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Autore: Soul Mancini    01/06/2020    6 recensioni
Frammento dopo frammento, giorno dopo giorno, la vita di Ives scivola via e la sua anima si spegne pian piano. Quell'anima che era così pura e luminosa, ma che come la fiammella di una candela tremola a ogni soffio di vento.
Dai suoi primi giorni di vita, una serie di momenti che l'hanno portato a bucare la sua pelle con l'ultimo, fatale ago.
[Il capitolo "VIII" si è CLASSIFICATO SESTO al contest "November Rain" indetto da MaryLondon e giudicato da Juriaka sul forum di EFP.]
[Il capitolo 'XII - Like a crystal tear' si è CLASSIFICATO SECONDO al contest "This is our place, we make the rules" indetto da mystery_koopa sul forum di EFP.]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Needles'
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XII
 
Like a crystal tear

 
 

 
 
 
I wake in the night, I pace like a ghost
The room is on fire, invisible smoke
[Taylor Swift – The Archer]
 
 
 
 
Schiudo le palpebre e i miei occhi pesanti si scontrano con l’oscurità. Li sento bruciare, prudere, pizzicare, come se un fumo denso e scuro li avesse investiti.
Che ore sono? Forse è giorno, forse è notte… ormai non le distinguo più, le imposte sono sempre ben chiuse e le tende tirate. È un’eterna notte, la mia.
Mi ci vuole qualche istante per realizzare ciò che mi sta accadendo: un violento accesso di tosse mi scuote il petto, mi fa tremare i muscoli e mi imperla la pelle di sudore.
Ancora. Di nuovo.
Non ho la forza di mettermi seduto, anche se i polmoni mi si strizzano nel petto e un forte senso di nausea mi assale.
Non lo faccio perché sono troppo stanco.
Tossisco, ancora e ancora. Mi brucia il petto, mi brucia il viso, mi brucia la gola. Mi sembra quasi di star affogando, annaspo in cerca d’aria, stringo i pugni e affondo le unghie nei palmi con forza.
Scatto a sedere nel tentativo di trovare un po’ di sollievo. Va leggermente meglio, anche se ho l’impressione che qualcuno mi stia schiacciando la gabbia toracica fino a togliermi il respiro.
Tento di prendere qualche respiro profondo e mi guardo attorno in questo mare di oscurità. Sono così stanco, distrutto; vorrei solo chiudere gli occhi e non riaprirli mai più.
Ma la tosse non mi vuole ancora lasciare in pace. Ormai è così ogni notte, ogni giorno, ci sono abituato e so esattamente ciò che devo fare per trovare un po’ di serenità.
Mi alzo vacillando e vengo colto da un capogiro. Respiro affannosamente, sento le orecchie bollenti e il mondo barcolla attorno a me. Sono costretto a posare una mano sullo schienale del divano per non rovinare a terra.
Ho caldo. Troppo caldo.
Ancora preda della tosse, mi dirigo con passo malfermo verso il bagno; mi chiudo la porta alle spalle e accendo le luci della specchiera – due lampadine su tre sono fulminate e l’unica superstite emana una luce fioca e lugubre, che si riflette sulla ceramica sudicia del lavandino.
Ethan fa fatica a stare dietro alla casa, a me, a tutto. A volte non ci torna proprio, a casa: sicuramente si sta stufando pure lui della mia malattia e di questa situazione, quando mi ha concesso di dormire sul suo divano momentaneamente non poteva immaginare che sarebbe andata a finire così.
Mi aggrappo al bordo del lavandino e ancora una volta mi abbandono ai colpi di tosse. Finché la vista non mi si appanna, finché le orecchie non sibilano e si ovattano, finché non sento più le gambe e il mondo sembra essere lontano anni luce. Tossisco fino a sfinirmi, finché le uniche sensazioni che riesco a percepire sono un vuoto all’altezza dei polmoni e un retrogusto amaro, quasi terroso, in gola.
Sono veramente stufo di vivere così. Si può chiamare vita, poi?
Deglutisco a vuoto e tiro un sospiro di sollievo quando mi accorgo che l’accesso di tosse si sta pian piano placando. Ho espulso il niente che avevo dentro e ora comincio a stare un po’ meglio.
Quando riacquisto un minimo di lucidità e riesco a tenere le palpebre aperte, anche se a fatica, noto che il lavandino si è riempito di schizzi rossastri.
Anche oggi ho tossito sangue. Come ogni giorno.
Apro il rubinetto e mi sciacquo il viso, qualche goccia mi finisce anche tra i capelli scarmigliati e unti. Mi lascio scivolare un po’ d’acqua in gola per tentare di placare il bruciore; non so nemmeno se sia potabile, ma poco importa, tanto devo morire. Se bevessi veleno non cambierebbe niente, anzi, mi aiuterebbe a farla finita nel minor tempo possibile.
Sento la testa pesante, ma ciononostante mi sforzo di sollevare il capo; la luce, per quanto soffusa, mi ferisce le pupille affaticate, ma a colpirmi ancora di più è il mio riflesso nello specchio.
Da quanto tempo non incrociavo il mio stesso sguardo? Da quanto tempo non vedevo il mio volto profondamente devastato?
Sembra quasi uno scherzo, a ben pensarci. Dov’è finito quel ragazzino dai lineamenti dolci e il sorriso radioso che ero un tempo? Chi è quest’estraneo che ha preso il suo posto, perfetto riflesso della malattia?
Faccio scorrere lo sguardo sulle guance scavate e diafane, che sotto la luce giallognola sembrano ancora più malate; lo poso sulle labbra sottili e secche, talmente fragili da sembrare sul punto di sciuparsi, e sulle rughe profonde che solcano la fronte. Osservo il modo raccapricciante in cui le mie ciocche corvine, lunghe e scomposte come mai lo sono state, ricadono pesanti attorno al mio viso scarno e piccolo, come un manto oscuro che rischia di schiacciarmi.
Un tempo queste stesse ciocche erano folte e morbide, incorniciavano un viso rotondetto e delicato, quasi infantile, con un sorriso che andava da un orecchio all’altro e le guance che si tingevano di rosa.
Infine mi guardo negli occhi e fa male, troppo male.
I miei occhi pesanti, contornati di rosso e iniettati di sangue e sofferenza; sempre allucinati e stralunati per via della droga, sempre più tristi, rassegnati, spenti. Le iridi hanno assunto il colore della burrasca, si sono fatte opache e prive di ogni sfumatura.
Quelle stesse iridi che fino a qualche anno fa erano di un azzurro brillante da fare invidia al cielo, emanavano una luce talmente intensa da fare invidia al sole. Mi ero ripromesso che quelle iridi avrebbero sempre sorriso, qualsiasi cosa fosse capitata, ma ho fallito.
Sento una fitta all’altezza del cuore, come una pugnalata, e sono costretto a distogliere lo sguardo, incapace di sostenerlo oltre.
E lo fisso sulle mie braccia pallide e magre da far spavento, ricoperte di croste, cicatrici e segni più o meno freschi di punture. Ormai non c’è più spazio per accogliere un altro ago, eppure troverò un modo per iniettarmi la prossima dose. Un modo lo si trova sempre, quando l’eroina che hai in circolo sta per esaurire il suo effetto.
Sollevo nuovamente il capo e strizzo appena le palpebre, irritato dalla luce della lampadina e dal mio stesso sguardo.
Non possono essere davvero i miei, quegli occhi arresi.
Improvvisamente vengo colto dalla consapevolezza che, per quanto il mio involucro esterno si mantenga ancora in vita, io dentro sono già morto. Non c’è più niente nella mia anima, il vero Ives non esiste più.
Sono morto nel momento in cui, stupidamente e ingenuamente, quasi per un capriccio, mi sono sparato la prima dose di ero in vena.
Poi, quando ho scoperto di aver preso l’AIDS, sono morto ancora di più.
Ed è tutta solo ed esclusivamente colpa mia.
A quel pensiero, un singhiozzo disperato mi scuote il petto e la gola. Come ci sono arrivato a questa condizione? Perché sono arrivato a farmi così tanto del male, fino a uccidermi?
Io non ho mai veramente voluto morire, io voglio vivere. Ho soltanto ventun anni e ho così tante cose da fare: tanti luoghi da vedere, tanta musica da comporre, tanti palchi da calcare, tante persone da conoscere e stringere a me, tanti sorrisi da dispensare… ho così tanto ancora da donare; è una piccola fiamma che si ostina a rimanere accesa da qualche parte dentro me, ma che nessuno ha mai visto bruciare veramente.
Nessuno ha mai voluto vederla e lasciarsi scaldare da lei, o forse sono io che sono sempre stato incapace di mostrarla.
Perché devo morire? Perché devo lasciare che un soffio di vento spenga anche quell’ultima fiamma?
Mi mordo il labbro nel tentativo di trattenere un gemito di frustrazione e una lacrima solitaria mi scivola sulla guancia destra. Non mi ero nemmeno accorto di star per piangere.
Rimango per qualche istante a fissarla, così bella e fragile sulla mia pelle, ha il potere di incanalare dentro sé tutta la luce presente nella stanza.
Sembra quasi surreale che quella graziosa goccia provenga proprio da me. È talmente delicata che pare di cristallo.
Cristallo.
Se non fossi troppo stanco per sorridere, lo farei: quella parola mi ricorda la mia Cheryl. Mi fa pensare a una frase che mi ha detto una volta: “Ives, tu sei come il cristallo. Così splendente, raffinato, bello e prezioso… ma basta un battito di ciglia per sporcare la sua superficie, basta un soffio perché si frantumi in mille pezzi. Tu hai la stessa bellezza e la stessa fragilità del cristallo”.
Sul momento ho ridacchiato e le ho preso una ciocca di capelli tra le dita per giocarci un po’, ma successivamente ci ho ripensato tanto e forse, se le avessi dato retta, sarei riuscito a non finire in pezzi.
Cheryl era così, pensava fuori dagli schemi: aveva l’aspetto di una fata e le idee di una poetessa, e in un modo o nell’altro finiva sempre per avere ragione.
Sembrava così indifesa e dolce, con i suoi vestiti ordinati da brava ragazza, il trucco leggero, i capelli color caramello e gli occhi color miele; sembrava così innocente che avevo paura di sporcarla e contaminarla, di trascinarla con me giù nel baratro, ma non mi sono reso conto che in realtà era molto più forte di me.
Mi è rimasta accanto con pazienza quando ha scoperto che mi facevo di eroina, anche se era spaventata a morte. Mi è rimasta accanto anche quando la mia dipendenza ha cominciato a risucchiarmi senza via di scampo e io pian piano mi dimenticavo di lei.
Mi è rimasta accanto anche quando ha saputo che avevo l’AIDS, anche se sapere che avevo i giorni contati la faceva star male, ma mi amava così tanto che si sacrificava per me.
Anche se io non l’ho mai meritato.
È per questo che anch’io la amo e per sempre la amerò, fino al mio ultimo respiro.
Così tanto che non potevo vederla morire insieme a me e le ho chiesto di andare via, di non tornare mai più da me e di trovare la felicità con qualcuno che possa dargliela davvero.
E così ha fatto. Se n’è andata piangendo e in preda ai sensi di colpa, ma non mi è sfuggito il velo di sollievo che le ha illuminato gli occhi quando le ho detto che era libera.
Sono riuscito a diventare un peso anche per l’unica ragazza che io abbia mai amato. Come biasimarla del resto? Così giovane, piena di vita e talento, stare dietro a un tossico malato e in fin di vita sarebbe un fardello troppo grande per lei. Non glielo imporrei mai.
Un’altra persona – l’ennesima – che esce dalla mia vita portando con sé solo sofferenza e delusione. Ho deluso tutti ormai, non è rimasto più nessuno.
È proprio come quando ero un bambino, il re del dolore: ovunque io passi, porto solo tristezza e distruzione.
È rimasto solo Ethan, anche se non so perché. Io e lui siamo come fratelli, mi ha promesso che ci sarebbe sempre stato ed è vero: mi ha dato un luogo in cui vivere quando non avevo niente e nessuno, mi ha dato una famiglia quando la mia mi ha ripudiato, mi ha dato un sogno in cui credere quando ogni mia speranza era infranta ed è l’unico che ancora mi sta accanto, mi osserva mentre mi autodistruggo.
Ma sento che anche lui si sta stancando, non ne può più: certe volte rientra a casa, mi trova sul divano con lo sguardo vacuo e una siringa tra le mani e mi guarda come se sperasse di vedermi sparire all’istante. Un tempo ero il suo fratellino, adesso sono diventato un peso anche per lui.
Io ci ho provato in tutti i modi, ho combattuto con le unghie e con i denti per passare dalla parte dei buoni, dalla parte della luce, ma alla fine ci sono cascato: le tenebre da cui sono nato mi hanno inghiottito nuovamente. Sono riuscito soltanto a deludere tutti e fare del male.
Ha senso quindi continuare a vivere? Che senso ha ostinarsi a tenere accesa quella fiammella traballante?
A chi importa se muoio? Sarà solo una liberazione per tutti.
Getto un’altra occhiata allo specchio: la lacrima si è ormai asciugata, lasciando solo una lieve traccia sulla pelle pallida. La sua bellezza si è dissolta in fretta, come tutte le cose belle.
Era una lacrima fatta di cristallo, proprio come me.
Basta, per oggi ho pensato troppo.
Mi allontano dal lavandino, spengo la luce e mi trascino fuori dal bagno sulle gambe traballanti. Non so nemmeno come io riesca a stare ancora in piedi.
Ora tornerò al mio divano, mi avvolgerò nella mia lurida coperta, mi sparerò una dose massiccia di eroina in vena e dormirò.
Sperando che sia l’ultimo ago della mia vita. Sperando di andare in overdose e non svegliarmi mai più.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Note:
Mi concedo un piccolo angolino autrice per questo capitolo, anche se in questa raccolta non sono solita inserirne.
Scrivere questo capitolo in questo particolare periodo della mia vita è stato semplicemente straziante. È andato a calcare la mano su alcune mie ferite troppo recenti per potersi rimarginare, mi ha fatto male e forse questo si riflette sul testo.
Ma l’ho voluto fare, perché sentivo che mi serviva e mi farà a lungo andare star meglio. L’ho voluto affrontare, me lo sono imposto, perché ci tenevo troppo e perché so che mi avrebbe aiutato.
Certi demoni si possono esorcizzare solo tramite la scrittura, non credete?
Per i lettori abituali di questa raccolta, volevo semplicemente darvi delle spiegazioni sul ritardo nell’aggiornare. Non mi sono mai dimenticata di questa raccolta, anzi, mai come ora la sento vicina e mia.
Ma passiamo alle note più tecniche e quelle per il giudice.
A differenza degli altri capitoli, qui ho dovuto dare un titolo per esigenze del contest, ecco perché avete trovato una sorta di “sottotitolo”; a tal proposito, la citazione iniziale fa parte del pacchetto da me scelto, insieme al genere Drammatico e al prompt/oggetto “cristallo”. Elementi che mi hanno davvero tanto ispirato, grazie koopa!
Inserisco qualche altra piccola annotazione per il giudice, che potrebbe essergli utile dal momento che la storia fa parte di una serie:
-      Quando Ives parla di “musica da comporre e palchi da calcare”, si riferisce alla band in cui lui suona come bassista, i Storm It Down; di questa band fa parte anche Ethan – il suo migliore amico e coinquilino – in veste di chitarrista.
-      La scena è ambientata nel 1989, quando l’AIDS era una minaccia costante e ancora non si conosceva nessuna cura efficace per trattarlo.
-      Ives ha avuto un’infanzia burrascosa e difficile, per questo dice che fin da piccolo ha sempre portato sofferenza e distruzione ovunque passasse.
Penso (e spero) che tutti gli altri riferimenti si siano capiti bene dal testo.
Grazie a tutti coloro che sono giunti all’ultimo vero capitolo della raccolta, spero di non essere stata troppo dura e non avervi scioccato.
Ma i ringraziamenti veri e propri li farò nelle ultime NdA, dopo l’epilogo ♥
 
 
   
 
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