo ancora le vostre pause pranzo a disegnare quel logo».
Lui aveva riso divertito, inclinando la testa da un lato. «L'emblema degli El», aveva ricambiato lo sguardo, «Significa speranza».
«Ci perdevate dietro tanto di quel tempo. James e Zachary El, meglio ancora Jor e Zor El che, tra un progetto scientifico e l'altro, disegnavano speranza».
Avevano sorriso di nuovo, guardando in direzione dei bambini. «Perché è qui, professore?», aveva chiesto dopo, con la voce più seria e malinconica mentre l'altro si piegava in avanti.
«Lo sai perché. Ti chiedo formalmente, a te e tuo fratello, di venire a lavorare per noi», lo aveva guardato e allungato una mano con un biglietto da visita. «Potete chiamare a quel numero in qualsiasi momento». Aveva squadrato Jor prenderlo ed esaminarlo. «Non pretendo una risposta subito. Teniamo d'occhio i vostri lavori per la comunità dal sito online e saremo entusiasti di avervi in squadra. Siamo pronti a finanziare qualsiasi-».
«No», lo aveva bloccato e Zod era rimasto con le parole in bocca, odiando che lo si interrompesse. «Lusingati, rifiutiamo».
«Non vorrai parlarne con Zor prima di prendere una decisione? Con le vostre mogli?».
«Siamo già d'accordo su questo», aveva annuito cercando di forzare un sorriso. «Sapevamo perché ci teneva a parlare con noi, professore. Ma non possiamo: la vostra visione del mondo non coincide con la nostra».
«Potresti sbagliarti».
«No, non penso», aveva accennato una risata. Gli stava restituendo il biglietto da visita, ma Zod gli aveva suggerito di tenerlo con sé, in caso sarebbe servito. Si era alzato e aveva richiamato i bambini.
«Non finirò mai di corteggiare il vostro genio», si era premurato di dirgli prima di vederlo andar via. «Tu e tuo fratello siete preziosi e adatti. Vi ricontatterò non appena avrò occasione».
Jor si era limitato a sorridere. Aveva preso in braccio la nipotina Kara e, a fianco del piccolo Clark, si erano allontanati.
Le immagini al telegiornale gli avevano bloccato la digestione, quel giorno di un ricordo più recente. Lo ricordava bene, era avvenuto quasi sei anni più tardi da quell'incontro al parco. Stava per uscire di casa per tornare a lavoro che il programma che stava guardando sua moglie in televisione si era interrotto per lasciare spazio a un'edizione straordinaria del telegiornale, mostrando la casa di Zor El in fiamme, o ciò che era rimasto, i pompieri, i vicini che parlavano con la polizia. Sapeva che era stata Rhea, che il suo piano per conquistare la presidenza dell'organizzazione era ufficialmente iniziato.

«È sano come un pesce, signor Zod».
Lui si ridestò, passandosi due dita in mezzo agli occhi. Era sdraiato su un lettino. «È sicura?».
La dottoressa annuì, poggiando le braccia a conserte sulla scrivania. «Il suo cervello non ha nulla che non vada, mi creda. Si comporta come un qualunque cervello sotto stress», aggiunse, «E non mi stupisce, con quello che ha passato».
Zod si innervosì di scatto, rialzandosi e specchiandosi nei suoi enormi occhi neri. «Allora perché tende a sostituire i miei ricordi con altri, a confonderli, a farmi credere di aver visto…», si era fermato, abbassando gli occhi, «il corpo di Petra fatto di marmo, invece del suo reale… reale corpo senza vita?».
«Signor Zod, lei pretende troppo», scosse la testa. «Se continua a vivere nel passato, nei suoi ricordi invece di andare avanti, la sua mente avrà sempre più difficoltà a ricordare nel dettaglio perché aggiunge qualcosa di nuovo ogni volta. Qualcosa di ciò che sente», spiegò, corrucciando la fronte. «Le dico che è fisicamente impossibile ricordare una vita di dettagli e i suoi sentimenti giocano un ruolo predominante, in questo campo: ricordiamo solo gli avvenimenti che per qualcosa ci hanno colpito, quando il corpo capisce che è bene ricordare e registra, per qualcosa di molto felice oppure, naturalmente, di molto triste e traumatico».
«Ma i ricordi solo l'unica cosa che mi resta. La pago affinché mi aiuti a ricordare, a non perdere nulla».
La donna sospirò e infine si arrese. «Molto bene. Cosa ricorda della morte di Petra, signor Zod?».
«Rhea che si fregava le mani», disse subito, senza nemmeno pensarci.
«E dopo? Cos'è successo dopo la sua morte, signor Zod? Cosa ricorda dei momenti successivi?».
L'uomo chiuse gli occhi, cercando quelle immagini. Il corpo di Petra sotto le scale, Rhea quindicenne che lo guardava spaventata. Più avanti. Il giorno successivo, dai Luthor. La voce di Lara Luthor, dolce. Gli stringeva le spalle e cercava di farsi guardare, ma lui era un corpo esanime, un pupazzo cucito con carne e vuoto. Cosa gli diceva? Farsi forza? Contare su di loro, ovviamente. Una tragedia, già. Qualcosa sul non fare pazzie, oh… Cercava di consolarlo e poi era arrivata Rhea e aveva stretto lei tra le braccia, forte. Lui aveva alzato il volto il tanto giusto per ritrovare il suo vuoto riflesso sugli occhi di quella ragazzina. Aveva gli occhi imperlati di lacrime, Rhea. Ma non aveva emesso un solo verso quando Lara l'aveva tenuta con sé. Non aveva ricambiato l'abbraccio. Era anche lei fredda come il marmo.
«Lara Luthor non poteva avere figli», disse, mantenendo gli occhi ben chiusi. «Rhea era per lei come la figlia che non aveva mai avuto».
«I Luthor tengono molto alla famiglia, non è così?», aveva domandato la dottoressa. «Così mi ha specificato anche la settimana scorsa, signor Zod. I Luthor avevano accolto lei e Petra, e anche Rhea, in famiglia».
«I Luthor hanno sempre dato molta importanza al loro nome. All'avere dei figli ed eredi. Se non per una cosa, per l'altra: portare avanti la propria stirpe. Ci avevano accolti, ma non eravamo dei loro. Non lo siamo stati mai. Il sangue del loro sangue è la cosa più importante che hanno».
Mentre lo diceva, gli era subito venuto in mente quando aveva raggiunto Lillian nell'hotel dell'aeroporto dove lei e sua moglie Eliza avevano soggiornato prima di partire verso Aruba in viaggio di nozze. E al suo secco no, quando le aveva proposto di tornare nell'organizzazione. Eppure, era la sua eredità.
«Ne sei sicura?», aveva insistito per poi sorseggiare la sua soda, seduti intorno a un tavolino. «Sarai al mio fianco, a guidarmi».
La donna aveva ordinato un altro dolcetto e aveva chiesto che fosse incartato per sua moglie. «Sono sicura di averti già risposto, Dru», aveva chiosato, stringendo le labbra fini.
«Il tempo ti ha cambiato, Lillian. Levi Luthor ne resterebbe molto deluso, se potesse sentirti».
«Ma non può, non è così?».
«Eri la sua erede».
Lei aveva ridacchiato appena, ringraziando il cameriere che le aveva portato il piccolo incarto. «Che sciocchezze. Ora osservo le cose da un'altra ottica, Dru: ho una moglie e una famiglia che non voglio perdere. Se prima era il successo a guidarmi, adesso rispondo ad altro. E no, non ci sarà modo in cui mi potrai far cambiare idea», aveva aggiunto alla fine, senza neppure guardarlo in faccia.
Allora lui si era alzato dalla sedia, sistemando le pieghe dei pantaloni. «Ebbene, in questo caso tolgo il disturbo».
«Dru», lo aveva chiamato all'ultimo e si era girato verso la donna che, finalmente, lo aveva degnato di un lungo e serio sguardo. «Non tanta fretta: voglio chiederti di non proporlo ai miei figli. Lasciali fuori da tutta questa storia, non li riguarda».
«Io penso di sì, Lillian», aveva risposto con aria altezzosa, mettendo le mani nelle tasche dei pantaloni. «E sono adulti in grado di prendere da soli le proprie decisioni».
Come se non avesse già contattato Lex Luthor giorni fa. Anche lui gli aveva risposto negativamente, ma sapeva che era solo questione di tempo.
«E Lena?», gli chiese la dottoressa a un certo punto e Zod sospirò. «Cosa ne pensa della figlia adottata?».
«Non è adatta», decretò con voce fredda. «Non so se lo sarà mai».
Lasciò lo studio della dottoressa con un mal di testa maggiore di quando era entrato. Sentiva la sua memoria come un fiume in piena e non era sicuro di riuscire a controllare la sua deriva, ma non voleva perdersi niente, non voleva dimenticare una sola virgola di ciò che era stato e gli era stato portato via. Petra, una vita con lei e i loro figli. Jor e Zor che discutevano di scienza disegnando un simbolo di speranza. Charlie e Faora uniti che si sfidavano a chi colpiva più lattine. Lionel ragazzo che, un giorno, decise di rivolgergli la parola e accettarlo in famiglia. O quel che era. L'amicizia con Lar Gand lunga anni. E Rhea che era la causa di quasi tutti i suoi rimpianti più grandi.
«Mi ha portato via anche Faora e senza che me accorgessi», disse davanti alla cornetta della saletta delle visite del carcere, separato da un vetro da Astra Inze. Era stanco, provato, e sentiva che lei era l'unica che poteva davvero comprendere la sua frustrazione, portando nel suo cuore rimpianti di un peso simile al suo, quanto delicato. «Faora è scivolata dal nido perché lei l'ha chiamata. Poteva scegliere chiunque, ma aveva mandato lei per ferirmi».
«Il mio voto lo conosci», rispose lei, sospirando. «Se tutto andrà come deve, Faora andrà in carcere per aver lavorato con Rhea, e non parlerà», scosse la testa. «Non ti tradirà di nuovo. E almeno sarà viva». Lo vide alzare gli occhi scuri attorniati da profonde occhiaie e trattenne a stento un commosso sorriso. «Cosa dicono gli altri beta?».
«Devo ancora interpellare gran parte di loro, sono giorni molto pieni. Sai qual è la cosa più brutta di questa faccenda?». Lei restò in ascolto, aspettando. «Che una parte di me vorrebbe punirla per aver tradito la mia fiducia, dopo che per me era come… una figlia», ammise, per poi scuotere la testa. «Da domani si aprirà il tuo nuovo processo. Come ti senti?».
Lei non trattenne un sorriso e si portò una mano contro la bocca. «Eccitata. E nervosa. Ma fiduciosa che andrà tutto bene! Presto potrò uscire di qui e riprendere la mia vita da dov'ero rimasta».
«Te lo auguro».
In tempo per l'inizio del nuovo processo su Astra Inze, il D.A.O. si mosse rapidamente quando Rhea Gand fece i nomi di chi, quel giorno di quasi dodici anni prima, mise la bomba in casa El dove morirono i genitori di Kara e quelli di Clark. Seppure cercassero di forzarla con la promessa di protezione, la donna non aveva mai avanzato l'idea di parlare, sapevano che era manipolata da Zod e che se lei aveva fatto quei nomi, allora era perché lui voleva che li facesse, ma era comunque un passo in avanti e qualcuno festeggiò come se fosse una vittoria. Non certo Alex Danvers. Dopo aver lasciato Fort Rozz, Dru Zod tornò in ospedale e, questa volta, davanti alla cuccetta di Faora c'era un gran fermento: i genitori della ragazza, Charlie e altri poliziotti, Maggie Sawyer e la sua compagna Alex Danvers, e poi lei, l'unica che se restava distante dal vespaio, l'agente del D.A.O. che avevano messo di guardia, Carina Carvex.
Alex Danvers si era molto arrabbiata quando, dai piani alti del D.A.O., avevano appoggiato la sua scelta di una guardia per Faora Hui ma che, invece delle cinque persone che aveva richiesto, ne avevano accettate due sole, per il cambio turno. Prendere o lasciare. Qualcuno doveva essersi convinto che non avrebbero toccato una di loro. Oppure che non era importante proteggere una persona che non avrebbe parlato, quando avevano disponibile Rhea Gand, un pesce molto più grosso.
Il padre di Faora teneva tra le braccia la moglie e Charlie e un altro poliziotto cercavano di tenerli distanti dall'agente Danvers. Era chiaro come i signori scaricassero la responsabilità e la rabbia per ciò che era successo alla figlia su chi le aveva sparato. Maggie tentava di mettersi in mezzo e Alex minacciava di andarsene. Si stupì come non fosse intervenuto ancora un medico per costringerli a fare silenzio.
Si zittirono quando scorsero lui in corridoio, lasciando la scena al pianto disperato della signora Hui. Allora la donna lasciò il marito e corse incontro a Zod, finendo tra le sue calde braccia.
«Io non ci credo che la mia bambina cospirava in questa… in questa organizzazione, per conto di quella donna malvagia. Io non ci credo», disse fra i singhiozzi. «Glielo dica, signor Zod. Lei conosce bene Faora, glielo dica! Qui c'è stato un grande malinteso e Faora ha paura di quella Gand! E lei-», puntò Alex Danvers con un dito, «lei dovrebbe essere processata per quello che ha fatto alla mia bambina», sputò con odio. «Dovrebbe vergognarsi». Stava per andare di nuovo incontro ad Alex che la fermò e dopo il marito, decidendo di trascinarla via. Salutarono Faora e lasciarono l'ospedale con lei che ancora piangeva.
«Io non ce la faccio», sospirò a un certo punto Alex Danvers, alzandosi dalla panca in corridoio. Guardò Maggie al suo fianco e scosse la testa, reggendosela. Era così esausta. «Me ne devo andare, ho bisogno di prendere aria e… ho tante cose a cui pensare, non voglio sentirmi anche in colpa per aver scelto mia sorella a lei». Deglutì e lanciò uno sguardo a Zod, sospirando di nuovo.
Lui notò come avrebbe voluto dire dell'altro ma come cambiò idea, sapendo di essere ascoltata.
«Vai in macchina, ti raggiungo subito», le sorrise Maggie inclinando appena la testa da un lato, comprensiva, tenendole una mano con le sue.
Alex voleva chiederle di andare con lei adesso, ma sapeva che sarebbe stato inutile poiché aveva una missione da portare a termine. Fissò di nuovo Zod e diede ordini a Carvex prima di lasciare il corridoio.
Charlie Kweskill era dentro con Faora e lo sentì ridere dalla porta chiusa, intanto che si avvicinava al capitano affacciato davanti a una finestra con una posa rigida e le braccia dietro la schiena. Era come se l'aspettasse. «Se posso, conosce da tanto i genitori di Faora Hui, capitano?», domandò Maggie.
L'uomo annuì. «Da quando Faora entrò in accademia, a Metropolis», sospirò. «Era una promessa, non mi stupisce che i genitori non accettino la verità. Anche io fatico a farlo», confessò, non distogliendo lo sguardo dai palazzi di fronte, al di là del vetro.
Maggie gli notò una strana luce negli occhi.
«Tuo padre cos'avrebbe fatto al posto loro, Sawyer?».
Lei delineò appena un sorriso e scosse la testa, aprendo la bocca prima ancora di sapere cosa rispondere. «Probabilmente non ci avrebbe creduto come fanno loro. Ma mi aspetterei di tutto dall'uomo che cercò di cacciarmi quando gli dissi che intendevo vivere la mia omosessualità alla luce del sole», scrollò le spalle e lui le scoccò un'occhiata. «Devo andare», abbassò la testa. «Apprezzo il gesto dei nomi degli assassini degli El. Perché lei lo sappia». Lo lasciò e lui gonfiò il petto, sapendo di aver acquistato un punto.
Ma rimase sovrappensiero poiché, davvero, non si aspettava quella risposta su suo padre. Si era sempre immaginato come un uomo all'antica ma non aveva mai, mai pensato che l'omosessualità, così come altri orientamenti non eterosessuali, fossero motivo per discriminare qualcuno né, di certo, aveva mai pensato che fosse normale non accettare un figlio per questo. Un figlio che, infatti, non andava accettato, ma compreso e ascoltato così come aveva fatto Levi con Lionel o lui con Melanie e Chris, consapevole che, in un posto come l'organizzazione, loro non avrebbero potuto vivere una vita vera e piena. Non erano adatti. Così come non era adatta Kara Danvers, la figlia di Zor El: sapeva che il pensiero sfiorava la testa di Astra da quando la possibilità di uscire da Fort Rozz si concretizzò, ma era già pronto a rifiutare la sua proposta per il futuro. Non avendo figli suoi, non le restava che la nipote che, per lei, era come tale.
Il giorno dopo si terrò la prima chiamata del nuovo processo, quello per la scarcerazione. A giorni ci sarebbe stato quello di suo marito Non. Erano presenti Kara e Alex Danvers, Maggie Sawyer, Lena Luthor, e anche Clark Kent e la sua fidanzata, Lois Lane. Li incrociò durante la pausa, fuori dall'aula. Rivedere Clark, che somigliava così tanto a suo padre Jor, era sempre un colpo al cuore, per lui. Lo rivedeva bambino al parco e poi rivedeva Jor in classe alzare la mano. Non fece in tempo a perdersi in ricordi che la figlia di Zor gli si piazzò davanti con aria di sfida.
«Non cambia niente, deve saperlo». Lena Luthor le era vicina, Alex Danvers, e si mosse anche Clark Kent.
«Come, prego?».
«Ha fatto dire a Rhea Gand i nomi degli assassini dei nostri genitori, ma non cambia niente, per noi. Non è che la prendiamo in simpatia o qualcosa del genere, adesso», gonfiò il petto, facendo una smorfia.
«Non so di cosa tu stia parlando».
Kara stava per riaprire bocca che Clark si spiazzò tra i due e spinse indietro lei, alle braccia della sorella e della sorellastra.
Lui e Zod si guardarono a lungo ed entrambi non emisero fiato. Dopo poco tornarono in aula e Astra si sedette accanto al suo avvocato non mancando di allungare uno sguardo a Kara. Le era mancata durante quei tanti anni a Fort Rozz. Le era mancata davvero come una figlia.  
Dru Zod tenne d'occhio il cellulare e uscì quando ricevette una chiamata, mentre Astra Inze parlava di fronte a tutti. Aveva finalmente ottenuto il verdetto della decisione dei beta su Faora Hui, ma non era ciò che si aspettava.


***


Quella notte non tornò a casa e chiamò sua moglie per dirle che restava fino a tardi in centrale. Era rimasto davvero lì, chiuso nel suo ufficio e con le tapparelle abbassate, una luce gialla e fioca dalla lampada sulla scrivania. Stappò una bottiglia di vino rosso e ne versò in un bicchiere, aspettando a bere. Non avrebbe fatto nient'altro. Era il presidente e non aveva alternative se non comportarsi da tale o fare come Lionel e Lillian in passato, quando la votazione aveva scelto di rapire una bambina, Kara, per farla pagare alla giudice, lasciando l'incarico. Faora aveva tracciato il suo destino quando scelse Rhea e non provò a immaginare di qualcuno che entrava nella sua cuccetta durante la notte e le toglieva la vita. No, non voleva pensarlo. Prese il bicchiere e mandò giù d'un fiato. Era come sua figlia. Quasi un'erede. E adesso un nuovo rimpianto. Lasciò il bicchiere sul banco e appoggiò la schiena allo schienale della sedia, chiudendo gli occhi. Ora era pronto per ricordare lei e Charlie che si sfidavano a chi sparava più lattine in campagna, in una giornata felice, dandosi il cinque.





























***

E così, alla fine Faora ha pagato il prezzo del suo tradimento. Immaginavate sarebbe finita così? Prima di scrivere metà capitolo, io no (a volte, le cose si scoprono solo mentre si va per scriverle). Ma non c'era altro che si potesse fare, temo: non potevano fidarsi di lei, restava un problema. Ed era appena uscita dal coma, poveraccia. Questo fatto avrà conseguenze?
Abbiamo seguito Zod in varie fasi del suo passato e del suo presente in questo capitolo: un Lionel diciassettenne, qualcosa in più sulla famiglia Luthor di allora e sulla nascita dell'organizzazione, come Zod avesse cercato di reclutare Jor e Zor El, il nuovo processo di Astra che si apre, i signori Petrov e Maggie che non sa come comportarsi (e voi lo avreste saputo?), Lillian che rifiuta di entrare di nuovo nell'organizzazione, la morte di Petra e Rhea che si guardava le mani. Cosa vi ha colpito di più? Scrivetemi le vostre impressioni e, chissà, magari ciò che avete colto :3
Zod è un uomo tormentato, ha la sua età e ha visto tante cose: l'idea di scrivere di lui seguendo i suoi ricordi mi ha affascinato. Ma non so quanto possono essere stati confusionari, ecco XD

E ora qualche nota doverosa ~
- Non so quanti anni di differenza ci siano tra Jor-El e Zor-El nei fumetti, so solo che il primo è il maggiore e il secondo il minore (o mi sbaglio? Dubbi esistenziali e dove trovarli). Per comodità, avendo dovuto fare un schemino di date che non vi dico per scrivere questo capitolo, ne ho messi due.
- Essendo questa fan fiction AU dove quei due non sono alieni, ho optato per loro due nomi normali (come ho fatto con Zod) e tenuto Jor e Zor come soprannomi. James e Zachary erano quelli che ho trovato più in sintonia. E James è davvero un nome comune e sfruttato un sacco, quindi ci sta sempre, come il formaggio.
- In una scena abbiamo un medico che parla di stress, cervello, ricordi, sostituzione di elementi nei ricordi in base alle sensazioni, ecc: tengo a specificare che è tutto scritto in funzione alla narrazione, io davvero non mi intendo di niente di tutto questo e quando ho fatto delle ricerche in merito non avevo trovato granché. È fantasia.
- Abbiamo un nuovo personaggio (che verrà presentato meglio sui prossimi capitoli): Carina Carvex. Avete idee su di lei? Carina ci stava tantissimo come nome, le sta bene.
- Una curiosità. Pubblico su Wattpad da un po', eppure ho scoperto solo durante queste vacanze estive che, tra le varie funzioni del sito, c'è una cosetta molto interessante che ti permette di vedere da quali parti del mondo hai lettori. Con mio immenso stupore, ho scoperto che seguono Our home anche in Francia (sul 5% del totale, mica poco), in Spagna, negli Stati Uniti, in Svizzera, in Israele e addirittura in Senegal. Magari si parla sempre di italiani in giro per il mondo, ma in ogni caso mi fa un piacere enorme! Si aggiorna ogni tot di giorni, quindi segna solo i lettori recenti e a volte escono fuori paesi nuovi, ma Francia e Stati Uniti non sono mai spariti. Scoprire questa cosa mi ha fatto andare in un brodo di giuggiole? Sì. Abbastanza, ahah! Piccole conquiste personali.
C'è anche il modo di scoprire la percentuale di età tra i lettori e il sesso, se specificati. E altre statistiche. Ci vorrebbero cose di questo tipo anche su EFP.

Sperando che il capitolo vi sia piaciuto, è un piacere darvi di nuovo appuntamento con il capitolo 52 per lunedì 9 settembre e si intitolerà Chi sono io?
Un personaggio in particolare tornerà sulla scena!


   
 
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