VIII
Here
comes the bad rain
Falling
from an aching heart
[Slash,
Myles Kennedy & The Conspirators - Bad Rain]
Schiudo gli occhi con
cautela e, mentre un forte mal di
testa e un pressante senso di nausea mi assalgono, non posso fare a
meno di
formulare un pensiero: ieri notte è stato uno sballo. Non
ricordo di preciso
cosa sia successo, so solo che è stato pazzesco.
Il mio sguardo viene
catturato dal grigiore che regna fuori
dalla finestra, le cui imposte sono spalancate; decine di goccioline di
pioggia
rigano il vetro. Osservarle, nello stato in cui mi trovo, non fa che
aumentare
il mal di testa e la confusione che ho nel cervello.
Che ore sono? Non ne
ho idea. A dire il vero non so nemmeno
come sono tornato a casa, ho un vuoto di memoria che va dal nostro
concerto al
Whisky fino a ora. Forse sono stato con una ragazza dopo il live, non
ne sono
certo, ma sicuramente è stato divertente.
Dovrei alzarmi, ma
ancora non ne ho la forza.
Faccio scorrere lo
sguardo per la stanza e sorrido nel
constatare che è un disastro, la giusta rappresentazione di
me.
C’è
una piccola radio in un angolo, collegata alla corrente
e accesa, sintonizzata su una stazione dal segnale disturbato; per
fortuna il
volume è basso, emette dei suoni ronzanti davvero
fastidiosi. Deve essere
rimasta accesa per tutta la notte. Sul pavimento, lì
accanto, è un cimitero di
vinili, cassette, indumenti vari, riviste a tema musicale, fogli e
qualche
libro; poggiato ai piedi del letto invece staziona il mio basso
meticolosamente
sistemato e chiuso all’interno della custodia.
Frastornato, mi metto
a sedere lentamente e faccio scorrere
una mano tra i capelli corvini e scarmigliati, le ciocche lisce e
annodate mi
si impigliano tra le dita prima di ricadermi sul collo e attorno al
viso.
Dovrei proprio farmi una doccia, prima di uscire nuovamente a fare
baldoria
stasera.
Stiamo ingranando,
oggi suoneremo come gruppo spalla per una
band non tanto famosa ma davvero forte, si chiamano Guns N’
Roses. Ho sempre
saputo che i miei Storm It Down hanno del potenziale, ho sempre saputo
che
siamo fatti per spaccare e sono davvero entusiasta di avere
l’occasione per
portare in giro la mia musica, i brani in cui noi crediamo.
Serro gli occhi per
qualche istante, il mal di testa mi
rimbomba sempre più forte nelle tempie. Devo fare qualcosa
per anestetizzarlo.
Intorpidito, scivolo
giù dal letto e mi trascino fino alla scrivania,
dove è scompostamente posata la mia fedele giacca in pelle;
frugo nelle tasche
e i miei polpastrelli sfiorano proprio ciò che stavo
cercando: una piccola
bustina. Prima di estrarla, tuttavia, mi guardo attorno con
circospezione e tendo
l’orecchio per cercare di captare eventuali rumori fuori
dalla stanza.
Evito in tutti i modi
di portare coca in casa, anche la più
piccola dose, perché non voglio che zia Maura la trovi o che
si insospettisca.
L’ho già delusa tante volte: sa che fumo marijuana
e che spesso torno a casa
ubriaco, la sera non sa mai dove mi reco e chi frequento, vive nella
costante
paura di ricevere qualche chiamata dalla polizia per via delle mie
bravate. Non
voglio darle anche questo dolore, un figlio cocainomane sarebbe troppo.
Estraggo la bustina
con un movimento fulmineo e mi fiondo
nuovamente sul letto, rapido come un ladro. Cazzo, mi sento come se
stessi
rubando in casa mia.
Però so che
è necessario agire con cautela e prudenza.
Porto fuori tutto il
materiale con movimenti frettolosi e lo
dispongo sul comodino sudicio. Ah, non vedo l’ora di farmi,
dopo starò subito
meglio!
Mentre mi preparo la
pista, rifletto su quanto io sia
fortunato ad avere una figura come zia Maura nella mia vita.
È stata l’unica ad
accogliermi quando sono rimasto orfano, l’unica che mi ha
trattato come un vero
e proprio figlio, l’unica ad avermi perdonato qualsiasi cosa,
anche quando le
ho detto e fatto cose orribili, anche se la faccio dannare e
preoccupare da diciassette
anni ormai. Non la merito, decisamente. È troppo buona con
me.
Scaccio quei pensieri
e, servendomi di una banconota
arrotolata, tiro su la striscia di polvere bianca che sta sul comodino.
Un
bruciore ormai familiare mi pizzica le narici, fino a scivolare
giù, sempre più
a fondo dentro me, fino ai polmoni. Una volta terminato, tiro su col
naso un
altro paio di volte e gli occhi mi pizzicano, velandosi appena di
lacrime.
Sniffare non mi piace
tanto in realtà, è fastidioso, ma la
sensazione che provo subito dopo è impagabile. Mi sento
rigenerato, come se le
energie mi si fossero risvegliate di botto e avessero preso a scorrere
per il
mio corpo intorpidito. Ho l’impressione di poter fare
qualsiasi cosa.
Adocchio la sveglia
lì accanto, le lancette arrancano a
fatica sul quadrante. Sono passate da poco le quattro del pomeriggio e
io mi
sono già sparato la prima dose della giornata.
Con un mezzo sorriso
sulle labbra, mi accingo a rimettere a
posto tutto e nasconderlo per bene: l’ansia di poter essere
scoperto mi serra
ancora lo stomaco.
Mi alzo e mi dirigo
nuovamente verso la scrivania con la
bustina stretta tra le mani, ma mentre la sto per infilare nella tasca
della
giacca, accade proprio ciò che non sarebbe dovuto succedere.
La porta della camera
si schiude piano e zia Maura vi si
affaccia, un’espressione accigliata a indurire ancora di
più i suoi lineamenti
marcati. “Ives, allora sei qui. Ieri notte non ti ho sentito
rientrare”
afferma.
Io sono immobile,
paralizzato in mezzo alla stanza, con le
dita strette convulsamente al bordo del sacchettino incriminato. Non ho
idea di
quale espressione possa essersi dipinta sul mio viso, ma sento
chiaramente il
sangue defluire dalle mie guance e un capogiro mi investe.
Okay, con calma. devo
riflettere. Fare qualcosa. Non devo
guardarla in faccia, magari in questo modo riesco a scamparla.
Getto rapidamente la
bustina in una tasca e continuo a dare
le spalle a mia zia. Sento che sto iniziando a tremare.
“Cazzo, ma
l’educazione e la privacy dove sono andate a
finire? Bussare non si usa più?” sbotto, la voce
dura e alterata. Non sembra
neanche la mia.
Una remota vocina in
un angolo del mio cervello mi
suggerisce che non dovrei rivolgermi così a zia Maura, ma la
scaccio come fosse
un insetto fastidioso.
“Ives.”
Pronuncia il mio nome con lentezza, in un tono
talmente basso e minaccioso da mettermi i brividi. Poche volte
l’ho sentita
così incazzata.
Stavolta
l’ho combinata grossa.
Zia Maura accorcia la
distanza tra noi, sento i suoi passi
pesanti e cadenzati alle mie spalle; un attimo dopo posa una mano sulla
mia
spalla e mi costringe a voltarmi con forza. Tento di opporre
resistenza, ma la
mia fisionomia esile non può nulla contro di lei,
così robusta e corpulenta.
E dire che da piccolo tra
quelle braccia così forti
cercavo protezione…
Non sollevo lo
sguardo, so che i miei occhi mi tradirebbero.
“Cosa stavi
facendo?” sibila zia Maura in tono tremendamente
serio.
“Non ti
riguarda” mi ritrovo a rispondere, sfrontato.
“Quindi non
ti dispiacerà se do un’occhiata qui.”
Allenta
bruscamente la presa su di me e afferra lesta la mia giacca in pelle.
No, no, no!
Col cuore a mille,
tento di strappargliela dalle mani.
“Lasciala! Porca puttana, molla la mia giacca!”
strillo, la voce sale di
diverse ottave e assume una nota isterica.
Sono disperato e anche
piuttosto incazzato.
Ma lei è
più forte di me e, nonostante i miei continui
strattoni, riesce a infilare una mano proprio nella tasca destra.
“Come, Ives?
Se non hai nulla da nascondere, perché ti preoccupi
tanto?” mi sfida.
“Cazzo! Non
ti azzardare a mettere le mani sulle mie cose!”
continuo a inveire, quasi con la bava alla bocca per la rabbia,
tentando di
spingerla indietro. Ci metto tutta la forza che ho, ma lei vacilla
appena.
Ormai è
troppo tardi. L’ha trovata, l’ha portata fuori, la
stringe tra le dita con diffidenza – come se la temesse
– e la osserva con
circospezione.
Allora mi fermo. Tanto
non c’è più niente da fare, non
esiste nessuna giustificazione che regga.
Zia Maura sposta lo
sguardo su di me e finalmente ho il
coraggio di incrociarlo. I suoi occhi scuri sono due tizzoni ardenti,
scintillano di un’ira che mi mette davvero paura.
Ma non è
quella la vera pugnalata. Ciò che mi fa male
davvero è la delusione, il dolore, che leggo nel fondo delle
sue iridi.
L’ho delusa.
Di nuovo.
Sento gli occhi
bruciare.
Zia Maura getta via la
bustina, che va a schiantarsi sul
pavimento, poi mi afferra il mento e mi costringe a guardarla dritta
negli
occhi. Di certo le mie pupille parlano chiaro, non
c’è bisogno di altre
spiegazioni.
“Da
quanto?” ringhia.
Le energie sembrano
avermi abbandonato all’improvviso, mi
sento prosciugato.
“Zia,
io…”
“Va
bene.” Mi lascia andare e si scosta bruscamente da me,
come se l’avessi scottata. La solita vocina maligna mi
bisbiglia che
probabilmente quello sarà l’ultimo contatto che
avrò con lei.
“Ives, io
con te non so più cosa fare. Per te mi sono
impegnata fin dal primo giorno, mi sono rimboccata le maniche e ho
lavorato
sodo per non far mancare niente a te e Maggie, ti sono stata vicina
quando ne
avevi bisogno, ti ho sempre chiesto cosa ti serviva per stare bene, ti
ho
lasciato tutta la libertà di cui avevi bisogno, ti ho
perdonato tante volte
nella speranza di vedere dei cambiamenti, dei miglioramenti, in te. io
ho
sempre avuto fiducia in te perché ero certa che tu fossi un
ragazzo intelligente
e avresti saputo sfruttare le giuste occasioni, avresti saputo
distinguere il
bene dal male. Ma evidentemente sperare non è
bastato.” Mentre parla la voce le
trema appena, anche se non perde la sua solita vena autoritaria, e per
una
frazione di secondo scorgo i suoi occhi inumidirsi e luccicare. Ma si
ricompone
subito e, assumendo un’espressione severa e irremovibile,
conclude: “Hai tempo
fino a domani per prendere tutte le tue cose e andartene. Questa non
è più casa
tua”.
Mi azzardo a ridere:
deve essere uno scherzo.
“Ti rendi
conto che non ho un altro posto in cui stare?” le
faccio notare.
Sta scherzando, ne
sono sicuro. Non può mandarmi via così,
non lo farebbe mai. D’accordo, l’ho davvero delusa,
ma non arriverebbe mai a
tanto.
“Lo so e non
mi interessa, non è più un problema
mio.”
Sgrano gli occhi, il
fiato mi si mozza.
La osservo voltarsi e
avviarsi impettita verso l’uscita.
Nessun ripensamento, nessuna titubanza.
Prima di lasciare
definitivamente la stanza, si volta nella
mia direzione e mi rivolge un’occhiata talmente carica di
dolore da mandare il
mio cuore in frantumi. “Figlio mio, io ti amo con tutta me
stessa, non
dimenticartelo mai. È proprio per questo che non ho nessuna
intenzione di
restare a guardare mentre ti distruggi con le tue stesse mani. Non ce
la
faccio.”
Quando la porta si
richiude, la stanza piomba nel silenzio,
fatta eccezione per il tamburellare della pioggia all’esterno
e il fruscio
della frequenza disturbata proveniente dalla radio.
Anche il mio cervello
è in silenzio, talmente carico da non
riuscire più a elaborare niente.
Le strade sono
inondate d’acqua, le crepe e le fosse
sull’asfalto sfasciato si sono trasformate in grandi
pozzanghere che ingannano
l’occhio in tutto quel grigiore.
Le mie scarpe in tela
sono zuppe, la mia giacca in pelle non
è abbastanza per proteggermi dal gelo che ho dentro.
Cammino sotto la
pioggia e non mi importa di bagnarmi, di
ammalarmi, di tremare per il freddo. Anzi, in questo momento non mi
dispiacerebbe stare molto male e morire.
L’unica cosa
che non si deve infradiciare è il basso che
porto in spalla, ma per fortuna qualche mese fa ho investito per una
bella
custodia rigida e impermeabile. Enorme. Sembra volermi schiacciare
sotto il suo
peso mentre arranco sul ciglio della strada.
Anche io sono fatto di
pioggia: tante goccioline mi rigano
il viso, ma queste sono calde e salate, bruciano. Mi sento
così debole e
sbagliato a piangere così, come un bambino, con dei
singhiozzi profondi che mi
scuotono il petto e mi fanno sussultare le spalle, ma ora non importa.
Non c’è
nessuno intorno a me, tutti si defilano e si rintanano a casa durante
le
giornate di pioggia; io sono l’unico che se ne va in giro a
prendere freddo.
Devo arrivare al
Rainbow, dove suoneremo. Avrei potuto
prendere un autobus, ma ho bisogno di camminare, di sgombrare la mente
da tutti
i pensieri prima del grandioso concerto di stasera.
Ho bisogno di piangere da
solo.
Scuoto il capo e cerco
di scacciare via le lacrime dalle mie
guance, ma anche il dorso della mano è fradicio, non serve a
niente.
La verità
è che non ho nessuna voglia di andare al concerto
stasera, voglio solo riavere indietro la mia casa e la mia mamma. Non è
un pensiero per niente figo da formulare a diciassette anni, me ne
vergogno
tantissimo, ma in questo momento mi sento come quel bambino di quattro
anni,
fragile e indifeso, che correva a nascondersi tra le braccia di zia
Maura ogni
volta che qualcosa andava per il verso sbagliato.
È proprio
quello che vorrei fare: mollare tutto, correre da
lei, chiederle scusa, prometterle che cambierò e che non la
deluderò più. Ma
sarebbero promesse vane.
Non
cambierò mai, ho scelto la mia strada e ho preso la mia
decisione. Mi sono lasciato corrompere dalla vita di strada e dalla
droga,
anche se ho sempre saputo che stavo sbagliando.
Volevo la vita di
strada? Ecco, ora in mezzo alla via mi
toccherà anche dormire.
Mi fermo sotto la
tettoia di una fermata del bus e frugo
dentro la custodia del basso in cerca delle sigarette. Se continuo a
camminare
sotto l’acqua scrosciante, non riuscirò ad
accenderne una.
Il mio corpo
è scosso da tremiti di freddo, le ciocche
corvine mi si sono appiccicate in testa e mi gocciolano addosso senza
tregua.
Fumo in fretta la
prima sigaretta, quasi tutta d’un fiato,
vorace; getto a terra il mozzicone e ne accendo subito
un’altra. La nicotina è
l’unica sostanza a mia disposizione in questo momento, ho
finito anche la coca.
Devo arrivare al Rainbow il prima possibile e cercare qualcosa per
stordirmi.
Ma sì, in
fondo cos’ho da perdere? Ho intrapreso questo
cammino verso l’abisso e quindi tanto vale tuffarmici dentro,
giocare a questo
gioco finché non mi fotterà.
Adesso che ho rotto
anche con zia Maura, l’unica persona
della mia vecchia vita di cui mi importava qualcosa e a cui importava
qualcosa
di me, cosa mi rimane? Non devo più rendere conto a nessuno,
posso anche
distruggermi.
Sospiro pesantemente
mentre osservo la pioggia scrosciare,
sempre più violenta, giù dalla tettoia in
plastica e riversarsi a terra. La
strada è come un fiume in piena, l’acqua scorre
frenetica come a voler
purificare tutto, mentre io mi sento sempre più sporco.
Intanto, senza neanche
farci caso, ho già acceso la quarta sigaretta.
E dire che zia Maura
è forse l’unica persona che mi ha
voluto bene, l’unica che mi ha sempre sostenuto e mi
è stata vicina, anche
quando non glielo chiedevo. Quante volte l’ho offesa e
l’ho accusata di essere
stata assente, di essere sempre al lavoro, quando in realtà
lei lo faceva solo
per me, per mantenermi e non farmi mancare niente.
Ha sbagliato a riporre
fiducia in me, oggi ne ha avuto la
conferma: sono un caso perso. Sono una nullità, non riesco a
fare niente di
buono e, ancora una volta, ho distrutto tutto. Il riassunto della mia
vita, in
sostanza.
Sono riuscito a farmi
odiare da colei che mi ha sempre amato
incondizionatamente, come se fossi suo figlio, sangue del suo sangue.
Gli occhi ricominciano
a bruciarmi e riversare lacrime
disperate sul mio viso gelido. Getto la sigaretta fumata per
metà a terra e
scoppio a piangere più forte di prima.
Detesto mostrarmi
così fragile perfino davanti a me stesso.
Ma che ci posso fare se l’unica cosa che vorrei ora
è un abbraccio caldo e
qualcuno che mi sussurri che non ho sbagliato proprio tutto?
Basta Ives. Stasera hai
un concerto, vai e spacca tutto.
Riprendo il mio
cammino, il basso sempre in spalla, e la
pioggia mi investe come un’infernale doccia fredda.
Devo andare al Rainbow
e fare finta che nulla sia accaduto.
Suonerò. Mi stordirò.
Berrò come
una spugna fino a vomitare. Anzi, di più.
Fumerò erba
fino a consumarmi i polmoni. Anzi, di più.
Tirerò su
strisce di coca fino a farmi sanguinare il naso.
No, farò di più, molto di più.
Voglio qualcosa di
potente, ma potente davvero, che mi
faccia dimenticare ogni problema e illudere per un istante che vada
tutto bene,
che sia tutto a posto. Voglio una sensazione di calore e luce che mi scorra
direttamente nelle vene.
Sorrido tra le lacrime
per un attimo: anche stasera me ne
fotterò dei problemi, mi divertirò e
starò bene.
Chi se ne frega se ho
perso una famiglia, ne ho un’altra
pronta ad accogliermi così come sono, con i miei difetti e i
miei vizi.
Quando finalmente
giungo davanti al Rainbow, la luce grigia
del giorno è ormai un lontano ricordo. Non so quantificare
per quanto tempo ho
camminato, ma a un certo punto mi sono arreso e ho preso un bus, ci
avrei
impiegato troppo tempo ad arrivare altrimenti.
Entro nel locale
grondante d’acqua e sicuramente in
condizioni pietose; gli occhi saranno certamente cerchiati di rosso, ho
smesso
di piangere da poco. Mi inventerò una scusa.
I primi che avvisto
nella penombra del locale sono i ragazzi
dei Guns N’ Roses, stipati in un angolo insieme alla loro
cerchia di amici. Li
saluto con un breve cenno prima di far slittare lo sguardo altrove, in
cerca
dei miei compagni di band.
Alick è sul
palco e sta montando la sua batteria – ancora
non ci possiamo permettere dei roadies che si occupino di queste cose
al posto
nostro – mentre chiacchiera animatamente con Oliver, il
nostro cantante.
Io però
sono in cerca di Ethan, è di lui che ho bisogno.
Sicuramente si trova in un angolo a sorseggiare un po’ di
vodka, accordare la
sua chitarra e scambiare due parole con qualcuno. Mi guardo attorno, ma
a colpo
d’occhio non riesco a individuarlo.
Nel frattempo Oliver
si volta, mi intercetta e mi invita ad
avvicinarmi con un ampio cenno della mano. Metto su il mio miglior
sorriso e mi
avvicino, sperando che non si accorgano di niente.
“Amico, sei
appena uscito dalla doccia?” commenta Oliver, scrutandomi
attentamente con quei suoi occhi verdi e indagatori.
“Dov’è
Ethan?” vado subito dritto al punto. In genere sarei
entusiasta di chiacchierare e scherzare con loro, ma oggi non ne ho
voglia.
Alick solleva lo
sguardo dal rullante che sta finendo di
posizionare sull’asta, parte della sua enorme chioma castano
scuro gli ricade
sul viso. “Sei sicuro di stare bene, Ives?” mi
domanda col suo solito tono
pacato.
Gli sorrido.
“Alla grande! Mi sono solo un po’ bagnato sotto
la pioggia.” Talmente tanto che mi si sta formando una
piccola pozza sotto i piedi:
i capelli e i vestiti sono completamente inzuppati d’acqua.
“Allora, Ethan
dov’è?”
Alick mi rivolge
un’occhiata dubbiosa prima di afferrare
l’asta di un piatto e riprendere ciò che stava
facendo. Ha capito che c’è
qualcosa che non va. Quel ragazzo ha un sesto senso eccezionale,
è l’ultimo
arrivato nella band ma è come se avesse letto
l’anima di tutti e tre,
semplicemente standoci accanto.
Oliver afferra
premurosamente la mia custodia che ancora
stazionava sulla mia spalla e la ripone in un angolo accanto ad altra
attrezzatura, poi mi ficca tra le mani un bicchierino pieno di Jack
Daniel’s e
mi indica un anfratto buio alla destra del palco. “Se non si
è volatilizzato,
Ethan dovrebbe essere lì.”
Mando giù
lo shot tutto d’un fiato, sperando che mi riscaldi,
poi appoggio il bicchiere a bordo palco e mi dirigo in quella
direzione. Adesso
posso anche smettere di sorridere e mostrarmi come il ragazzino
entusiasta che
sono sempre stato, con Ethan non c’è bisogno di
fingere. Ci ho provato tante
volte, ma non riesco mai a fregarlo.
Proprio come avevo
previsto, lo trovo seduto su una cassetta
di birre rovesciata e la schiena contro il muro, una bottiglia
semivuota poggiata
accanto a lui e la chitarra tra le braccia. Le sue sopracciglia scure
sono
aggrottate in un’espressione concentrata e le sue dita
sottili e agili volano
sulle corde con la solita naturalezza che ogni volta mi spiazza. Sembra
esserci
nato, con quello strumento in mano.
Non appena gli giungo
accanto, mi squadra da capo a piedi
come se mi vedesse per la prima volta: non devo fare una buona
impressione, con
i capelli appiccicati in faccia, gli occhi gonfi e rossi, il corpo
tremante e
sepolto da indumenti troppo grandi che sembrano volermi seppellire. Nei
suoi
occhi grandi e scuri come il carbone leggo una tacita domanda, che
però Ethan
non osa farmi ad alta voce. Come sempre.
Ha capito che sto male
e che è successo qualcosa, ma gliene
parlerò quando sarà il momento. Tra noi funziona
così, i punti interrogativi
sono qualcosa di veramente raro.
Mi getto a terra
accanto al mio migliore amico e mi stringo
le braccia intorno al corpo nel tentativo di scaldarmi. Con lo sguardo
fisso
davanti a me, perso nel vuoto, affermo: “Da domani
verrò a stare da te, dormirò
sul tuo divano”.
Lui inarca appena un
sopracciglio, poi scrolla le spalle
come a voler dire che per lui non c’è problema. Ha
un piccolo appartamento
tutto per sé in centro a Los Angeles, il suo fratello
maggiore Davi gli paga
l’affitto tutti i mesi. Ed è proprio lui, tra
l’altro, a procurarci la coca
ogni volta che ne abbiamo bisogno, essendo uno spacciatore piuttosto
ricco e
influente; ha un bel giro qui a Los Angeles, ricopre una posizione
davvero
prestigiosa.
“Ethan…”
“Mmh?”
“Mia zia mi
ha scoperto la coca e mi ha cacciato di casa.”
Trascorrono alcuni
istanti di silenzio in cui ci scambiamo
giusto qualche occhiata fugace.
“Beh, che si
fotta. Da noi sei uno di famiglia, lo sai”
afferma senza mezzi termini.
Sorrido appena: ormai
non mi offendo più quando insulta i
miei famigliari, è soltanto il suo modo di dimostrarmi
solidarietà, anche se un
po’ rude.
Si volta per afferrare
la bottiglia abbandonata sul
pavimento, ne prende un lungo sorso e poi me la passa. Lo imito e
lascio che
l’alcol mi scorra in tutto il corpo, riscaldandomi e
rilassandomi.
Poi la poso nuovamente
sul pavimento, punto i miei occhi in
quelli di Ethan e metto su un sorrisetto innocente. “Davi
spaccia anche eroina,
vero?”
Ethan non è
un ragazzo che lascia trasparire le sue
emozioni, ma a quelle parole tutti i suoi muscoli si tendono e un lampo
di
panico gli attraversa lo sguardo. “Non dire stronzate, Ives
Mancini” sibila.
Faccio scorrere lo
sguardo dalla pelle pallida del mio
braccio all’ago lucente, pensando che tra poco si
congiungeranno. Non sono
emozionato, non sono agitato, ma soltanto impaziente, come se il mio
corpo e la
mia anima avessero sempre saputo che questo momento sarebbe giunto. Non
c’è
niente da accettare e da capire, era già tutto scritto.
Sono fatto per questo.
Ethan non è
per niente d’accordo, sostiene che dovrei stare
lontano da questa
merda e che
mi distruggerà il cervello in maniera
irrimediabile; si è incazzato veramente tanto, penso fosse
addirittura in
apprensione, ma poi ha capito che a quest’età sono
io a dover prendere le mie
decisioni, giuste o sbagliate che siano.
Parla proprio lui, che
con i soldi ricavati da questa
merda ci
vive.
Sono pronto. Poso la
punta dell’ago laddove mi pare di
individuare una vena, inizialmente leggera, mentre i miei pensieri
scorrono a
mille.
Oh sì,
finalmente ci siamo. Non vedo l’ora di provare quello
sballo di cui tutti parlano, così sublime, così
totalizzante che tutti i
problemi sembrano sparire e il mondo sembra bellissimo.
Voglio soltanto
smettere di soffrire.
Spingo l’ago
sotto la pelle, spingo l’ero nelle mie vene.
Non ho paura.
E
all’improvviso la sento esplodere nella testa. È
qualcosa
di sgargiante, è un piacere talmente intenso che stordisce.
Mi viene da ridere e
da piangere insieme. Sto per svenire,
ma mi sforzo di rimanere vigile e catturare quell’attimo,
talmente bello e
surreale che mi si imprime a fuoco nella mente.
Oggi è il
17 novembre 1985, fuori piove e io sono felice.
Finalmente.
Note:
-
Come già
accennato nello scorso capitolo, il
Rainbow e il Whisky A Go Go sono due famosi locali di Los Angeles che,
a partire
dagli anni Sessanta ma soprattutto nei Settanta e Ottanta, sono stati
l’epicentro
del rock losangelino.
-
Ho deciso di inserire
(molto marginalmente) i
Guns N’ Roses perché proprio in quel periodo erano
una delle band più popolari
del giro, anche se si erano formati da poco e non avevano ancora fatto
grande
successo.
-
Ci tengo a precisare
(per Mary che non ha letto
il resto della raccolta) che zia Maura è appunto la zia
materna di Ives, che ha
preso in affidamento il bambino quando questo aveva solo una settimana.
Maggie,
a cui si accenna soltanto in una frase, è la figlia
biologica di Maura, cugina
e “sorellastra” di Ives, ha sei anni in
più di lui e si è trasferita altrove
diversi anni prima.
-
Non so se alcuni
lettori attenti l’hanno notato,
ma tutti i componenti della band di Ives (gli Storm It Down) hanno nomi
che iniziano
per vocale (Ives, Ethan, Alick, Oliver). È stato quasi un
caso e l’ho trovata
particolare ^^ a tal proposito, ringrazio Carmaux per i deliri, i
suggerimenti
e la pazienza!
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