Prefazione:
Gli incubi rappresentano le nostre paure, le angosce più
profonde
che tormentano le nostre anime.
E
se così non fosse? E se gli incubi fossero entità
a sé stanti?
Cosa
celano quelli di Luana? Cosa vogliono da lei?
Questa
storia partecipa al contest ‘Generi a catena’
indetto da Dark
Sider sul forum.
Anche
gli incubi hanno fame
Accarezzate
dalla brezza, le tende rosa si muovevano appena. Gli scuri erano uno
scudo contro il sole abbagliante e il frinire delle cicale aveva
cullato Luana fino a farla addormentare.
I
muri in cemento erano spogli tranne per i quattro tubi al neon, uno
per ogni parete, che illuminavano dall’alto il tavolo e le
apparecchiature ospedaliere. Una lampada da sala operatoria
sovrastava una lettiga senza ruote e l’aria era satura
dell’odore
di disinfettante e medicinali.
Legata
strettamente al materassino, c’era una giovane donna gravida.
Il
pancione riluceva di sudore sotto l’impietosa luce
artificiale. Per
quanto le era possibile, si dimenava, scuotendo il corpo,
strattonando gli arti fino a farli sanguinare.
Luana
raccolse il bisturi dal vassoio alla sua sinistra, mise la mano
all’altezza dell’ombelico della ragazza e
tagliò la carne fino
al pube. Aiutandosi con un dilatatore per grossi animali,
separò i
lembi. Fece una seconda incisione sulla membrana uterina e, con la
dovuta cautela, estrasse il neonato; con un colpo secco recise il
cordone ombelicale.
Tenendolo
davanti a sé si spostò di lato e immerse il
corpicino in un catino.
Lavò via lo sporco e l’avvolse in un grande
asciugamano. Ritornò
sotto la lampada e, per pochi istanti, rimirò il viso
accartocciato
del bambino in cerca di difetti. La pelle era screpolata e rosea,
dalle palpebre serrate scivolavano grosse lacrime e la piccola bocca
era spalancata, avida di ossigeno. Soddisfatta, attraversò
tutto il
locale e oltrepassò il muro come fosse fatto
d’aria.
La
nuova stanza era buia e sembrava non avere fondo. Luana
voltò il
capo a destra verso il camino, le cui fiamme creavano giochi di luce
sulla culla dalle lenzuola bianche bordate di pizzo.
Depositò il
dolce fardello e, come il corpicino toccò il fondo, ogni
rumore
riprese vita.
Le
urla agghiaccianti che scaturivano dalla gola della donna
nell’altra
stanza…
…ridestarono
Luana.
Stralunata,
si passò la mano sul volto accaldato, cacciando dalla fronte
una
ciocca di capelli neri. Non riconoscendo subito la stanza,
saettò
gli occhi chiari attorno, nervosa. Sentiva battere forte il cuore,
quasi avesse corso invece che riposare nel letto. Per riflesso, le
dita abbandonate sul materasso stropicciavano il lenzuolo. Era un
gesto abituale, uno strascico infantile che teneva lontano
l’omino
dei sogni.
L’improvvisa
secchezza della gola la costrinse ad alzarsi.
Barcollando,
raggiunse il lavabo incastrato nel muro, tra l’armadio e il
cassettone. Sciacquò più volte il bicchiere prima
che l’acqua
fresca le lambisse le labbra aride. Ingollò a fatica due
sorsi, la
gola che bruciava in profondità.
Un
guizzo nello specchio, appeso sopra il sanitario, attirò la
sua
attenzione: una striscia rossastra tagliava in due la sua faccia e
spariva inghiottita dai capelli aggrovigliati.
Sussultò
e il bicchiere si infranse sul marmo.
Allungò
le dita tremanti verso il proprio viso e il riflesso rivelò
che
anch’esse erano sporche di sangue. Il gelo si
impadronì di lei
mentre si specchiava nei suoi stessi occhi vitrei; una saetta
dolorosa le attraversò il cervello. Chinò il capo
e, al posto del
basso ventre, c’era una voragine. Provò
febbrilmente a
ricongiungere i lembi strappati e, quando si rese conto che un fluido
denso e caldo le scivolava lungo le cosce, urlò.
Cadde
a terra in una pozza ferrosa e viscida; il vagito di un bimbo
riempiva la stanza.
Ovattati,
avvertiva i colpi inferti alla porta... delle grida... Le sfuggiva il
senso.
La
culla di legno chiaro dondolava in un angolo; una mano mollemente
adagiata sugli intarsi ne dettava il ritmo.
«Ottimo,
ma non è mai abbastanza.» L’ombra
attaccata alla mano si allungò
su di lei, la sopraffece e il lezzo di fiori appassiti le invase la
bocca.
Cercò
di spostarsi, il rigurgito che le formicolava in gola.
Allungò le
braccia per aggrapparsi alle gambe della culla. Fece leva, ma
cedettero come fossero gelatina; il resto del corpo pietra dura.
Mosse la testa di lato, puntando la fronte in terra quasi fosse un
artiglio.
In
quell’istante, la porta si aprì e la luce
fagocitò il pavimento.
L’ombra rise sinistra e venne assorbita dalle pareti.
«Luana!»
esclamò una voce femminile. L’infermiera si
inginocchiò accanto a
lei. «Ho sentito un tonfo e non hai risposto subito. Cosa
è
successo?»
«Oddio!
Aiutami! Il mio ventre! Il mio bambino!» E si
aggrappò a lei come
un naufrago.
«Non
c’è nessun bambino. Hai avuto un incubo.»
«Le
mie mani, guarda, sono sporche di sangue. C’è
sangue ovunque,»
balbettò concitata, scuotendo le braccia della donna.
«Hai
fatto cadere il bicchiere, Luana. Non preoccuparti, sono solo piccoli
tagli.» Cercò di convincerla mentre
l’aiutava a raggiungere il
letto, ignorando i suoi vaneggiamenti. «Ecco, vedi? Ora
pulisco e
disinfetto tutto.»
Sul
comodino c’erano varie boccette di medicinali. Prese un paio
di
pillole e l’aiutò a ingoiarle. Aspettò
che facessero effetto,
dopodiché uscì a chiamare un inserviente
affinché riordinasse la
stanza.
La
clinica privata “Oasi di pace” era stata costruita
un secolo
prima all’interno di una pineta. Sprazzi verdi erano
disseminati un
po’ ovunque, muniti di comode panche a uso degli ospiti. Un
sentiero battuto conduceva alla spiaggia privata sulla riva di un
piccolo lago montano.
D’estate,
le porte finestre venivano spalancate, e i pasti si consumavano su
un’ampia terrazza arricchita da enormi vasi di begonie
bianche.
Indifferente
al sommesso cicaleccio che la circondava, Luana rimestava il
cucchiaio nel piatto, la mano a sostenere il capo, gli occhi fissi
oltre la barriera di fiori.
«Dovresti
mangiare,» suggerì cordiale un inserviente. La
ragazza fece
spallucce e si alzò, raccogliendo il vassoio con il cibo
ancora
intonso. Strascicando i piedi, rientrò nella struttura e
s’incamminò
per il corridoio creato dai tavoli, proprio sotto il grande schermo
sintonizzato su uno dei telegiornali nazionali.
È
di queste ore il ritrovamento del cadavere di una giovane donna
incinta, il cui corpo seviziato è stato abbandonato in uno
scantinato di un palazzo fatiscente… Per risolvere questo
efferato
delitto, gli inquirenti stanno valutando varie ipotesi... La
scomparsa del neonato è un vero mistero e per le forze
dell’ordine
si prospetta... La più probabile delle piste rimane quella
del
traffico di bambini… Vi mostriamo la foto della donna,
speriamo
che...
Luana
fulminò con lo sguardo il televisore che, gracchiando,
snocciolava
le notizie del giorno. In quell’istante, alle spalle del
cronista,
campeggiò la foto con il volto della donna del suo incubo.
Cacciò
un urlo e il vassoio sfuggì alla sua presa.
Un
paio di inservienti accorsero, convinti che si fosse fatta male.
Invece, la trovarono appallottolata su se stessa che dondolava sulle
caviglie magre. Teneva le dita artigliate ai capelli e il volto
incastrato tra le gambe.
Impiegarono
del tempo per convincerla a raggiungere la sua camera, darle un
calmante e riportare ordine fra gli ospiti che avevano assistito alla
scena.
«Quella
la saltiamo,» disse l’inserviente dando uno sguardo
alla lista
consegnatale dalla capo sala.
«Poverina,
hanno dovuto sedarla di nuovo. Non smetteva di urlare cose senza
senso, come accusarsi dell’omicidio di qualcuno.»
Paola infilò in
uno scomparto del grande carrello le lenzuola sporche della camera
43.
«Hanno
fatto bene! È un luogo di pace, questo. Poi tocca a noi
sistemare
ogni cosa, non certo a quegli smidollati con il camice
bianco,»
rispose scorbutica Cinzia mentre imbeveva con il detergente uno
strofinaccio.
Erano
due donne non molto alte e vestivano un camice colorato sulle forme
abbondanti. Sotto la cuffia inamidata, portavano i capelli raccolti
in uno stretto chignon. Calzavano scarpe comode dalla suola in gomma,
che scrocchiava a ogni passo sul pavimento in linoleum.
«L’altro
giorno ho ascoltato una conversazione tra la dottoressa Trance e il
dottore Riguardi,» bisbigliò ammiccante Paola,
serrandosi vicino
all’altra donna. «È stata scaricata qui
dall’Ospedale Centrale.
A quanto pare è stata violentata dal marito ubriaco e
strafatto,
insieme a un paio di suoi amici. Figurati che era incinta
all’ottavo
mese e ha perso il bambino a causa delle percosse: le hanno
letteralmente maciullato il ventre!»
«Ma
cos’erano, bestie?» fece inorridita Cinzia mentre
l’altra
approvava scuotendo il capo.
«Da
quello che ho potuto capire, un vicino, rientrando dal lavoro a notte
fonda, l’aveva sentita urlare e ha chiamato i carabinieri.
Una
volta giunti sul posto, si erano subito resi conto che quegli animali
erano preda delle allucinazioni, mentre si accanivano su di lei con
furia inaudita. In ospedale, non hanno potuto fare altro che
raccogliere il bambino a manciate.»
«Poveretta,
ora capisco perché ha gli incubi. Anzi, non mi capacito di
come
abbia fatto a sopravvivere a tutto questo,» disse Cinzia,
facendo un
paio di volte il segno della croce mentre si allontanava lungo il
corridoio.
La
brace nel camino stava languendo e il suo tepore non raggiungeva le
pareti di legno. Fuori dalla finestra, le foglie turbinavano,
sbattendo contro il vetro umido di pioggia. Uno scialle giaceva
scomposto ai piedi del piccolo divano, occupato da una donna incinta.
Aveva lunghi capelli sciolti, un viso dolce e la punta di un
attizzatoio conficcata in fronte.
Luana
estrasse il ferro e con esso ravvivò il fuoco. Aggiunse
ulteriori
ciocchi per rimpolpare le fiamme affinché fossero abbastanza
libere
di intaccare le pareti.
Poi,
si inginocchiò a lato del divano e sistemò il
corpo ancora tiepido
della gravida, in modo che il ventre prominente si incastrasse tra le
gambe ripiegate, la pelle tesa a contatto con il tessuto ruvido.
Senza
indugiare oltre, con le mani allargò il tessuto molle della
vagina,
favorendo così la fuoriuscita della testa del bambino.
Aiutandosi
con un trincia-pollo, sventrò la parte più bassa
dell’addome e il
neonato scivolò sui cuscini, ancora avvolto nella placenta.
Strappò
il sacco uterino e tagliò il cordone ombelicale.
Al
suo interno, il bimbo rantolava in debito d’ossigeno, la sua
pelle
era bluastra e muoveva appena il piedino sinistro. Luana lo
liberò
della membrana e lo immerse in una bacinella di acqua calda, un
secondo dopo, in una gemella, ma con il liquido ghiacciato. Per lo
shock, il neonato fece il suo primo profondo respiro.
Soddisfatta,
raggiunse la culla chiara. Mentre si chinava per depositare il
prezioso fardello, la sua pelle sfiorò uno dei dobloni in
rame che
adornavano il bordo della culla; il fumo acre e il calore
dell’incendio che si stavano propagando…
…svegliarono
Luana.
«Dove
sono? Cos’è questo odore acre?»
balbettò la ragazza, tra un
colpo di tosse e l’altro. Era avvolta da una cappa densa e
pesante,
lingue di fuoco guizzavano come ballerini improvvisati di una fiera
itinerante.
«Ma
che sta succedendo?» chiese spaventata, coprendo la bocca con
l’interno del gomito. Strinse gli occhi arrossati e la sagoma
di
una culla incominciò a intravvedersi da dietro la cortina di
fumo.
«Ma
cosa…?» Interdetta, si precipitò da
quella parte.
La
culla era investita dal sole accecante, un’ombra era china al
suo
interno.
«Chi
sei?,» balbettò intimorita, i sibili delle fiamme
un lontano
ricordo. La figura si mosse lenta, come se il suo corpo dovesse
continuamente assestarsi sullo sfondo che la circondava. Era
longilinea, un velo opaco che deformava i colori. Tra le dita
affusolate rigirava un doblone ramato. «Buon
salve,» esclamò senza
particolare enfasi, la bocca uno strappo di quello strano tessuto di
cui era composto. « Se mi stai guardando, ahimè,
credo sia giunto
il momento di dirci addio.» Le parole giunsero a Luana da
ogni
direzione, come echi che si propagavano tra i buchi dello spazio.
«Non
capisco,» ribatté perplessa, retrocedendo di un
passo. La schiena
sfiorò la parete dietro di lei e Luana avvertì il
calore intenso
che emanava. Si girò e, sgomenta, indietreggiò
fino a toccare la
culla, gli occhi fissi sul muro che si andava gonfiando.
Per
un istante, le sembrò di attraversare una cascata gelida e
fetida,
colma di un dolore così acuto da lasciarla senza fiato.
Annaspò in
cerca d’aria e mosse le braccia come se stesse cadendo da
un’altezza considerevole. Si arricciò su se stessa
più volte,
sentendo la gola bruciare e i polmoni collassare. Per infiniti
istanti, rimase immobile in un limbo fatto di saette iridescenti e
luce opaca, come la sbavatura di una lacrima che è
già un lontano
ricordo. Ricadde in avanti e, senza rendersene conto,
affondò il
viso in una poltiglia dall’odore ferroso.
Cacciò
un urlo quando si rese conto che erano i resti di un corpicino. Si
guardò attorno e capì di essere dentro la stessa
culla dove, nei
suoi incubi, adagiava i neonati.
Sbatté
le ciglia e si ritrovò sdraiata sul letto della camera della
clinica.
«Oddio,
è stato un incubo. È stato un orrendo
incubo,» balbettò
flebilmente portando la mano tremante alla bocca.
«Devo
dissentire.» Luana si pietrificò, il cuore
incastrato da qualche
parte, un flebile sussurro dentro la propria testa. «Io sono
qui,
con te,» asserì quella cosa di prima che puzzava
inspiegabilmente
di plastica bruciata. «Prima di congedarmi, ti lascio
questo.»
Depositò un doblone sul comodino. «È il
dovuto compenso per avermi
servito.»
«Compenso?
Servito?»
«Anelavi
a diventare madre. Bramavi con tutta l’anima di provare
quella
sensazione, quella pace terrena che invade la mente quando le donne
partoriscono. Ti ho dato questo, mi sono preso i bambini.»
«Perché?»
«Perché
anche gli incubi hanno fame, io prediligo i neonati.» Luana
lo
guardò raccapricciata, scuotendo forte la testa in segno di
diniego.
«Sei
un mostro! Ora che so tutto, preferisco uccidermi che assecondare
te!» sbraitò.
«Ma
tu sei morta.»
Le
fiamme avide stavano avvolgendo il letto, consumando il corpo della
ragazza, come il mare sbriciolava i castelli di sabbia.
«Stupide
creature. Quand’è che imparerete che non decidete
per voi stessi?
Io mi nutro dei vostri cadaveri.»
Si
voltò e la porta cedette.
Un
inserviente si precipitò dentro la stanza di Luana, munito
di un
estintore. Non si avvide dell’ombra scura che, accompagnata
dall’inseparabile culla, svaniva oltre il bordo disegnato
della
parete di fondo.
Ci
hanno promesso che i sogni possono diventare realtà, ma
hanno
dimenticato di dirci che anche gli incubi sono sogni (Oscar Wilde)
Note
dell’autrice: l’incubo non
è il trauma subito da
Luana che si manifesta ma è una creatura concreta e
tangibile. Un
parassita che si muove ai confini dell’illusione in cerca di
cibo.
Questa
storia partecipa al contest ‘Generi a catena’
indetto da Dark
Sider con le seguenti indicazioni suggerite da Freya_Melyor:
genere:
horror;
prompt:
culla.
Leggenda
Genere:
horror – angst – drammatico.
Rating:
giallo.
Note/Avvertimenti:
contenuti forti.
Coppia:
nessuna.
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