Bentornati
su questi schermi!
È
passato praticamente un anno, perciò non perderò
neppure tempo a
scusarmi per il ritardo: penso che ormai mi conosciate. A chi ancora
resiste e vuole conoscere il finale di questa storia (che
arriverà,
promesso), semplicemente grazie. Come sempre grazie in particolar
modo a cristal_93, Persej Combe e Mad_Dragon per continuare a seguire
e recensire questa storia!
Come
l'altra volta, lascio qui un breve riassunto
delle puntate precedenti: Emir vive praticamente
recluso
nella Villa da quasi due anni. Rotwang costituisce il suo unico
collegamento col mondo esterno e con il Laboratorio, ma la Silph ha
programmato un nuovo viaggio in Guyana alla ricerca di un nuovo
esemplare di Mew. Rotwang dovrà perciò rimanere
lontano da Isola
Cannella per circa due mesi e, nel tentativo di aiutare Emir a
sopravvivere alla propria depressione, gli fornisce antidepressivi e
ansiolitici sufficienti almeno per la sua assenza.
Detto
questo vi lascio alla lettura, ma vi aspetto alla fine del capitolo
per una piccola nota chiarificatrice!
Buona
lettura
Afaneia
Capitolo
XII – Irrimediabile
Venne
a
prenderli una macchina per portarli al molo.
Emir
si
attardava per casa mettendo mano ora a questo ora a quello, senza
senso ma senza posa, per avere la sensazione di frapporvi un
ostacolo; ma il tempo continuava a scorrergli via dalle mani, e
Rotwang si aggirava per la casa trascinando bagagli e borse e
medicinali. Aveva salutato Mew quella mattina, abbracciandola e
coccolandola e nascondendo gli occhi arrossato contro il pelo rado
del suo muso, ed Emir aveva provato un subitaneo moto di stizza
–
perché Mew era incapace di comprendere il significato del
distacco,
e perché d'improvviso gli era parso che quel saluto
sottraesse del
tempo a lui. Avevano avuto due anni, e dal giorno in cui avevano
saputo della partenza altri sette mesi, e Rotwang sarebbe tornato
presto; allora perché gli pareva di non aver più
tempo?
Rotwang
era
molto silenzioso, quel giorno. Continuava ad aggirarsi per la casa,
facendo su e giù per le scale con liste e oggetti che gli
pareva
d'aver dimenticato, e quasi non lo guardava. Solo quando l'autista
spazientito venne a suonare il campanello dopo aver finito di
caricare i bagagli più pesanti si decise ad andare.
Si
soffermò
sulla soglia per un momento, a guardarlo a disagio, e infine disse:
«
Preferisci che ci salutiamo qui? Come se ci salutassimo un giorno
qualunque?»
Non
si erano
mai salutati sulla porta al mattino, ma non c'era tempo per chiarirlo
in quel momento. «No. Vengo con te.»
Rotwang
parve
improvvisamente sollevato, ed Emir comprese che quella proposta
l'aveva fatta soltanto per tutelare il suo abominevole orgoglio.
«Bene. Pensavo che preferissi non... beh, ti farà
bene uscire. E
quantomeno Lestournelle schiatterà di rabbia.»
Emir
continuò
a provare la stessa dolorosa sensazione inesprimibile di panico
durante tutto il viaggio in auto. L'autista era discreto e silenzioso
e loro erano seduti sul sedile posteriore, ma non dissero una parola
per tutto il percorso, e sedettero l'uno distante dall'altro lungo il
sedile.
Erano
già
tutti lì, a supervisionare la fine delle operazioni di
carico del
materiale; alla vista di Valérien, Emir si sentì
mancare. Non lo
vedeva da quasi due anni, da quando aveva fatto perquisire il Centro
Pokémon Volontario, e nella sua mente era rimasto lo stesso.
Valérien, invece, era invecchiato, ed Emir a questa
eventualità non
aveva mai pensato: era ingrassato, il suo volto appariva ancora
giovane ma stanco, quasi malato. Gli strinse le viscere una morsa di
dolore. Valérien era stato mostruoso verso di lui, ma era
stato lui
a spingerlo a farlo, e Valérien non sarebbe invecchiato
tanto se non
fosse stato per lui.
Quando
l'autista scese dalla macchina per scaricare i bagagli di Rotwang ,
lo sguardo di Valérien incrociò il suo attraverso
il finestrino.
Emir non si mosse, ma lo vide avvampar di rabbia: durò solo
un
istante, perché Valérien era troppo vigliacco per
restare, e
impettendosi si rivolse seccamente alle sue colleghe e si
allontanò
verso il suo traghetto. Emir se ne scoprì suo malgrado
sollevato.
«Sei
diventato molto più spaventoso di me, Fuji»
mormorò Rotwang
spingendolo verso lo sportello per invitarlo a uscire. «Non
sei
soddisfatto?»
L'entusiasmo
di Portia nel vederlo era immutato, e lo era anche lei. Quanto ad
Ami, quella era la prima volta che incontrava il famoso nuovo
acquisto del Laboratorio: era esattamente come se l'era immaginata
dai racconti di Rotwang, e dall'incertezza del suo sguardo Emir
intuì
che era dibattuta tra la curiosità verso il suo nome e la
tensione
che attorno a esso aveva alimentato Valérien. Gli strinse
rapidamente la mano, ma subito accennò col capo al
traghetto, come
se si sentisse a disagio a star lì, e mormorò
qualcosa sul
raggiungere il capo a bordo.
«Aspettami,
andiamo insieme» la trattenne Portia al volo; Ami si
fermò un po'
seccata, e Portia, del tutto inaspettatamente, gli gettò le
braccia
al collo e lo baciò sulle guance.
«Starai
bene,
Emir, vero?»
Questo
non se
l'era aspettato. Emir rise nervosamente contro i suoi capelli che lo
soffocavano, sentendosi sotto lo sguardo di Rotwang,
e
mormorò: «Ma certo. Perché pensi
che...»
«Lo
sai il
perché.» Le braccia di Portia s'insinuarono dentro
il suo cappotto
aperto ed Emir sperò che volesse solamente abbracciarlo
più
stretto, ma poi sentì che le sue mani palpavano le sue
costole
sporgenti attraverso la camicia. «Mio marito è a
casa, lo sai,
vero? E anche le bambine... perché non vai a cena da noi,
una volta
alla settimana, eh? Anche senza di me... lo sai, vero, che a Chris
farebbe tanto piacere, e anche a me?»
«Certo»
balbettò Emir battendole le mani sulle spalle. «Ci
andrò se
proprio ci tieni tanto... ma tu stai tranquilla e fa' buon
viaggio.»
«E
tu mangia
un po' di più» lo rimbeccò Portia, lo
baciò ancora sulle guance e
si staccò da lui. «Ti aspetto su» disse
soltanto a Rotwang, e lei
e Ami si diressero verso Valérien, che ostentava poco
lontano la sua
insofferenza e la sua rabbia.
Erano
soli in
quelle briciole di tempo che erano loro rimaste, erano troppo poche,
rimanevano troppe cose da dire, e non gliene veniva in mente nessuna.
Si sarebbero rivisti entro due mesi al massimo, non c'era nulla di
definitivo nel loro saluto, ma Emir non riusciva a visualizzare nella
mente il giorno del ritorno, come se si collocasse in qualche luogo
del tempo che alla sua vita non era dato raggiungere.
«Mi
chiamerai, quando troverai un telefono?»
«Certo...
tutte le volte che ce ne sarà uno» promise
Rotwang, che sapeva bene
quanto lui che nella giungla telefoni non ne avrebbero trovati molti.
Sembrava che solo guardarlo negli occhi gli costasse uno sforzo
incredibile. «Tu prometti che andrai a cena da Chris, che
prenderai
le medicine, che... beh, lo sai.»
Certo,
lo
sapeva – Mew. Emir sentì un
sorriso freddo, meccanico,
permeare gli angoli della bocca senza irradiarsi ai suoi occhi.
Sempre Mew, ovunque Mew, infiltrata ovunque, in ogni viluppo della
sua voce, come suo padre, come Lavandonia, senza poterne scappare: ma
imponendosi di reprimere quello che invece avrebbe voluto urlare, si
sforzò di annuire. «Te lo prometto.»
Dopodiché,
per non saper che dire, Rotwang lo afferrò tra le braccia e
lo baciò
a lungo in mezzo al molo.
Quando
si
separò da lui, Rotwang appariva enormemente in pace con se
stesso.
«Scusa»
commentò compiaciuto. «Nulla di personale, sai...
solo per far
incazzare Lestournelle.» Dopodiché
poggiò brevemente la fronte
contro la sua, chiuse gli occhi per un istante, e solo allora
inspirò
profondamente e lo lasciò andare per avviarsi verso i suoi
colleghi.
Emir
rimase
sul molo finché la lontananza non gli rese indistinguibili
le
piccole figure che si affacciavano sul ponte del traghetto. Non
attese oltre.
L'autista,
che
non aveva nulla in contrario a riportarlo in paese nel suo viaggio di
ritorno, lo riaccompagnò al cancello della villa e lo
salutò più
cortesemente di quanto egli si sarebbe aspettato. Emir lo
ringraziò
un po' goffamente, in fretta, si richiuse la portiera alle spalle e
un minuto dopo, finalmente, si ritrovò nella fresca penombra
della
villa. Inalò in profondità l'odore della sua
casa, delle sue cose,
e si sentì tornato nel suo nido sicuro e inviolabile dove il
resto
del mondo non poteva toccarlo. Ma ora, senza preavviso, era solo.
Rotwang non c'era – e nel silenzio della villa lo
colpì la
consapevolezza improvvisa, totalizzante, di che cosa significasse
l'assenza e di essere solo. E anche un'altra – che per la
prima
volta s'era reso conto che Mew era la causa di tutto, e che lui la
odiava.
I
suoi sogni
mutarono bruscamente così come li avevano mutati i farmaci
la prima
volta, ma all'avventura si sostituì l'angoscia. S'erano
fatti
orribili: avevano una trama complessa e articolata, angosciante;
erano ancora emozionanti, ma erano incubi. Si svegliava sudato nel
letto disfatto, spesso nel cuore della notte, e non riusciva a
riprender sonno, perché le fredde dita nere dei suoi incubi
s'insinuavano lungo la sua schiena, ed erano incubi orribili in cui
personaggi misteriosi commettevano strani delitti. Gli
capitò di
sognare sua madre – erano anni che non la sognava; ma erano
sogni
agghiaccianti nei quali attendeva la sua morte per partire per
l'isola, ed Emir si svegliava agitato e madido di sudore e ricordava
angosciosamente che non aveva idea se sua madre fosse viva o morta.
Si svegliava accaldato e sudato, scalciava via le coperte e rimaneva
a letto a fissare il soffitto nel buio, inalando a grandi respiri
l'aria umida della stanza. Ma era pur sempre inverno, e presto si
sentiva il sudore ghiacciato sui fianchi e brividi sulla pelle, ma le
coperte sfatte si attorcigliavano attorno alle sue gambe e gli pareva
che lo avviluppassero come serpi. Non poteva restare a letto, allora
si alzava e si gettava qualcosa addosso e scendeva al piano di sotto.
Vagava
per un
po' la villa deserta, ma faceva troppo freddo in casa e da fare non
c'era niente. Emir finiva per scendere nel sotterraneo, dove l'aria
chiusa e pesante e le pareti prive di vie di fuga lo facevano sentire
prigioniero ma al sicuro, e là, avvolgendosi in coperte
altrettanto
sgualcite come quelle che aveva lasciato, si distendeva sul divano e
si addormentava. Dal divano dormiva spesso senza sogni.
Rotwang
era
stato la lancetta delle ore di tutte le sue giornate, e ora che non
c'era il tempo per lui non aveva più alcun significato. Dopo
le sue
notti insonni e tormentate si svegliava a giorno ormai inoltrato,
quando era la fame a tirarlo giù dal divano e trascinarlo in
cucina,
a mettere insieme di malagrazia qualcosa che facesse da colazione e
pranzo per lui e Mew, che a quell'ora reclamava a gran voce da
mangiare. Dopodiché, per le successive sei od otto ore, da
fare non
gli rimaneva nient'altro. I giorni erano più terribili delle
notti,
perché gli incubi almeno gli tenevano compagnia ed erano
meglio del
nulla.
Non
riusciva a
tollerare la presenza di Mew. Era gioiosa ogni giorno allo stesso
modo, come lo era ogni giorno da due anni, ma in quei due anni la sua
sopportazione verso di lei, verso le sue insignificanti moine e le
sue richieste di un affetto che le era in ogni modo indifferente, si
era esaurita. Gli pareva passata una vita intera da quando si trovava
con Valérien, a sera fatta, di fronte al vetro che svelava
la
prigione di Mew al Laboratorio, e vanamente cercava in lui un
confronto per dar voce ai suoi dubbi e cercare di capire perché
Mew fosse felice in ogni istante di tutto e di tutti
– ma
quelle sere erano passate, ed Emir aveva scoperto soltanto che le sue
domande erano prive di senso. Non c'erano ragioni. Mew era sciocca e
insensata e totalmente incapace di difendersi, ed era per colpa della
sua incapacità di distinguere il bene dal male che lui era
intrappolato là dentro con lei.
Non
s'era
accorta della partenza di Rotwang; o meglio, di certo se n'era
accorta, perché Emir aveva troppa stima della sua
intelligenza per
dubitarne; ma non vi aveva prestato attenzione. Per il primo paio di
giorni dopo la partenza, intorno alle sei, che era l'orario a cui
normalmente Rotwang rincasava e scendeva a salutarla, Mew aveva
sollevato lo sguardo e aveva pigolato a lungo con intonazione
interrogativa: Emir l'aveva guardata in un misto di sorpresa e
speranza, ma per la rabbia che provava nei suoi confronti non le
aveva detto niente, e Mew non aveva fatto altro. Non era mai stata
triste, inquieta, o altro, nulla che tradisse in lei il minimo
sentimento di distacco o nostalgia, e per questo Emir provava
disgusto. Ormai a stento cucinava per lei. Se solo avesse potuto, se
ne sarebbe sbarazzato: non riusciva più a tollerare la sua
irritante
presenza – avrebbe potuto portarla fuori di nascosto, nella
stessa
Pokéball che aveva usato per portarla lì,
prendere un traghetto,
portarla sul continente, magari a Johto persino, e liberarla, e
nessuno avrebbe più sentito parlare di lei...
già, ma poi Rotwang
che avrebbe detto al suo ritorno, che avrebbe fatto senza di lei? E
soprattutto, se Mew non ci fosse più stata, sarebbe ancora
rimasto
con lui?
A
volte,
quando sedeva sul divano senza nulla da fare, l'osservava
intensamente tanto che i suoi occhi le bruciavano addosso. Mew si
voltava verso di lui con gli occhi strabordanti di
curiosità,
enormi, ed Emir, cogli occhi spalancati e infissi nei suoi come se
potesse ipnotizzarla, provava un singulto di disperazione.
«Mew,
usa
Teletrasporto» mormorava in un moto di preghiera. Aveva
sempre
guardato con disprezzo il mestiere dell'allenatore perché
gli pareva
che non richiedesse la fatica o l'impegno che tutti lamentavano: non
richiedeva studio né talento, gli pareva che tutto
ciò che
facessero gli allenatori (e per cui tanto venivano acclamati e
idolatrati) fosse dar ordini a un Pokémon che li eseguiva.
Ma ora
che ci provava e che Mew lo fissava con curiosità e non
reagiva, si
domandava se forse davvero occorresse un talento che lui non
possedeva. «Mew... usa Teletrasporto.»
Che
Mew fosse
in grado di usare Teletrasporto se solo lo avesse voluto era
fuor
di dubbio, poiché lo dimostravano i test genetici e le
sperimentazioni compiute da Valérien; ma a quanto pareva non
voleva,
o forse la sua voce incerta e piena di dubbi non aveva autorevolezza
sufficiente su di lei, chissà. Mew si limitava a guardarlo
senza
capire, ed Emir, gonfio di frustrazione, andava a cercare i suoi
farmaci. La sua disperazione era tale che non poteva fare altro.
Rotwang
aveva
sbagliato a dargli i farmaci, e questo non avrebbe mai dovuto
saperlo. Non avrebbe dovuto fidarsi di lui e della sua promessa, ed
Emir si sentiva colpevole d'aver abusato della sua fiducia.
La
prima volta
era capitato per errore. Rotwang gli aveva prescritto una compressa
ogni mattina: un giorno, Emir s'era svegliato alle cinque, ne aveva
presa macchinalmente una e s'era riaddormentato. Al suo risveglio,
quattro ore dopo, ne aveva assunta un'altra senza ricordarsi della
prima e se ne era reso conto solo dopo un po'. Era rimasto in
angoscia in attesa dei sintomi; ma non gli aveva fatto niente, o
quantomeno differenze lui non ne aveva percepite, e aveva provato uno
strano senso di delusione. Rotwang gli aveva detto che non era
così
che funzionavano le cose, che dell'effetto dei medicinali era
impossibile accorgersi logicamente; ma scoprire che neppure una
doppia dose gli faceva il minimo effetto lo lasciò confuso.
Non era
quello che si sarebbe aspettato.
Per
questo
motivo, una notte in cui si sentiva particolarmente disperato, in cui
la solitudine gli appariva sconfinata e insormontabile e l'alba
irraggiungibile, Emir afferrò il blister dal comodino, se lo
svuotò
in mano e inghiottì tutto insieme.
Stette
malissimo per il resto della notte, per le medicine o per l'angoscia
d'aver realizzato quel che aveva fatto – s'indusse il vomito,
si
addormentò, si riscosse, pianse e infine promise a se stesso
che non
l'avrebbe fatto mai più. Ma la sera seguente, dopo aver
dormito per
tutto il giorno e aver ingoiato cautamente del cibo solido, non era
morto, e per qualche ora non aveva pensato alla sua disperazione. Ora
che la nottata era passata e gli appariva lontana, non gli pareva
d'esser stato poi tanto male, in confronto al dolore di ogni giorno.
Aveva pensato che forse, se proprio ne avesse avuto un bisogno
irrefrenabile come la notte precedente, e solo in quel caso, avrebbe
potuto riprovare, questa volta con gli ansiolitici; e così
aveva
fatto.
Mew
lo
percepiva quando ne prendeva troppi. Avvertiva qualcosa di diverso in
lui, che fosse l'eccessiva sonnolenza o l'inusuale sovreccitazione, o
forse solo la diversa qualità del suo respiro; ma quando si
avvicinava cogli occhi colmi di curiosità e accostava il
muso per
annusargli la bocca, Emir la cacciava seccato con la mano. Del suo
affetto, a maggior ragione perché era lo stesso affetto
superficiale
ed effimero ch'ella aveva dimostrato a Rotwang, poteva fare a meno.
La odiava.
Si
svegliò un
giorno con in testa il balenare di un pensiero che non riusciva a
mettere a fuoco chiaramente. Era un'altra angoscia, una completamente
nuova, diversa, che andava ad assommarsi alle altre; forse derivava
da un sogno che aveva fatto quella notte. Ebbe bisogno di qualche ora
per trovare il coraggio di guardare dentro di sé quel
pensiero e
affrontarlo come se fosse reale.
Si
costrinse a
sedersi a esaminare la questione dopo aver tentato invano di dormire
per tutto il pomeriggio sul divano del sotterraneo. La presa di
coscienza della sua sciocchezza continuava a balenargli in mente a
tratti, ogni volta che chiudeva gli occhi; e alla fine Emir
rovesciò
le coperte in un angolo del divano, imprecò e
andò a prendere le
scatole di medicine che gli rimanevano.
Le
trovò
sparse un po' per tutta la casa, in camera, nel salottino sulla
scogliera, nei saloni del sotterraneo. Tornò a sedersi sul
divano,
le dispose sul tavolino, estrasse ogni singolo blister e si mise a
fare i conti. Non ci voleva un genio, ma contò e
ricontò due volte,
per sicurezza, e ancora una volta, e alla fine non ebbe più
dubbi –
Rotwang gli aveva lasciato farmaci sufficienti per i due mesi della
sua assenza. Era passato meno di un mese. Sul tavolo ce n'erano a
stento per altri dodici giorni.
Si
passò una
mano sugli occhi sentendo di non riuscire a respirare. Il cuore gli
palpitava tanto che se lo sentiva rimbombare nei polsi; non ci vedeva
più bene; gli si appannavano gli occhi; e improvvisamente
Mew balzò
sul tavolo e gridò: «Mew!»
Emir
le
scagliò il taccuino addosso.
Mew
si sollevò
gioiosamente a mezz'aria quando il taccuino le sibilò
accanto e si
coprì la bocca per soffocare un trillo di gioia. Si
dimenò
piroettando nell'aria più e più volte, squittendo
e ridendo perché
credeva ch'egli avesse inventato un nuovo bellissimo gioco, ed Emir
rimase seduto immobile e inorridito a contemplare in silenzio quello
che aveva fatto.
Mew
squittì
ancora, aspettando speranzosa che Emir le scagliasse addosso ancora
qualcosa da poter scansare. Ma Emir scosse piano la testa e
mormorò:
«Vai a giocare di là per conto tuo. Io non ho
più voglia di
giocare.»
Mew
continuò
a protestare per un po' nel tentativo di richiamare la sua attenzione
e costringerlo allo sfinimento a giocare con lei; ma Emir la
ignorò
e andò a raccogliere dal pavimento il taccuino aperto che
giaceva
sotto di lei. Non riusciva nemmeno a pensare; tutto attorno a lui
fischiava e sibilava e gli rimbombava nelle orecchie, ed Emir avrebbe
voluto soltanto che Mew la smettesse una buona volta di squittire e
pigolare e che facesse silenzio per poter finalmente iniziare a
pensare – ma di silenzio non ce n'era, ed Emir raccolse il
taccuino
e fuggì via dal sotterraneo senza una parola.
Si
rifugiò
nel salottino che affacciava sul mare, dove il sole velato di nubi
gettava attraverso le ampie finestre ombre mutevoli e cangianti, e si
accovacciò su una poltrona colla schiena rivolta verso il
sole
perché non voleva guardare fuori. Ricominciò a
respirare solo dopo
un po', quando finalmente gli parve che il sangue gli martellasse un
po' meno nei polsi e che tutto attorno a lui fischiasse un po' meno,
e socchiudendo gli occhi si appoggiò allo schienale e
inalò
profondamente l'aria che odorava di salsedine e di polvere.
Il
suo primo
pensiero quando l'aveva quasi colpita non era stato d'orrore
– era
stato: se fosse morta, come avrei fatto a dirlo a Richard? E
se questo era stato l'unico pensiero che aveva attraversato la sua
mente prima di tornare alla lucidità, e ancora in quel
momento si
sentiva spaventato non da quello che avrebbe potuto farle ma solo
dalle conseguenze che avrebbe vissuto, voleva dire che se fosse morta
egli sarebbe stato felice? E poi ancora non faceva che pensare
vergognosamente, indegnamente: ma quand'era che Mew si sarebbe mai
ribellata? Perché Mew doveva sapere
ch'egli aveva appena
rischiato di ucciderla, o forse soltanto di farle del male: doveva
saperlo, Emir aveva visto e studiato quanto lei fosse intelligente e
in grado di comprendere, l'aveva visto quando lei guardava i cartoni
animati e rideva o si spaventava sulla base di quello che vedeva
sullo schermo; ma allora perché non aveva reagito, non s'era
spaventata, non era fuggita a nascondersi temendo ch'egli cercasse
ancora di farle del male? Mew era perfettamente in grado di
comprendere ciò ch'egli aveva cercato di fare, allora forse
ella non
riusciva, o non voleva, vedere il male che la circondava? Del resto
era proprio per questo che entrambi ora erano prigionieri della villa
– perché Mew non sapeva o non voleva difendersi.
Concentrarsi
su quel pensiero lo aiutava a non pensare a quello che aveva fatto, a
non pensare ai farmaci e alla sua astinenza. Sfogliò
macchinalmente
il taccuino sforzandosi di non pensare che gliel'aveva appena
scagliato addosso: sulle pagine scorrevano interminabili righe di
appunti, ed Emir rilesse i due anni di prigionia con un moto
d'angoscia. Non erano appunti regolari, ed Emir faceva scorrere lo
sguardo senza soffermarsi mai, come se arrivando alla fine il prima
possibile vi avrebbe trovato una soluzione o un insegnamento o
qualsiasi cosa; ma insegnamenti, soluzioni o morali non ce n'erano,
ed egli lesse: 8 Aprile, abbiamo guardato il Dottor
Slump.
Ho riso un po' persino io. Mew si è divertita moltissimo. 21
Maggio,
Rotwang è rientrato in ritardo; Valérien ha
costretto solo lui a
restare finora. Mew mi ha guardato un paio di volte per vedere le mie
reazioni. Si è tranquillizzata quando le ho detto che era
tutto a
posto. 14 luglio, ho visto uno strano film in televisione. Mew ha
piagnucolato quando sembrava che il protagonista stesse morendo, ma
era molto contenta quando si è scoperto che non era
così; e
poi, ancora, a misura che la sua solitudine e la noia aumentavano e
il suo interesse diminuiva, appunti via via più scarni e
più radi e
più cupi che recitavano: 6 settembre. Oggi ho
dormito tutto il
giorno; ho scordato di prepararle il pranzo. Era arrabbiata
perché
aveva fame e non l'avevo considerata, ma era felice come una bambina
quando le ho portato da mangiare e mi ha riempito di abbracci. Mi ha
dato molto fastidio. 13 gennaio. Mi sono svegliato alle nove di sera.
Nessuno dei due aveva mangiato, ma Mew non sembrava arrabbiata. In
televisione non c'erano cartoni animati, ma ho trovato una replica di
Rashomon. Lo ha seguito con uno strano interesse;
non so se
l'abbia capito, eppure mi è sembrata commossa alla fine.
È strano.
Credevo che sarebbe stato troppo complesso per lei; eppure sembrava
concentrata e commossa. Mi piacerebbe indagare ancora. 11 agosto. Ho
provato a chiederle di Rotwang. Vorrei sapere se le manca, se ogni
tanto gli pensa; ma mi ha guardato squittendo di piacere per il solo
fatto che interagivo con lei; mi sono appena accorto di una cosa: che
non so neanche se lei conosca i nostri nomi...
Sfogliò
le
pagine seguenti con frenesia angosciosa. I suoi appunti erano finiti,
ma Emir non aveva imparato niente che non sapesse già: che
non c'era
una via di fuga, non c'era niente di cui avesse bisogno; e
disperatamente tornò indietro e riaprì il
taccuino dall'inizio per
cercare ancora, per rileggere con più attenzione, per
scoprire se
davvero quei due anni fossero trascorsi per lui senza che avesse
imparato niente; ma quando riaprì alla prima pagina, lesse: Oggi,
diciassette aprile, conversazione con N; ebbe un ricordo
improvviso; trattenne il fiato perché tale era la speranza
che
provava, che aveva paura di non ricordar bene; e scorrendo le pagine
con la punta delle dita, trattenendo il respiro, lesse: Laudano,
6
grammi.
Scorse
le
prime pagine con angoscia più che febbrile. Ricordava tutto
così
vagamente, eppure ora gli tornava tutto in mente: quando Rotwang
l'aveva svegliato e gli aveva letto ridendo brani del diario, e aveva
detto che solo un oppiomane avrebbe potuto
progettare una casa
come quella...
La
Silph aveva
acquistato la casa all'incanto a un prezzo ribassato dopo che tutte
le aste precedenti erano andate deserte. Nessuno al mondo avrebbe mai
voluto quell'incubo di un architetto, e quello era stato l'ultimo
tentativo che la comunità dell'isola era disposta a fare per
sbarazzarsi della casa prima di demolirla; ma la Silph, che aveva
fretta di comprare un alloggio aziendale per il direttore del nuovo
laboratorio, aveva comprato con un'offerta ridicola senza nemmeno
visionare l'immobile – poi era arrivato lui, e il resto era
storia.
Ma la sua vecchia segretaria, che era un'isolana da prima ancora di
nascere, una volta gli aveva raccontato che che il comune aveva tanta
voglia di vender la casa perché l'aveva ereditata a titolo
di
parziale risarcimento per i folli debiti del proprietario, e questo
era accaduto un po' di decenni prima, quando le cose funzionavano
assai diversamente; o forse era stata una donazione del proprietario,
o chissà che altro (la sua segretaria non se lo ricordava
bene)...
ma il punto era che il proprietario pazzo di quella casa, il folle
autore drogato delle annotazioni su quel quaderno e dell'architettura
della villa, era morto lì – e che tutto quello che
all'epoca della
sua morte possedeva, là era rimasto.
Il
percorso
tortuoso per discendere nel sotterraneo non gli era parso mai tanto
lungo. Scese le scale come una folata di vento: Mew, che non
s'aspettava più di vederlo nel sotterraneo per quel giorno,
trillò
di gioia come se lo vedesse quel giorno per la prima volta, ma Emir
non le rivolse uno sguardo. Era troppo eccitato per potersi curar di
lei e dei suoi sentimenti offesi.
Se
era rimasto
qualcosa doveva essere nascosto in modo tale che pur avendo esplorato
il sotterraneo per tutta la sua estensione, lui non se n'era mai
accorto; abitava lì da otto anni e negli ultimi due era
stato nel
sotterraneo giorno e notte, ma non aveva mai guardato proprio
dappertutto. Tutta la casa era piena di mobili con serrature chiuse a
chiave che non s'era mai dato troppo peso di aprire, forse per
disinteresse o piuttosto perché gli piaceva l'idea che
quella vasta
casa continuasse a celare misteri inaccessibili persino a lui. Ai
piani superiori, durante la perquisizione, gli agenti gli avevano
chiesto il permesso di aprire con la forza tutti i mobili cui non
riuscivano ad accedere; ma nel sotterraneo dove solo lui aveva
accesso, tutto era rimasto come il proprietario l'aveva lasciato. Lo
disgustava un po' metter le mani in cassetti chiusi da quasi un
secolo, a frugare tra la polvere e i ragni e i cadaveri di scorpioni
morti – ma alternative non ce n'erano.
Perlustrare
tutti i mobili del sotterraneo in un giorno era impossibile, ma si
arrese a quell'evidenza solo a sera fatta, quando Mew venne a
protestare rumorosamente per aver da mangiare e poi si mise a
curiosare per scoprire che cosa stesse facendo, dal momento che
proprio non le riusciva d'attirare la sua attenzione. I cassetti
strabordavano di tutto: Emir tirò fuori quaderni, libri,
piatti
rotti, documenti battuti a macchina, posacenere antiquati, teiere,
Pokéball d'anteguerra ricavate da ghicocche, tovaglioli
ricamati ma
privi di iniziali, tagliacarte, foulard di seta e persino una
splendida macchina da scrivere Remington che mai si sarebbe aspettato
di trovare lì – ma di laudano neppure l'ombra, ed
Emir aveva così
poca voglia di vedere Mew cacciare il naso in mezzo a tutta quella
roba che decise di smettere di cercare, per quel giorno. Non voleva
ammettere a se stesso la follia del suo tentativo: non c'era nulla in
quel diario che gli facesse davvero credere che la casa potesse
ancora nascondere laudano o eroina. Ma rifugiarsi in quella speranza
era sempre meglio che arrendersi all'astinenza. No?
Per
qualche
giorno la ricerca occupò le sue giornate. Era da due anni
che non
aveva nulla da fare che lo tenesse impegnato. Era una sensazione
quasi nuova, e c'erano momenti in cui la ricerca sopravanzava nella
sua mente e diveniva fine a se stessa, prendendo il posto
dell'ossessione delle droghe che cercava; ma di giorno in giorno la
vista dei farmaci che diminuivano gli ricordavano la sua angoscia.
Il
sotterraneo
conteneva molta più roba di quanto avrebbe creduto in un
primo
momento. C'era di tutto, compresi oggetti e soprammobili dei quali
non avrebbe saputo indovinare la provenienza né l'uso. Ma il
meglio
era nascosto in cassetti e ante chiuse a chiave: per potervi accedere
Emir fu costretto a uscir di casa e andare in un negozio di
ferramenta a comprare cacciaviti e un passepartout.
«Lavoretti
alla vecchia villa, dottore?» gli chiese il fabbro battendo
il
totale alla cassa. Aveva particolarmente voglia di chiacchierare,
quel giorno, ed Emir sapeva che era perché tutta l'isola
– o
almeno i vecchi tradizionalisti che avevano vissuto l'apertura del
Laboratorio come un'intromissione, e l'arrivo degli scienziati come
un'invasione di forestieri, sia pur di forestieri benevoli e colti
che portavano lavoro agli isolani e facevano girare un bel po' di
soldi del continente – nutriva nei suoi confronti una
curiosità un
po' morbosa. Non era neppur certo del perché, né
di come facesse a
saperlo; ma ne era consapevole come della temperatura dell'aria,
perché sentiva addosso lo sguardo dei loro occhi quando era
costretto a uscire di casa per andare a comprare qualcosa da mangiare
(il che succedeva un po' più di rado rispetto alla media
delle
persone normali), si sentiva scrutato e studiato come un animale
nella sua gabbia di laboratorio, e sapeva che tutta l'isola era
affascinata dallo scienziato solitario che viveva solo e relegato in
una grande villa deserta, che era magro e parlava poco e
malvolentieri e che nessun isolano poteva dire di conoscere. Un tempo
gli avrebbe dato più fastidio; ma aveva cose troppo urgenti
da fare
e più importanti a cui pensare, perciò si
limitò a rispondere: «Un
po' di lavoretti, già.»
«Se
ha
bisogno di aiuto alla Villa, posso mandarle un operaio. Basta che mi
faccia un colpo di telefono e ci accordiamo.»
D'improvviso
Emir lo considerò con sospetto. Perché gli aveva
detto una cosa del
genere? Certo, era il suo lavoro, ma forse il suo scopo era un altro
– quello d'insinuarsi nella Villa e vedere coi propri occhi
come
viveva e poi raccontarlo a tutti quelli che venivano in negozio? O
magari guardarsi attorno per cercare Mew? Ma non voleva che
quell'uomo sapesse che lui aveva capito quali erano i suoi piani:
voleva mantenere il vantaggio della consapevolezza, perciò
tutto
quello che rispose fu: «Ma senza dubbio. Se avrò
bisogno le farò
sapere» e uscì in fretta dal negozio senza
soffermarsi a salutare.
Gli
abitanti
di Isola Cannella erano pescatori semianalfabeti e poco altro,
esattamente come gli aveva detto Dale, ma erano furbi, oh, erano
molto furbi, e non c'era da fidarsi di loro. E poi, ora che ci
pensava, lui stesso aveva avuto per quasi sei anni una donna delle
pulizie dell'Isola, e dopo che l'aveva licenziata chissà
quante
storie su di lui, per vendicarsi o per il semplice gusto di
spettegolare, poteva essere andata a raccontare in giro; poteva aver
raccontato chissà quali dettagli su com'era la casa e su
come viveva
lui e chissà cos'altro, e ora probabilmente tutta l'isola
sapeva
tutto su di lui e sulla Villa! Era stato proprio così
stupido a
fidarsi di un'isolana!
Tornò
a casa
quasi di corsa come se scappasse e si chiuse la porta alle spalle
come se frapponesse un ostacolo tra lui e il mondo esterno.
Emir
lavorava
ogni giorno mentre Mew giocava con tutte le cianfrusaglie che aveva
rovesciato fuori dai cassetti. Di giocattoli per la sua
curiosità
ce n'erano in abbondanza: in quei giorni Mew viveva nella convinzione
ch'egli avesse creato per lei un fantastico parco giochi di oggetti
gettati alla rinfusa sul pavimento e sui divani appositamente
perché
lei potesse prenderli e giocarci e portarglieli per attirare la sua
attenzione; Emir trascorreva le giornate svitando serrature con le
dita che gli dolevano mentre Mew fluttuava attorno a lui
squittendogli nelle orecchie e gettandogli in grembo vecchie
ghicocche secche e cave nella speranza che questo lo invogliasse a
giocare con lei. Emir l'allontanava scacciandola con la mano, ma era
contento di non provare più quell'impulso terrificante di
farle del
male. Doveva ignorarla soltanto fino a che non avesse trovato quello
che stava cercando – e dopo, ne era certo, sarebbe andata
molto
meglio. A quel punto non gli sarebbe rimasto che da tener duro
finché
non fosse tornato Rotwang – che cosa sarebbe cambiato poi
dopo il
suo ritorno non lo sapeva, e neppure aveva voglia di pensarci; ma
qualcosa sarebbe cambiato di sicuro. Ne era certo.
In
ferramenta
gli avevano dato qualche chiave passepartout, ma quando le aveva
comprate Emir s'era scordato di specificare che i mobili per cui gli
occorrevano risalivano a circa un secolo prima; il che implicava che
quelle chiavi non andavano bene per la maggior parte delle serrature.
In quei casi non gli rimaneva altro che armarsi di un cacciavite e
smontare un po' per volta serrature vecchie di un centinaio d'anni
svitando viti arrugginite da decenni. Il che, naturalmente, era un
lavoro pienamente inutile la totalità delle volte, dato che
una
volta smontata e sfilata la serratura, di solito i cassetti
riversavano per lui misteriosi tesori di documenti e libri, di
termometri e mercurio e progetti di edifici che probabilmente non
erano mai stati realizzati, argenteria e accendini e pipe di schiuma
che Emir puntualmente scaraventava contro il muro e che Mew credeva
di dovergli riportare, come un cane – ma niente laudano.
Odiava
il
sotterraneo quanto l'aveva amato una volta, perché oltre a
tenerlo
prigioniero ora si rifiutava di schiudergli i propri segreti; e
soprattutto perché si accorgeva ogni giorno di
più che, per quanto
si rifiutasse di soffermarsi troppo su quel pensiero, ormai ogni
giorno di più era evidente che se non aveva trovato niente
fino a
quel momento, probabilmente era perché non c'era niente.
«Potresti
darmi una mano, sai» le disse all'ennesima volta che una
ghicocca
cava gli cadde in grembo. Non che nutrisse il benché minimo
pensiero
che ciò si sarebbe verificato, né tantomeno che
Mew capisse cosa
cercava di dirle; ma era confortante, ogni tanto, aprire la bocca e
fingere di avere una conversazione reale con qualcuno in grado di
capirlo. Ciò equivaleva, naturalmente, a parlar da solo; ma
la sua
era l'unica voce umana che avesse modo di udire, e ogni tanto faceva
piacere sentirne una.
«Mew»
ribatté Mew incuriosita, sentendosi autorizzata ad
avvicinarsi dal
fatto stesso ch'egli le aveva rivolto la parola, ed Emir si
pentì
immediatamente d'aver parlato. Ma di buono c'era che per avvicinarsi
a lui Mew aveva smesso di giocare e disturbarlo, e la cosa lo mise
parzialmente di buon umore.
«Non
sai
nemmeno cosa sto facendo, vero?» domandò
ironicamente, tanto per
dir qualcosa. Impazzita di gioia per l'ebbrezza di venir considerata,
Mew venne a cacciare il muso contro la serratura ch'egli lottava
invano per aprire, ma Emir si limitò a scostarla con la mano
senza
violenza. Era troppo stanco e sfiduciato per sprecare le forze.
«No
che non lo sai. È tutta colpa tua, però. Questo
lo sai?»
«Mew»
cinguettò Mew che non sapeva nulla, non capiva nulla di
tutto ciò,
ma era terribilmente innamorata del suono della sua voce e del
profumo della sua considerazione. Emir provò un terrificante
moto di
rabbia di fronte alla sua eterna immutabile risposta, e per non esser
più costretto a guardarla ricominciò con stizza
ad accanirsi sulla
serratura a rischio di scheggiarsi le dita.
«Sarebbe
stato tutto diverso se tu non fossi stata tu, se non foste stati
così. Tu e M1, intendo. Sarebbe andato tutto molto meglio se
tu non
ti fossi lasciata studiare e bucare come una cavia da laboratorio, se
io e Rotwang non fossimo stati costretti a salvarti persino da te
stessa, se lui non amasse te più di me... Se solo tu ti
decidessi
ogni tanto a fartene qualcosa di tutti i tuoi poteri anziché
startene chiusa qua sotto, con me, a essere così
stupidamente
felice, e ci lasciassi liberi di vivere senza di te...»
S'interruppe
imprecando perché le mani gli dolevano e perché
non aveva più
voglia né di parlare né di guardarla –
ma sentiva lo sguardo di
Mew bruciargli addosso come il raggio proiettato da una lente. I suoi
occhi studiavano il suo volto con un'intensità che non
avevano mai
avuto, e per un attimo Emir ebbe il dubbio persino che lo stesse
ascoltando e capendo – ma si
rifiutò di dar retta a quel
pensiero e si rimise al lavoro, per chiudere quella conversazione e
tornare a far finta che lei non fosse lì.
La
serratura
ebbe uno scatto secco e l'anta oscillò sui cardini e si
spalancò
senza che il cacciavite l'avesse toccata. Emir rimase fermo a
guardarla per un po'.
«Mew»
commentò lei con un guizzo di una gioia che però
non era assoluta e
totalizzante come ogni volta – Mew lo stava guardando per
vedere
s'egli sarebbe stato contento di lei.
«Sei
stata
tu?» domandò Emir a bassa voce.
«Mew.»
Emir
spalancò
l'anta e introdusse la torcia al suo interno per accertarsi di non
trovar sorprese. Anche uno scorpione morto sarebbe stato qualcosa di
più emozionante delle solite cose: ma a parte un ragno che
sgattaiolò via alla svelta, il mobile conteneva soltanto
vecchi
quaderni ingialliti. Ne aveva trovati così tanti che non
avevano
ormai neppure il fascino dei primi giorni, quando valeva la pena
almeno di guardare che cosa c'era scritto: Emir se li gettò
alle
spalle senza nemmeno aprirli. Tutto era completamente inutile.
«Sei
stata di
grande aiuto» disse. «Non è che sai
dov'è il laudano del vecchio
pazzo, eh? Laudano, sai, si fa con l'oppio; hai presente?»
«Mew»
ribatté Mew, ancora attenta a lui, scrutandolo come se
volesse bere
le sue parole dalle sue labbra direttamente, come da una fonte. Il
pensiero lo fece sorridere d'un sorriso amaro, ed Emir
sillabò quasi
ridendo: «Lau-da-no. Non è che
l'hai visto da qualche
parte, eh?»
In
modo del
tutto inaspettato, Mew squittì di gioia come se avesse
trovato la
soluzione e si gettò in volo dall'altra parte della sala.
Col cuore
palpitante di aspettativa, Emir la seguì.
Non
andarono
molto lontano. Mew s'insinuò in un corridoio cieco che egli
conosceva bene senza però esserci andato troppo spesso:
più che un
corridoio era una sorta di anticamera, perché un
interruttore
nascosto dietro un pannello apriva una seconda camera segreta che
Emir aveva scoperto solo dopo diversi mesi dalla sua prima discesa
nel sotterraneo. Mew si fermò di fronte al pannello che
celava
l'interruttore e si voltò a guardarlo con insistenza, quasi
indispettita dalla sua lentezza: nei suoi occhi c'era un'eccitazione
impazientita che pareva voler dire Ma insomma, non
t'importava
così tanto?
«Arrivo,
arrivo» borbottò Emir, sentendosi quasi in dovere
di scusarsi per
il suo ritardo. Attivò l'interruttore, la porta segreta
scivolò sui
suoi misteriosi ingranaggi, meravigliosamente silenziosa, e Mew vi
s'insinuò attraverso senza neppure aspettare che fosse
completamente
aperta. Emir la seguì nel buio non appena il passaggio fu
largo
abbastanza per farlo passare.
Si
affrettò
ad accendere la luce. All'interno era tutto un po' più
ordinato che
nel resto del sotterraneo, forse anche perché Emir non aveva
avuto
voglia di metterci le mani o di trasformare quella stanza. Conteneva
i soliti mobili antichi, chiusi, e una vecchia cassapanca d'epoca di
quelle che si usavano per riporre gli abiti – ma Mew
ignorò tutto
quanto e puntò direttamente contro la parete di fondo della
stanza
dove rimase ad aspettarlo con impazienza.
«Tutto
qui?
Bella scoperta» commentò Emir. Di fronte al suo
scetticismo Mew
rispose con un lungo squittio acuto, sottile, come quello di un
cucciolo. Ma non c'era niente di fronte a lei, ed Emir si strinse
nelle spalle e domandò: «Beh? Mi hai fatto venir
qui per farmi
vedere la tua parete?»
Ma
si rese
conto mentre stava ancora parlando di quanto era stato stupido e
cieco. Nulla in quella casa era quello che sembrava, perciò
quella
come poteva essere solo una parete?
Posò
il palmo
della mano contro la parete, là dove Mew indicava con
sdegnosa
impazienza, e premette. L'armadio nascosto dalla falsa parete di
legno laminato si aprì con la delicatezza di una molla non
appena
premuta dalla sua mano, ed Emir scoppiò a ridere
istericamente di
fronte agli scatoloni di plichi e fogli manoscritti e infine, proprio
sullo scaffale all'altezza dei suoi occhi, una scatola di boccette di
vetro scuro tutte uguali e ordinatamente disposte. Era tutto
lì:
nessuna serratura, nessun codice segreto, solo uno studiolo appartato
nella quiete del sotterraneo e un armadietto nascosto dietro una
falsa parete identica a quella che nascondeva il bagno nella camera
padronale. Il vecchio pazzo giocava esattamente alle stesse regole di
sempre, le regole della Villa.
Aveva
la mente
piena di pensieri che vorticavano come uccelli che sbattevano contro
le sbarre di una gabbia: a che cosa pensava il vecchio proprietario e
chissà quali segreti la casa celava ch'egli ancora non era
riuscito
a svelare, e se assumere il laudano sarebbe stato l'ultimo passo
sulla china della sua autodistruzione o se avrebbe ancora avuto modo
di tornare indietro... ma la sua mente era gravata ancora da altro,
ed Emir non riusciva ad allontanare questo pensiero a sufficienza da
poter mettere a fuoco gli altri.
Mew
tripudiava
di gioia. Si aspettava da lui un riconoscimento, una carezza, forse
soltanto che fosse contento; ma Emir si voltò lentamente
verso di
lei e domandò: «Come lo sapevi?»
Mew
squittì
reclinando il capo sulla spalla in segno di curiosità.
Emir
proseguì
lentamente, con la voce che gli tremava di una rabbia che faceva
fatica a trattenere: «Hai vissuto tutta la vita in Guyana,
nella
giungla. Tu non hai mai visto una bottiglia di laudano in vita tua.
Non conoscevi nemmeno questa parola. Come facevi a saperlo?»
«Mew»
ripeté
Mew contenta, come a voler confermare le sue parole, ed Emir
insistette ancora: «Come facevi a saperlo?»
Quella
era una
questione troppo più complessa del laudano, dei misteri
della Villa.
Emir si rigirò le fiale tra le mani lentamente, senza
distogliere
gli occhi da lei, e mormorò: «Mi hai letto nel
pensiero, vero?»
«Mew.»
«Sei
anche
telepatica. Questo non mi stupisce, ma tu hai fatto più che
leggermi
ne pensiero, perché io non conoscevo questo armadio e non
sapevo
dove fosse il laudano, perciò in qualche modo hai fatto
tutto da
sola. Ma il vecchio pazzo è morto e soltanto lui sapeva
dov'erano le
medicine, perciò come hai fatto?»
Mew
continuava
a suggere le sue parole dalle sue labbra senza capire, felice
soltanto ch'egli le stesse rivolgendo a lei. Ma Emir parlava
più per
se stesso che per lei. C'era in lui lo scienziato che si dibatteva e
si risvegliava contro il torpore dei farmaci e dell'inerzia, come
sollevando una coltre di ragnatele che lo avviluppava – ma i
pensieri che lo agitavano erano rabbiosi e confusi e andavano ben al
di là dell'interesse della scienza. Non trovava soluzioni.
La
telepatia era un'abilità non ignota ai Pokémon
Psico, e che Mew
avesse le stesse abilità della famiglia di Abra non era
sorprendente, in quanto corrispondeva alle ricerche che avevano fatto
anni prima; ma quello che Mew aveva fatto andava al di là di
ogni
conoscenza attuale. Si rigirava le boccette tra le mani senza capire,
senza soffermarsi su nessun pensiero, solo a osservare i riflessi dei
propri occhi sul vetro. Dopo un po' mormorò: «Mew,
usa
Teletrasporto.»
«Mew»
cinguettò Mew in risposta.
Emir
non aveva
mai saputo pregare, mai, da quando era bambino; ma se avesse dovuto
farlo, l'avrebbe fatto come in quel momento. «Tu puoi farlo,
ma non
vuoi. Potresti tornartene in Guyana se solo volessi, potresti andare
dove vuoi... allora perché insisti a rimanere qui anche se
vedi bene
che io ti odio?»
«Mew»
ripeté
Mew, stavolta con una punta di confusione, ed Emir scacciò
la sua
perplessità con uno scatto nervoso della mano.
«Perché
sei
come lui, vero? Come M1. Indifesa e terribilmente felice di vivere,
non sai provare rabbia, non sai provare dolore – o meglio lo
sai,
perché io ti ho vista, ma la verità è
che sei troppo felice per
provare rabbia a lungo. È per questo forse che Rotwang ti
ama tanto
– perché sei come M1 e lui avrebbe voluto
salvarlo. Ma per salvare
te Rotwang non potrà mai scegliere me, allora
perché non te ne vai
e ci lasci liberi senza di te?»
Mew
era in
grado di leggere il suo pensiero ed Emir lo sapeva perché lo
aveva
appena fatto. La sua disperazione era tale che non voleva altro: che
Mew comprendesse ciò che provava e obbedisse al suo ordine,
si
Teletrasportasse e lo lasciasse libero per sempre senza di lei. Ma
quando Emir guardò di nuovo verso di lei nella speranza di
trovare
nei suoi occhi una scintilla di comprensione, non trovò
nulla. Il
suo sguardo azzurro era ancora carico d'amore ed entusiasmo come ogni
giorno della sua vita, colmo soltanto di gioia per la sua
considerazione, ed Emir scosse il capo sorridendo di se stesso per
averci anche solo sperato.
Suonò
il
telefono nel cuore della notte.
Emir
si
svegliò di soprassalto cogli occhi che gli lacrimavano e la
bocca
spalancata, e la sensazione di venir strappato e riportato al mondo
reale da una regione molto lontana dello spazio. Non si ricordava
dove fosse. Era troppo buio e lui era troppo confuso, e per qualche
istante rimase intorpidito a massaggiarsi gli occhi finché
non si
rese conto di essere seduto. Si era addormentato sul divano senza
nemmeno cambiarsi, e quando sentì le onde che si
rifrangevano contro
gli scogli capì di trovarsi nel salotto sul mare.
Non
stava più
nel sotterraneo da quel giorno con Mew. Scendeva ogni giorno una o
due volte per darle da mangiare, non appena se ne ricordava, ma non
la guardava neppure – lasciava un piatto per lei in fondo
alle
scale e questo era quanto. Che poi lei lo mangiasse o meno, non gli
importava. Mew era passata dalla confusione allo sdegno e poi era
tornata all'entusiasmo: sentiva i suoi passi sulle scale mentre
scendeva e si precipitava su di lui in un vortice d'eccitazione, ma
Emir lasciava il piatto sul pavimento e fuggiva via prima che lei
facesse in tempo ad avvicinarsi. Aveva pensato persino di chiuderla
nella sua Pokéball per qualche giorno, ma qualcosa dentro di
lui lo
aveva fermato.
Il
telefono
squillò ancora nell'indeterminatezza della notte, lo squillo
si
prolungò echeggiando nei corridoi deserti. Solo in quel
momento Emir
si ritrovò d'improvviso veramente sveglio e vigile,
catapultato di
nuovo nel mondo dei vivi come da una grande distanza, e si rese conto
finalmente che c'era una sola persona che poteva telefonare a
quell'ora.
Attraversò
la
casa come se volasse. Lo studiolo del telefono era maledettamente
lontano, lontano come non gli era sembrato mai, di certo a
sufficienza da perdere la chiamata – ma scivolando sul
parquet Emir
entrò come una folata di vento e si gettò sul
telefono con tutto il
proprio peso. «Rotwang?»
Il
telefono
gracchiava di un'orrenda tosse, come se la sua voce strisciasse
rumorosamente per tutto il percorso attraverso il Pacifico.
«Fuji?
Fuji, mi senti? Riesci a sentirmi?»
S'accorse
di
stare piangendo solo quando si sentì le lacrime bagnargli
gli angoli
della bocca. Si asciugò le guance brucianti con un gesto
pieno di
rabbia, sentendosi profondamente stupido, e si disse con rabbia che
era un effetto del laudano.
Fu
allora che
pensò: cazzo, il laudano.
«Sì...
sì,
ti sento» balbettò; si sentiva la voce piena
d'incertezza come se
da quella solamente, da migliaia di chilometri di distanza, Rotwang
potesse smascherarlo e scoprire le sue bugie; ma poi il sollievo di
udire di nuovo la sua voce, di non sentirsi più solo al
mondo in una
notte sconfinata che non trovava fine, fu tale che quell'incertezza
passò. Per un istante gli parve riprende forza dentro di lui
quella
parte di lui menzognera e sicura di sé che aveva ingannato
la Silph,
la polizia e l'isola – ma quella parte di lui si
dibatté
pietosamente sotto coltri di autocommiserazione e psicofarmaci negli
ultimi spasmi d'agonia. Non era più un superuomo. Era
solamente Emir
ed era solo. Ma andava bene anche così.
«Dio,
grazie.
Abbiamo trovato un telefono, ci siamo fermati in un villaggio
missionario. Lestournelle sta litigando con le guide locali, ne ho
approfittato per chiamarti...»
Sentì
che le
informazioni lo travolgevano e si accavallavano all'interno della sua
mente intorpidita. «Un villaggio missionario?»
Rotwang
rise
di una risata amara che gracchiava nel ricevitore. «Potrebbe
darsi
che abbiamo corrotto le guide per farci portare qui a riposare, e ora
Lestournelle è particolarmente incazzato e loro stanno
facendo finta
di non capire una parola.»
La
risata
fioca che gli strappò dal petto fu quasi dolorosa, sapeva di
nostalgia e di solitudine. «Di chi è stata
l'idea?»
«Ti
sorprenderà, ma di Ami. Non è tanto scema quella
ragazza, e...» La
voce di Rotwang incespicò come se fosse in bilico, in cerca
di
qualcosa da dire; ma i convenevoli erano finiti, ora erano loro due
soltanto ai due capi di un filo teso attraverso l'oceano, soli come
non erano stati mai. «Come stai?»
Male,
avrebbe dovuto rispondere; male, non riesco a mangiare, ho
approfittato della tua fiducia, ho esagerato con le medicine che mi
avevi dato, ho rischiato di ferire Mew, ho messo a soqquadro la villa
per trovare due dozzine di bottiglie di laudano che probabilmente
sono scadute, ma mi danno almeno l'illusione di assumere una medicina
magica che possa farmi dimenticare il mio dolore atroce, inumano;
male, avrebbe dovuto rispondere, e forse non sarebbe andato
tutto
perduto a partire da quel giorno, forse ancora qualcosa si sarebbe
potuto salvare. Ma Rotwang era a migliaia di chilometri di distanza
da lui, lontano come se neppure esistesse, solo e impotente
esattamente come lui, e un qualche pudore oscuro dentro di lui
rispose: «Bene. Insomma, un po' noioso, potrebbe andar
meglio... e
tu, come stai tu?»
«Come
vuoi
che stia? Mangiato vivo dalle zanzare, come tutti.» Emir
poteva
quasi vedersela di fronte agli occhi, la sua pelle pallida e
arrossata dalle zanzare e dai vestiti pesanti della giungla, come
l'esploratore più scorbutico del mondo. «Ma
c'è di buono che
Lestournelle ha ancora troppa paura di me, non mi ha ancora rivolto
la parola da quando siamo partiti...»
«Avete
trovato qualcosa?»
«Sicuro,
un
coprolite di Exeggutor. Non ci serve nemmeno per procedere al
progetto dei fossili, Dale è furioso. Forse pensava che
bastasse
campeggiare un paio di notti nella giungla per svegliarsi in un nido
di Pokémon scomparsi da secoli. Quell'uomo deve aver letto
un po'
troppo Conan Doyle...»
Emir
dubitava
che Dale avesse mai letto un romanzo di Doyle, o in generale un
qualsiasi libro che non parlasse di macroeconomia in vita
sua.«Sai
quando tornerete?»
Un
sospiro
frusciò rumorosamente attraverso l'energia statica
attraverso il
telefono. «Non lo so, Fuji, veramente. Credo che ormai
resteremo per
tutti i due mesi previsti, perché Dale non vuole darsi per
vinto e
Lestournelle è isterico, ma... senti, non lo so, davvero.
Ora devo
andare...»
«Ah»
disse
Emir sentendosi molto stupido, e subito dopo si sentì ancora
più
stupido per averlo detto. Doveva già essere un miracolo che
avesse
potuto chiamarlo, e di certo anche gli altri avrebbero voluto
telefonare a casa. Annaspò per un momento in cerca di che
dire, di
come salutarlo, quelle erano le ultime parole per giorni, di certo
settimane, e come un ragazzino non sapeva che dire. Ma poi Rotwang
parlò di nuovo. «E lei?»
Mew
era
ovunque come Lavandonia, come suo padre, come l'assenza di sua madre,
era in ogni loro parola, era nella mente di Rotwang persino quel
giorno.
«Mi
hai
telefonato per lei?»
«Che
cosa?
Puoi ripetere, Fuji? La linea...»
La
linea non
era disturbata: Emir aveva mormorato troppo piano perché
sentisse.
Gli pulsava il petto come se le parole volessero uscirne a viva
forza, farsi largo dilacerandogli la carne per urlare – ma
colle
labbra irrigidite dal dolore e dallo sforzo, dall'inumana rabbia che
provava, Emir rispose:«Va tutto bene, Rotwang. Non devi
preoccuparti. Ci sono io con lei.»
Gli
parve
quasi di sentire la sua voce addolcirsi attraverso il telefono.
«Beh,
suppongo che questo dovrebbe tranquillizzarmi, giusto?»
Era
l'unico
modo che Rotwang conoscesse di dir grazie, ma per una volta, forse la
prima, Emir non aveva la forza di giocare a controbattere le sue
schermaglie. «Certo.»
«Fuji,
io...
ora devo andare. Ti chiamo non appena...»
«Non
appena
trovi un altro telefono» lo interruppe Emir, un po'
più
asciuttamente di quanto avrebbe voluto. «Lo so.»
Rotwang
avrebbe ancora voluto dir qualcosa, forse quella strana inesplicabile
durezza nella sua voce l'aveva sentita, avrebbe voluto domandare; ma
erano tutti e due troppo orgogliosi, gli altri lo stavano aspettando,
qualcuno avrebbe potuto essere in ascolto, la sua maschera sarebbe
crollata; allora rispose: «Bene così, Fuji.
Cerca... cerca solo di
star bene, intesi?» Vi fu un momento ancora, Rotwang
esitò; poi la
chiamata si chiuse. Emir rimase da solo a osservare il telefono
silenzioso.
Si
mosse
molto lentamente. Riappese ordinatamente la cornetta, chiuse in
silenzio la porta e si avviò al piano di sopra, camminando
molto
lentamente. Non c'era nessuna fretta. Nessuno poteva disturbarlo,
ora.
Percorse
con
calma i labirinti sotterranei della villa per scendere da lei: quando
arrivò, la trovò addormentata sul divano,
acciambellata come un
gatto o un cane che si sentisse particolarmente al sicuro,
parzialmente arrotolata sotto la vecchia coperta appallottolata
ch'egli aveva lasciato sul divano l'ultima volta che ci aveva
dormito. Probabilmente c'era ancora il suo odore.
Mew
aprì gli
occhi quando sentì i suoi passi rimbombare nel sotterraneo.
Sollevò
il capo dal divano coi sensi all'erta, cogli occhi che scintillavano
di aspettativa nel raggio di luce dorata della porta; ma non si
alzò
per andargli incontro, forse perché percepiva tutta la
stranezza di
quella visita notturna, e rimase immobile a scrutarlo nell'ombra,
sospettosa e tesa come un cobra. Ma Emir le passò accanto
senza
fermarsi e Mew non lo seguì.
Non
era più
rientrato nel suo studio dopo quella sera con Rotwang. Si
sforzò di
non pensare a quell'ultima sera, al suo respiro nel buio,
all'incommensurabile vuoto; non ci pensò perché
sapeva già quale
pensiero sarebbe seguito a questo: se solo non fosse stato per
lei...Se solo Mew fosse stata un po' diversa, un po' meno
vulnerabile, un po' più in grado di difendersi, un po'
più... Ma
non valeva la pena di pensarci perché aveva già
la soluzione;
l'aveva appena scoperta eppure sempre conosciuta, era sempre stata
là
sotto per anni, gli era stata accanto per mesi...
Si
prese tutto
il tempo che gli occorreva, non c'era alcuna fretta: non aspettava
nessuno; a nessuno là fuori importava di lui. Rotwang aveva
detto un
sacco di volte una battuta stupida che gli tornò in mente
d'improvviso mentre armeggiava per cambiare la lampadina fulminata e
che gli strappò una risata perché gli parve
stranamente profetica e
solo in quel momento, e perché solo in quel momento la
capiva fino
in fondo con tutte le sue conseguenze: qua sotto nessuno
può
sentirti urlare.
Cambiò
la
lampadina: la stanza fu inondata di una luce bianca fredda, asettica,
e gli apparve com'era dopo tutti quegli anni in disuso:
disgustosamente sporca, polverosa, ma ancora in ordine, quantomeno.
Non si poteva lavorare in quelle condizioni, perciò
andò al piano
di sopra a prendere stracci e detersivi e passò la mezz'ora
seguente
a pulire. Si sentiva stranamente calmo, lucido come non era da tempo.
Si
tenne il meglio per ultimo. La stanza era pulita e inondata di luce,
un po' meno squallida di quando era entrato, ed Emir si sedette al
tavolo con rinnovata calma. Il macchinario della sua tesi di laurea
troneggiava di fronte a lui come se lo guardasse. Non era un bel
prototipo – era grosso e ingombrante, sgraziato; era stato
pensato
esclusivamente per servire alla sua funzione, senza alcun intento
estetico, ed era tutto tubi e filamenti al led; ma non l'aveva
progettato per essere bello – di certo un vero ingegnere
avrebbe
saputo far di meglio, avrebbe costruito la stessa macchina impiegando
metà degli spazi e degli elementi inutili; ma il piccolo
utero
artificiale che era il capolavoro della sua tesi, che permetteva
allo scienziato d'intervenire sul DNA e di procedere all'impianto
dell'embrione entro due settimane dalla fecondazione dell'ovicita,
quello non avrebbe potuto crearlo un ingegnere - quello era opera sua,
l'aveva inventato lui, e ora finalmente avrebbe anche visto la luce.
Svitò
le
parti rimovibili con la massima cura, le sollevò innanzi
agli occhi
per osservarle in controluce, lucidò gli elementi in vetro
sino a
farli risplendere.
Finalmente,
tutto era perfetto. Emir rimase seduto alla scrivania per un po',
Incantato, a osservare ciò che la sua mente aveva compiuto
da sola,
strabiliato da se stesso. Doveva essere l'ora dell'alba, ma di sole,
nel tempio del suo genio, non ne sorgeva mai.
Era
il
momento: sentì che non poteva aspettare un minuto di
più. Emir si
alzò e si affacciò nella sala principale del
sotterraneo, dove Mew
ancora aspettava un suo cenno. Emir sorrise, spalancò le
braccia e
domandò: «Vuoi venire a giocare con me?»
Nota
chiarificatrice che vi avevo promesso: ormai avete capito
tutti
che cosa sta per succedere, perciò questo mi sembra il
momento più
adatto per spiegare una grossa assenza che alcuni di voi hanno
giustamente notato – quella del Team Rocket.
Ora,
nel nostro immaginario collettivo la nascita di Mewtwo è
indissolubilmente legata a Giovanni e al Team Rocket per via
dell'anime, ma studiando e ristudiando le entry del Pokédex
e i
dettagli presenti in Pokémon RBG, ho notato che in
realtà il Team
Rocket non viene mai
menzionato
parlando di Mewtwo, né a Isola Cannella in generale. Vi
giuro che ho
percorso quei sotterranei forse un milione di volte e mai sono
riuscita a trovare un solo riferimento! Naturalmente, con questa
storia mi sto esponendo al rischio che qualcuno di voi mi scriva
domani per farmi notare che appena si arriva sull'Isola ci sia un NPC
che dice “sai che Mewtwo l'ha creato il Team
Rocket?” che io non
ho mai visto. Questo è possibilissimo e io vi chiedo scusa,
ma da
buona filologa mi sono basata unicamente su ciò che io ho
trovato
nel gioco, cercando di non farmi condizionare dal fandom o
dall'anime, e quello che ho trovato è questo: che Mewtwo
è
indubbiamente collegato al Laboratorio Pokémon e alla Villa,
ma non
al Team Rocket. Quando ho deciso di inserire Giovanni qualche
capitolo addietro, l'ho fatto perché il Casinò
Rocket è l'unico
modo legale in gioco per ottenere Porygon, un Pokémon
esplicitamente
creato dalla Silph, perciò ho deciso di sfruttare questo
elemento
per suggerire la corruzione dell'azienda – ma per quanto
riguarda
il Team Rocket e Giovanni, questo è quanto. Ho
già scritto fin
troppo di Giovanni nelle mie storie. Questa è incentrata
sulla
storia di uno scienziato che, come afferma il Pokédex, crea
Mewtwo
«dopo anni di orribili esperimenti di ingegneria
genetica».
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