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Autore: Soul Mancini    12/04/2020    6 recensioni
Frammento dopo frammento, giorno dopo giorno, la vita di Ives scivola via e la sua anima si spegne pian piano. Quell'anima che era così pura e luminosa, ma che come la fiammella di una candela tremola a ogni soffio di vento.
Dai suoi primi giorni di vita, una serie di momenti che l'hanno portato a bucare la sua pelle con l'ultimo, fatale ago.
[Il capitolo "VIII" si è CLASSIFICATO SESTO al contest "November Rain" indetto da MaryLondon e giudicato da Juriaka sul forum di EFP.]
[Il capitolo 'XII - Like a crystal tear' si è CLASSIFICATO SECONDO al contest "This is our place, we make the rules" indetto da mystery_koopa sul forum di EFP.]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Needles'
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XI
 
 
 
 
 
Stay with me till the end
[Daron Malakian & Scars On Broadway – Till The End]
 
 
 
 
AIDS.
Quattro lettere di cui non conoscevo il significato fino a ieri.
Quattro fottute lettere che mi hanno strappato qualsiasi speranza.
Col capo posato sul bracciolo del divano – è il divano di Ethan, ma ormai è diventato mio, il mio letto e il mio unico rifugio –, spalanco le palpebre che ho tenuto serrate per un tempo incalcolabile, ma anche la tenue luce che filtra dalle imposte chiuse mi ferisce, costringendomi a strizzare gli occhi.
È la mia routine, nulla di cui sorprendersi. Ormai vivo nella penombra, stravaccato su questo sudicio giaciglio, come un qualsiasi eroinomane che si rispetti.
Mi porto un dito magro alle ciglia dell’occhio destre e le trovo secche: in queste ventiquattro ore ho già pianto tutte le lacrime che possedevo, ora i miei occhi sono diventati aridi come il mio cuore.
Morirò. Per colpa della mia stupidità, della mia imprudenza e della mia fottuta smania di bucarmi, ora non ho più nessuna speranza.
Perché sì, prima ce l’avevo. Prima ero così ingenuo che, nonostante tutto, in qualche angolo remoto del mio cuore nutrivo una speranza, pensavo davvero di potermi salvare, di poterne uscire e che le cose sarebbero andate meglio per me. Non mi sono mai veramente impegnato perché accadesse, ma questo pensiero mi faceva bene, mi dava la forza di continuare a suonare, a uscire, ad amare, a sognare.
Almeno in minima parte, quando non ero del tutto sopraffatto dall’eroina.
Cerco di mettermi seduto con le poche forze che ho in corpo – sono talmente magro e smunto che ho l’impressione di potermi sgretolare in qualsiasi momento – e subito lo stomaco mi si rivolta, come a voler protestare. Probabilmente vomiterò di nuovo, non faccio altro da un giorno intero.
Devo morire. Forse l’ho sempre saputo, forse è per questo che mi viene facile farmene una ragione. Forse quel briciolo di speranza non bastava.
Ieri, quando sono tornato a casa dopo essere stato dal medico, non riuscivo nemmeno a parlare; non appena ho aperto la porta d’ingresso e ho visto Ethan che sistemava alcuni suoi vinili, le gambe troppo esili non mi hanno più sorretto e sono crollato, ho cominciato a piangere e rimettere tutto ciò che non mangio da mesi.
Ethan è subito corso da me e, imprecando tra i denti, mi ha aiutato a risollevarmi e sdraiarmi sul divano, poi mi è rimasto accanto finché non sono riuscito a dirgli cos’era successo.
Appena ha sentito la parola AIDS, si è incazzato. Davvero tanto. Non l’avevo mai visto così incazzato, eppure ormai ho imparato a conoscere il suo temperamento. Mi ha riempito di insulti e se n’è andato sbattendo la porta, ignorando le mie lacrime.
Non l’ho più visto da ieri pomeriggio, non è tornato a casa stanotte.
In realtà non so nemmeno che momento della giornata sia ora. Forse sono già trascorse ventiquattro ore, forse no.
La reazione di Ethan mi ha strappato il cuore dal petto, mi ha colpito come una pugnalata, perché so che ha ragione. Se n’è andato perché mi vuole bene e non può sopportare di vedermi mentre mi distruggo con le mie mani.
E ancora non l’ho detto a Cheryl… è disperata da quando è venuta a sapere della mia dipendenza dall’eroina, non oso immaginare come reagirà a questa notizia.
Sento la porta aprirsi con un cigolo, ma non apro gli occhi e non mi muovo, resto avvolto nella mia sudicia coperta col capo abbandonato sulla spalliera del divano, qualche ciocca unta che mi solletica il viso.
Sicuramente è Ethan.
E se così non fosse, se si trattasse di un malintenzionato che si è intrufolato in casa, tanto meglio: spero che mi faccia fuori.
Il nuovo arrivato muove qualche passo nella stanza, poi si ferma presso il divano, sento il suo sguardo addosso.
“L’hai detto a Cheryl?” La voce di Ethan, così insolitamente piatta e distaccata, rompe quel silenzio che aleggiava nella stanza da troppo tempo.
Sento le lacrime pungermi gli occhi e non so nemmeno perché, pensavo di averle già piante tutte. Ma all’improvviso, alla sola idea di non essere più solo, è come se un enorme peso mi si sollevasse dal petto.
“No” biascico soltanto, le labbra secche tirano terribilmente anche solo a formulare quella sillaba.
Dio, quanto sto male. Tra un po’ dovrò iniettarmi una dose, almeno starò meglio e potrò sperare di non pensare per un po’.
Le molle del divano sfondato cigolano e avverto una presenza riempire il posto vuoto accanto a me. Ethan mi si è seduto accanto.
“Sai,” mormoro, “sinceramente preferisco morire di overdose il prima possibile, piuttosto che stare male per tanto tempo e farmi annientare dalla malattia. Almeno morirei felice.”
Non so se sia normale formulare un pensiero del genere nella mia condizione, ma è la prima cosa che mi è saltata in mente. Strano modo di fare conversazione.
“Sei un pezzo di merda, Ives. Non dovresti morire. Io e te dovevamo suonare insieme, girare il mondo, far conoscere a tutti la nostra musica. Ti ricordi?” sbotta Ethan in tono duro, ma c’è qualcos’altro nella sua voce; non riesco a capire cosa sia, forse una nota di disperazione.
Ma conosco Ethan e so che non si dispera mai. E se lo facesse, non lo darebbe a vedere.
Finalmente riesco a trovare la forza di aprire gli occhi e stavolta combatto anche contro la leggera luce che li ferisce; li punto su Ethan e lo trovo con le sopracciglia scure aggrottate e i lineamenti ancora più marcati e duri per via dell’espressione accigliata, come sempre. Ma i suoi occhi sono cupi per la tristezza mentre mi scruta, e la sua carnagione olivastra è più pallida del solito.
Gli occhi mi si riempiono di lacrime.
“Però tu non mi lascerai morire da solo, vero Ethan? Io non… io non ti lascerei mai da solo, anche se tu fossi il più grande figlio di puttana di questo universo, anche se…” Ma non riesco a continuare il mio discorso, i singhiozzi mi sconquassano il petto e le lacrime scendono copiose sulle mie guance.
Perché improvvisamente mi sono ricordato che devo morire e ancora non ci ho fatto l’abitudine.
E ancora una volta mi sento come il bambino indifeso e dolce che ha bisogno soltanto di un abbraccio, di un po’ di conforto, di qualcuno che gli doni una speranza anche quando non può esserci.
D’istinto gli afferro una mano e la stringo forte nella mia, pallida e sottile, solitamente priva di forza. Ma adesso le mie dita stritolano le sue, callose e da chitarrista, come se fosse il mio unico appiglio per stare ancora attaccato alla vita.
Perché in fondo Ethan è sempre stato la mia casa e la mia famiglia, quando pensavo di non averne una.
Lui distoglie lo sguardo, è a disagio, non sa cosa dire o fare. Lo conosco bene, so che i gesti eccessivamente affettuosi lo mettono a disagio – e forse sono l’unica cosa in grado di imbarazzarlo, in genere è così imperscrutabile e sicuro di sé.
“Ethan…” riesco soltanto a bofonchiare, prima che un conato mi colga alla sprovvista.
Cazzo.
Per fortuna ieri il mio amico ha portato una bacinella vicino al divano, così che non dovessi alzarmi ogni volta che mi sentivo male. Si è riempita in fretta nelle ultime ventiquattro ore. Buffo, non ho toccato cibo.
Mi piego in avanti e libero il mio stomaco dal niente che sta al suo interno; mi sembra quasi di soffocare, tra conati e colpi di tosse.
Forse morire sarebbe davvero la cosa migliore.
Ethan si riscuote immediatamente: scatta verso di me e con una mano mi sostiene per un braccio, mentre con l’altra mi tira indietro i capelli per evitare che si sporchino. Non mi lascia andare nemmeno per un secondo, non esita anche se faccio schifo.
“Non ti lascio da solo, meu irmãozinho” sento mormorare Ethan mentre, stremato, mi accascio nuovamente sul divano e gli stringo nuovamente la mano.
Forse pensa che non me ne sia accorto, ma io ho sentito benissimo.
E, anche se non ne ho la forza, lo ringrazio con tutto il mio cuore.
A prescindere da ciò che accadrà, Ethan sarà sempre la mia famiglia.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Note:
Meu irmãozinho in portoghese significa “fratellino mio”. Non dimentichiamo che Ethan ha origini brasiliane ^^
   
 
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