Ira
«Buongiorno, parlo col
detective Espinoza? Sono Jane Valdez: mi aveva detto di contattarla se
avevo delle novità. Ecco, è tornata la figlia di Rebecca Lapp,
da sola».
«È strano», mormorò Daniel,
chiudendo la comunicazione, «come può una bambina girare da sola, di
notte, in una città come Los Angeles?»
«Vostra figlia c’è
riuscita», obiettò Lucifer, riferendosi ai due episodi in cui la
bambina era uscita di soppiatto da casa della madre per raggiungerlo
al Lux.
«Ma la figlia di Rebecca è
più piccola», convenne Chloe, battendo ritmicamente l’indice contro la
bocca.
«Questo significa che il
nostro ofiologo pederasta abita in zona», decretò
Lucifer.
«Mmm... non credo: questo
tipo di “commmercio” è piuttosto esoso e quello non è un quartiere
benestante», riflettè Chloe.
«A meno che l’acquirente non
abbia scelto un posto lontano dalla sua abitazione: c’è un piccolo
parco lì vicino», copnsiderò Dan.
«Quando devi incontrare un
informatore, ti porti dietro Nagini?» Lo beffeggiò Lucifer.
Questo era troppo! Daniel si
parò davanti a Lucifer con le mani sui fianchi e sebbene l’altro lo
superasse in altezza di una ventina di centimetri, non si fece problemi
ad alzare lo sguardo verso di lui: «Sai che c’è? C’è che con le tue
battute mi hai stufato: non fai altro che prendere in giro le idee
delle altre persone, ma in quanto a proporre qualcosa di
concreto, nada».
«Daniel, caro, ti devo forse
ricordare con chi stai parlando?» Nonostante Lucifer aveva arcuato
all’indietro la schiena, alzando le mani quasi in segno di resa,
il tono mellifluo della sua voce e il ghigno che avevano assunto le sue
labbra, rendevano chiara la minaccia insita nella domanda.
«Sei il Diavolo: e allora?
Fino a prova contraria, sei tu che sei nel mio mondo», gli rispose il
poliziotto, per nulla turbato, ma continuando a guardarlo fisso negli
occhi. Quando, dietro insistenza di Chloe, Lucifer gli aveva mostrato
il proprio lato oscuro, logicamente si era spaventato, anche se aveva
cercato di non darlo a vedere. Del resto, insomma, nonostante fosse un
credente, non
aveva mai dato troppo peso alle storie sull’Aldilà, quindi, per lui,
semplice umano, trovarsi davvero in presenza del Divino, era stato
qualcosa a cui non aveva saputo dare subito un nome, ma si era aiutato
a
superare lo shock iniziale concentrandosi sul carattere umano di
Lucifer. Anche adesso, mentre lo affrontava era abbastanza tranquillo,
se si sorvolava sulla rabbia che stava provando: dopotutto, in tutti
quegli anni, Lucifer
non aveva mai alzato un dito contro di lui, nemmeno quando ne avrebbe
avuto tutte le ragioni, limitandosi al massimo a chiamarlo “Detective
Stronzo” e a lanciargli frecciatine. Di sicuro, non gli avrebbe torto
un capello ora, per un banale litigio, non davanti a Chloe, per lo
meno. Ed era anche sicuro che, se avesse dovuto morire di lì a poco per
un incidente o una sparatoria, difficilmente sarebbe finito
all’Inferno,
dove qualche demone avrebbe potuto torturarlo per ordine di Lucifer: in
fin dei conti, dopo il casino con Malcom, aveva fatto di tutto per
rimediare, per cui era sicuro che, se continuava su quella linea, se
non proprio in
Paradiso, sarebbe finito in Purgatorio, anche quello luogo in cui
Lucifer non era ammesso.
Dal canto suo, Lucifer era
quasi stupito per il coraggio dimostrato dall’amico: l’unico che finora
non si era spaventato aveva cercato di ucciderlo! Certo, Dan lo
conosceva
da anni, ma anche Chloe lo conosceva da molto e sicuramente meglio di
Dan, eppure lo aveva quasi rispedito all’altro mondo! Nemmeno padre
Frank aveva mostrato di temerlo, a essere sinceri, ma lui era un uomo
di fede
e quindi non contava. Mentre era immerso in questi pensieri, il suo
cellulare squillò: «Ops, scusami», disse all’uomo che continuava a
fronteggiarlo, alzando un dito indice, mentre infilò l’altra
mano nel taschino interno della giacca, per prendere il telefonino.
«Dottoressa Linda», esclamò,
voltandosi dall’altra parte,
Chloe, che stava per
frapporsi ai due uomini, tirò un sospiro di sollievo. si rivolse quindi
a Dan: «Fatti accompagnare dalla detective McEnroe e andate da Jane
Valdez.
Non preoccuparti, ci penso io a Lucifer. Ah, Dan, non c’è bisogno che
ti chieda di far ricorso alla stessa complicità che usi con Trixie
quando chiederai alla figlia di Rebecca com’è riuscita
a fuggire, vero?» Gli strizzò l’occhio.
Dan non se lo fece ripetere
una seconda volta e si affrettò a uscire dall’ufficio.
Quando Lucifer chiuse la
comunicazione e si voltò, rimase a bocca aperta nel constatare di
essere rimasto da solo con la letenati: «Dov’è andato il detective
Stronzo?»
«A fare il suo lavoro, e non
voglio che tu lo chiami in quel modo: mi sembrava di essere stata
chiara a questo proprosito», gli rispose, con un tono di voce che non
ammetteva
repliche, mentre giocherellava con una matita.
«No, tu hai detto che non
volevi lo chiamassi in quel modo davanti a tua figlia – vostra figlia –
ma qui la progenie non c’è, quindi...»
«Quindi niente. O lo chiami
Dan, oppure detective Espinoza. Punto», tagliò corto la donna, posando
la matita.
«D’accordo», Lucifer alzò le
mani davanti al petto. «Adesso, se me lo permetti, vado a raggiungere
il detective Espinoza: siamo partner, dopotutto».
Si diresse verso la porta, ma Chloe lo bloccò subito: «No, non te lo
permetto, anche se siete partner».
Vedendolo sbigottito, con la
bocca semiaperta, Chloe si affrettò a specificare che in fondo gli
stava facendo un favore, dal momento che lui non amava i bambini;
inoltre aveva
capito che la telefonata di Linda doveva essere ugualmente urgente,
quindi gli dava il permesso di raggiungere la cognata.
«Hai capito male», la
contraddisse Lucifer, con le labbra serrate e quelle deliziose fossette
che gli si formavano sempre ai lati della bocca, quando assumeva quella
smorfia.
«Davvero?» Il tono di Chloe
non era incredulo, ma sarcastico, tanto più che aveva leggermente
piegato la testa di lato.
«Mh, mh», Lucifer si limitò
ad asserire con un leggero movimento della testa.
«Oh, ok. Allora: che cosa
voleva Linda?» Gli chiese, lo stesso sguardo che aveva quando giocava
alla poliziotta con Trixie, ogni qualvolta la bambina ne combinava una
delle sue.
«Solo sapere dov’è
Amenadiel». Di nuovo, osservò Chloe, gli erano apparse le fossette.
«E dov’è Amenadiel?» Lo
incalzò Chloe, visto che lui non si decideva a dire altro. Era
estenuante dover tirargli fuori le parole con le tenaglie, tanto
quanto sparava frasi senza senso.
«Non credo tu voglia saperlo
davvero. Ora, se vuoi scusarmi...», si affrettò a raggiungere l’uscio,
per evitare di scendere in particolari che sapeva la donna
non avrebbe apprezzato.
«Lucifer, non dirmi che hai
mandato Amenadiel all’Inferno», lo bloccò.
«Ehm... io...» Aveva la mano
sulla maniglia, ma si girò a guardarla, senza, tuttavia, riuscire a
formulare un pensiero di senso compiuto.
«Lucifer!»
§
§ § § § § § § § §
Hellam era una piccola
cittadina della contea di York, a ovest del fiume Susquehanna, un tempo
territorio Susquehannock. La Statale 30 separava il piccolo centro abitato dalla
foresta del Rocky Ridge Park, a sua volta divisa in due dalla Range
Road. Proprio percorrendo questa strada, lasciandosi
alle spalle il parco, si giungeva al Cancello Rosso, l’unico dei Sette
Cancelli visibile di giorno. Per tenere lontani i turisti del macabro e
i satanisti, l’amministazione comunale aveva diffuso la notizia che
il cancello era una semplice struttura posta a chiusura di una
proprietà privata. Secondo una leggenda locale, però, a costurirlo era
stato un medico psicotico che con riti innominabili era riuscito a
creare
una sorta di portale infernale.
Stava piovendo a dirotto,
quando Amenadiel giunse al Primo Cancello. Prima di oltrepassarlo, tirò
un lungo sospiro, chiuse gli occhi e giunse le mani.
«Chi sei e che cosa vuoi?»
Era un uomo anziano, alto quanto lui, con lunghi capelli bianchi e un
sottile copricapo formato da varie piume che divideva la capigliatura
in due metà identiche.
«Sono Amenadiel, il primo
dei figli di Dio», si presentò, alzando il mento.
«Se sei davvero Amenadiel,
dimmi che cosa ti porta su questo sentiero», gli ingiunse il Guardiano.
«Non è a te che devo rendere
conto delle mie azioni, Tenskwatawa1»,
gli rispose l’angelo, senza
nessuna particolare inflessione nella voce, mantenendo, però, la stessa
rigida postura, con le braccia incrociate sul petto e le gambe
leggermente divaricate.
Tenskwatawa non si scompose:
«Aspetta qui. Vado a parlare con la mia Signora».
Amenadiel trasse un respiro
profono e allungò le braccia lungo il corpo, stringendo e schiudendo
più volte i pugni.
Quando Lucifer gli aveva
chiesto di andare all’Inferno per sincerarsi che Kristiel stesse bene e
che la loro madre non fosse tornata, Amenadiel avrebbe potuto, una
volta dispiegate
le ali, scendere direttamente negli Inferi, invece di volare dall’altra
parte dell’America e affrontare lo stesso percorso delle anime dannate.
La realtà era che non era pronto a tornare in quel posto: nei
cinque anni in cui aveva cercato di sostituire Lucifer, aveva odiato
ogni singolo secondo, ma non lo aiutava sapere che questa volta non
sarebbe dovuto rimanere molto. Semplicemente, non era pronto ad
affrontare la madre:
che cosa le avrebbe detto? L’avrebbe abbracciata, oppure l’avrebbe
distrutta per il male che aveva procurato a Linda?
Tenskwatawa lo strappò ai
suoi pensieri: «La mia Signora accetta di vederti, ma dovrai lasciare
un oggetto».
Ad Amenadiel non sfuggì la
naturalezza con cui il Guardiano aveva usato il femminile: poteva
questo significare che Kristiel – l’Angelo dell’Amore –
si era così bene ambientata nel nuovo ambiente da essere riconosciuta
come Regina degli Inferi da tutti i demoni? Certo, a quegli esseri non
importava chi li governava, purché ci fosse qualcuno e che quel
qualcuno
fosse un angelo. Era un bene, oppure Lucifer aveva ragione a essere
preoccupato? Soprattutto, si chiese ancora Amenadiel, Tenskwakawa,
quando usava il termine “signora” si riferiva a Kristiel o alla Dea
della Creazione?
C’era solo un modo per scoprirlo: continuare il cammino, tanto più che
era stato annunciato e non poteva più tornare indietro. Si chinò,
dunque, a slacciarsi una scarpa: tanto, nel luogo dove stava
andando non gli sarebbe servita.
Il vecchio susqueannock
camminava lesto, a dispetto dell’età dimostrata, seguito da Amenadiel,
il quale, invece, avanzava leggermente claudicante, a causa di una
calzatura
mancante. Il calzino, però, impediva che le sterpaglie a terra gli
ferissero il piede.
Il bosco al di là della
Prima Soglia pareva immune al temporale che si stava abbattendo su
quell’angolo della contea, e sciami di api volavano attorno ad
Amenadiel: anime
appena trapassate in attesa della punzione2.
Man mano che si avvicinavano
al Secondo Cancello, le voci nella testa di Amenadiel parevano farsi
più insistenti. L’angelo scrollò il capo, continuando a seguire
il vecchio: lui non aveva niente di cui pentirsi, lui era lì solo come
visitatore – vivo – e non avrebbe corso il pericolo di rimanere
imprigionato in quel luogo, per cui, non doveva mostrarsi impaurito.
«Aspetta qui, vado a parlare
con la mia Signora», gli ingiunse, lasciandolo solo.
Non lo avrebbe aspettato
senza fare nulla, permettendo a quelle voci di insinuarsi nella sua
mente, così si chinò e si slacciò l’altra scarpa.
Quando il Guardiano tornò,
dandogli il permesso di varcare anche quella soglia a patto di lasciare
un altro oggetto, lui gli mostrò la scarpa sorridendo.
Tenskwatawa non mosse
ciglio, ma si limitò a continuare a fargli da guida.
«Allora», Amenadiel provò a
tacitare le voci tentando di conversare col vecchio, «non capita tutti
i giorni scortare un angelo all’inferno».
Ricordava quella notte.
Si era allontanato dal villaggio con una ragazza promessa a un altro.
Aveva notato strani movimenti nel bosco, ma era troppo preso dal
desiderio carnale
perché potesse prestare la dovuta attenzione e poi, per quale motivo
avrebbe dovuto tornare indietro? Probabilmente, non sarebbe mai
riuscito ad arrivare in tempo per dare l’allarme giacché i soldati
inglesi
l’avrebbero scoperto e sicuramente ucciso. No, si disse, mentre cercava
di rintanarsi con la ragazza dietro alcuni arbusti, meglio continuare a
restare nascosti, lontano dalle grida della sua gente. La ragazza cercò
di opporsi, ma lui la convinse a restare acquattata, a non fare pazzie,
tanto ormai era troppo tardi per aiutare la loro gente. Il mattino
dopo, quando raggiunsero la tribù, trovarono solo ruderi fumanti: erano
gli
unici sopravvissuti. Quando morì, anni dopo, la sua anima si trovò al
cospetto di un essere gigantesco, dalla pelle rossa e con le costole
che quasi uscivano dal petto, due enormi ali chirottere sulla schiena:
«Tenskwatawa, che cosa vuoi da me? Oh, certo, troppo vile ti sei
dimostrato da vivo perché mio Padre ti potesse accogliere nella Città
d’Argento, non è vero? E tuttavia, troppo vile perfino
per essere accolto qui... Oh, ecco, ho trovato: poiché tu hai permesso
lo sterminio della tua gente, tacendo, ora accoglierai le anime al
posto mio, senza possibilità di parlare con loro».
Era stata quella la condanna
comminatagli da Lucifer, ma in quel momento lui stava accompagnando un
angelo, non un’anima dannata, per cui, in teoria, non avrebbe eluso
alcuna
legge se avesse risposto ad Amenadiel: «Fare domande non rientra nelle
mie mansioni», si limitò, però, a dire con voce monocorde.
«Giusto», convenne
Amenadiel. «Per questo Lucifer ha scelto te, unico umano, come
Guardiano della Soglia».
Nel frattempo, erano giunti
al Terzo Cancello, per cui, di nuovo, gli ingiunse di attenderlo.
Lasciato un calzino,
Amenadiel e la sua guida oltrepassarono anche quell’ostacolo. L’aria
era sempre più torbida e scura, i lamenti sempre più forti, ma
Amenadiel riusciva a distinguere lo scrosciare di una cascata: era
vicina o era il suo udito angelico che sovrastava i dannati?
Ciononostante, nessun rivolo di acqua scorreva in quel lembo di terra
desolata: il fitto bosco
era stato sostituito da un terreno arido, da cui si innalzavano
scheletrici alberi da frutto, mentre nella mente di Amenadiel i lamenti
erano stati sostituiti da continui ed estenuanti grugniti di maiali: un
rumore continuo
e snervante che gli stava facendo crescere una brama incontrollabile di
un qualcosa che non sapeva definire. Cercò di ignorare quei versi
scrollando la testa, ma più si allontanava dalla Terza Soglia, più
quei grugniti diventavano parole di senso compiuto. Tra tutte, ne
spiccava una: «Prendi». Si dimenò di nuovo, nel tentativo di tacitare
quelle voci e già riusciva a intravedere il Quarto Cancello.
«Aspettami qui, vado ad
avvertire la mia Signora»: il tono privo di ogni emozione del Guardiano
lo riportò al presente e mai come in quel momento Amenadiel gliene
fu grato. Rimasto solo, però, quella voce – prendi! – si fece così
forte nella sua testa che l’angelo si mosse verso un albero. Gli
arbusti rinsecchiti a terra gli ferivano i piedi, ma la sua brama era
talmente forte che non si accorse del sangue.
«La mia Signora accetta di
vederti, ma dovrai lasciare un oggetto».
«Che cosa?» Sbattè gli occhi
e scrollò il capo quando sentì la voce di Tenskwatawa alle sue spalle.
Perché diamine si era
spostato dal cancello e si trovava vicino a un albero con un calzino in
mano? Non poteva aver ceduto alle voci come una qualsiasi anima
dannata: lui era
il primo degli Angeli di Dio, il prediletto tra i suoi Figli. Al
massimo, avrebbe potuto peccare di orgoglio, come gli faceva sempre
notare Lucifer. E allora, che cosa gli era accaduto? Tornò sui suoi
passi e questa
volta, il dolore gli strappò più di una smorfia, ma porse lo stesso il
calzino al Guardiano.
Oltrepassato il Quarto
Cancello, il forte odore di sangue provocò una smorfia di disgusto
sulla faccia di Amenadiel, mentre il clangore delle armi di invisibili
eserciti che
si scontravano l’uno contro l’altro avevano sostituito i grugniti nella
sua testa. In un certo senso, Amenadiel provò quasi sollievo: da loro,
ne era sicuro, lui non aveva nulla da temere poiché non
aveva avuto dubbi nello schierarsi nell’unica grande battaglia che
aveva vissuto sulla propria pelle. Per questo motivo, nonostante il
filo spinato infisso nella terra gli ferisse i piedi, seguì la sua
guida quasi
come fosse una passeggiata. Certo, il rumore era abbastanza fastidioso,
ma, appunto, Amenadiel lo giudicò nulla più che un fastidio
sopportabile.
Giunti al Quinto Cancello,
di nuovo il Guardiano gli impose di attenderlo.
Mentre aspettava
Tenskwatawa, si sfilò una polsiera – aveva deciso di lasciare la tunica
per ultima, in modo da non presentarsi nudo di fronte a Kristiel,
perché,
insomma, era pur sempre sua sorella! – una freccia gli sibilò a pochi
millimetri dal viso. Una freccia vera, demoniaca.
«Epona, per quale motivo hai
attentato alla mia vita?»
Il centauro fece spallucce:
«Dovevo sincerarmi che fossi davvero tu».
«Siamo nell’Antinferno: non
ti è permesso perseguitare le anime qua e di sicuro ti è vietato
attentare alla vita degli Angeli di Dio», la freddò
con lo sguardo.
«Immagino tu abbia ragione»,
gli si avvicinò per raccogliere l’arma.
«Io HO ragione: lo sai».
«A ogni modo, che cosa ci
fai qua, Bla-bla?» gli domandò, con un sorrisetto ironico stampato in
viso, mentre la coda ondeggiava frenetica per scacciare invisibili
insetti.
«Come mi hai chiamato?»
Evitò di risponderle.
«Beh, sai», gli volse le
spalle, o le anche, «non è che ti stessimo ad ascoltare ogni volta che
blateravi di essere il primo degli Angeli di Dio. E non hai
risposto alla mia domanda», gli fece notare.
«Sei tu che hai invaso gli
incubi della figlia di Kristiel, quindi direi che conosci benissimo il
motivo della mia visita».
«Era un messaggio per
Lucifer», si voltò di scatto, incoccando una freccia e puntandola
contro Amenadiel.
«Era impegnato».
«Oh, certo», finse di
accondiscendere, «il nostro re ora ha un nuovo giocattolino e non ha
più tempo per i suoi fedeli servitori». Il sorriso era glaciale,
mentre abbassava l’arco.
«Attenta a come parli,
Epona. È alla figlia di Kristiel che ti stai riferendo. Inoltre, tanto
leali non mi siete sembrati», le ricordò.
«Io non c’entro con la
Rivolta», si difese, rialzando l’arma.
Nel frattempo, Tenskwatawa
riapparve, richiedendo un oggetto.
Lanciando un ultimo sguardo
di sfida al centauro, Amenadiel gli porse il bracciale che si era
sfilato quando Epona lo aveva attaccato.
«Non lasciare il sentiero»,
lo avvertì Tenskwatawa. Un ammonimento che non avrebbe mai lanciato
alle anime, ma lui, beh, al di là della sua natura, era un
ospite atteso dalla sua Signora e non poteva permettergli di distrarsi,
altrimenti chi ne avrebbe pagato le conseguenze sarebbe stato lui.
Oltre il Quinto Cancello,
Amenadiel si aspettava di trovarsi di fronte a muri di fiamme, o lande
ghiacciate, invece, vennero accolti dal suono di una lira. Nulla a che
vedere con
la musica della Cttà d’Argento, ma era comunque una nenia riposante,
che invitava a chiudere gli occhi, magari all’ombra di qualche sicomoro
che si ergeva qua e là nel paesaggio... No – scosse
la testa con quanto più vigore potè – doveva restare sveglio: Epona
aveva mandato una richiesta di aiuto e lui aveva il dovere, in quanto
fratello maggiore, di correre in aiuto di Kristiel. Eppure... quella
musica era così dolce... sembrava un invito a lasciarsi tutto alle
spalle. Per tutta la sua esistenza si era caricato anche delle
responsabilità dei fratelli e adesso era così stanco...
Senza accorgersene chiuse
gli occhi.
Diversi scossoni lo
risvegliarono: che cosa ci faceva sotto l’albero?
«Non. Allontanarsi. Dal.
Sentiero», sillabò Tenskwatawa, mentre lo aiutava a rialzarsi. Questa
volta, non si limitò a fargli da guida, ma lo spinse con una
certa violenza a proseguire il cammino.
Arrivati al Sesto Cancello,
il Guardiano ripetè la solita frase, ma questa volta c’era una sorta di
apprensione nella sua voce: che cosa sarebbe successo se in sua assenza
l’Angelo si sarebbe riaddormentato? A ogni modo, era un rischio che
doveva correre, visto che gli era stata ordinata una sosta a ogni
Cancello.
Dal canto suo, Amenadiel si
rese conto che se non fosse stato per quell’anima persa, avrebbe
rischiato di non svegliarsi più, per cui, rimasto solo, mentre si
sfilava
l’altro bracciale, provò a canticchiare “One
of us”, ma la ninna nanna risuonava così
forte nella sua testa che presto si ritrovò
a cantare a squarciagola e quasi non sentì Tenskwatawa che lo invitava
a oltrepassare quel Cancello dopo aver lasciato qualcosa.
«Cerca
di non guardare sotto di te perché, se verrai colto da vertigini e
cadrai, questa volta non verrò in tuo aiuto», gli rivolse
un sorriso sghembo, «e attraversa il ponte di corda in modo deciso,
senza tremare».
Amenadiel lo guardò
incredulo: si era dimenticato con chi stava parlando? Se anche fosse
caduto, avrebbe potuto dispiegare le ali e librarsi in volo. A ogni
modo, quello era
l’ultimo tratto del cammino ed effettivamente, cadere proprio ora
avrebbe vanificato tutta quella fatica, oltre al fatto che si sarebbe
coperto di ridicolo di fronte a tutte quelle anime, per cui ignorò
l’abisso
senza fondo sotto di lui e incedette seguendo le indicazioni di
Tenskwatawa. Non fu facile: ogni due passi una forte folata di vento
scuoteva il sottile ponte di corda, rischiando di capovolgere chi lo
stava attraversando:
era l’istante della morte che imprigionava le anime dannate
nell’eternità della ribellione, rendendole incapaci di pentimento.
Alla fine, dopo aver
rischiato più volte di cadere, Amenadiel riuscì a posare entrambi i
piedi sulla sottile stiscia di roccia che lo separava dal Settimo e
ultimo Cancello,
la vera Porta dell’Inferno.
«Apetta qui. Vado ad
annunciarti alla mia Signora», gli ingiunse, per l’ultima volta.
Amenadiel si tolse il gilet
lungo e, come già aveva fatto per gli altri indumenti, lo lasciò
all’angolo sinistro del Cancello.
«La mia Signora accetta di
vederti, ma d’ora in poi dovrai proseguire da solo», gli disse, prima
di scomparire.
§
§ § § § § § § § §
L’appartamento di Jane
Valdez era simile a quello di Rebecca, ma un ingombrante tavolo rotondo
occupava gran parte del soggiorno, mentre sul divano appoggiato a una
parete stava
dormendo la figlia di Rebecca. Indossava una maglietta bianca sporca di
terra, come i jeans.
«Finalmente siete arrivati»,
sbottò la donna.
«Quando è arrivata la
bambina?» Le chiese Dan.
Jane sbuffò: «Non ne ho
idea. L’ho trovata sdraiata davanti alla porta di casa sua quando sono
uscita, circa mezz’ora fa. E vi ho chiamato subito. Non sapevo
come fare: sua madre è morta e non so come contattare i suoi parenti».
«Non si preoccupi», la
rassicurò Dan, «ci penseremo noi».
Intanto, l’agente McEnroe si
era avvicinata alla bambina e la stava scuotendo dolcemente: «Ehi,
ciao, piccola».
La bambina ebbe un sussulto,
prima di notare la divisa: «E tu chi sei?»
«Sono l’agente Nora McEnroe
e lui è il mio superiore, il detective Espinoza: non devi avere paura
di noi, adesso ti portiamo dai tuoi nonni, va bene?»
«Non possono venire qui?» La
bambina si era appiattita contro lo schienale del divano.
«Eccola che fa i capricci»,
sbottò la Valdez. «Senti Cecilia, il fatto che ti ho fatto dormire sul
mio divano mezz’ora non ti autorizza a mettere radici
a casa mia», la rimproverò, guadagnandosi un’occhiata da parte dei
poliziotti.
Nonstante Cecilia cercò di
abbassare lo sguardo il più velocemente possibile, alcuni lacrimoni le
bagnaronoi pantaloni. Nora le accarezzò una guancia, mentre
Dan ignorò le esternazioni della padrona di casa.
«Ehi, scimmietta... Posso
chiamarti scimmietta? Ho una figlia poco più grande di te, ma da quando
era più piccola di te la chiamo così», cercò
di guadagnarsi la fiducia della piccola. «Non devi avere paura di noi:
guarda», le allungò il distintivo, affinchè potesse guardarlo. «È vero
sai, non come quello che si trova nei negozi
di giocattoli».
Cecilia lo maneggiò un po’,
scossa dai singhiozzi.
«E sai una cosa? Nel cortile
c’è una macchina della polizia con una sirena vera: non ti va di farci
un giro sopra?»
«Io non ho fatto niente,
perché volete arrestarmi?»
«Nessuno ti arresta,
Cecilia. Solo che sarai più sicura in mezzo a tanti poliziotti, mentre
aspettiamo che arrivino i tuoi nonni».
«Se vengo con voi,
quell’uomo cattivo che mi ha tenuta in gabbia non mi prenderà più?»
Domandò Cecilia, con gli occhi ancora umidi e il naso
gocciolante.
«No, te lo prometto».
§
§ § § § § § § § §
Lo studio di Linda era come
sempre luminoso, l’unica differenza era lei. Di solito, quando Lucifer
entrava, lei era seduta alla sua scrivania e solo dopo, quando lui si
era
accomodato sul divano lei si sedeva sulla poltroncina di fronte. Questa
volta, quando lui entrò, la trovò che passeggiava su e giù per lo
studio.
«Dottoressa Linda! Prima che
tu dica qualcosa...» La salutò Lucifer, appena entrato.
«Dov’è. Amenadiel», lo
fulminò.
«Ha voluto andare a trovare
nostra madre», si sedette sul divano e si versò dell’acqua.
«Tu hai spedito il padre di
mio figlio in un universo alternativo?» Linda non riusciva a credere
con quanta superficialità Lucifer si approfittasse dell’aiuto
che gli amici (e il fratello, in questo caso) gli porgevano.
«Di grazia, come avrei fatto
se non ho più la spada? E comunque, all’Inferno ci è voluto andare da
solo. Più o meno», le sorrise.
Linda avrebbe voluto
prenderlo a schiaffi, o strozzarlo magari, se non fosse stato più alto
di lei. Tanto più alto di lei. Così, si limitò a distendere
il collo, piegando la testa prima da un lato e poi da lato.
«Hai il torcicollo, per
caso?» Le chiese Lucifer, ignaro dei reali sentimenti della cognata.
«Nooo, mi sto trattenendo
dall’impulso di strozzarti», gli confidò, riservandogli un’cchiata dura.
«Fatica sprecata, temo: la
detective non c’è, per cui ti ricordo che sono invulnerabile», le
sorrise.
Linda chiuse gli occhi,
emettendo un lungo respiro: «Lucifer. Vuoi dirmi, per favore, perché
hai mandato Amenadiel all’Inferno?»
Lucifer si accomdò meglio
sul divano e si aggiustò i gemelli: «A dire il vero, avrebbe già dovuto
essere di ritorno. Il fatto è che nostra madre
si è palesata attraverso un sogno di Alma Lucinda e siccome l’altra
volta Amenadiel non è riuscito a salutarla, ho pensato che gli avrebbe
fatto piacere rivederla. Tutto qui».
«Vostra madre è tornata e tu
mi dici: tutto qui? Lucifer, ti devo ricordare che l’ultima volta mi ha
quasi fritto? Che cosa pensi farà a Charlie?»
Lo investì.
«Non devi preoccuparti,
dottoressa», le rivolse il solito sorriso, «nostra madre è all’Inferno
e Kristiel non la farà fuggire, te lo prometto».
In realtà, anche se non
voleva ammetterlo, anche lui stava cominciando a preoccuparsi per il
ritardo di suo fratello.
§
§ § § § § § § § §
Oltrepassato il Cancello di
princisbecco3, Amenadiel si ritrovò
risucchiato nei meandri infernali.
Si fermò un attimo, tirando
un forte respiro, poi cominciò ad avanzare. La sua attenzione venne
presto catturata da una porta che sbatteva ripetutamente. Camminò
in quella direzione, ma, appena oltrepassata la soglia si torvò su una
spiaggia lambita da un lago di fango ribollente, collegata alla
spiaggia opposta solo da una sottile striscia di roccia. Ai lati di
questa passerella,
si rincorrevano cinghiali cavalcati da uomini e donne che si
pugnalavano a vicenda.
Non si preoccupò più di
tanto: a volte, i demoni si divertivano a spaventare in quel modo le
anime appena arrivate, però si chiese per chi fosse stata creata
quella cella.
«Ma che cos...»
Due cavalieri si stavano
rincorrendo troppo vicino alla riva, ma così facendo quasi rischiarono
di travolgere Amenadiel, il quale, però, fu lesto a fare un salto
indietro.
Riconobbe Eva e l’assistente
sociale che l’aveva cercato per l’affidamento di Alma Lucinda: entrambi
cercavano di disarcionarsi a vicenda, ma mentre Eva cercava
di accoltellare al cuore l’uomo, questi cercava di strangolarla. Quando
sembrava esserci quasi riuscito, ecco che dal lago di fango apparivano
mani braccia fanciullesche pronte a ghermire il dannato.
«Ciao fratello»: una voce
femminile alle sue spalle lo fece sobbalzare.
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N.d.A.Come
sempre, ringrazio tutti quelli che leggono lasciando un segno del loro
passaggio, quanto coloro che preferiscono leggere in silenzio. Grazie
soprattutto a chi ha inserito la storia tra seguite/preferite/ricordate.
1
Nel mito originale della discesa di Inanna
negli Inferi – al quale mi sono ispirata per questo
paragrafo – il Guardiano che accompagna la dea sumera è Neti. Ho deciso
di discostarmi dal mito originale scegliendo un nome in lingua shawnee
(di ceppo algonchino), che significa “apre porta”. In
realtà i Susqueannock – che fino al diciasettesimo secolo confinavano
con gli Shawnee – appartenevano al ceppo linguistico irochese, ma la
loro lingua risulta estinta. Oltre al mito di Inanna, mi sono ispirata
anche all’Eneide.
2
Secondo la credenza
comune, le api rappresentano quasi sempre le anime dei defunti.
3
Da Wikipedia: termine
usato per indicare un ottone con inclusioni di stagno
dal colore simile all'oro. Il rapporto tra rame e
zinco è variabile: Cu da 89% a 93% e Zn da 11% a 7%. Deve il suo
nome all'inventore Christopher Pinchbeck (1670-1732) orologiaio inglese. Tale lega è stata
usata principalmente per tutte quelle lavorazioni di poco valore ma
appariscenti. Successivamente
fu utilizzata da orefici disonesti al posto dell'oro e, con il passare
del tempo, la parola è diventata sinonimo di falso, di bassa lega, non
di valore.
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