A te, mai di _EverAfter_ (/viewuser.php?uid=543122)
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Petra
non era mai stata una ragazza degna di un certo rilievo. Non aveva
nulla che potesse far presagire un talento nascosto, né
possedeva qualità singolari da stimare. Aveva passato gran
parte del tempo sui libri, ma non era una letterata. Sapeva essere
molto arguta, ma non possedeva il carisma per poter prendere decisioni
da sola. Si nascondeva dietro la placida facciata
dell’ignavia, celando quell’insicurezza
ch’era insita nella sua indole e che odiava con tutta sé
stessa.
Petra era una persona banale. Esattamente come quelle di cui ci si
dimenticava il nome non appena si stringeva loro la mano. Non che il
suo nome importasse a qualcuno, comunque.
Eppure, il suo sorriso piaceva a tutti. Era leggermente storto,
bianchissimo e appariva sempre nei momenti in cui non ci sarebbe stato
proprio nulla da sorridere. Petra non lo faceva certo con leggerezza:
era cresciuta con l’amore dei propri genitori, che
l’avevano amata con la stessa dedizione con cui ci si
occupava d’un fiore. Ella, così pregna di spirito
e raggiante, appariva a tutti come uno dei giacinti che crescevano
spontanei all’esterno delle mura, quelli ch'erano
così colorati ch’era impossibile non soffermarsi
sulla loro sgargiante sfumatura, prima d’affidar la mente
alla missione.
Durante la cerimonia di diploma, Petra ascoltò ogni singola
parola che uscì dalla bocca tesa del comandante del Corpo di
Ricerca, chiedendosi spesso come mai non riuscisse a muovere le gambe
per fare marcia indietro ed unirsi allo stuolo di compagni che aveva
scelto d’abbandonare il discorso a metà. Non
ricordava se fosse stato per lo sguardo deciso di Keith Shadis o se
ciò
fosse dovuto alla paura che le aveva congelato ogni nervo. Tuttavia,
alla fine dell’accorata perorazione, lei era una dei pochi
rimasti davanti agli arazzi con sopra i tre stemmi, dove saettava con
incredibile potenza il simbolo del Corpo di Ricerca.
Sorrise anche in quel momento, Petra. Perché, nonostante
fosse terrorizzata e le lacrime iniziassero già a
imbrattarle le guance, sapeva che quella era stata la scelta
più giusta da fare, sebbene non quella più
razionale. Era consapevole di non possedere alcuna caratteristica che
potesse esser d’aiuto ai silenziosi eroi che ogni giorno
rischiavano la vita per la gente dentro le mura, la quale non perdeva
mai occasione di sbeffeggiarli o d’accusarli della morte dei
propri cari. Era certa che suo padre sarebbe stato uno di loro.
Persino quando tese le braccia accettando l’uniforme stirata
e lucida che l’era stata data, Petra si chiese cosa ci
facesse lì e perché avesse scelto di consacrarsi
ad una causa per cui non sarebbe mai riuscita a dare un contributo.
Trotterellò al fianco d’Auruo che le appariva
stranamente rilassato, avvolto nella leggera mantella verde con sopra
le Ali della Libertà. Si chiese se anche lei sarebbe mai
potuta apparire così dignitosa in quelle vesti, ma non
appena provò a domandarlo al suo compagno d’armi,
si ritrovò a fissare lo sguardo profondo dell’uomo
di fronte a loro: era basso, ma nonostante la sua statura possedeva
un’aura intensa e distaccata, come se niente potesse
sfiorarlo. Quegli occhi blu erano affilati e torbi, così
imperscrutabili da non riuscire neppure a distinguere il sottile
confine tra l’iride e la pupilla. Impettito
nell’uniforme dell’Armata Ricognitiva,
quell’uomo li studiava come se si trovasse di fronte ad un
complicato rebus.
Auruo, molto composto, s’accinse ad un lesto saluto,
portandosi la mano destra stretta a pugno al torace e la mano sinistra
dietro la schiena, mentre affermava con voce seria e istituzionale: ―
Capitano Ackermann. Il mio nome è Auruo Bossard.
Petra, che non era molto avvezza ai gradi dell’esercito, si
limitò a copiare il gesto del suo accompagnatore, chinando
leggermente il capo per evitare d’incrociare quello
sguardo severo e irremovibile. Ancora si chiedeva cosa diavolo ci
facesse lì, e mentre s’interrogava senza trovar
risposta alcuna, sentì delle dita gelide premersi contro il
suo mento, obbligandola ad alzare la testa. Incrociò
nuovamente le iridi blu, deglutendo con evidente disagio la saliva che
s’era accumulata nella sua bocca a causa della tensione. Vide
il capitano allontanare la mano da lei e sfregarsi le dita incriminate
con il pollice, nel plateale gesto di pulirsele dallo sporco. Non che
il suo mento fosse sudicio, ma si trattenne dal dirglielo per evitare
d’indisporlo.
― P-Petra Ral ―, biascicò tesa.
Il capitano Levi la squadrò per qualche istante, prima di
prorompere in un baritonale: ― Cosa ci fai tu qui?
Trattenne a stento una risata. Effettivamente, anche lei continuava ad
interrogarsi su cosa ci facesse lì una mocciosa che non
aveva mai saputo nulla del
mondo, ch’era cresciuta alla placida ombra dei filari dei
pioppi, nella fattoria dei suoi dov’era solita combinar
magagne. A ben pensarci, non era neanche mai stata molto brava a montar
in sella ad un ciuco pezzato che serviva per il giogo, per non parlare
di tutte le volte in cui aveva provato ad arrampicarsi sugli alberi,
col rischio di ritrovarsi col collo spezzato e le ossa fracassate.
― Non lo so, signore, ― rispose con bizzarra serenità, ― me
lo sto chiedendo spesso.
Petra era solita dire sempre la verità, poco importava
quanto potesse esser dura. Quella sincerità disarmante aveva
significato un costante problema perfino durante
l’addestramento, quando s’era ritrovata
più d’una volta ad ammettere davanti ai suoi
compagni che lei del movimento tridimensionale non ci capisse poi
granché, venendo poi costretta dal proprio istruttore al
doppio degli allenamenti. Poteva essere un impiccio gravissimo, ma in
cuor suo sapeva ch’era giusto così. Giusto.
― Credo di essere qui perché è giusto
così. ― Quelle parole le uscirono dalla bocca senza neanche
poterle mettere in fila in modo dignitoso, mostrandola per la solita
contadinotta spontanea ch’era cresciuta in campagna, lontano
dalle formalità. Sorrise, com’era solita fare nei
momenti difficili: avrebbe avuto l’ennesima lavata di capo e
si sarebbe scusata. Non sarebbe certo stata la prima volta.
Eppure, il capitano Levi le concesse una lieve inflessione dello zigomo
destro, limitandosi a dirle: ― È una buona risposta.
Petra lo seppe solo più avanti: quella smorfia sul volto del
capitano Levi era, in realtà, l’unico modo che
conosceva per sorridere.
Petra
non seppe mai dire quando fosse accaduto.
Un giorno, durante la consueta pulizia del dispositivo di manovra,
Hanji Zoe le si parò davanti, aggiustandosi gli occhiali che
aveva sul naso, così spessi da sembrarle due fondi di
bottiglia. La scrutò con curiosità,
com’era solita fare coi giganti durante le spedizioni fuori
le mura. Quando quello sguardo entusiasta si posava su qualcosa, era
difficile che non ne scoprisse ogni minuscolo particolare. Era successo
anche quel giorno.
― Petra, ― civettò maliziosa, ― per caso ti piace il
capitano Levi?
La ragazza non rispose; non perché non volesse, ma
semplicemente perché non aveva idea di quale fosse la
verità. Quando andava ancora a scuola, ricordava
d’aver trovato piacevole la compagnia di Phineas Locke, un
suo coetaneo che veniva spesso preso in giro per via dei suoi chili di
troppo. A lei non dispiaceva affatto il volto dell’amico,
sempre paonazzo e rotondo come quello d’una pagnotta di pane
ben impastata. Se si fosse sforzata, sarebbe stata in grado persino di
rammentar la scena in cui Phineas le aveva chiesto
d’accompagnarlo alla sagra della verdura. Petra aveva
accettato, ma non certo perché ricambiasse i genuini
sentimenti del compagno di classe.
Col capitano era diverso: per quanto inflessibile e serio, era un uomo
ch’era cresciuto con un’unica costante nella vita,
quella di poter cambiare il mondo attraverso le sue azioni, il suo modo
di fare. Austero e solitario, Levi non era altro che il frutto
d’una vita misera e irta di pericoli, attraverso la
quale s’era fatto spazio con la forza, imponendosi su un
destino che, forse, era già stato tracciato.
Capitava sovente che si ritrovasse a fissarlo senza una ragione
precisa, specie durante la sera, nel breve tempo che passavano tutti
assieme; lo guardava di sottecchi, stando ben attenta a non farsi
notare d’Auruo ch’era sempre un po’
troppo avvezzo a prenderla in giro, trascinando in quel ridicolo
teatrino anche Gunther ed Erd. Levi, nonostante gli schiamazzi, se ne
rimaneva zitto, con la tazza di ceramica imprigionata dalle dita. Era
una cosa che la ragazza aveva sempre trovato molto insolita: avrebbe
potuto afferrarla per il manico, esattamente come facevano tutti. Ma
lui no, l’abbrancava con ogni singola falange, in una morsa
che le ricordava quella dei boa quando attaccavano la propria preda.
Quei dettagli, che sembravano non importare ad alcuno, per lei
divennero così cari da ritrovarsi più di una
volta ad arrossire per aver indugiato troppo con lo sguardo su scene
del tutto banali: così tratteneva il respiro a lungo se il
capitano la chiamava per nome, oppure s’imbarazzava quando le
riconosceva dei meriti. Smise di credere che le importasse davvero il
passato del suo superiore; di fronte al vociare rappreso dei giovani
cadetti, si convinse che i trascorsi di Levi non avessero alcuna
rilevanza e che, supponendo che le storie su di lui fossero vere, i
fiori più belli nascessero sempre dal letame.
Era la prima volta che si sentiva così. Nessuno le aveva mai
spiegato cosa significasse l’amore in senso stretto,
né lei s’era mai soffermata sulla questione. Petra
era sempre andata molto fiera del suo pragmatismo, per cui le
risultò spiacevole comprendere d’essere finita
dritta nelle grinfie d’un sentimento che non sembrava portare
a nulla di buono – v’erano stati addirittura dei
giorni durante i quali il capitano s’era lamentato della sua
attitudine a sostar tra le nuvole senza che ve ne fosse la ragione.
Qualche notte accadeva che non fosse in grado di dormire, troppo presa
ad immaginare come ci si potesse sentire ad aver il permesso di
camminare al fianco del proprio capitano non come soldato, ma come
donna. S’interrogava, ma non trovava risposta alcuna, ed il
giorno dopo Levi la sgridava per i profondi cerchi opachi che le
solcavano il volto.
Si vergognava sempre molto della sua condotta, tanto che a volte si
sforzava di sorridere solo per non far preoccupare i compagni, che la
scrutavano impensieriti, certi che fosse malata. Se avessero saputo di
quale patologia soffrisse il buon cuore di Petra, forse
l’avrebbero presa in giro, invece che allarmarsi.
― Come lo sai? ― domandò infine ad Hanji, ché non
era proprio in grado di mentirle.
La camerata scrollò le spalle, accennando un sorriso che
appariva più simile al ringhio d’una iena.
―È semplice. Arrossisci quando ti guarda, eviti
d’incrociare il suo sguardo quando ti parla e non riesci a
dormire la notte.
― E allora?
― E allora quando sei innamorato non riesci mai a dormire.
― E perché?
― Perché la realtà è migliore dei
sogni, ― rispose con entusiasmo Hanji, sbottando poco dopo in una
risata sguaiata, ― non dirmi che non sei mai stata innamorata prima.
Petra scosse il capo, in parte imbarazzata per la spontanea ammissione.
Non era ancora in grado di scorgere la parte più dolce del
nobile sentimento, perché quei mal di testa dovuti alla
mancanza di sonno e lo stato confusionario in cui precipitava ogni
volta che si parlava del capitano erano come spine che le
attraversavano il cranio da parte a parte.
Quando sei innamorato
non riesci a dormire perché la
realtà è migliore dei sogni. Ma come
diavolo
poteva esser vero, in un mondo nel quale la realtà era di
dover agire con la costante paura d’esser divorati vivi?
Poteva davvero esser così semplice?
Certo, era la
spiegazione più ovvia, seppur quella più folle.
Perché Petra, ch’era così poco esperta
del mondo, s’era ritrovata a combatter giganti senza neppure
imparare a fare i conti con il coraggio della paura. Il capitano Levi,
che del mondo invece sapeva molto – forse troppo –
era stato la ragione che le era servita per trovare il suo, di
coraggio. Quello di cui aveva sempre difettato da piccola, non capendo
come si potesse smettere di aver timore, giungendo alla conclusione
più banale: il coraggio non era affatto la mancanza di
paura, ma la consapevolezza che esistesse qualcosa di più
importante di essa.
Forse cominciò tutto da quell’istante. E, col
tempo, la riconoscenza per quel sottaciuto insegnamento divenne
ammirazione, quell’ammirazione progredì in
affetto. E quell’affetto giunse poi ad aprirle le porte del
cuore.
Difatti, quando Petra pensava a Levi, lo faceva con tale
intensità da ritrovarsi – oltre alla mente in
subbuglio – con delle allucinanti fitte allo stomaco che le
impedivano d’affrontare qualsiasi tipo di conversazione che
avesse un minimo di senso compiuto, limitandosi la maggior parte delle
volte ad annuire oppure a scuotere il capo.
Bizzarro,
sì.
I giganti che combatteva ogni giorno avevano solamente degli
esseri
umani, nello stomaco. Lei invece aveva le farfalle, anche se le pareva
che fossero più dei colibrì: non sapeva che
potessero sbattere le ali in quel modo.
Proprio perché incapace di raccontar frottole, si convinse
ben presto a parlarne con Auruo, il quale non si risparmiò
dalle solite facezie con cui era solito sbeffeggiarla. Tuttavia,
nonostante il compagno fosse un buontempone e sempre pronto a cogliere
il minimo ghiribizzo per ironizzare sulla sua prima cotta, Petra sapeva
che non esisteva persona più affidabile di lui per mantenere
un segreto. Ciò che rimaneva da fare, dunque, era capire
come dirlo al diretto interessato.
Prese carta e calamaio dal piccolo scrittoio della sua stanza. Le prime
parole che scrisse furono “Caro papà, ho bisogno
di un tuo consiglio”.
Petra
non era molto brava con le parole. Durante l’addestramento
era stata spesso rimproverata per la sua scarsa attitudine alle
relazioni scritte, che si sommava all’incapacità
di dettagliare a fondo un rapporto ben stilato. Tuttavia, da quando il
capitano Levi l’aveva scelta per far parte della Squadra
Operazioni Speciali, s’era esercitata ogni giorno, scendendo
a patti con quel rosso borgogna che le permeava le guance ogniqualvolta
il comandante si rivolgeva a lei per avere delucidazioni sulla
situazione.
Aveva fatto luce su ciò che provava per lui, convenendo che
poteva trattarsi solamente di quel
sentimento. Eppure, non
l’aveva mai apertamente ammesso, ridicolizzandolo come una
banale cotta.
― Ma perché non glielo dici? ― le domandò un
giorno Auruo, che – non ne comprendeva la ragione –
aveva preso l’abitudine d’imitare il loro capitano.
― Che c’è, ti vergogni?
No, la ragazza non si vergognava affatto, al contrario: per tutte le
notti insonni passate al chiarore d’una sottile candela, per
quelle farfalle che sembravano svolazzare come colibrì nello
stomaco e per il vago senso di nausea che provava ogni volta che
tentava di accennare alla cosa, avrebbe voluto dirglielo persino in
quel momento. Eppure, non l’aveva fatto neanche quella volta.
― Non è il momento, ― si limitò a dire,
sorridendo, ― ci saranno occasioni migliori. ― Petra lo pensava
veramente, anche se una piccola parte di sé, quella
più avara e forse un po’ egocentrica, continuava a
credere che fosse un’idiota. In un mondo dove tutti erano in
bilico su una corda sospesa, la ragazza sapeva molto bene quanto
semplice fosse cadere e sprofondare nelle arcuate zanne dei giganti.
Eppure continuava a temporeggiare, giustificando quel suo modo
d’agire come il più corretto: il capitano Levi non
aveva tempo da perdere dietro i suoi patetici piagnistei da fanciulla
innamorata.
Petra, come molti, aveva anteposto la vocazione per la
libertà al suo esser donna, consacrandosi alla stessa causa
dell’uomo che amava. Non l’aveva fatto per lui, ma
per sé stessa; per dimostrare che, per quanto fosse consapevole
d’essere una persona banale e senza alcun talento, anche lei
esisteva.
In quel momento, carezzando col pollice lo stemma delle Ali della
Libertà ch’era ricamato sulla giacca, si concesse
una lieve smorfia di rammarico, di quelle che riusciva a fare solo
quand’era sola. Non v’era poi molta differenza, tra
lei e le farfalle che sentiva agitarsi nello stomaco
nell’istante in cui
pensava a lui: entrambe, se avessero potuto, avrebbero spiccato il
volo, ma erano vincolate ad una gabbia.
Per le farfalle quella gabbia era lei. Per lei era la divisa
che portava addosso e l’insieme di quell’elaborato
ricamo era ciò che le ricordava chi fosse, per quale ragione
combattesse. Per quanto fosse doloroso, aveva imparato ad accettarlo,
limitando il tempo che passava da sola col capitano e imponendosi di
mantenere un rigido contegno in sua presenza.
A lungo andare, persino l’idea di dichiararglisi
s’era fatta più fioca, fino al giorno in cui il
comandante Erwin non annunciò la Cinquantasettesima
Spedizione fuori dalle mura. Si presentò dalla mattina di
buonora, illustrando magistralmente il piano e la formazione che
avrebbe scortato Eren. Petra non fu affatto sorpresa di ritrovare il
suo nome scritto accanto a quello dei compagni più grandi:
per quanto onorata della cosa, un bizzarro presentimento sembrava
ammonirla su ciò che sarebbe potuto accadere.
Rimase persa in quei pensieri fino a tarda sera, mentre tutti erano
già andati a dormire. C’era qualcosa che non le
tornava in quel piano, eppure non era stata così arrogante
d’azzardarsi a chiedere spiegazioni. Da buon soldato, si
limitava ad obbedire agli ordini ed era certa che avrebbe fatto
così anche in quella missione. D’altronde, il suo
compito era quello di proteggere Eren a qualsiasi costo.
Fece per alzarsi, vittima della stanchezza e del nervosismo che la
coglievano sempre durante le notti prima delle spedizioni. Quando si
voltò, ad aver richiuso accuratamente la porta dietro le sue
spalle c’era il capitano Levi.
― Capitano Levi ―, disse, con la solita ufficialità con cui
aveva imparato a porsi.
― Petra. ― Il tono del suo superiore sembrava meno arcigno del solito.
― Non dovresti essere già a letto?
Una piccola parte di sé si compiacque di quella domanda,
pensando che fosse un modo per manifestare la propria preoccupazione.
Rigettò subito il placido tepore che sentì
giungerle sugli zigomi, limitandosi a rispondere: ― Non riuscivo a
dormire. Ho pensato di prendere un infuso.
Levi la squadrò col suo solito sguardo impassibile. ― Sembri
nervosa.
― Lo sono, signore ―, mormorò, dimenticandosi per un istante
di giocare al soldato.
― Per quale ragione?
Quella era forse la conversazione più lunga che avessero
avuto da quando Petra era entrata a far parte della sua squadra.
Pensò che vi fosse dell’ironia in quella domanda:
lei, che s’era affaticata ad occultare ciò che
provava per tutto quel tempo, non era riuscita a nascondere la banale
paura di una missione qualunque. Provava un vago senso di
pietà per sé stessa ed un ignominioso imbarazzo per quello
sguardo blu che ancora s’ostinava a fissarla, forse in attesa
d’una risposta.
― Ve n’è più d’una, in
realtà.
― Ti ascolto.
Avrebbe potuto dirglielo, Petra. Era l’occasione migliore,
quella che aveva sempre atteso e che non sarebbe tornata mai
più. Il caso le aveva offerto
l’opportunità più ghiotta, quella di
potergli dire la verità; che lei era divenuta un buon
soldato per renderlo fiero, che aveva finalmente compreso il suo posto
e che l’aveva potuto capire solamente grazie a lui. Che lo
amava, di quell’amore viscerale e puro che però
non possedeva l’egoismo d’esser visto e
ch’era rimasto silente per il suo bene. Ma soprattutto
avrebbe potuto confessargli che era stanca di dover mentire, proprio
lei che aveva sempre detto la verità.
― Capitano Levi. ― Ti amo.
― Domani le prometto che farò del
mio meglio.
Petra chinò leggermente il capo in segno di saluto,
congedandosi l’istante dopo. Non gli diede neppure il tempo
di replicare, mentre s’affrettava per le scale, richiudendosi
l’uscio della stanza dietro le spalle. Si lasciò
cadere sul pavimento, con la schiena a tener compagnia al legno grezzo
della porta; pianse, ma senza far rumore, ché aveva paura di
svegliare i suoi compagni. Non ricordò neppure quante volte
s’accusò d’essere una sciocca, mentre le
farfalle riprendevano a volarle nello stomaco e la gola tratteneva il
tormento per delle grida che avrebbe voluto sputar via, anche solo per
placare il dolore che s’era posato sul diaframma contratto
dai singhiozzi.
E si consolò solamente al pensiero che, forse, vi sarebbero
state altre occasioni come quella. In fondo, erano solo due semplici
parole che non aveva il coraggio di pronunciare.
Le stesse parole che non sarebbe più stata in grado di
dirgli.
Quando
sei innamorato non riesci a dormire perché la
realtà è migliore dei sogni.
Era strano che, ad un passo dalla morte, le tornasse in mente proprio
quella frase. Eppure, durante i suoi ultimi respiri, non
riuscì
a fare a meno di pensare a quanto quelle parole rappresentassero una
vacua idiozia: se si fosse trovata nei beati vagheggiamenti della sua
mente, in quel momento non sarebbe stata di certo schiacciata da un
gigante. Con lei ci sarebbe stato Levi e l’avrebbe salvata.
Lei
gli avrebbe detto che era innamorata di lui e –
chissà
– forse lui avrebbe ricambiato i suoi sentimenti. Si
sarebbero
sposati, avrebbero potuto ritirarsi dal Corpo di Ricerca e vivere una
vita tranquilla, un po’ come quella dei suoi genitori. Certo,
un
sogno sarebbe stato molto meglio.
Peccato che quello non fosse affatto un sogno. Di fronte
all’enorme piede che si avvicinava pericolosamente a lei,
Petra
era solo in grado di rammentare la scena di Erd ch’era stato
appena spezzato in due dalla fitta dentatura del gigante biondo, mentre
la parte più razionale di lei s’ostinava ancora a
trovare
un modo per sottrarsi al calcio che presto l’avrebbe travolta.
Ancora una volta, la sua vita dipendeva da degli attimi. Attimi che
aveva sprecato, occasioni non colte e momenti di stallo in cui
s’era convinta che sarebbe andata bene così.
S’era
limitata a sorridere allegramente, a tranquillizzare i giovani cadetti.
Aveva detto ad Eren di fidarsi, ch’era tutto a posto. Aveva
mentito ancora, ma questa volta senza che lo sapesse.
D’improvviso, quella paura ch’era diventata tanto
brava a
nascondere, proruppe in tutta la sua immensa potenza, facendole tremare
le mani che stringevano l’impugnatura del movimento
tridimensionale e inumidire gli occhi. Petra non voleva morire, ma
sarebbe accaduto comunque, con o senza la sua volontà.
Si ritrovò ancora una volta a ripensare a tutto quello che
le
mancasse ancora da fare, e non riuscì a trattenere la pena
nell’istante in cui s’accorse che non avrebbe mai
più potuto rivedere il suo capitano.
Una parte di
sé
aveva ancora la forza di vergognarsi per quella missione che non
sarebbe mai stata portata a termine. Sperò, in cuor suo, che
Levi riuscisse a trovare la forza di perdonarla. Di perdonarli tutti,
quei sottoposti che avevano perso la vita esattamente come lui aveva
comandato di fare qualora Eren si fosse trovato in pericolo.
Petra ci aveva creduto davvero a quell’ordine. Per questo
aveva
la forza di portarlo a termine, persino nel momento in cui
osservò l’ammasso di muscoli che rivestiva il
piede del
gigante appressarsi sempre più spietato alla sua figura, che
appariva più minuta del solito.
Avrebbe avuto molti rimpianti, questo lo sapeva. S’era
lasciata
scivolare dalle mani una vita pusillanime e piena di cose che aveva
consapevolmente scelto di non fare. Aveva lasciato che fossero gli
altri a decidere per lei e s’era allontanata sempre
più
dalla vera sé solo per avere la facoltà di
mostrare al
mondo che bravo soldato fosse.
Eppure, in quell’istante la
figura
eroica del milite a cui aveva sempre aspirato sembrava sfocarsi, come
sfocati erano i suoi occhi velati di lacrime. Doveva capirlo durante la
cerimonia di diploma: gli eroi erano già tutti morti.
Sentì una forza sovrumana spingere contro la sua schiena,
mentre
in lontananza Auruo le gridava qualcosa che le sue orecchie non avevano
più l’abilità di sentire.
Sentì il corpo,
divenuto più pesante, avvicinarsi pericolosamente ad un
albero a
causa dell’urto. Mancavano secondi, forse frazioni di
secondo. Lo
schianto l’avrebbe uccisa sul colpo, eppure Petra si
dimenticò d’aver paura.
Ripensò alla sera precedente, alla mancata occasione di
poter
rivelare al capitano i suoi sentimenti. E si tranquillizzò
al
pensiero di non avergli detto niente, perché sarebbe stato
davvero patetico ammettere d’essere innamorata di lui e
morire in
quel modo rozzo e privo di valore. Era convinta che Auruo
l’avrebbe presa in giro persino da morta. Dopotutto, lei lo
avrebbe fatto.
Nonostante la serenità con la quale scelse
d’arrendersi
all’ormai palese destino, Petra non riuscì a
mentire a sé
stessa: sentiva le lacrime solcarle le guance e i singhiozzi
appropriarsi dell’esofago, mentre ripensava a quanto le
sarebbe
piaciuto stare con Levi, poter condividere il suo tempo insieme a lui,
scoprire l’uomo e non il superiore ch’era sempre
stato.
Se
la morte fosse stata benevola, forse le avrebbe concesso di vivere
all’interno del bel sogno ad occhi aperti che s’era
appropriato dei suoi ultimi istanti di vita. Petra, in fondo, era una
ragazza che non sarebbe mai stata donna, che non avrebbe mai conosciuto
l’amore. Era consolante saper almeno di poter scegliere in
quale
illusione perdersi per sempre.
Non ebbe il tempo di chiudere gli occhi,
mentre il corpo si schiantava contro l’albero secolare e il
collo
le si spezzava. L’ultima cosa che percepì fu un
urlo lontano e
indistinto.
Forse era di Auruo. O forse di Eren, non avrebbe saputo dirlo.
Chissà cos’avrebbe detto suo padre, nel saperla
morta.
Doveva ancora ricevere la lettera di risposta a quella in cui gli
spiegava cosa provasse per il capitano Levi, e della scelta di
consacrare la sua vita a lui e alla causa del Corpo di Ricerca. Il
sigillo recava ancora la cera laccata con lo stemma delle Ali della
Libertà. Quelle ali che, ormai, le erano state recise.
Sperò che il suo adorato capitano non dovesse vederla in
quel
penoso stato: voleva che la ricordasse com’era solita essere,
col
sorriso raggiante e dai modi cordiali, invece della brutta copia
d’un insetto spiaccicato malamente contro una quercia
secolare.
Tuttavia si disse che, se fosse stato così necessario esser
paragonata ad un
insetto, non le sarebbe dispiaciuto somigliare ad una farfalla.
A te, mai.
FINE
✤ Lo
sclero di
ℰver
✤
Penso
che ormai lo sappiate, per cui non vi è davvero bisogno che
ripeta in continuazione quanto sia inevitabilmente attratta dal dramma
- sono pesante, lo so.
A
dirvela
proprio tutta, non sono una simpatizzante della Rivetra, eppure adoro
entrambi i personaggi, in particolare Petra. Mi è sempre
piaciuta, non saprei se per quel suo atteggiamento sempre cordiale e un
po' trasognante oppure per la sua incredibile lealtà nei
confronti del suo capitano. Non so voi, ma tuttora quando ripenso a
quella scena mi viene un magone allucinante.
Mi
sono detta che scrivere qualcosina su di loro non fosse poi
così male, e d'improvviso sbuca il fantastico contest di Zukiworld,
"Le
quattro fasi dell'amore",
e la prima cosa a cui ho pensato è che capitasse davvero a
fagiolo. Il perché è molto semplice: volevo
raccontare la
storia di Petra, i suoi pensieri e quella che considero la dedizione
più bella all'interno di tutto L'attacco dei Giganti.
Mi
piace sempre
dare un po' di spazio a quei personaggi che sono rimasti dietro le
quinte, per cui diciamo che questa storia è nata
dall'esigenza
di parlare di una giovane donna alla sua prima cotta. Petra era l'unica
che si prestasse davvero bene a questo scopo.
Perciò
eccoci qua. Il titolo
è un richiamo alla famosa frase: "A te, fra 2000 anni"
che è presente sia nell'anime che nel manga. Volevo trovare
qualcosa di breve, ma che fosse in grado d'esprimere a pieno
l'impossibilità di Petra di dichiararsi a Levi. Non so se
sia
riuscita nell'intento, ma comunque questo è quello che
è
uscito xD.
Spero
davvero che questa storia sia piaciuta a qualche anima in pena qui nel
fandom! *^*
A
presto,
_EverAfter_
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