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Autore: Soul Mancini    04/03/2020    6 recensioni
Frammento dopo frammento, giorno dopo giorno, la vita di Ives scivola via e la sua anima si spegne pian piano. Quell'anima che era così pura e luminosa, ma che come la fiammella di una candela tremola a ogni soffio di vento.
Dai suoi primi giorni di vita, una serie di momenti che l'hanno portato a bucare la sua pelle con l'ultimo, fatale ago.
[Il capitolo "VIII" si è CLASSIFICATO SESTO al contest "November Rain" indetto da MaryLondon e giudicato da Juriaka sul forum di EFP.]
[Il capitolo 'XII - Like a crystal tear' si è CLASSIFICATO SECONDO al contest "This is our place, we make the rules" indetto da mystery_koopa sul forum di EFP.]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Needles'
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VIII
 
 
 
 
 
Here comes the bad rain
Falling from an aching heart
[Slash, Myles Kennedy & The Conspirators - Bad Rain]
 
 
 
 
Schiudo gli occhi con cautela e, mentre un forte mal di testa e un pressante senso di nausea mi assalgono, non posso fare a meno di formulare un pensiero: ieri notte è stato uno sballo. Non ricordo di preciso cosa sia successo, so solo che è stato pazzesco.
Il mio sguardo viene catturato dal grigiore che regna fuori dalla finestra, le cui imposte sono spalancate; decine di goccioline di pioggia rigano il vetro. Osservarle, nello stato in cui mi trovo, non fa che aumentare il mal di testa e la confusione che ho nel cervello.
Che ore sono? Non ne ho idea. A dire il vero non so nemmeno come sono tornato a casa, ho un vuoto di memoria che va dal nostro concerto al Whisky fino a ora. Forse sono stato con una ragazza dopo il live, non ne sono certo, ma sicuramente è stato divertente.
Dovrei alzarmi, ma ancora non ne ho la forza.
Faccio scorrere lo sguardo per la stanza e sorrido nel constatare che è un disastro, la giusta rappresentazione di me.
C’è una piccola radio in un angolo, collegata alla corrente e accesa, sintonizzata su una stazione dal segnale disturbato; per fortuna il volume è basso, emette dei suoni ronzanti davvero fastidiosi. Deve essere rimasta accesa per tutta la notte. Sul pavimento, lì accanto, è un cimitero di vinili, cassette, indumenti vari, riviste a tema musicale, fogli e qualche libro; poggiato ai piedi del letto invece staziona il mio basso meticolosamente sistemato e chiuso all’interno della custodia.
Frastornato, mi metto a sedere lentamente e faccio scorrere una mano tra i capelli corvini e scarmigliati, le ciocche lisce e annodate mi si impigliano tra le dita prima di ricadermi sul collo e attorno al viso. Dovrei proprio farmi una doccia, prima di uscire nuovamente a fare baldoria stasera.
Stiamo ingranando, oggi suoneremo come gruppo spalla per una band non tanto famosa ma davvero forte, si chiamano Guns N’ Roses. Ho sempre saputo che i miei Storm It Down hanno del potenziale, ho sempre saputo che siamo fatti per spaccare e sono davvero entusiasta di avere l’occasione per portare in giro la mia musica, i brani in cui noi crediamo.
Serro gli occhi per qualche istante, il mal di testa mi rimbomba sempre più forte nelle tempie. Devo fare qualcosa per anestetizzarlo.
Intorpidito, scivolo giù dal letto e mi trascino fino alla scrivania, dove è scompostamente posata la mia fedele giacca in pelle; frugo nelle tasche e i miei polpastrelli sfiorano proprio ciò che stavo cercando: una piccola bustina. Prima di estrarla, tuttavia, mi guardo attorno con circospezione e tendo l’orecchio per cercare di captare eventuali rumori fuori dalla stanza.
Evito in tutti i modi di portare coca in casa, anche la più piccola dose, perché non voglio che zia Maura la trovi o che si insospettisca. L’ho già delusa tante volte: sa che fumo marijuana e che spesso torno a casa ubriaco, la sera non sa mai dove mi reco e chi frequento, vive nella costante paura di ricevere qualche chiamata dalla polizia per via delle mie bravate. Non voglio darle anche questo dolore, un figlio cocainomane sarebbe troppo.
Estraggo la bustina con un movimento fulmineo e mi fiondo nuovamente sul letto, rapido come un ladro. Cazzo, mi sento come se stessi rubando in casa mia.
Però so che è necessario agire con cautela e prudenza.
Porto fuori tutto il materiale con movimenti frettolosi e lo dispongo sul comodino sudicio. Ah, non vedo l’ora di farmi, dopo starò subito meglio!
Mentre mi preparo la pista, rifletto su quanto io sia fortunato ad avere una figura come zia Maura nella mia vita. È stata l’unica ad accogliermi quando sono rimasto orfano, l’unica che mi ha trattato come un vero e proprio figlio, l’unica ad avermi perdonato qualsiasi cosa, anche quando le ho detto e fatto cose orribili, anche se la faccio dannare e preoccupare da diciassette anni ormai. Non la merito, decisamente. È troppo buona con me.
Scaccio quei pensieri e, servendomi di una banconota arrotolata, tiro su la striscia di polvere bianca che sta sul comodino. Un bruciore ormai familiare mi pizzica le narici, fino a scivolare giù, sempre più a fondo dentro me, fino ai polmoni. Una volta terminato, tiro su col naso un altro paio di volte e gli occhi mi pizzicano, velandosi appena di lacrime.
Sniffare non mi piace tanto in realtà, è fastidioso, ma la sensazione che provo subito dopo è impagabile. Mi sento rigenerato, come se le energie mi si fossero risvegliate di botto e avessero preso a scorrere per il mio corpo intorpidito. Ho l’impressione di poter fare qualsiasi cosa.
Adocchio la sveglia lì accanto, le lancette arrancano a fatica sul quadrante. Sono passate da poco le quattro del pomeriggio e io mi sono già sparato la prima dose della giornata.
Con un mezzo sorriso sulle labbra, mi accingo a rimettere a posto tutto e nasconderlo per bene: l’ansia di poter essere scoperto mi serra ancora lo stomaco.
Mi alzo e mi dirigo nuovamente verso la scrivania con la bustina stretta tra le mani, ma mentre la sto per infilare nella tasca della giacca, accade proprio ciò che non sarebbe dovuto succedere.
La porta della camera si schiude piano e zia Maura vi si affaccia, un’espressione accigliata a indurire ancora di più i suoi lineamenti marcati. “Ives, allora sei qui. Ieri notte non ti ho sentito rientrare” afferma.
Io sono immobile, paralizzato in mezzo alla stanza, con le dita strette convulsamente al bordo del sacchettino incriminato. Non ho idea di quale espressione possa essersi dipinta sul mio viso, ma sento chiaramente il sangue defluire dalle mie guance e un capogiro mi investe.
Okay, con calma. devo riflettere. Fare qualcosa. Non devo guardarla in faccia, magari in questo modo riesco a scamparla.
Getto rapidamente la bustina in una tasca e continuo a dare le spalle a mia zia. Sento che sto iniziando a tremare.
“Cazzo, ma l’educazione e la privacy dove sono andate a finire? Bussare non si usa più?” sbotto, la voce dura e alterata. Non sembra neanche la mia.
Una remota vocina in un angolo del mio cervello mi suggerisce che non dovrei rivolgermi così a zia Maura, ma la scaccio come fosse un insetto fastidioso.
“Ives.” Pronuncia il mio nome con lentezza, in un tono talmente basso e minaccioso da mettermi i brividi. Poche volte l’ho sentita così incazzata.
Stavolta l’ho combinata grossa.
Zia Maura accorcia la distanza tra noi, sento i suoi passi pesanti e cadenzati alle mie spalle; un attimo dopo posa una mano sulla mia spalla e mi costringe a voltarmi con forza. Tento di opporre resistenza, ma la mia fisionomia esile non può nulla contro di lei, così robusta e corpulenta.
E dire che da piccolo tra quelle braccia così forti cercavo protezione…
Non sollevo lo sguardo, so che i miei occhi mi tradirebbero.
“Cosa stavi facendo?” sibila zia Maura in tono tremendamente serio.
“Non ti riguarda” mi ritrovo a rispondere, sfrontato.
“Quindi non ti dispiacerà se do un’occhiata qui.” Allenta bruscamente la presa su di me e afferra lesta la mia giacca in pelle.
No, no, no!
Col cuore a mille, tento di strappargliela dalle mani. “Lasciala! Porca puttana, molla la mia giacca!” strillo, la voce sale di diverse ottave e assume una nota isterica.
Sono disperato e anche piuttosto incazzato.
Ma lei è più forte di me e, nonostante i miei continui strattoni, riesce a infilare una mano proprio nella tasca destra. “Come, Ives? Se non hai nulla da nascondere, perché ti preoccupi tanto?” mi sfida.
“Cazzo! Non ti azzardare a mettere le mani sulle mie cose!” continuo a inveire, quasi con la bava alla bocca per la rabbia, tentando di spingerla indietro. Ci metto tutta la forza che ho, ma lei vacilla appena.
Ormai è troppo tardi. L’ha trovata, l’ha portata fuori, la stringe tra le dita con diffidenza – come se la temesse – e la osserva con circospezione.
Allora mi fermo. Tanto non c’è più niente da fare, non esiste nessuna giustificazione che regga.
Zia Maura sposta lo sguardo su di me e finalmente ho il coraggio di incrociarlo. I suoi occhi scuri sono due tizzoni ardenti, scintillano di un’ira che mi mette davvero paura.
Ma non è quella la vera pugnalata. Ciò che mi fa male davvero è la delusione, il dolore, che leggo nel fondo delle sue iridi.
L’ho delusa. Di nuovo.
Sento gli occhi bruciare.
Zia Maura getta via la bustina, che va a schiantarsi sul pavimento, poi mi afferra il mento e mi costringe a guardarla dritta negli occhi. Di certo le mie pupille parlano chiaro, non c’è bisogno di altre spiegazioni.
“Da quanto?” ringhia.
Le energie sembrano avermi abbandonato all’improvviso, mi sento prosciugato.
“Zia, io…”
“Va bene.” Mi lascia andare e si scosta bruscamente da me, come se l’avessi scottata. La solita vocina maligna mi bisbiglia che probabilmente quello sarà l’ultimo contatto che avrò con lei.
“Ives, io con te non so più cosa fare. Per te mi sono impegnata fin dal primo giorno, mi sono rimboccata le maniche e ho lavorato sodo per non far mancare niente a te e Maggie, ti sono stata vicina quando ne avevi bisogno, ti ho sempre chiesto cosa ti serviva per stare bene, ti ho lasciato tutta la libertà di cui avevi bisogno, ti ho perdonato tante volte nella speranza di vedere dei cambiamenti, dei miglioramenti, in te. io ho sempre avuto fiducia in te perché ero certa che tu fossi un ragazzo intelligente e avresti saputo sfruttare le giuste occasioni, avresti saputo distinguere il bene dal male. Ma evidentemente sperare non è bastato.” Mentre parla la voce le trema appena, anche se non perde la sua solita vena autoritaria, e per una frazione di secondo scorgo i suoi occhi inumidirsi e luccicare. Ma si ricompone subito e, assumendo un’espressione severa e irremovibile, conclude: “Hai tempo fino a domani per prendere tutte le tue cose e andartene. Questa non è più casa tua”.
Mi azzardo a ridere: deve essere uno scherzo.
“Ti rendi conto che non ho un altro posto in cui stare?” le faccio notare.
Sta scherzando, ne sono sicuro. Non può mandarmi via così, non lo farebbe mai. D’accordo, l’ho davvero delusa, ma non arriverebbe mai a tanto.
“Lo so e non mi interessa, non è più un problema mio.”
Sgrano gli occhi, il fiato mi si mozza.
La osservo voltarsi e avviarsi impettita verso l’uscita. Nessun ripensamento, nessuna titubanza.
Prima di lasciare definitivamente la stanza, si volta nella mia direzione e mi rivolge un’occhiata talmente carica di dolore da mandare il mio cuore in frantumi. “Figlio mio, io ti amo con tutta me stessa, non dimenticartelo mai. È proprio per questo che non ho nessuna intenzione di restare a guardare mentre ti distruggi con le tue stesse mani. Non ce la faccio.”
Quando la porta si richiude, la stanza piomba nel silenzio, fatta eccezione per il tamburellare della pioggia all’esterno e il fruscio della frequenza disturbata proveniente dalla radio.
Anche il mio cervello è in silenzio, talmente carico da non riuscire più a elaborare niente.
 
 
Le strade sono inondate d’acqua, le crepe e le fosse sull’asfalto sfasciato si sono trasformate in grandi pozzanghere che ingannano l’occhio in tutto quel grigiore.
Le mie scarpe in tela sono zuppe, la mia giacca in pelle non è abbastanza per proteggermi dal gelo che ho dentro.
Cammino sotto la pioggia e non mi importa di bagnarmi, di ammalarmi, di tremare per il freddo. Anzi, in questo momento non mi dispiacerebbe stare molto male e morire.
L’unica cosa che non si deve infradiciare è il basso che porto in spalla, ma per fortuna qualche mese fa ho investito per una bella custodia rigida e impermeabile. Enorme. Sembra volermi schiacciare sotto il suo peso mentre arranco sul ciglio della strada.
Anche io sono fatto di pioggia: tante goccioline mi rigano il viso, ma queste sono calde e salate, bruciano. Mi sento così debole e sbagliato a piangere così, come un bambino, con dei singhiozzi profondi che mi scuotono il petto e mi fanno sussultare le spalle, ma ora non importa. Non c’è nessuno intorno a me, tutti si defilano e si rintanano a casa durante le giornate di pioggia; io sono l’unico che se ne va in giro a prendere freddo.
Devo arrivare al Rainbow, dove suoneremo. Avrei potuto prendere un autobus, ma ho bisogno di camminare, di sgombrare la mente da tutti i pensieri prima del grandioso concerto di stasera.
Ho bisogno di piangere da solo.
Scuoto il capo e cerco di scacciare via le lacrime dalle mie guance, ma anche il dorso della mano è fradicio, non serve a niente.
La verità è che non ho nessuna voglia di andare al concerto stasera, voglio solo riavere indietro la mia casa e la mia mamma. Non è un pensiero per niente figo da formulare a diciassette anni, me ne vergogno tantissimo, ma in questo momento mi sento come quel bambino di quattro anni, fragile e indifeso, che correva a nascondersi tra le braccia di zia Maura ogni volta che qualcosa andava per il verso sbagliato.
È proprio quello che vorrei fare: mollare tutto, correre da lei, chiederle scusa, prometterle che cambierò e che non la deluderò più. Ma sarebbero promesse vane.
Non cambierò mai, ho scelto la mia strada e ho preso la mia decisione. Mi sono lasciato corrompere dalla vita di strada e dalla droga, anche se ho sempre saputo che stavo sbagliando.
Volevo la vita di strada? Ecco, ora in mezzo alla via mi toccherà anche dormire.
Mi fermo sotto la tettoia di una fermata del bus e frugo dentro la custodia del basso in cerca delle sigarette. Se continuo a camminare sotto l’acqua scrosciante, non riuscirò ad accenderne una.
Il mio corpo è scosso da tremiti di freddo, le ciocche corvine mi si sono appiccicate in testa e mi gocciolano addosso senza tregua.
Fumo in fretta la prima sigaretta, quasi tutta d’un fiato, vorace; getto a terra il mozzicone e ne accendo subito un’altra. La nicotina è l’unica sostanza a mia disposizione in questo momento, ho finito anche la coca. Devo arrivare al Rainbow il prima possibile e cercare qualcosa per stordirmi.
Ma sì, in fondo cos’ho da perdere? Ho intrapreso questo cammino verso l’abisso e quindi tanto vale tuffarmici dentro, giocare a questo gioco finché non mi fotterà.
Adesso che ho rotto anche con zia Maura, l’unica persona della mia vecchia vita di cui mi importava qualcosa e a cui importava qualcosa di me, cosa mi rimane? Non devo più rendere conto a nessuno, posso anche distruggermi.
Sospiro pesantemente mentre osservo la pioggia scrosciare, sempre più violenta, giù dalla tettoia in plastica e riversarsi a terra. La strada è come un fiume in piena, l’acqua scorre frenetica come a voler purificare tutto, mentre io mi sento sempre più sporco. Intanto, senza neanche farci caso, ho già acceso la quarta sigaretta.
E dire che zia Maura è forse l’unica persona che mi ha voluto bene, l’unica che mi ha sempre sostenuto e mi è stata vicina, anche quando non glielo chiedevo. Quante volte l’ho offesa e l’ho accusata di essere stata assente, di essere sempre al lavoro, quando in realtà lei lo faceva solo per me, per mantenermi e non farmi mancare niente.
Ha sbagliato a riporre fiducia in me, oggi ne ha avuto la conferma: sono un caso perso. Sono una nullità, non riesco a fare niente di buono e, ancora una volta, ho distrutto tutto. Il riassunto della mia vita, in sostanza.
Sono riuscito a farmi odiare da colei che mi ha sempre amato incondizionatamente, come se fossi suo figlio, sangue del suo sangue.
Gli occhi ricominciano a bruciarmi e riversare lacrime disperate sul mio viso gelido. Getto la sigaretta fumata per metà a terra e scoppio a piangere più forte di prima.
Detesto mostrarmi così fragile perfino davanti a me stesso. Ma che ci posso fare se l’unica cosa che vorrei ora è un abbraccio caldo e qualcuno che mi sussurri che non ho sbagliato proprio tutto?
Basta Ives. Stasera hai un concerto, vai e spacca tutto.
Riprendo il mio cammino, il basso sempre in spalla, e la pioggia mi investe come un’infernale doccia fredda.
Devo andare al Rainbow e fare finta che nulla sia accaduto. Suonerò. Mi stordirò.
Berrò come una spugna fino a vomitare. Anzi, di più.
Fumerò erba fino a consumarmi i polmoni. Anzi, di più.
Tirerò su strisce di coca fino a farmi sanguinare il naso. No, farò di più, molto di più.
Voglio qualcosa di potente, ma potente davvero, che mi faccia dimenticare ogni problema e illudere per un istante che vada tutto bene, che sia tutto a posto. Voglio una sensazione di calore e luce che mi scorra direttamente nelle vene.
Sorrido tra le lacrime per un attimo: anche stasera me ne fotterò dei problemi, mi divertirò e starò bene.
Chi se ne frega se ho perso una famiglia, ne ho un’altra pronta ad accogliermi così come sono, con i miei difetti e i miei vizi.
Quando finalmente giungo davanti al Rainbow, la luce grigia del giorno è ormai un lontano ricordo. Non so quantificare per quanto tempo ho camminato, ma a un certo punto mi sono arreso e ho preso un bus, ci avrei impiegato troppo tempo ad arrivare altrimenti.
Entro nel locale grondante d’acqua e sicuramente in condizioni pietose; gli occhi saranno certamente cerchiati di rosso, ho smesso di piangere da poco. Mi inventerò una scusa.
I primi che avvisto nella penombra del locale sono i ragazzi dei Guns N’ Roses, stipati in un angolo insieme alla loro cerchia di amici. Li saluto con un breve cenno prima di far slittare lo sguardo altrove, in cerca dei miei compagni di band.
Alick è sul palco e sta montando la sua batteria – ancora non ci possiamo permettere dei roadies che si occupino di queste cose al posto nostro – mentre chiacchiera animatamente con Oliver, il nostro cantante.
Io però sono in cerca di Ethan, è di lui che ho bisogno. Sicuramente si trova in un angolo a sorseggiare un po’ di vodka, accordare la sua chitarra e scambiare due parole con qualcuno. Mi guardo attorno, ma a colpo d’occhio non riesco a individuarlo.
Nel frattempo Oliver si volta, mi intercetta e mi invita ad avvicinarmi con un ampio cenno della mano. Metto su il mio miglior sorriso e mi avvicino, sperando che non si accorgano di niente.
“Amico, sei appena uscito dalla doccia?” commenta Oliver, scrutandomi attentamente con quei suoi occhi verdi e indagatori.
“Dov’è Ethan?” vado subito dritto al punto. In genere sarei entusiasta di chiacchierare e scherzare con loro, ma oggi non ne ho voglia.
Alick solleva lo sguardo dal rullante che sta finendo di posizionare sull’asta, parte della sua enorme chioma castano scuro gli ricade sul viso. “Sei sicuro di stare bene, Ives?” mi domanda col suo solito tono pacato.
Gli sorrido. “Alla grande! Mi sono solo un po’ bagnato sotto la pioggia.” Talmente tanto che mi si sta formando una piccola pozza sotto i piedi: i capelli e i vestiti sono completamente inzuppati d’acqua. “Allora, Ethan dov’è?”
Alick mi rivolge un’occhiata dubbiosa prima di afferrare l’asta di un piatto e riprendere ciò che stava facendo. Ha capito che c’è qualcosa che non va. Quel ragazzo ha un sesto senso eccezionale, è l’ultimo arrivato nella band ma è come se avesse letto l’anima di tutti e tre, semplicemente standoci accanto.
Oliver afferra premurosamente la mia custodia che ancora stazionava sulla mia spalla e la ripone in un angolo accanto ad altra attrezzatura, poi mi ficca tra le mani un bicchierino pieno di Jack Daniel’s e mi indica un anfratto buio alla destra del palco. “Se non si è volatilizzato, Ethan dovrebbe essere lì.”
Mando giù lo shot tutto d’un fiato, sperando che mi riscaldi, poi appoggio il bicchiere a bordo palco e mi dirigo in quella direzione. Adesso posso anche smettere di sorridere e mostrarmi come il ragazzino entusiasta che sono sempre stato, con Ethan non c’è bisogno di fingere. Ci ho provato tante volte, ma non riesco mai a fregarlo.
Proprio come avevo previsto, lo trovo seduto su una cassetta di birre rovesciata e la schiena contro il muro, una bottiglia semivuota poggiata accanto a lui e la chitarra tra le braccia. Le sue sopracciglia scure sono aggrottate in un’espressione concentrata e le sue dita sottili e agili volano sulle corde con la solita naturalezza che ogni volta mi spiazza. Sembra esserci nato, con quello strumento in mano.
Non appena gli giungo accanto, mi squadra da capo a piedi come se mi vedesse per la prima volta: non devo fare una buona impressione, con i capelli appiccicati in faccia, gli occhi gonfi e rossi, il corpo tremante e sepolto da indumenti troppo grandi che sembrano volermi seppellire. Nei suoi occhi grandi e scuri come il carbone leggo una tacita domanda, che però Ethan non osa farmi ad alta voce. Come sempre.
Ha capito che sto male e che è successo qualcosa, ma gliene parlerò quando sarà il momento. Tra noi funziona così, i punti interrogativi sono qualcosa di veramente raro.
Mi getto a terra accanto al mio migliore amico e mi stringo le braccia intorno al corpo nel tentativo di scaldarmi. Con lo sguardo fisso davanti a me, perso nel vuoto, affermo: “Da domani verrò a stare da te, dormirò sul tuo divano”.
Lui inarca appena un sopracciglio, poi scrolla le spalle come a voler dire che per lui non c’è problema. Ha un piccolo appartamento tutto per sé in centro a Los Angeles, il suo fratello maggiore Davi gli paga l’affitto tutti i mesi. Ed è proprio lui, tra l’altro, a procurarci la coca ogni volta che ne abbiamo bisogno, essendo uno spacciatore piuttosto ricco e influente; ha un bel giro qui a Los Angeles, ricopre una posizione davvero prestigiosa.
“Ethan…”
“Mmh?”
“Mia zia mi ha scoperto la coca e mi ha cacciato di casa.”
Trascorrono alcuni istanti di silenzio in cui ci scambiamo giusto qualche occhiata fugace.
“Beh, che si fotta. Da noi sei uno di famiglia, lo sai” afferma senza mezzi termini.
Sorrido appena: ormai non mi offendo più quando insulta i miei famigliari, è soltanto il suo modo di dimostrarmi solidarietà, anche se un po’ rude.
Si volta per afferrare la bottiglia abbandonata sul pavimento, ne prende un lungo sorso e poi me la passa. Lo imito e lascio che l’alcol mi scorra in tutto il corpo, riscaldandomi e rilassandomi.
Poi la poso nuovamente sul pavimento, punto i miei occhi in quelli di Ethan e metto su un sorrisetto innocente. “Davi spaccia anche eroina, vero?”
Ethan non è un ragazzo che lascia trasparire le sue emozioni, ma a quelle parole tutti i suoi muscoli si tendono e un lampo di panico gli attraversa lo sguardo. “Non dire stronzate, Ives Mancini” sibila.
 
 
Faccio scorrere lo sguardo dalla pelle pallida del mio braccio all’ago lucente, pensando che tra poco si congiungeranno. Non sono emozionato, non sono agitato, ma soltanto impaziente, come se il mio corpo e la mia anima avessero sempre saputo che questo momento sarebbe giunto. Non c’è niente da accettare e da capire, era già tutto scritto.
Sono fatto per questo.
Ethan non è per niente d’accordo, sostiene che dovrei stare lontano da questa merda e che mi distruggerà il cervello in maniera irrimediabile; si è incazzato veramente tanto, penso fosse addirittura in apprensione, ma poi ha capito che a quest’età sono io a dover prendere le mie decisioni, giuste o sbagliate che siano.
Parla proprio lui, che con i soldi ricavati da questa merda ci vive.
Sono pronto. Poso la punta dell’ago laddove mi pare di individuare una vena, inizialmente leggera, mentre i miei pensieri scorrono a mille.
Oh sì, finalmente ci siamo. Non vedo l’ora di provare quello sballo di cui tutti parlano, così sublime, così totalizzante che tutti i problemi sembrano sparire e il mondo sembra bellissimo.
Voglio soltanto smettere di soffrire.
Spingo l’ago sotto la pelle, spingo l’ero nelle mie vene. Non ho paura.
E all’improvviso la sento esplodere nella testa. È qualcosa di sgargiante, è un piacere talmente intenso che stordisce.
Mi viene da ridere e da piangere insieme. Sto per svenire, ma mi sforzo di rimanere vigile e catturare quell’attimo, talmente bello e surreale che mi si imprime a fuoco nella mente.
Oggi è il 17 novembre 1985, fuori piove e io sono felice. Finalmente.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Note:
-      Come già accennato nello scorso capitolo, il Rainbow e il Whisky A Go Go sono due famosi locali di Los Angeles che, a partire dagli anni Sessanta ma soprattutto nei Settanta e Ottanta, sono stati l’epicentro del rock losangelino.
-      Ho deciso di inserire (molto marginalmente) i Guns N’ Roses perché proprio in quel periodo erano una delle band più popolari del giro, anche se si erano formati da poco e non avevano ancora fatto grande successo.
-      Ci tengo a precisare (per Mary che non ha letto il resto della raccolta) che zia Maura è appunto la zia materna di Ives, che ha preso in affidamento il bambino quando questo aveva solo una settimana. Maggie, a cui si accenna soltanto in una frase, è la figlia biologica di Maura, cugina e “sorellastra” di Ives, ha sei anni in più di lui e si è trasferita altrove diversi anni prima.
-      Non so se alcuni lettori attenti l’hanno notato, ma tutti i componenti della band di Ives (gli Storm It Down) hanno nomi che iniziano per vocale (Ives, Ethan, Alick, Oliver). È stato quasi un caso e l’ho trovata particolare ^^ a tal proposito, ringrazio Carmaux per i deliri, i suggerimenti e la pazienza!


   
 
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