XII
Like a crystal tear
I
wake in the night, I pace like a ghost
The
room is on fire, invisible smoke
[Taylor
Swift – The Archer]
Schiudo le palpebre e i miei occhi pesanti si scontrano con
l’oscurità. Li sento bruciare, prudere, pizzicare,
come se un fumo denso e
scuro li avesse investiti.
Che ore sono? Forse è giorno, forse è
notte… ormai non le
distinguo più, le imposte sono sempre ben chiuse e le tende
tirate. È un’eterna
notte, la mia.
Mi ci vuole qualche istante per realizzare ciò che mi sta
accadendo: un violento accesso di tosse mi scuote il petto, mi fa
tremare i
muscoli e mi imperla la pelle di sudore.
Ancora. Di nuovo.
Non ho la forza di mettermi seduto, anche se i polmoni mi si
strizzano nel petto e un forte senso di nausea mi assale.
Non lo faccio perché sono troppo stanco.
Tossisco, ancora e ancora. Mi brucia il petto, mi brucia il
viso, mi brucia la gola. Mi sembra quasi di star affogando, annaspo in
cerca
d’aria, stringo i pugni e affondo le unghie nei palmi con
forza.
Scatto a sedere nel tentativo di trovare un po’ di sollievo.
Va leggermente meglio, anche se ho l’impressione che qualcuno
mi stia
schiacciando la gabbia toracica fino a togliermi il respiro.
Tento di prendere qualche respiro profondo e mi guardo
attorno in questo mare di oscurità. Sono così
stanco, distrutto; vorrei
solo chiudere gli occhi e non riaprirli mai più.
Ma la tosse non mi vuole ancora lasciare in pace. Ormai è
così ogni notte, ogni giorno, ci sono abituato e so
esattamente ciò che devo
fare per trovare un po’ di serenità.
Mi alzo vacillando e vengo colto da un capogiro. Respiro
affannosamente, sento le orecchie bollenti e il mondo barcolla attorno
a me.
Sono costretto a posare una mano sullo schienale del divano per non
rovinare a
terra.
Ho caldo. Troppo caldo.
Ancora preda della tosse, mi dirigo con passo malfermo verso
il bagno; mi chiudo la porta alle spalle e accendo le luci della
specchiera –
due lampadine su tre sono fulminate e l’unica superstite
emana una luce fioca e
lugubre, che si riflette sulla ceramica sudicia del lavandino.
Ethan fa fatica a stare dietro alla casa, a me, a tutto. A
volte non ci torna proprio, a casa: sicuramente si sta stufando pure
lui della
mia malattia e di questa situazione, quando mi ha concesso di dormire
sul suo
divano momentaneamente non poteva immaginare che
sarebbe andata a finire
così.
Mi aggrappo al bordo del lavandino e ancora una volta mi
abbandono ai colpi di tosse. Finché la vista non mi si
appanna, finché le
orecchie non sibilano e si ovattano, finché non sento
più le gambe e il mondo
sembra essere lontano anni luce. Tossisco fino a sfinirmi,
finché le uniche
sensazioni che riesco a percepire sono un vuoto all’altezza
dei polmoni e un
retrogusto amaro, quasi terroso, in gola.
Sono veramente stufo di vivere così. Si può
chiamare vita,
poi?
Deglutisco a vuoto e tiro un sospiro di sollievo quando mi
accorgo che l’accesso di tosse si sta pian piano placando. Ho
espulso il niente
che avevo dentro e ora comincio a stare un po’ meglio.
Quando riacquisto un minimo di lucidità e riesco a tenere le
palpebre aperte, anche se a fatica, noto che il lavandino si
è riempito di
schizzi rossastri.
Anche oggi ho tossito sangue. Come ogni giorno.
Apro il rubinetto e mi sciacquo il viso, qualche goccia mi
finisce anche tra i capelli scarmigliati e unti. Mi lascio scivolare un
po’
d’acqua in gola per tentare di placare il bruciore; non so
nemmeno se sia
potabile, ma poco importa, tanto devo morire. Se bevessi veleno non
cambierebbe
niente, anzi, mi aiuterebbe a farla finita nel minor tempo possibile.
Sento la testa pesante, ma ciononostante mi sforzo di
sollevare il capo; la luce, per quanto soffusa, mi ferisce le pupille
affaticate, ma a colpirmi ancora di più è il mio
riflesso nello specchio.
Da quanto tempo non incrociavo il mio stesso sguardo? Da
quanto tempo non vedevo il mio volto profondamente devastato?
Sembra quasi uno scherzo, a ben pensarci. Dov’è
finito quel
ragazzino dai lineamenti dolci e il sorriso radioso che ero un tempo?
Chi è
quest’estraneo che ha preso il suo posto, perfetto riflesso
della malattia?
Faccio scorrere lo sguardo sulle guance scavate e diafane, che
sotto la luce giallognola sembrano ancora più malate; lo
poso sulle labbra
sottili e secche, talmente fragili da sembrare sul punto di sciuparsi,
e sulle
rughe profonde che solcano la fronte. Osservo il modo raccapricciante
in cui le
mie ciocche corvine, lunghe e scomposte come mai lo sono state,
ricadono
pesanti attorno al mio viso scarno e piccolo, come un manto oscuro che
rischia
di schiacciarmi.
Un tempo queste stesse ciocche erano folte e morbide,
incorniciavano un viso rotondetto e delicato, quasi infantile, con un
sorriso
che andava da un orecchio all’altro e le guance che si
tingevano di rosa.
Infine mi guardo negli occhi e fa male, troppo male.
I miei occhi pesanti, contornati di rosso e iniettati di
sangue e sofferenza; sempre allucinati e stralunati per via della
droga, sempre
più tristi, rassegnati, spenti. Le iridi hanno assunto il
colore della
burrasca, si sono fatte opache e prive di ogni sfumatura.
Quelle stesse iridi che fino a qualche anno fa erano di un
azzurro brillante da fare invidia al cielo, emanavano una luce talmente
intensa
da fare invidia al sole. Mi ero ripromesso che quelle iridi avrebbero
sempre
sorriso, qualsiasi cosa fosse capitata, ma ho fallito.
Sento una fitta all’altezza del cuore, come una pugnalata, e
sono costretto a distogliere lo sguardo, incapace di sostenerlo oltre.
E lo fisso sulle mie braccia pallide e magre da far
spavento, ricoperte di croste, cicatrici e segni più o meno
freschi di punture.
Ormai non c’è più spazio per accogliere
un altro ago, eppure troverò un modo
per iniettarmi la prossima dose. Un modo lo si trova sempre, quando
l’eroina
che hai in circolo sta per esaurire il suo effetto.
Sollevo nuovamente il capo e strizzo appena le palpebre,
irritato dalla luce della lampadina e dal mio stesso sguardo.
Non possono essere davvero i miei, quegli occhi arresi.
Improvvisamente vengo colto dalla consapevolezza che, per
quanto il mio involucro esterno si mantenga ancora in vita, io dentro
sono già
morto. Non c’è più niente nella mia
anima, il vero Ives non esiste più.
Sono morto nel momento in cui, stupidamente e ingenuamente,
quasi per un capriccio, mi sono sparato la prima dose di ero in vena.
Poi, quando ho scoperto di aver preso l’AIDS, sono morto
ancora di più.
Ed è tutta solo ed esclusivamente colpa mia.
A quel pensiero, un singhiozzo disperato mi scuote il petto
e la gola. Come ci sono arrivato a questa condizione? Perché
sono arrivato a
farmi così tanto del male, fino a uccidermi?
Io non ho mai veramente voluto morire, io voglio vivere. Ho
soltanto ventun anni e ho così tante cose da fare: tanti
luoghi da vedere,
tanta musica da comporre, tanti palchi da calcare, tante persone da
conoscere e
stringere a me, tanti sorrisi da dispensare… ho
così tanto ancora da donare; è
una piccola fiamma che si ostina a rimanere accesa da qualche parte
dentro me,
ma che nessuno ha mai visto bruciare veramente.
Nessuno ha mai voluto vederla e lasciarsi scaldare da lei, o
forse sono io che sono sempre stato incapace di mostrarla.
Perché devo morire? Perché devo lasciare che un
soffio di
vento spenga anche quell’ultima fiamma?
Mi mordo il labbro nel tentativo di trattenere un gemito di
frustrazione e una lacrima solitaria mi scivola sulla guancia destra.
Non mi
ero nemmeno accorto di star per piangere.
Rimango per qualche istante a fissarla, così bella e fragile
sulla mia pelle, ha il potere di incanalare dentro sé tutta
la luce presente
nella stanza.
Sembra quasi surreale che quella graziosa goccia provenga
proprio da me. È talmente delicata che pare di cristallo.
Cristallo.
Se non fossi troppo stanco per sorridere, lo farei: quella
parola mi ricorda la mia Cheryl. Mi fa pensare a una frase che mi ha
detto una
volta: “Ives, tu sei come il cristallo. Così
splendente, raffinato, bello e
prezioso… ma basta un battito di ciglia per sporcare la sua
superficie, basta
un soffio perché si frantumi in mille pezzi. Tu hai la
stessa bellezza e la
stessa fragilità del cristallo”.
Sul momento ho ridacchiato e le ho preso una ciocca di
capelli tra le dita per giocarci un po’, ma successivamente
ci ho ripensato
tanto e forse, se le avessi dato retta, sarei riuscito a non finire in
pezzi.
Cheryl era così, pensava fuori dagli schemi: aveva
l’aspetto
di una fata e le idee di una poetessa, e in un modo o
nell’altro finiva sempre
per avere ragione.
Sembrava così indifesa e dolce, con i suoi vestiti ordinati
da brava ragazza, il trucco leggero, i capelli color caramello e gli
occhi
color miele; sembrava così innocente che avevo paura di
sporcarla e
contaminarla, di trascinarla con me giù nel baratro, ma non
mi sono reso conto
che in realtà era molto più forte di me.
Mi è rimasta accanto con pazienza quando ha scoperto che mi
facevo di eroina, anche se era spaventata a morte. Mi è
rimasta accanto anche
quando la mia dipendenza ha cominciato a risucchiarmi senza via di
scampo e io
pian piano mi dimenticavo di lei.
Mi è rimasta accanto anche quando ha saputo che avevo
l’AIDS,
anche se sapere che avevo i giorni contati la faceva star male, ma mi
amava
così tanto che si sacrificava per me.
Anche se io non l’ho mai meritato.
È per questo che anch’io la amo e per sempre la
amerò, fino
al mio ultimo respiro.
Così tanto che non potevo vederla morire insieme a me e le
ho chiesto di andare via, di non tornare mai più da me e di
trovare la felicità
con qualcuno che possa dargliela davvero.
E così ha fatto. Se n’è andata
piangendo e in preda ai sensi
di colpa, ma non mi è sfuggito il velo di sollievo che le ha
illuminato gli
occhi quando le ho detto che era libera.
Sono riuscito a diventare un peso anche per l’unica ragazza
che io abbia mai amato. Come biasimarla del resto? Così
giovane, piena di vita
e talento, stare dietro a un tossico malato e in fin di vita sarebbe un
fardello troppo grande per lei. Non glielo imporrei mai.
Un’altra persona – l’ennesima –
che esce dalla mia vita
portando con sé solo sofferenza e delusione. Ho deluso tutti
ormai, non è
rimasto più nessuno.
È proprio come quando ero un bambino, il re del
dolore:
ovunque io passi, porto solo tristezza e distruzione.
È rimasto solo Ethan, anche se non so perché. Io
e lui siamo
come fratelli, mi ha promesso che ci sarebbe sempre stato ed
è vero: mi ha dato
un luogo in cui vivere quando non avevo niente e nessuno, mi ha dato
una
famiglia quando la mia mi ha ripudiato, mi ha dato un sogno in cui
credere
quando ogni mia speranza era infranta ed è l’unico
che ancora mi sta accanto,
mi osserva mentre mi autodistruggo.
Ma sento che anche lui si sta stancando, non ne può
più:
certe volte rientra a casa, mi trova sul divano con lo sguardo vacuo e
una
siringa tra le mani e mi guarda come se sperasse di vedermi sparire
all’istante. Un tempo ero il suo fratellino,
adesso sono diventato un
peso anche per lui.
Io ci ho provato in tutti i modi, ho combattuto con le
unghie e con i denti per passare dalla parte dei buoni, dalla parte
della luce,
ma alla fine ci sono cascato: le tenebre da cui sono nato mi hanno
inghiottito
nuovamente. Sono riuscito soltanto a deludere tutti e fare del male.
Ha senso quindi continuare a vivere? Che senso ha ostinarsi
a tenere accesa quella fiammella traballante?
A chi importa se muoio? Sarà solo una liberazione per tutti.
Getto un’altra occhiata allo specchio: la lacrima si
è ormai
asciugata, lasciando solo una lieve traccia sulla pelle pallida. La sua
bellezza si è dissolta in fretta, come tutte le cose belle.
Era una lacrima fatta di cristallo, proprio come me.
Basta, per oggi ho pensato troppo.
Mi allontano dal lavandino, spengo la luce e mi trascino
fuori dal bagno sulle gambe traballanti. Non so nemmeno come io riesca
a stare
ancora in piedi.
Ora tornerò al mio divano, mi avvolgerò nella mia
lurida
coperta, mi sparerò una dose massiccia di eroina in vena e
dormirò.
Sperando che sia l’ultimo ago della mia vita. Sperando di
andare in overdose e non svegliarmi mai più.
Note:
Mi concedo un
piccolo angolino autrice per questo capitolo,
anche se in questa raccolta non sono solita inserirne.
Scrivere
questo capitolo in questo particolare periodo della
mia vita è stato semplicemente straziante. È
andato a calcare la mano su alcune
mie ferite troppo recenti per potersi rimarginare, mi ha fatto male e
forse
questo si riflette sul testo.
Ma
l’ho voluto fare, perché sentivo che mi serviva e
mi farà
a lungo andare star meglio. L’ho voluto affrontare, me lo
sono imposto, perché
ci tenevo troppo e perché so che mi avrebbe aiutato.
Certi demoni
si possono esorcizzare solo tramite la
scrittura, non credete?
Per i lettori
abituali di questa raccolta, volevo
semplicemente darvi delle spiegazioni sul ritardo
nell’aggiornare. Non mi sono
mai dimenticata di questa raccolta, anzi, mai come ora la sento vicina
e mia.
Ma passiamo
alle note più tecniche e quelle per il giudice.
A differenza
degli altri capitoli, qui ho dovuto dare un
titolo per esigenze del contest, ecco perché avete trovato
una sorta di
“sottotitolo”; a tal proposito, la citazione
iniziale fa parte del pacchetto da
me scelto, insieme al genere Drammatico e al prompt/oggetto
“cristallo”.
Elementi che mi hanno davvero tanto ispirato, grazie koopa!
Inserisco
qualche altra piccola annotazione per il giudice,
che potrebbe essergli utile dal momento che la storia fa parte di una
serie:
-
Quando Ives parla di
“musica da comporre e
palchi da calcare”, si riferisce alla band in cui lui suona
come bassista, i
Storm It Down; di questa band fa parte anche Ethan – il suo
migliore amico e
coinquilino – in veste di chitarrista.
-
La scena è
ambientata nel 1989, quando l’AIDS
era una minaccia costante e ancora non si conosceva nessuna cura
efficace per
trattarlo.
-
Ives ha avuto
un’infanzia burrascosa e
difficile, per questo dice che fin da piccolo ha sempre portato
sofferenza e
distruzione ovunque passasse.
Penso (e
spero) che tutti gli altri riferimenti si siano
capiti bene dal testo.
Grazie a tutti
coloro che sono giunti all’ultimo vero
capitolo della raccolta, spero di non essere stata troppo dura e non
avervi
scioccato.
Ma i
ringraziamenti veri e propri li farò nelle ultime NdA,
dopo l’epilogo ♥
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