XI
Stay with me till the
end
[Daron Malakian
& Scars On Broadway – Till The End]
AIDS.
Quattro lettere di cui non conoscevo il significato fino a
ieri.
Quattro fottute lettere che mi hanno strappato qualsiasi
speranza.
Col capo posato sul bracciolo del divano – è il
divano di
Ethan, ma ormai è diventato mio, il mio letto e il mio unico
rifugio –,
spalanco le palpebre che ho tenuto serrate per un tempo incalcolabile,
ma anche
la tenue luce che filtra dalle imposte chiuse mi ferisce,
costringendomi a
strizzare gli occhi.
È la mia routine, nulla di cui sorprendersi. Ormai vivo
nella penombra, stravaccato su questo sudicio giaciglio, come un
qualsiasi
eroinomane che si rispetti.
Mi porto un dito magro alle ciglia dell’occhio destre e le
trovo secche: in queste ventiquattro ore ho già pianto tutte
le lacrime che
possedevo, ora i miei occhi sono diventati aridi come il mio cuore.
Morirò. Per colpa della mia stupidità, della mia
imprudenza
e della mia fottuta smania di bucarmi, ora non ho più
nessuna speranza.
Perché sì, prima ce l’avevo. Prima ero
così ingenuo che,
nonostante tutto, in qualche angolo remoto del mio cuore nutrivo una
speranza,
pensavo davvero di potermi salvare, di poterne uscire e che le cose
sarebbero
andate meglio per me. Non mi sono mai veramente impegnato
perché accadesse, ma
questo pensiero mi faceva bene, mi dava la forza di continuare a
suonare, a
uscire, ad amare, a sognare.
Almeno in minima parte, quando non ero del tutto sopraffatto
dall’eroina.
Cerco di mettermi seduto con le poche forze che ho in corpo
– sono talmente magro e smunto che ho l’impressione
di potermi sgretolare in
qualsiasi momento – e subito lo stomaco mi si rivolta, come a
voler protestare.
Probabilmente vomiterò di nuovo, non faccio altro da un
giorno intero.
Devo morire. Forse l’ho sempre saputo, forse è per
questo
che mi viene facile farmene una ragione. Forse quel briciolo di
speranza non
bastava.
Ieri, quando sono tornato a casa dopo essere stato dal
medico, non riuscivo nemmeno a parlare; non appena ho aperto la porta
d’ingresso e ho visto Ethan che sistemava alcuni suoi vinili,
le gambe troppo
esili non mi hanno più sorretto e sono crollato, ho
cominciato a piangere e
rimettere tutto ciò che non mangio da mesi.
Ethan è subito corso da me e, imprecando tra i denti, mi ha
aiutato a risollevarmi e sdraiarmi sul divano, poi mi è
rimasto accanto finché
non sono riuscito a dirgli cos’era successo.
Appena ha sentito la parola AIDS, si è
incazzato.
Davvero tanto. Non l’avevo mai visto così
incazzato, eppure ormai ho imparato a
conoscere il suo temperamento. Mi ha riempito di insulti e se
n’è andato
sbattendo la porta, ignorando le mie lacrime.
Non l’ho più visto da ieri pomeriggio, non
è tornato a casa
stanotte.
In realtà non so nemmeno che momento della giornata sia ora.
Forse sono già trascorse ventiquattro ore, forse no.
La reazione di Ethan mi ha strappato il cuore dal petto, mi
ha colpito come una pugnalata, perché so che ha ragione. Se
n’è andato perché
mi vuole bene e non può sopportare di vedermi mentre mi
distruggo con le mie
mani.
E ancora non l’ho detto a Cheryl… è
disperata da quando è
venuta a sapere della mia dipendenza dall’eroina, non oso
immaginare come
reagirà a questa notizia.
Sento la porta aprirsi con un cigolo, ma non apro gli occhi
e non mi muovo, resto avvolto nella mia sudicia coperta col capo
abbandonato
sulla spalliera del divano, qualche ciocca unta che mi solletica il
viso.
Sicuramente è Ethan.
E se così non fosse, se si trattasse di un malintenzionato
che si è intrufolato in casa, tanto meglio: spero che mi
faccia fuori.
Il nuovo arrivato muove qualche passo nella stanza, poi si
ferma presso il divano, sento il suo sguardo addosso.
“L’hai detto a Cheryl?” La voce di Ethan,
così insolitamente
piatta e distaccata, rompe quel silenzio che aleggiava nella stanza da
troppo
tempo.
Sento le lacrime pungermi gli occhi e non so nemmeno perché,
pensavo di averle già piante tutte. Ma
all’improvviso, alla sola idea di non
essere più solo, è come se un enorme peso mi si
sollevasse dal petto.
“No” biascico soltanto, le labbra secche tirano
terribilmente anche solo a formulare quella sillaba.
Dio, quanto sto male. Tra un po’ dovrò iniettarmi
una dose,
almeno starò meglio e potrò sperare di non
pensare per un po’.
Le molle del divano sfondato cigolano e avverto una presenza
riempire il posto vuoto accanto a me. Ethan mi si è seduto
accanto.
“Sai,” mormoro, “sinceramente preferisco
morire di overdose
il prima possibile, piuttosto che stare male per tanto tempo e farmi
annientare
dalla malattia. Almeno morirei felice.”
Non so se sia normale formulare un pensiero del genere nella
mia condizione, ma è la prima cosa che mi è
saltata in mente. Strano modo di
fare conversazione.
“Sei un pezzo di merda, Ives. Non dovresti morire. Io e te
dovevamo suonare insieme, girare il mondo, far conoscere a tutti la
nostra
musica. Ti ricordi?” sbotta Ethan in tono duro, ma
c’è qualcos’altro nella sua
voce; non riesco a capire cosa sia, forse una nota di disperazione.
Ma conosco Ethan e so che non si dispera mai. E se lo
facesse, non lo darebbe a vedere.
Finalmente riesco a trovare la forza di aprire gli occhi e
stavolta combatto anche contro la leggera luce che li ferisce; li punto
su
Ethan e lo trovo con le sopracciglia scure aggrottate e i lineamenti
ancora più
marcati e duri per via dell’espressione accigliata, come
sempre. Ma i suoi
occhi sono cupi per la tristezza mentre mi scruta, e la sua carnagione
olivastra è più pallida del solito.
Gli occhi mi si riempiono di lacrime.
“Però tu non mi lascerai morire da solo, vero
Ethan? Io non…
io non ti lascerei mai da solo, anche se tu fossi il più
grande figlio di
puttana di questo universo, anche se…” Ma non
riesco a continuare il mio
discorso, i singhiozzi mi sconquassano il petto e le lacrime scendono
copiose
sulle mie guance.
Perché improvvisamente mi sono ricordato che devo morire e
ancora non ci ho fatto l’abitudine.
E ancora una volta mi sento come il bambino indifeso e dolce
che ha bisogno soltanto di un abbraccio, di un po’ di
conforto, di qualcuno che
gli doni una speranza anche quando non può esserci.
D’istinto gli afferro una mano e la stringo forte nella mia,
pallida e sottile, solitamente priva di forza. Ma adesso le mie dita
stritolano
le sue, callose e da chitarrista, come se fosse il mio unico appiglio
per stare
ancora attaccato alla vita.
Perché in fondo Ethan è sempre stato la mia casa
e la mia
famiglia, quando pensavo di non averne una.
Lui distoglie lo sguardo, è a disagio, non sa cosa dire o
fare. Lo conosco bene, so che i gesti eccessivamente affettuosi lo
mettono a
disagio – e forse sono l’unica cosa in grado di
imbarazzarlo, in genere è così
imperscrutabile e sicuro di sé.
“Ethan…” riesco soltanto a bofonchiare,
prima che un conato
mi colga alla sprovvista.
Cazzo.
Per fortuna ieri il mio amico ha portato una bacinella
vicino al divano, così che non dovessi alzarmi ogni volta
che mi sentivo male.
Si è riempita in fretta nelle ultime ventiquattro ore.
Buffo, non ho toccato
cibo.
Mi piego in avanti e libero il mio stomaco dal niente che
sta al suo interno; mi sembra quasi di soffocare, tra conati e colpi di
tosse.
Forse morire sarebbe davvero la cosa migliore.
Ethan si riscuote immediatamente: scatta verso di me e con
una mano mi sostiene per un braccio, mentre con l’altra mi
tira indietro i
capelli per evitare che si sporchino. Non mi lascia andare nemmeno per
un
secondo, non esita anche se faccio schifo.
“Non ti lascio da solo, meu irmãozinho”
sento
mormorare Ethan mentre, stremato, mi accascio nuovamente sul divano e
gli stringo
nuovamente la mano.
Forse pensa che non me ne sia accorto, ma io ho sentito
benissimo.
E, anche se non ne ho la forza, lo ringrazio con tutto il
mio cuore.
A prescindere da ciò che accadrà, Ethan
sarà sempre la mia
famiglia.
Note:
Meu
irmãozinho in portoghese
significa “fratellino
mio”. Non dimentichiamo che Ethan ha origini brasiliane ^^
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