Gente mia, ecco l’aggiornamento
della vicenda. Come sempre grazie a tutti coloro che sono passati da
queste parti. Un ringraziamento particolare va ovviamente a chi mi ha
anche lasciato il suo parere.
Capitolo
3
La
linea del fronte si annunciò in lontananza come un ribollire di fumi
scuri, punteggiato qua e là dai bagliori gialli delle esplosioni.
Von
Knobelsdorff vi si avvicinò cauto, scrutando il cielo alla ricerca
di aerei nemici, ma nessuno arrivò a sfidarlo. Guardò in basso e
vide un frenetico formicolare di uomini fra le trincee.
Aggrottò
perplesso le sopracciglia, chiedendosi se il potere del signor
Matthesius arrivasse anche a ordinare un assalto di fanteria per
distogliere l’attenzione del nemico dal suo aereo.
Come
sempre, rinunciò ad addentrarsi in quei ragionamenti. Più aveva a
che fare con lo spionaggio, del resto, più si rendeva conto che esso
era come un’idra dalle innumerevoli teste, delle quali però la
maggior parte erano perfettamente invisibili, oppure apparivano come
tutt’altro.
Salì
appena di quota, non rinunciando comunque a sondare i dintorni. Se le
misteriose vie dello spionaggio gli erano perlopiù ignote, conosceva
invece molto bene quelle dei piloti e sapeva che nessun aviatore
degno di questo nome si sarebbe lasciato sfuggire la possibilità di
una facile vittoria.
Perché
in effetti il suo placido castrone sarebbe stato tutt’altro che un
avversario impegnativo, ma avrebbe comunque rappresentato un
abbattimento, e dopo un certo numero di abbattimenti si diventava
Assi.
Aerei
però non ce n’erano da nessuna parte, e di certo a terra avevano
ben altre preoccupazioni che seguire il suo tranquillo volo.
Quando
si lasciò alle spalle le trincee, lo invase una strana sensazione
d’irrealtà. Era in territorio nemico, il quale non differiva in
nulla rispetto a quello che aveva appena lasciato, se non per un
piccolissimo particolare: se fosse atterrato lì e l’avessero
scoperto, sarebbe stato preso prigioniero, processato come spia,
forse addirittura ucciso.
Alzò
le spalle con noncuranza, con ragionamenti del genere non sarebbe
andato da nessuna parte. Aveva una missione da compiere, e se
l’avesse svolta nel modo migliore – cosa che di certo non si
presentava difficile – entro pochi giorni sarebbe tornato alla
Jasta, a litigare con Behringer e Hoffmeyer su chi avesse più
abbattimenti.
Pensò
ai suoi camerati e una sferzata di nostalgia lo invase. Si chiese se
fossero ancora vivi. Non era così scontato esserlo, in effetti, per
dei piloti da caccia.
Meccanicamente
fece scorrere lo sguardo sugli strumenti, regolò qualche parametro.
Osservò la mappa, quindi si sporse appena per controllare che la
navigazione stesse procedendo in modo corretto.
Vide
solo campi, una lunga strada bianca, rare macchie d’alberi. Di
quando in quando coglieva i tetti, rossi o color paglia, di qualche
masseria. Si chiese se in giro ci fosse qualcuno in grado di
accorgersi del suo aereo.
Virò
appena seguendo le indicazioni della bussola, poi di nuovo guardò
fuori. Individuò all’orizzonte, nitide contro il cielo chiaro del
primo mattino, le sagome di tre mulini a vento dalle pale immobili.
Abbassò
lo sguardo sulla cartina: teoricamente la sua navigazione avrebbe
dovuto terminare davanti alle imponenti strutture. C'era un grande
prato, in effetti, forse un pascolo, che sembrava creato apposta per
far atterrare gli aeroplani.
Fece
un giro tutt'intorno. Al suo passaggio, un paio di bovini si
allontanarono indolenti, uno stormo di uccelli si alzò in volo. Un
lontano luccichio d'acqua baluginò per un attimo tra le fronde.
Nessun
segno di riconoscimento.
Il
tenente fece un secondo giro, rievocò le istruzioni che la donna gli
aveva fatto imparare a memoria: un fumogeno bianco alle sette
precise.
Le
sette erano passate e di fumogeni non v'era l'ombra.
Anche
in quel caso, le istruzioni erano precise: la missione era da
considerarsi come fallita. Avrebbe dovuto invertire la rotta e
rientrare, senza la preziosa spia e senza le ben più preziose
informazioni di cui essa era in possesso.
Sarebbe
rimasto noto come colui che aveva fallito la missione. Un giovane
pilota ardimentoso, pieno d'amore di Patria, ma fondamentalmente
incapace.
Strinse
le labbra e virò per compiere un terzo giro. Le mucche ormai
dovevano essersi abituate al ronzio del suo apparecchio, perché
nessuna di esse si spostò. Scese addirittura di quota, scrutando
ansiosamente i dintorni alla ricerca di qualsiasi cosa si discostasse
dall'ordinario.
Possibile
che una spia così efficiente, un individuo che persino la donna
qualificava come abilissimo e scaltro, mancasse l'appuntamento con
quella che letteralmente rappresentava la salvezza sua e della
Germania?
Poi
colse ai margini di una macchia d'alberi un esile filo di fumo e il
cuore gli balzò nel petto. Invertì la rotta, scese ancora di quota.
Non era certo un fumogeno, più che altro sembrava un focherello di
sterpi, ma qualcosa gli diceva che non sarebbe stato opportuno
ignorarlo.
“Alla
peggio decollerò di nuovo,” disse a mezza voce, quindi ridusse
motore e diede la prima tacca di flap.
L'aereo
prese ad abbassarsi dolcemente. Von Knobelsdorff intanto si guardava
intorno, alla ricerca di buche o altri ostacoli che potessero
danneggiargli il carrello, ma il prato pareva un'unica, uniforme
distesa di erba vellutata.
Diede
un'altra tacca di flap, tolse ancora motore, portando i giri al
minimo. Per qualche istante l'aereo parve letteralmente galleggiare a
mezz'aria, poi un sobbalzo morbido fece capire all'ufficiale che
aveva toccato terra. Frenò dolcemente fino ad arrestarsi, poi subito
fece girare il velivolo su se stesso, per essere pronto a decollare
in qualsiasi momento.
A
quel punto si guardò intorno, ma anche il fumo che aveva visto
dall'alto sembrava scomparso. Si slacciò le cinture di sicurezza, si
sollevò a metà dal seggiolino, ma il nuovo punto d'osservazione non
gli diede ulteriori elementi d'interesse.
Strinse
le labbra contrariato. Che fare?
Poi
una vibrazione improvvisa lo fece letteralmente sobbalzare. Si girò
per scoprirne la provenienza e vide un uomo – un contadino, a
giudicare dall’aspetto – che si stava infilando nell'abitacolo
posteriore.
“Chi
è lei?” sbottò, alzando la voce per coprire il rumore del motore.
“Andiamo,”
disse l'altro per tutta risposta.
Von
Knobelsdorff non si mosse. “Chi è lei?” ripeté perentorio,
“Cosa fa sul mio
aereo?”
Lo
sconosciuto, che si stava già allacciando le cinture di sicurezza,
abbandonò le cinghie con un sospiro e disse: “Si muova.”
“Neanche
per sogno, se non so chi è lei.”
Il
nuovo arrivato alzò gli occhi al cielo. “Si muova, per favore.”
Von
Knobelsdorff aggrottò le sopracciglia e ringhiò: “Si qualifichi,
prima. Lei potrebbe essere chiunque, per quanto mi riguarda.”
A
quelle parole, l'uomo estrasse una pistola e gliela puntò contro.
“Potrei ucciderla, se volessi,” disse lentamente, fissandolo con
occhi che ardevano di un bagliore gelido da belva.
Von
Knobelsdorff rimase immobile, rivolgendogli a sua volta uno sguardo
feroce. “E poi chi lo fa volare, questo?” lo sfidò.
Lo
sconosciuto si limitò ad alzare gli occhi al cielo. “Spionaggio,
Matthesius. Le dicono qualcosa queste parole, o no?” Poi, senza
attendere risposta, concluse: “E ora si sbrighi, mi stanno alle
costole.”
“Di
chi sta parlando?”
“Degli
inglesi, ovviamente, stupido ragazzetto fastidioso.”
Von
Knobelsdorff aprì la bocca per dire al misterioso individuo quel che
pensava di lui, ma in quel momento apparvero nel cielo terso due
sagome fin troppo familiari. Senza più prestare attenzione all’uomo,
si sedette e si strinse al massimo le cinghie di sicurezza, poi diede
tutto motore e l’Albatros cominciò la corsa di decollo.
Le
sagome andavano ingrandendosi, e man mano le loro forme indistinte
mutavano in quelle minacciose di un biplano e un triplano.
Merda,
pensò von Knobelsdorff, calcolandone mentalmente la distanza.
L’Albatros frattanto saliva, lento e regolare. Il suo movimento era
vigoroso ma senza scatti, tranquillo. Ricordava la forza pacifica di
un cavallo da tiro.
Il
suo unico vantaggio era che aveva due mitragliatrici, una in caccia e
una posteriore. Posto che il tizio sapesse usare quella posteriore,
ovviamente.
Si
girò rapido e lo vide pronto, già imbragato e con l’arma
imbracciata. Lo sguardo acuto con cui scrutava il cielo era quello di
un rapace in cerca di preda.
Non
ebbe tempo di ragionare oltre sulla faccenda: già il biplano, un
Sopwith Pup, si stava avvicinando per prenderlo di coda.
Von
Knobelsdorff virò per mantenere il contatto visivo e intanto si
chiese cosa fare: due contro uno, praticamente in decollo, ai comandi
di un aereo che conosceva solo da un’ora scarsa. Fece partire la
prima raffica, che costrinse il Pup a scartare bruscamente. Tolse i
flap, poi cercò di guadagnare quota, ma subito il triplano si mosse
per intercettarlo. Sentì l’Albatros vibrare, vide l’avversario
schizzare via.
I
due, però, erano tutt'altro che disposti a lasciarli andare.
Avrebbe
voluto girarsi verso il suo misterioso passeggero, ma farlo avrebbe
significato perdere il contatto visivo con gli avversari, e di
conseguenza avrebbe significato permettere loro di metterglisi in
coda.
Da
come tenevano in mano i comandi non erano certo due sprovveduti, e il
fatto che fossero comparsi letteralmente dal nulla per attaccare un
aereo senza marche e senza distintivi faceva intuire che sapessero
anche perfettamente chi c'era a bordo.
Cercò
di salire ancora di quota. Il motore ormai fuori giri ululava, le pur
robuste strutture portanti vibravano. Il Pup salì invece con la
disinvoltura di un rondone, quindi con un mezzo tonneau si preparò a
piombargli addosso dall'alto. Von Knobelsdorff picchiò prima che
l'altro potesse mettere in atto la manovra, puntò in direzione del
triplano, sparò un paio di raffiche. Di nuovo sentì la vibrazione
della mitragliatrice posteriore, colse con la coda dell'occhio il
biplano che si allontanava.
Il
Pup guizzò subito dopo nell'aria, si preparò a un nuovo attacco. Il
triplano azionò le mitragliatrici. Il tenente tentò una manovra
evasiva, ma il placido ricognitore non era nemmeno lontanamente agile
come il suo caccia. Strinse i denti, virò per fronteggiare il
biplano, ma pur concentrato su di esso, vedeva il Sopwith Triplane
avvicinarsi inesorabile. Sul muso del velivolo brillavano ritmici i
lampi arancioni degli spari. Saltò un tirante di una semiala, pezzi
del rivestimento volarono via come petali da un fiore ormai sfatto.
Il
tenente diede di nuovo tutto motore, si tirò la barra alla pancia
per far cabrare l'Albatros, impostò una virata e si trovò col
fianco del triplano nel mirino. Piantò la mano sul comando della
mitragliatrice, un'ala del Sopwith saltò, la fusoliera parve
letteralmente disintegrarsi sotto la gragnuola di colpi. L'aereo
puntò il muso verso il basso.
Von
Knobelsdorff virò alla ricerca del biplano, ma in quel momento
qualcosa colpì l'Alabatros come un colpo di maglio. L'elica si
inchiodò, dal motore prese a uscire un fumo denso e nero.
Il
tenente cercò di mantenere il velivolo in assetto. Al rombo del
motore si era sostituita una cacofonia di fischi, sibili e
scricchiolii, punteggiata di tanto in tanto dallo schiocco di
strutture che saltavano, incapaci di tollerare lo sforzo della
caduta.
“Stiamo
precipitando!” udì alle sue spalle.
Non
rispose nemmeno. Il Pup stava seguendo la loro traiettoria, di tanto
in tanto tra le folate scure lo vedeva guizzare.
Si
guardò intorno alla ricerca di uno spazio che permettesse
l'atterraggio, ma il fumo che ormai lo avvolgeva gli rendeva
difficile analizzare il terreno.
Chiuse
il serbatoio della benzina, agì sui flap per cercare di recuperare
un assetto che permettesse di toccare terra in relativa sicurezza. Il
suolo si avvicinava con spaventosa rapidità, si sentiva il Sopwith
Pup ronzare intorno come una specie di insetto molesto.
Poi
un ramo si agganciò al carrello, l'Albatros capitombolò in avanti,
rimbalzò in un'esplosione di frasche, si avvitò su se stesso e con
schianti e gemiti di legno spaccato piombò nella macchia.
La
caduta fu parzialmente attutita dalla vegetazione, ma l'atterraggio
fu comunque duro. Von Knobelsdorff sentì le cinghie di sicurezza
mordergli le spalle. Batté la testa da qualche parte, curiosamente
senza sentire alcun dolore. Dopo i frenetici cambi di prospettiva
della caduta, trovare finalmente un orizzonte fermo gli diede
qualcosa che somigliava a una vaga sensazione di sicurezza. “Bene,”
mormorò.
Una
mano sulla spalla lo fece sussultare. “È ferito?” chiese una
voce.
Il
tenente scrollò la testa, poi rispose: “Non lo so.”
“Riesce
a stare in piedi?” La voce aveva un tono di urgenza autoritaria che
gli fece storcere il naso. “Non lo so,” ripeté.
Nel
suo campo visivo comparve lo sconosciuto. “Beh, se ne accerti,”
disse questi ruvido, “dobbiamo scappare.”
Come
a sottolineare l'impellenza di quell'affermazione, si udì il rombo
di un aereo a bassa quota. Una mitragliatrice crepitò e dall'alto
piovvero fogliame e rami spezzati.
Von
Knobelsdorff si sentì afferrare per una spalla e trascinare in
avanti. Scese malamente dal relitto, incespicando sulle strutture
semidistrutte dell'aereo. L'uomo lo sospinse di nuovo, con urgenza.
“Si muova,” gli disse poi, “sta per fare un altro passaggio.”
Il
tenente cominciò a correre. Il bosco era un susseguirsi di tronchi
dritti e scuri, avvolti da quello che rimaneva di una lieve nebbia.
Per terra vi erano felci e arbusti, qualche rovo che si avvinghiava
ai vestiti. Pietre coperte di muschio gli rendevano i passi malfermi.
Corsero
per un tempo che al tenente parve infinito. Il rombo dell'aereo era
sparito, gli unici rumori che si udivano erano ormai il frusciare
della vegetazione e il tonfare ritmico dei passi.
I
pesanti indumenti di volo ancora addosso, il giovane ufficiale
sentiva i rivoli di sudore scorrergli lungo la schiena.
“Dove
stiamo andando?” ansò.
“Ho
un nascondiglio.”
Von
Knobelsdorff rinunciò a rispondere. Non era improbabile in effetti
che li stessero cercando, o meglio che volessero recuperare a tutti i
costi gli importanti segreti militari che la famigerata spia tedesca
aveva trafugato. Se avevano scomodato addirittura due aerei per
intercettarli, poteva immaginare che un tratto di bosco non avrebbe
rappresentato una barriera in grado di tenerli lontani a lungo.
Chiunque essi fossero, naturalmente.
Raggiunsero
delle rovine, ormai così coperte d’edera e vitalba da risultare
quasi invisibili. L’uomo rallentò, prese a girare intorno al
rudere come alla ricerca di qualcosa. Infine disse: “Qui.” Scostò
una tenda di rampicanti, rivelando quello che rimaneva di una porta.
Fece
cenno al tenente di seguirlo, e quando furono entrambi all’interno,
fece ricadere con attenzione l’edera che aveva smosso, riportandola
alla posizione originaria.
Si
incamminò poi attraverso un androne la cui volta era crollata. Qua e
là spuntavano dal pavimento giovani tronchi, i rampicanti
serpeggiavano ovunque. A ben guardare, nelle zone più nascoste si
notava ancora qualche porzione ormai sbiadita di antiche pitture.
“Che
posto è questo?” chiese von Knobelsdorff, abbassando
istintivamente la voce di fronte alla solennità misteriosa del
luogo.
“Ci
fermeremo il minimo indispensabile,” disse l’altro per tutta
risposta, dirigendosi con sicurezza a una scala che portava verso il
basso, “dobbiamo riprendere fiato e fare il punto della
situazione.”
Il
tenente si irrigidì appena mentre l’antica diffidenza tornava a
farsi sentire.
L’uomo
sembrò accorgersene e in tono tagliente gli disse: “Siamo dietro
le linee nemiche, ci stanno braccando, sono ragionevolmente certo che
senza di lei mi muoverei con molta più disinvoltura. Se avessi
voluto abbandonarla al suo destino l’avrei già fatto, non le
pare?”
L’ufficiale
emise un sospiro. “Immagino di sì.”
“Ora
sarebbe prigioniero,” rincarò l’altro. “La starebbero già
interrogando, probabilmente.”
Von
Knobelsdorff non replicò. Si sentiva gli abiti fradici e la gola
secca, era certo di avere il viso in fiamme. Si limitò a indicare la
scala e a chiedere: “Là sotto?”
“C'è
dell'acqua.”
Il
tenente si girò a fissare lo sconosciuto negli occhi. “Lo sa
cos'ho notato?” gli disse, “Che lei non risponde mai alle mie
domande.”
“Sono
inutili,” fu l'asciutta replica.
L'altro
assottigliò lo sguardo e ringhiò: “Cos'avrei chiesto di tanto
inutile, si può sapere?”
“Un
po' tutto, finora. Mi sembra che lei non abbia ancora capito la
gravità della nostra situazione.”
“Cosa
le fa credere che non l'abbia capita?”
L'uomo
cominciò a scendere le scale. “Dovremo trovare un mezzo di
trasporto,” disse, “raggiungere il paese, prendere il treno.”
L'ufficiale
corrugò indispettito la fronte, poi disse: “L'ha fatto di nuovo.”
“Cosa?”
“Non
ha risposto alla mia domanda.”
“Perché
sarebbe controproducente farlo, risponderle sarebbe solo un'inutile
perdita di tempo. Inoltre, vale sempre la buona vecchia regola: meno
cose sa e meglio è.”
A
quel punto, con un paio di balzi agili il tenente sopravanzò il
misterioso interlocutore, quindi si pose a barriera sui gradini. In
tono tagliente disse: “Ma non sono nemmeno un cavallo, che lei può
condurre dove vuole con redini e speroni. Sono un ufficiale tedesco,
sono quello che ha rischiato la pelle combattendo contro due aerei
inglesi per proteggerla...”
“Non
sarebbe successo, se lei non avesse cominciato con le sue stupide
domande,” lo interruppe l'uomo.
Come
se non aspettasse altro, rapido von Knobelsdorff replicò: “Non
avrei dovuto chiederle nulla? E se lei fosse stato un agente nemico
che si era sostituito all'agente tedesco? Io l'avrei portata
tranquillamente oltre le linee senza nemmeno sapere cosa stavo
facendo.”
Si
fissarono per qualche secondo in silenzio. Sul gradino più basso,
leggermente ansante per la rabbia, von Knobelsdorff doveva tenere la
testa piegata all'indietro per mantenere il contatto visivo con
l'altro, ma non distoglieva lo sguardo.
Il
Werwolf fissò serio l'ardimentoso giovanotto: occhi fiammeggianti,
capelli un po' scompigliati dalla corsa che gli ricadevano sulla
fronte pallida, un rivolo di sangue ormai secco che gli scendeva
lungo la guancia. Un'espressione dura, irosa, come di chi ha ricevuto
un torto immeritato e ne chiede conto.
Normalmente
i suoi collaboratori li voleva più docili. Li voleva efficienti,
disciplinati e silenziosi come i camerieri dei ristoranti di lusso.
Non
gli piacevano le teste calde che volevano mettere becco in ogni cosa.
A
onor del vero, quello in effetti non se l'era scelto. Di sicuro
l'avevano reclutato Matthesius e la Lesser. Serviva un pilota di
aeroplani e i due, con lo spirito pratico che li accomunava, avevano
probabilmente scelto il migliore che avevano trovato.
Peccato
che attaccare a un calesse un giovane purosangue domato a metà
garantisse tutt'altro che una serena passeggiata.
Lo
oltrepassò con andatura misurata, finì di scendere le scale, poi di
nuovo si girò a guardarlo. “Venga giù,” gli suggerì in tono
più conciliante, “venga a bere un po' d'acqua.”
Ci
fu qualche altro secondo di immobilità carica di tensione, poi il
giovanotto emise un sospiro e rilassò la postura rigida delle
spalle. Scese a sua volta gli ultimi gradini.
Il
Werwolf gli tese una borraccia.
Egli
la prese, la stappò e sollevò lo sguardo a fissarlo.
“Non
è avvelenata,” gli disse l'agente segreto. “Vuole che beva prima
io, per dimostrarglielo?”
“Non
importa, tanto se fosse avvelenata avrebbe qualche antidoto in
bocca.”
Il
Werwolf sogghignò. “Molto acuto.”
Rimase
a fissarlo mentre si dissetava. Fece scorrere lo sguardo sulla sua
gola, che nella penombra del sotterraneo appariva bianca e liscia, e
poi sul suo profilo regolare. “Si tolga quella roba,” gli disse.
Il
giovanotto abbassò all'istante la borraccia. “Cosa?”
“Quel
soprabito pesante. Di questa stagione dà troppo nell'occhio.”
“Mi
serve per volare.”
“Temo
che non ce ne andremo volando,” gli rispose l'agente segreto.
Guardò in alto, verso la scala che avevano appena percorso, e
aggrottò le sopracciglia in ascolto. I suoni erano quelli neutri
della natura, il cinguettare degli uccelli, lo stormire delle fronde.
Forse il battere ritmico di un picchio in lontananza.
Si
fece consegnare la borraccia, bevve a sua volta. Il fatto che non si
sentissero rumori sospetti non era ovviamente una garanzia di non
avere nessuno alle costole. Anzi, paradossalmente sarebbe stato
meglio udire qualche maldestro tramestio, o magari un latrare di
segugi. Nessun rumore invece significava una cosa sola: che chi lo
stava inseguendo era così abile da non produrne.
Si
voltò verso il giovanotto, che si stava facendo scivolare giù dalle
spalle un cappotto foderato di pelliccia, e gli disse: “Togliamo
quel sangue, così dà troppo nell'occhio.”
L'altro
gli rivolse uno sguardo torvo. “Quale sangue?”
Il
Werwolf trasse di tasca un fazzoletto bianco, vi fece cadere un po'
d'acqua e si protese per ripulirlo, ma il giovanotto si fece
indietro. “Faccio da solo,” ringhiò.
“E
come, se non riesce nemmeno a vedersi?” Senza dargli il tempo di
replicare, l'agente segreto gli si avvicinò ulteriormente e gli
passò la pezzuola umida sulla guancia. L'ufficiale fremette, ma
rinunciò a indietreggiare.
“Così,
bravo,” apprezzò il Werwolf, continuando a ripulirlo. “Ha un
piccolo taglio,” disse poi, a voce più bassa. “Le fa male?”
“No.”
Il giovane aggrottò le sopracciglia. “Ora basta, però.” Voltò
la testa, allontanando il viso dal tocco umido del fazzoletto.
“Non
ho finito.”
“Finisco
io.”
“Perché?”
“Ora
sono io che non rispondo alla sua domanda, va bene?”
Il
Werwolf si limitò a porgergli il fazzoletto. “Si sbrighi,” gli
disse soltanto, “qui siamo in pericolo.”
Von
Knobelsdorff prese riluttante il piccolo pezzo di tessuto e se lo
passò sul volto. Si era già trovato molte volte in pericolo, ma si
era sempre trattato di minacce chiaramente identificabili, ben
definite. Visibili,
in una parola. Pallottole, aerei nemici, il rischio di finire
disarcionato durante un assalto.
Tutte
cose conosciute, che sapeva come gestire.
Gettò
uno sguardo sul suo interlocutore: età indefinita ma giovane, una
camicia sdrucita, con le maniche arrotolate fin sopra i gomiti, un
fazzoletto al collo, le scarpe sporche di fango. Un cappello
sformato, sotto il quale si intravedeva una corta capigliatura
bionda. Incrociandolo per la strada, nessuno gli avrebbe rivolto una
seconda occhiata.
A
ben guardare, però, c'era qualcosa che strideva rispetto
all'apparenza di semplice contadino.
Gli
occhi chiari erano vividi, imperiosi. Inducevano l'eventuale
interlocutore ad abbassare i propri. Si muoveva sicuro, con la grazia
letale di un predatore, e di certo le sue mani erano abituate a
stringere armi, più che attrezzi agricoli.
“Chi
è lei?” gli chiese d'impulso, poi alzò le spalle e soggiunse:
“Tanto non me lo dirà, vero?”
“Meno
cose sa...” cominciò l'uomo. L'ufficiale lo interruppe: “Certo,
certo. Meno cose so e meglio è, non è così?”
“Io
lo dico per il suo bene.”
“E
anche perché questo povero idiota non sarebbe mai in grado di
custodire le informazioni nel modo corretto, vero?”
L'uomo
scosse la testa innervosito, poi rispose: “Io non conosco la sua
resistenza a metodi di persuasione energici,
giovanotto. Non so se di fronte a ferri roventi, scosse elettriche o
frustate con il filo spinato sarebbe in grado di raggiungere l'estasi
del martirio o spiattellerebbe tutto frignando come un infante, per
cui preferisco non rischiare.”
Von
Knobelsdorff strinse i denti. “E lei sarebbe in grado di
resistere?” lo provocò.
“Io
sì,” fu la secca risposta.
“Perché,
ha provato?”
L'uomo
lo trafisse con uno sguardo gelido, poi tagliente replicò: “Proprio
non ce la fa a non fare domande, vero?”
Von
Knobelsdorff stava per ribattere quando l'altro lo fermò con un
gesto e perentorio sibilò: “Andiamo.”
Convinto
che sarebbero tornati da dove erano venuti, il giovane ufficiale si
mosse verso le scale, ma l'altro si addentrò rapido nei meandri
diroccati del sotterraneo, aggirando cumuli di pietre e detriti. Alla
scarsa luce che penetrava dalle fenditure della volta, il tenente
faceva del suo meglio per non farsi distanziare troppo. Si chiese se
quel tizio sarebbe stato capace di lasciarlo indietro, magari per
poter fuggire più in fretta.
Probabilmente
sì, concluse. E forse, nemmeno lui al posto suo avrebbe rischiato di
non consegnare in tempo importantissimi segreti militari per salvare
la vita di un anonimo tenentino degli ulani.
Non
poté indugiare oltre in quei ragionamenti, perché d'un tratto
l'uomo lo spinse contro la parete e gli fece cenno di tacere. Indicò
poi verso l'alto.
Von
Knobelsdorff sollevò lo sguardo e si accorse che da una crepa del
soffitto stava scendendo un'impalpabile pioggia di polvere
d'intonaco.
Istintivamente
si appiattì contro il muro. Aveva cacciato tante volte prima della
guerra, aveva abbattuto cervi e caprioli nelle tenute della sua
famiglia, per cui non faceva fatica a immedesimarsi in colui o coloro
che stavano girando intorno alle rovine. Poteva quasi percepire
l'attenzione spasmodica, l'ebbrezza. Quell'istinto sicuro che anche
in assenza di ogni altro elemento coglieva la presenza della preda.
Si
voltò verso l'uomo, che di nuovo gli fece cenno di tacere.
Dall'alto
cadde altra polvere, a von Knobelsdorff parve addirittura di cogliere
il movimento di un'ombra.
Percepì
una pressione sul braccio. Si girò di scatto e l'uomo gli indicò
l'imboccatura di un basso cunicolo.
Si
infilarono nel condotto. La già scarsa luce venne meno dopo pochi
metri, precipitando il percorso in un buio piceo. Von Knobelsdorff
aveva l'impressione che la galleria piegasse lentamente verso il
basso. Dapprima asciutto e polveroso, il fondo andava man mano
facendosi più umido, tanto che a un certo punto il tenente ebbe la
chiara percezione di affondare in una fanghiglia densa.
Allungò
una mano a toccare la parete e la trovò umida e muscosa. L'aria
fredda sapeva di limo.
Cercò
di allungare il passo, per non farsi distanziare eccessivamente
dall'uomo, ma incespicò e quasi cadde.
“Stia
attento,” sibilò l'altro, senza diminuire l'andatura.
Il
tenente rinunciò a replicare.
Continuarono
ad avanzare. Ormai per terra c'era l'acqua, se la sentiva penetrare
nelle scarpe a ogni passo, ma allo stesso tempo sembrava che un vago
chiarore si stesse sostituendo al buio assoluto della galleria.
“Stia
attento,” gli ripeté l'uomo a bassa voce, “potrebbe essere là
fuori che ci aspetta.”
“Di
chi sta parlando?” gli chiese von Knobelsdorff, ma prevedibilmente
non ricevette alcuna risposta.
Il
chiarore nel frattempo stava aumentando, ormai si distinguevano
vagamente le asperità delle pareti di pietre grezze. L'aria si era
fatta meno umida, l'odore di limo era arricchito dai profumi resinosi
di un bosco.
Il
giovane tese l'orecchio e gli parve di cogliere un lieve scorrere
d'acqua.
Con
l'acqua ormai alle ginocchia, raggiunsero la fine della galleria.
Dapprima l'uomo si immobilizzò e rimase per lunghi minuti in
ascolto, poi, quando si persuase che a parte loro non c'era nessuno,
riprese ad avanzare cauto. Si fecero strada piegati fra erbe palustri
e rami di salice. Von Knobelsdorff si accorse che si trovavano
nell'ansa di un fiume, apparentemente lontano da ogni centro abitato.
Tutto
conferiva una sensazione di calma idillica, tanto che l'ufficiale
stentava più che mai a convincersi che la loro situazione fosse
pericolosa.
Fu
l'uomo che a un certo punto ruvidamente disse: “Muoviamoci, the
Bishop non ci metterà molto a capire da che parte siamo usciti.”
Il
tenente si voltò a fissarlo. “Chi?”
“Andiamo.”
L'altro
alzò gli occhi al cielo esasperato. Avrebbe avuto mille domande da
porre al misterioso agente, come conosceva quel tunnel, ad esempio,
chi o cosa era the Bishop, perché lo riteneva così pericoloso, ma
era certo che non avrebbe ricevuto risposta a nessuna di esse. Si
rassegnò a seguirlo mentre attraversava la golena e poi si
inerpicava sull'argine.
Arrivarono
alla sommità della barriera. Appoggiato al tronco di un albero,
l'uomo fece scorrere lo sguardo sulla pianura costellata di covoni.
Era
ormai tarda mattinata e i contadini si preparavano a consumare il
pasto. Attaccati a carri carichi di fieno, placidi cavalli da tiro
tenevano la testa nascosta nel sacco della biada, agitando talvolta
la coda per scacciare le mosche.
L'uomo
si voltò verso l'ansa da cui erano arrivati, aggrottò le
sopracciglia e disse: “Muoviamoci.”
Fece
per incamminarsi, ma subito si arrestò. Fissandolo critico, disse a
von Knobelsdorff: “Naturalmente non dobbiamo dare nell'occhio. Le è
chiaro questo, no?”
“Certo,”
ringhiò l'ufficiale.
“Pensa
di esserne in grado?”
“Se
le dico di no cosa fa, mi lascia qui?”
“Mi
sembra ovvio.”
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