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Princes and Knights
Bucky teneva una mano
stretta in quella di Steve e una sollevata accanto a lui, pronta ad
afferrarlo e a salvarlo dalla caduta. Sapeva di avere abbastanza
forza da poterlo caricare in braccio se solo avesse voluto, quel
bambino era così piccolo e così magro che non avrebbe fatto il
minimo sforzo, ma c’erano imprese che era giusto un uomo
compisse da solo. Non era per il davanzale – era per il senso di
invincibilità che si provava a scavalcarlo, era l’essersi erti sulle
proprie gambe quando il mondo intero ti diceva che sarebbero state
troppo deboli per sostenerti. Bucky non avrebbe mai privato Steve di
quella sensazione.
Se gli stava accanto,
era solo per aiutarlo e assicurarsi che non si facesse male nel
processo – quello sempre.
«Tieni forte la mia
mano, ok?» disse, incastrando la lingua tra i denti. Gambe larghe e
ginocchia piegate, si assicurò di essere ben piantato sul piccolo
balconcino che dava accesso alla scala antincendio.
Steve sbuffò: un metro
e poco più di sfinente cocciutaggine e una spruzzata di imbarazzo
che la zazzera di capelli biondi era troppo corta per nascondere.
«Non c’è bisogno che mi aiuti, posso farcela da solo.»
«Lo so, ma non mi costa
niente farlo.»
«E poi ci rende felici
aiutarvi~» Il trillo della vocetta allegra di Moony giunse insieme
all’onda.
Steve si bloccò sul
posto, una gamba sollevata e l’altra a sfiorare il pavimento della
stanza con la punta di un paio di vecchi calzettoni arricciati su
una caviglia troppo sottile perfino per un bambino della sua età.
L’ovale pallido del volto si colorò di rosso.
L’onda si infranse alle
sue caviglie, alle sue ginocchia, montò una risacca asciutta e senza
odore che andava e veniva e a ogni suo ritorno l’onda era più alta e
schiumosa: era una carezza di dolcezza devastante, che metteva le
vertigini e avrebbe potuto ingoiarlo. La marea si alzò, come se la
luna si fosse fatta di colpo più vicina alla terra e Steve sentì le
onde arrivare all’altezza del petto – strinse la mano di Bucky e
trattenne il fiato. A breve sarebbe rimasto sommerso. Chiuse gli
occhi per un momento e quando li riaprì, l’onda aveva superato i
suoi capelli e il mare era ovunque, un mare tiepido e gentile che
gli scorreva intorno, che gli fluiva dentro.
Bucky incassò la testa
tra le spalle – anche lui si era ritrovato sommerso, circondato da
qualcosa che non era acqua e non poteva essere toccata, vista o
sentita, ma che sapeva apparteneva a lui tanto quanto a Steve.
Gonfiò le guance d’aria
e la buttò fuori in un’unica boccata: «Moony!»
Bolle d’aria
scoppiarono nella testa dei due bambini, mentre la marea si ritirava
e le onde scivolavano più in basso, di nuovo ai loro piedi,
lasciando nel petto un tepore dolciastro che di solito significava
un’unica cosa: la sua dæmon aveva toccato quella di Steve, o più precisamente,
ci si era spalmata sopra.
Si voltò. La scena era
perfino più ridicola di quanto non avesse temuto: Moony non era
spalmata su Sun, peggio! Nelle vesti di un’orsetta dal morbido pelo
bruno aveva sollevato tra le zampotte la piccola leoncina
spelacchiata e la conduceva sul balconcino, come una regina sulla
lettiga.
Le due dæmon si
accorsero di essere guardate.
Moony spiegazzò un
sorriso che uscì grottesco sul musetto da orso. «Cosa?»
Lo sguardo di Bucky si
tradusse in un rimprovero muto, ma la dæmon rispose con una
linguaccia dispettosa e strinse più forte le zampe intorno al
cucciolo di leone. «Non sto facendo niente di male: Sun è una
leonessa, un’anima regale e merita di essere trattata come tale.»
Sun ruggì una risata
gonfia di fusa e le lappò il muso. «Hai sentito Stevie? Moony dice
che sono una regina.»
«Non è quello che ha
detto…» la corresse il padrone della piccola anima leonina.
«Sì, sì, è proprio
quello che ho detto. Sun è una regina e tu sei il nostro principe.
Anche Buchy lo dice sempre.»
«Ah…» Steve guardò
Bucky e il bambino arrossì, si batté un palmo al volto e borbottò
qualcosa che rimase tra lui e la dæmon.
Amava parlare Moony, e
a differenza di molti adulti, non aveva ancora imparato a tacere o a
mentire – era ancora giovane e innocente, e il più delle volte
capitava dicesse la cosa sbagliata nel momento sbagliato.
«Diglielo Buchy,
diglielo!»
Il bimbo si grattò una
guancia con la punta dell’indice. Stringeva ancora una mano in
quella di Steve, e col passare dei secondi, le sentiva entrambe più
calde.
Si morse il labbro
inferiore, puntando occhi azzurri in quelli altrettanto chiari di
Steve. «Beh, sì… cioè… non nostro-nostro. Però, sai quando ti dicevo
che con gli altri alle volte giochiamo a conquistare il campetto?
Ecco, io il faccio il capo dei cavalieri e anche Dum Dum è un
cavaliere. Nat invece, anche se è femmina, non vuole mai fare la
principessa e a me sta bene, perché lei è forte e bella come un
drago. Ma… uhm… alle volte penso che se venissi anche tu a giocare,
potresti farlo il principe. Insomma, io ci combatterei per un
principe come te e ti darei la metà di tutto quello che conquisto.»
Steve lo guardò a occhi
sgranati. Infilato in un vecchio maglione infeltrito per tenersi al
caldo, con maniche troppo lunghe e punti di maglia saltati quando,
chissà quanto tempo prima, si era incastrato in un chiodo, era ben
lontano dall’essere il ritratto di un principe. Al di qua della
finestrella, la camera era grande quanto una scatola di scarpe, le
pareti scrostate erano ricoperte di tempera e disegni a nascondere
il grigiore delle mura, e la sgangherata scaletta antincendio era
così arrugginita che nessuno avrebbe mai avuto il coraggio di
usarla.
Eppure, quando Bucky
gli sorrise, rosso come una ciliegia matura, con lo sguardo
adombrato da una frangia ribelle e castana su cui alitò con forza,
Steve si sentì il bambino più ricco e fortunato di Brooklyn.
Annuì. «Posso
provarci.»
Bucky si illuminò.
Moony ragliò un suono
che seppe di gioia, gettò in alto la piccola Sun e la riprese al
volo.
Steve sentì il vuoto
nel petto, e subito dopo lo sentì riempirsi dell’abbraccio
protettivo e affettuoso di un cavaliere che era un po’ orso, un po’
leopardo e un po’, forse, suo.
Finì di scavalcare il
davanzale e, mano nella mano con Bucky, tenne il visetto più in alto
che poteva, per quanto gli mancava almeno una spanna per raggiungere
l’altezza dell’altro. «Però se lo faccio voglio combattere al tuo
fianco.»
«Mi sta bene, vuol dire
che io guarderò le tue spalle e tu le mie.»
Sun picchietto il
musetto di Moony con il nasetto. «Davvero andiamo bene, anche se
Steve non è per niente bravo a combattere?»
«Non è vero che non
sono bravo!»
«È proooooprio pessimo.
Però non ci arrendiamo mai, mai, mai.»
Bucky strattonò piano
la mano del bambino e lo rassicurò: «Andate benissimo.»
Si sorrisero e,
insieme, si sedettero sul piano di ferro, con le ginocchia piegate
al petto e un braccio solo a circondarle. L’altro rimase disteso tra
loro, le mani unite e le dita incrociate, senza sentire il bisogno
di staccarsi e anzi, quando la prima pungente sfiatata di vento
schiaffeggiò loro le guance, strusciarono più vicini l’uno
all’altro.
«Dovevamo portarci
dietro una coperta» realizzò Bucky. Allungò il collo, considerando
l’ipotesi di reinfilarsi in camera e prenderne una, ma Steve scrollò
le spalle e si ancorò con forza alla sua mano, per impedirgli di
allontanarsi.
«Non fa così freddo.»
«Sei sicuro?»
«Sicurissimo.» Steve lo
fissò a lungo. Aveva un modo buffo di strizzare lo sguardo e
arricciare le labbra rosa, lo faceva quando era pronto a dimostrare
quanto dura fosse quella sua testa bionda e che se diceva una cosa
era così e basta.
A Bucky faceva
tenerezza, perché sembrava sempre costipato, però apprezzava la
forza di volontà e poi gli piaceva poter avere una scusa per
continuare a tenere stretta la sua mano. Se fosse stato per lui, non
l’avrebbe lasciata mai.
«Allora va bene, però
copriti bene con questa.» Si spogliò della sua giacca e gliela
avvolse tra le spalle ossute, senza dargli modo di ribattere. Anche
lui sapeva essere ostinato quando voleva.
Quando tornò a
stringergli la mano, guardò oltre la ringhiera, oltre la scala,
scavalcando gli edifici più bassi dalle cui finestre si tendevano i
fili per il bucato. Sollevò un braccio a indicare più in là, una
delle sagome più alte, se affilava lo sguardo, poteva immaginare sua
madre – i capelli gonfi di piega, il grembiule legato alla vita e
l’abito alla moda – mentre si sporgeva oltre la finestra del salotto
per lavare il vetro.
«Quella è casa mia, la
vedi? E quello lì è il campetto in cui mi trovo con gli altri»
spiegò e Steve non ebbe problemi a riconoscerla. L’aveva guardata
spiccare sulla linea degli edifici ogni qual volta puntava lo
sguardo fuori dalla finestra, standosene seduto sul suo letto a
disegnare. Spesso aveva tirato una linea immaginaria che dalla
propria finestra si allungava in quella direzione e sapeva che, se
l’avesse percorsa in perfetto equilibrio senza mai cadere, sarebbe
finito a casa di quelle persone e avrebbe finalmente scoperto chi la
abitava.
Bucky la abitava.
Bucky che aveva
iniziato a raccontargli di come si calava dalla grondaia quando suo
padre lo metteva in punizione, di come odiava andare a messa la
domenica, anche se non gli dispiaceva mettersi il vestito bello
perché c’erano un sacco di persone che gli facevano i complimenti,
di come gli piaceva stare con i suoi amici, ma quando era con lui –
con Steve – era anche meglio.
Steve rimase ad
ascoltarlo per tutto il tempo, affascinato da tutte le espressioni
che Bucky riusciva a mostrare quando raccontava: faceva smorfie
quando parlava dei compiti di matematica che considerava inutili
perché a nessuno importa se Charles ha cinque o sei mele, se tanto
poi se le mangia tutte lui; si incupiva ogni qual volta accennava a
suo padre, ma tornava a sorridere allegro non appena prendeva a
parlare dei suoi fratelli, o della bambina chiamata Nat e del
suo dæmon – lei era quella di cui parlava di più.
«Il suo dæmon è sempre
nascosto, ma quando si arrampica tra i suoi capelli e spunta fuori,
ti fa prendere un grande spavento ogni volta, perché ha l'aspetto
di una vedova nera. Anche se, dato che è un maschio non dovrebbe
chiamarsi tipo Scapolo d’oro?» aveva detto a un certo punto,
con una serietà che Steve aveva ricambiato:
«Forse sarebbe più
appropriato Marito in lutto.»
«Oh! Oh! Che ne dici di
Triste Zitello?»
Si fissarono a lungo
con la fronte aggrottata, finché non riuscirono più a trattenersi ed
entrambi scoppiarono in una risata fragorosa, rischiando perfino di
scontrare le testoline per quanto le agitavano l’una accanto
all’altra.
«Buchy…»
Se non fosse stata
parte di Bucky, il bambino non si sarebbe nemmeno accordo della
vocina di Moony.
La dæmon agitò una
zampotta in sua direzione. «Ho freddo» pigolò, a suggerirgli di
rimediare.
Bucky smise di ridere
all’istante e storse il naso, indispettito perché aveva dovuto dirlo
davanti a Steve e perché Steve aveva lasciato di scatto la sua mano,
spogliandosi della giacca per restituirla al suo legittimo
proprietario, guardandolo con aria colpevole.
«Rientriamo.»
Bucky lo fermò per un
braccio. «No dai, non ho così freddo.»
«Ma mica posso tenermi
io la tua giacca se hai freddo.»
«Ma se stiamo più
vicini va meglio, davvero.»
Steve lo studiò a
lungo. Si fece più vicino e tornò a stringergli le dita – erano
gelide e la punta era arrossata dal freddo. Bucky cercò una scusa,
ma Steve lo fulminò con un’occhiata prima che potesse aprire bocca e
con uno strattone offeso – non avrebbe dovuto lasciargli la sua
giacca, proprio no! – gli sollevò le mani alla bocca, spalancò le
labbra e alitò sulle loro mani.
Il fiato era caldo,
Bucky lo sentì accarezzargli la pelle e dagli sollievo e, ad ogni
alitata di Steve, gli sembrava che non facesse più così freddo e che
l’estate fosse ormai alle porte.
«Va meglio?» borbottò
l’altro.
«Sì.»
«Sarà meglio che non
dici bugie, questa volta.»
Bucky scosse il capo.
Seduta paciosa accanto a loro, Moony tornò a premersi contro Sun,
ragliando in apprezzamento e Steve seppe che non stava mentendo. Si
spinse a sua volta vicino al bambino, e guidò le sue mani verso il
basso, tra le pieghe della giacca e in una delle tasche, perché
potessero infilarcele tutti e due e assicurarsi di averle al caldo.
Bucky lo lasciò fare.
Era una posizione scomoda e il gomito ossuto di Steve continuava a
pungolargli il fianco, ma seduto accanto a lui su quel balconcino
sgangherato, mentre condividevano la stessa tasca di un giubbotto
troppo piccolo per entrambi e guardavano giù, tra le strade di
Brooklyn, gli sembró di essere sulla cima del mondo.
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