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Autore: Afaneia    28/02/2021    1 recensioni
In una Kanto dominata dal colosso multinazionale della Silph SpA, che monopolizza il mercato con politiche aziendali inflessibili e alleanze poco trasparenti, il signor Fuji, fondatore del celebre Centro Pokémon Volontario di Lavandonia, si è sempre schierato contro la corruzione e a difesa della dignità dei Pokémon.
Suo figlio però ha scelto una strada diversa: disposto a qualsiasi accordo pur di allontanarsi dall'opprimente presenza di suo padre, il dottor Emir Fuji si è specializzato in ingegneria genetica e si è trasferito sull'Isola Cannella, dove dirige un Laboratorio Pokémon dedito a esperimenti d'avanguardia. Da quando ha lasciato Lavandonia non ha più voluto avere niente a che fare con suo padre.
Un giorno, il Laboratorio Pokémon organizza un viaggio di ricerca in Guyana...
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Mew, Mewtwo, Nuovo personaggio
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Videogioco
Capitoli:
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Bentornati su questi schermi!

È passato praticamente un anno, perciò non perderò neppure tempo a scusarmi per il ritardo: penso che ormai mi conosciate. A chi ancora resiste e vuole conoscere il finale di questa storia (che arriverà, promesso), semplicemente grazie. Come sempre grazie in particolar modo a cristal_93, Persej Combe e Mad_Dragon per continuare a seguire e recensire questa storia!

Come l'altra volta, lascio qui un breve riassunto delle puntate precedenti: Emir vive praticamente recluso nella Villa da quasi due anni. Rotwang costituisce il suo unico collegamento col mondo esterno e con il Laboratorio, ma la Silph ha programmato un nuovo viaggio in Guyana alla ricerca di un nuovo esemplare di Mew. Rotwang dovrà perciò rimanere lontano da Isola Cannella per circa due mesi e, nel tentativo di aiutare Emir a sopravvivere alla propria depressione, gli fornisce antidepressivi e ansiolitici sufficienti almeno per la sua assenza.

Detto questo vi lascio alla lettura, ma vi aspetto alla fine del capitolo per una piccola nota chiarificatrice!

Buona lettura


Afaneia


Capitolo XII – Irrimediabile


Venne a prenderli una macchina per portarli al molo.

Emir si attardava per casa mettendo mano ora a questo ora a quello, senza senso ma senza posa, per avere la sensazione di frapporvi un ostacolo; ma il tempo continuava a scorrergli via dalle mani, e Rotwang si aggirava per la casa trascinando bagagli e borse e medicinali. Aveva salutato Mew quella mattina, abbracciandola e coccolandola e nascondendo gli occhi arrossato contro il pelo rado del suo muso, ed Emir aveva provato un subitaneo moto di stizza – perché Mew era incapace di comprendere il significato del distacco, e perché d'improvviso gli era parso che quel saluto sottraesse del tempo a lui. Avevano avuto due anni, e dal giorno in cui avevano saputo della partenza altri sette mesi, e Rotwang sarebbe tornato presto; allora perché gli pareva di non aver più tempo?

Rotwang era molto silenzioso, quel giorno. Continuava ad aggirarsi per la casa, facendo su e giù per le scale con liste e oggetti che gli pareva d'aver dimenticato, e quasi non lo guardava. Solo quando l'autista spazientito venne a suonare il campanello dopo aver finito di caricare i bagagli più pesanti si decise ad andare.

Si soffermò sulla soglia per un momento, a guardarlo a disagio, e infine disse: « Preferisci che ci salutiamo qui? Come se ci salutassimo un giorno qualunque?»

Non si erano mai salutati sulla porta al mattino, ma non c'era tempo per chiarirlo in quel momento. «No. Vengo con te.»

Rotwang parve improvvisamente sollevato, ed Emir comprese che quella proposta l'aveva fatta soltanto per tutelare il suo abominevole orgoglio. «Bene. Pensavo che preferissi non... beh, ti farà bene uscire. E quantomeno Lestournelle schiatterà di rabbia.»

Emir continuò a provare la stessa dolorosa sensazione inesprimibile di panico durante tutto il viaggio in auto. L'autista era discreto e silenzioso e loro erano seduti sul sedile posteriore, ma non dissero una parola per tutto il percorso, e sedettero l'uno distante dall'altro lungo il sedile.

Erano già tutti lì, a supervisionare la fine delle operazioni di carico del materiale; alla vista di Valérien, Emir si sentì mancare. Non lo vedeva da quasi due anni, da quando aveva fatto perquisire il Centro Pokémon Volontario, e nella sua mente era rimasto lo stesso. Valérien, invece, era invecchiato, ed Emir a questa eventualità non aveva mai pensato: era ingrassato, il suo volto appariva ancora giovane ma stanco, quasi malato. Gli strinse le viscere una morsa di dolore. Valérien era stato mostruoso verso di lui, ma era stato lui a spingerlo a farlo, e Valérien non sarebbe invecchiato tanto se non fosse stato per lui.

Quando l'autista scese dalla macchina per scaricare i bagagli di Rotwang , lo sguardo di Valérien incrociò il suo attraverso il finestrino. Emir non si mosse, ma lo vide avvampar di rabbia: durò solo un istante, perché Valérien era troppo vigliacco per restare, e impettendosi si rivolse seccamente alle sue colleghe e si allontanò verso il suo traghetto. Emir se ne scoprì suo malgrado sollevato.

«Sei diventato molto più spaventoso di me, Fuji» mormorò Rotwang spingendolo verso lo sportello per invitarlo a uscire. «Non sei soddisfatto?»

L'entusiasmo di Portia nel vederlo era immutato, e lo era anche lei. Quanto ad Ami, quella era la prima volta che incontrava il famoso nuovo acquisto del Laboratorio: era esattamente come se l'era immaginata dai racconti di Rotwang, e dall'incertezza del suo sguardo Emir intuì che era dibattuta tra la curiosità verso il suo nome e la tensione che attorno a esso aveva alimentato Valérien. Gli strinse rapidamente la mano, ma subito accennò col capo al traghetto, come se si sentisse a disagio a star lì, e mormorò qualcosa sul raggiungere il capo a bordo.

«Aspettami, andiamo insieme» la trattenne Portia al volo; Ami si fermò un po' seccata, e Portia, del tutto inaspettatamente, gli gettò le braccia al collo e lo baciò sulle guance.

«Starai bene, Emir, vero?»

Questo non se l'era aspettato. Emir rise nervosamente contro i suoi capelli che lo soffocavano, sentendosi sotto lo sguardo di Rotwang, e mormorò: «Ma certo. Perché pensi che...»

«Lo sai il perché.» Le braccia di Portia s'insinuarono dentro il suo cappotto aperto ed Emir sperò che volesse solamente abbracciarlo più stretto, ma poi sentì che le sue mani palpavano le sue costole sporgenti attraverso la camicia. «Mio marito è a casa, lo sai, vero? E anche le bambine... perché non vai a cena da noi, una volta alla settimana, eh? Anche senza di me... lo sai, vero, che a Chris farebbe tanto piacere, e anche a me?»

«Certo» balbettò Emir battendole le mani sulle spalle. «Ci andrò se proprio ci tieni tanto... ma tu stai tranquilla e fa' buon viaggio.»

«E tu mangia un po' di più» lo rimbeccò Portia, lo baciò ancora sulle guance e si staccò da lui. «Ti aspetto su» disse soltanto a Rotwang, e lei e Ami si diressero verso Valérien, che ostentava poco lontano la sua insofferenza e la sua rabbia.

Erano soli in quelle briciole di tempo che erano loro rimaste, erano troppo poche, rimanevano troppe cose da dire, e non gliene veniva in mente nessuna. Si sarebbero rivisti entro due mesi al massimo, non c'era nulla di definitivo nel loro saluto, ma Emir non riusciva a visualizzare nella mente il giorno del ritorno, come se si collocasse in qualche luogo del tempo che alla sua vita non era dato raggiungere.

«Mi chiamerai, quando troverai un telefono?»

«Certo... tutte le volte che ce ne sarà uno» promise Rotwang, che sapeva bene quanto lui che nella giungla telefoni non ne avrebbero trovati molti. Sembrava che solo guardarlo negli occhi gli costasse uno sforzo incredibile. «Tu prometti che andrai a cena da Chris, che prenderai le medicine, che... beh, lo sai

Certo, lo sapeva – Mew. Emir sentì un sorriso freddo, meccanico, permeare gli angoli della bocca senza irradiarsi ai suoi occhi. Sempre Mew, ovunque Mew, infiltrata ovunque, in ogni viluppo della sua voce, come suo padre, come Lavandonia, senza poterne scappare: ma imponendosi di reprimere quello che invece avrebbe voluto urlare, si sforzò di annuire. «Te lo prometto.»

Dopodiché, per non saper che dire, Rotwang lo afferrò tra le braccia e lo baciò a lungo in mezzo al molo.

Quando si separò da lui, Rotwang appariva enormemente in pace con se stesso.

«Scusa» commentò compiaciuto. «Nulla di personale, sai... solo per far incazzare Lestournelle.» Dopodiché poggiò brevemente la fronte contro la sua, chiuse gli occhi per un istante, e solo allora inspirò profondamente e lo lasciò andare per avviarsi verso i suoi colleghi.

Emir rimase sul molo finché la lontananza non gli rese indistinguibili le piccole figure che si affacciavano sul ponte del traghetto. Non attese oltre.

L'autista, che non aveva nulla in contrario a riportarlo in paese nel suo viaggio di ritorno, lo riaccompagnò al cancello della villa e lo salutò più cortesemente di quanto egli si sarebbe aspettato. Emir lo ringraziò un po' goffamente, in fretta, si richiuse la portiera alle spalle e un minuto dopo, finalmente, si ritrovò nella fresca penombra della villa. Inalò in profondità l'odore della sua casa, delle sue cose, e si sentì tornato nel suo nido sicuro e inviolabile dove il resto del mondo non poteva toccarlo. Ma ora, senza preavviso, era solo. Rotwang non c'era – e nel silenzio della villa lo colpì la consapevolezza improvvisa, totalizzante, di che cosa significasse l'assenza e di essere solo. E anche un'altra – che per la prima volta s'era reso conto che Mew era la causa di tutto, e che lui la odiava.


I suoi sogni mutarono bruscamente così come li avevano mutati i farmaci la prima volta, ma all'avventura si sostituì l'angoscia. S'erano fatti orribili: avevano una trama complessa e articolata, angosciante; erano ancora emozionanti, ma erano incubi. Si svegliava sudato nel letto disfatto, spesso nel cuore della notte, e non riusciva a riprender sonno, perché le fredde dita nere dei suoi incubi s'insinuavano lungo la sua schiena, ed erano incubi orribili in cui personaggi misteriosi commettevano strani delitti. Gli capitò di sognare sua madre – erano anni che non la sognava; ma erano sogni agghiaccianti nei quali attendeva la sua morte per partire per l'isola, ed Emir si svegliava agitato e madido di sudore e ricordava angosciosamente che non aveva idea se sua madre fosse viva o morta. Si svegliava accaldato e sudato, scalciava via le coperte e rimaneva a letto a fissare il soffitto nel buio, inalando a grandi respiri l'aria umida della stanza. Ma era pur sempre inverno, e presto si sentiva il sudore ghiacciato sui fianchi e brividi sulla pelle, ma le coperte sfatte si attorcigliavano attorno alle sue gambe e gli pareva che lo avviluppassero come serpi. Non poteva restare a letto, allora si alzava e si gettava qualcosa addosso e scendeva al piano di sotto.

Vagava per un po' la villa deserta, ma faceva troppo freddo in casa e da fare non c'era niente. Emir finiva per scendere nel sotterraneo, dove l'aria chiusa e pesante e le pareti prive di vie di fuga lo facevano sentire prigioniero ma al sicuro, e là, avvolgendosi in coperte altrettanto sgualcite come quelle che aveva lasciato, si distendeva sul divano e si addormentava. Dal divano dormiva spesso senza sogni.

Rotwang era stato la lancetta delle ore di tutte le sue giornate, e ora che non c'era il tempo per lui non aveva più alcun significato. Dopo le sue notti insonni e tormentate si svegliava a giorno ormai inoltrato, quando era la fame a tirarlo giù dal divano e trascinarlo in cucina, a mettere insieme di malagrazia qualcosa che facesse da colazione e pranzo per lui e Mew, che a quell'ora reclamava a gran voce da mangiare. Dopodiché, per le successive sei od otto ore, da fare non gli rimaneva nient'altro. I giorni erano più terribili delle notti, perché gli incubi almeno gli tenevano compagnia ed erano meglio del nulla.

Non riusciva a tollerare la presenza di Mew. Era gioiosa ogni giorno allo stesso modo, come lo era ogni giorno da due anni, ma in quei due anni la sua sopportazione verso di lei, verso le sue insignificanti moine e le sue richieste di un affetto che le era in ogni modo indifferente, si era esaurita. Gli pareva passata una vita intera da quando si trovava con Valérien, a sera fatta, di fronte al vetro che svelava la prigione di Mew al Laboratorio, e vanamente cercava in lui un confronto per dar voce ai suoi dubbi e cercare di capire perché Mew fosse felice in ogni istante di tutto e di tutti – ma quelle sere erano passate, ed Emir aveva scoperto soltanto che le sue domande erano prive di senso. Non c'erano ragioni. Mew era sciocca e insensata e totalmente incapace di difendersi, ed era per colpa della sua incapacità di distinguere il bene dal male che lui era intrappolato là dentro con lei.

Non s'era accorta della partenza di Rotwang; o meglio, di certo se n'era accorta, perché Emir aveva troppa stima della sua intelligenza per dubitarne; ma non vi aveva prestato attenzione. Per il primo paio di giorni dopo la partenza, intorno alle sei, che era l'orario a cui normalmente Rotwang rincasava e scendeva a salutarla, Mew aveva sollevato lo sguardo e aveva pigolato a lungo con intonazione interrogativa: Emir l'aveva guardata in un misto di sorpresa e speranza, ma per la rabbia che provava nei suoi confronti non le aveva detto niente, e Mew non aveva fatto altro. Non era mai stata triste, inquieta, o altro, nulla che tradisse in lei il minimo sentimento di distacco o nostalgia, e per questo Emir provava disgusto. Ormai a stento cucinava per lei. Se solo avesse potuto, se ne sarebbe sbarazzato: non riusciva più a tollerare la sua irritante presenza – avrebbe potuto portarla fuori di nascosto, nella stessa Pokéball che aveva usato per portarla lì, prendere un traghetto, portarla sul continente, magari a Johto persino, e liberarla, e nessuno avrebbe più sentito parlare di lei... già, ma poi Rotwang che avrebbe detto al suo ritorno, che avrebbe fatto senza di lei? E soprattutto, se Mew non ci fosse più stata, sarebbe ancora rimasto con lui?

A volte, quando sedeva sul divano senza nulla da fare, l'osservava intensamente tanto che i suoi occhi le bruciavano addosso. Mew si voltava verso di lui con gli occhi strabordanti di curiosità, enormi, ed Emir, cogli occhi spalancati e infissi nei suoi come se potesse ipnotizzarla, provava un singulto di disperazione.

«Mew, usa Teletrasporto» mormorava in un moto di preghiera. Aveva sempre guardato con disprezzo il mestiere dell'allenatore perché gli pareva che non richiedesse la fatica o l'impegno che tutti lamentavano: non richiedeva studio né talento, gli pareva che tutto ciò che facessero gli allenatori (e per cui tanto venivano acclamati e idolatrati) fosse dar ordini a un Pokémon che li eseguiva. Ma ora che ci provava e che Mew lo fissava con curiosità e non reagiva, si domandava se forse davvero occorresse un talento che lui non possedeva. «Mew... usa Teletrasporto.»

Che Mew fosse in grado di usare Teletrasporto se solo lo avesse voluto era fuor di dubbio, poiché lo dimostravano i test genetici e le sperimentazioni compiute da Valérien; ma a quanto pareva non voleva, o forse la sua voce incerta e piena di dubbi non aveva autorevolezza sufficiente su di lei, chissà. Mew si limitava a guardarlo senza capire, ed Emir, gonfio di frustrazione, andava a cercare i suoi farmaci. La sua disperazione era tale che non poteva fare altro.

Rotwang aveva sbagliato a dargli i farmaci, e questo non avrebbe mai dovuto saperlo. Non avrebbe dovuto fidarsi di lui e della sua promessa, ed Emir si sentiva colpevole d'aver abusato della sua fiducia.

La prima volta era capitato per errore. Rotwang gli aveva prescritto una compressa ogni mattina: un giorno, Emir s'era svegliato alle cinque, ne aveva presa macchinalmente una e s'era riaddormentato. Al suo risveglio, quattro ore dopo, ne aveva assunta un'altra senza ricordarsi della prima e se ne era reso conto solo dopo un po'. Era rimasto in angoscia in attesa dei sintomi; ma non gli aveva fatto niente, o quantomeno differenze lui non ne aveva percepite, e aveva provato uno strano senso di delusione. Rotwang gli aveva detto che non era così che funzionavano le cose, che dell'effetto dei medicinali era impossibile accorgersi logicamente; ma scoprire che neppure una doppia dose gli faceva il minimo effetto lo lasciò confuso. Non era quello che si sarebbe aspettato.

Per questo motivo, una notte in cui si sentiva particolarmente disperato, in cui la solitudine gli appariva sconfinata e insormontabile e l'alba irraggiungibile, Emir afferrò il blister dal comodino, se lo svuotò in mano e inghiottì tutto insieme.

Stette malissimo per il resto della notte, per le medicine o per l'angoscia d'aver realizzato quel che aveva fatto – s'indusse il vomito, si addormentò, si riscosse, pianse e infine promise a se stesso che non l'avrebbe fatto mai più. Ma la sera seguente, dopo aver dormito per tutto il giorno e aver ingoiato cautamente del cibo solido, non era morto, e per qualche ora non aveva pensato alla sua disperazione. Ora che la nottata era passata e gli appariva lontana, non gli pareva d'esser stato poi tanto male, in confronto al dolore di ogni giorno. Aveva pensato che forse, se proprio ne avesse avuto un bisogno irrefrenabile come la notte precedente, e solo in quel caso, avrebbe potuto riprovare, questa volta con gli ansiolitici; e così aveva fatto.

Mew lo percepiva quando ne prendeva troppi. Avvertiva qualcosa di diverso in lui, che fosse l'eccessiva sonnolenza o l'inusuale sovreccitazione, o forse solo la diversa qualità del suo respiro; ma quando si avvicinava cogli occhi colmi di curiosità e accostava il muso per annusargli la bocca, Emir la cacciava seccato con la mano. Del suo affetto, a maggior ragione perché era lo stesso affetto superficiale ed effimero ch'ella aveva dimostrato a Rotwang, poteva fare a meno. La odiava.

Si svegliò un giorno con in testa il balenare di un pensiero che non riusciva a mettere a fuoco chiaramente. Era un'altra angoscia, una completamente nuova, diversa, che andava ad assommarsi alle altre; forse derivava da un sogno che aveva fatto quella notte. Ebbe bisogno di qualche ora per trovare il coraggio di guardare dentro di sé quel pensiero e affrontarlo come se fosse reale.

Si costrinse a sedersi a esaminare la questione dopo aver tentato invano di dormire per tutto il pomeriggio sul divano del sotterraneo. La presa di coscienza della sua sciocchezza continuava a balenargli in mente a tratti, ogni volta che chiudeva gli occhi; e alla fine Emir rovesciò le coperte in un angolo del divano, imprecò e andò a prendere le scatole di medicine che gli rimanevano.

Le trovò sparse un po' per tutta la casa, in camera, nel salottino sulla scogliera, nei saloni del sotterraneo. Tornò a sedersi sul divano, le dispose sul tavolino, estrasse ogni singolo blister e si mise a fare i conti. Non ci voleva un genio, ma contò e ricontò due volte, per sicurezza, e ancora una volta, e alla fine non ebbe più dubbi – Rotwang gli aveva lasciato farmaci sufficienti per i due mesi della sua assenza. Era passato meno di un mese. Sul tavolo ce n'erano a stento per altri dodici giorni.

Si passò una mano sugli occhi sentendo di non riuscire a respirare. Il cuore gli palpitava tanto che se lo sentiva rimbombare nei polsi; non ci vedeva più bene; gli si appannavano gli occhi; e improvvisamente Mew balzò sul tavolo e gridò: «Mew!»

Emir le scagliò il taccuino addosso.

Mew si sollevò gioiosamente a mezz'aria quando il taccuino le sibilò accanto e si coprì la bocca per soffocare un trillo di gioia. Si dimenò piroettando nell'aria più e più volte, squittendo e ridendo perché credeva ch'egli avesse inventato un nuovo bellissimo gioco, ed Emir rimase seduto immobile e inorridito a contemplare in silenzio quello che aveva fatto.

Mew squittì ancora, aspettando speranzosa che Emir le scagliasse addosso ancora qualcosa da poter scansare. Ma Emir scosse piano la testa e mormorò: «Vai a giocare di là per conto tuo. Io non ho più voglia di giocare.»

Mew continuò a protestare per un po' nel tentativo di richiamare la sua attenzione e costringerlo allo sfinimento a giocare con lei; ma Emir la ignorò e andò a raccogliere dal pavimento il taccuino aperto che giaceva sotto di lei. Non riusciva nemmeno a pensare; tutto attorno a lui fischiava e sibilava e gli rimbombava nelle orecchie, ed Emir avrebbe voluto soltanto che Mew la smettesse una buona volta di squittire e pigolare e che facesse silenzio per poter finalmente iniziare a pensare – ma di silenzio non ce n'era, ed Emir raccolse il taccuino e fuggì via dal sotterraneo senza una parola.

Si rifugiò nel salottino che affacciava sul mare, dove il sole velato di nubi gettava attraverso le ampie finestre ombre mutevoli e cangianti, e si accovacciò su una poltrona colla schiena rivolta verso il sole perché non voleva guardare fuori. Ricominciò a respirare solo dopo un po', quando finalmente gli parve che il sangue gli martellasse un po' meno nei polsi e che tutto attorno a lui fischiasse un po' meno, e socchiudendo gli occhi si appoggiò allo schienale e inalò profondamente l'aria che odorava di salsedine e di polvere.

Il suo primo pensiero quando l'aveva quasi colpita non era stato d'orrore – era stato: se fosse morta, come avrei fatto a dirlo a Richard? E se questo era stato l'unico pensiero che aveva attraversato la sua mente prima di tornare alla lucidità, e ancora in quel momento si sentiva spaventato non da quello che avrebbe potuto farle ma solo dalle conseguenze che avrebbe vissuto, voleva dire che se fosse morta egli sarebbe stato felice? E poi ancora non faceva che pensare vergognosamente, indegnamente: ma quand'era che Mew si sarebbe mai ribellata? Perché Mew doveva sapere ch'egli aveva appena rischiato di ucciderla, o forse soltanto di farle del male: doveva saperlo, Emir aveva visto e studiato quanto lei fosse intelligente e in grado di comprendere, l'aveva visto quando lei guardava i cartoni animati e rideva o si spaventava sulla base di quello che vedeva sullo schermo; ma allora perché non aveva reagito, non s'era spaventata, non era fuggita a nascondersi temendo ch'egli cercasse ancora di farle del male? Mew era perfettamente in grado di comprendere ciò ch'egli aveva cercato di fare, allora forse ella non riusciva, o non voleva, vedere il male che la circondava? Del resto era proprio per questo che entrambi ora erano prigionieri della villa – perché Mew non sapeva o non voleva difendersi.

Concentrarsi su quel pensiero lo aiutava a non pensare a quello che aveva fatto, a non pensare ai farmaci e alla sua astinenza. Sfogliò macchinalmente il taccuino sforzandosi di non pensare che gliel'aveva appena scagliato addosso: sulle pagine scorrevano interminabili righe di appunti, ed Emir rilesse i due anni di prigionia con un moto d'angoscia. Non erano appunti regolari, ed Emir faceva scorrere lo sguardo senza soffermarsi mai, come se arrivando alla fine il prima possibile vi avrebbe trovato una soluzione o un insegnamento o qualsiasi cosa; ma insegnamenti, soluzioni o morali non ce n'erano, ed egli lesse: 8 Aprile, abbiamo guardato il Dottor Slump. Ho riso un po' persino io. Mew si è divertita moltissimo. 21 Maggio, Rotwang è rientrato in ritardo; Valérien ha costretto solo lui a restare finora. Mew mi ha guardato un paio di volte per vedere le mie reazioni. Si è tranquillizzata quando le ho detto che era tutto a posto. 14 luglio, ho visto uno strano film in televisione. Mew ha piagnucolato quando sembrava che il protagonista stesse morendo, ma era molto contenta quando si è scoperto che non era così; e poi, ancora, a misura che la sua solitudine e la noia aumentavano e il suo interesse diminuiva, appunti via via più scarni e più radi e più cupi che recitavano: 6 settembre. Oggi ho dormito tutto il giorno; ho scordato di prepararle il pranzo. Era arrabbiata perché aveva fame e non l'avevo considerata, ma era felice come una bambina quando le ho portato da mangiare e mi ha riempito di abbracci. Mi ha dato molto fastidio. 13 gennaio. Mi sono svegliato alle nove di sera. Nessuno dei due aveva mangiato, ma Mew non sembrava arrabbiata. In televisione non c'erano cartoni animati, ma ho trovato una replica di Rashomon. Lo ha seguito con uno strano interesse; non so se l'abbia capito, eppure mi è sembrata commossa alla fine. È strano. Credevo che sarebbe stato troppo complesso per lei; eppure sembrava concentrata e commossa. Mi piacerebbe indagare ancora. 11 agosto. Ho provato a chiederle di Rotwang. Vorrei sapere se le manca, se ogni tanto gli pensa; ma mi ha guardato squittendo di piacere per il solo fatto che interagivo con lei; mi sono appena accorto di una cosa: che non so neanche se lei conosca i nostri nomi...

Sfogliò le pagine seguenti con frenesia angosciosa. I suoi appunti erano finiti, ma Emir non aveva imparato niente che non sapesse già: che non c'era una via di fuga, non c'era niente di cui avesse bisogno; e disperatamente tornò indietro e riaprì il taccuino dall'inizio per cercare ancora, per rileggere con più attenzione, per scoprire se davvero quei due anni fossero trascorsi per lui senza che avesse imparato niente; ma quando riaprì alla prima pagina, lesse: Oggi, diciassette aprile, conversazione con N; ebbe un ricordo improvviso; trattenne il fiato perché tale era la speranza che provava, che aveva paura di non ricordar bene; e scorrendo le pagine con la punta delle dita, trattenendo il respiro, lesse: Laudano, 6 grammi.

Scorse le prime pagine con angoscia più che febbrile. Ricordava tutto così vagamente, eppure ora gli tornava tutto in mente: quando Rotwang l'aveva svegliato e gli aveva letto ridendo brani del diario, e aveva detto che solo un oppiomane avrebbe potuto progettare una casa come quella...

La Silph aveva acquistato la casa all'incanto a un prezzo ribassato dopo che tutte le aste precedenti erano andate deserte. Nessuno al mondo avrebbe mai voluto quell'incubo di un architetto, e quello era stato l'ultimo tentativo che la comunità dell'isola era disposta a fare per sbarazzarsi della casa prima di demolirla; ma la Silph, che aveva fretta di comprare un alloggio aziendale per il direttore del nuovo laboratorio, aveva comprato con un'offerta ridicola senza nemmeno visionare l'immobile – poi era arrivato lui, e il resto era storia. Ma la sua vecchia segretaria, che era un'isolana da prima ancora di nascere, una volta gli aveva raccontato che che il comune aveva tanta voglia di vender la casa perché l'aveva ereditata a titolo di parziale risarcimento per i folli debiti del proprietario, e questo era accaduto un po' di decenni prima, quando le cose funzionavano assai diversamente; o forse era stata una donazione del proprietario, o chissà che altro (la sua segretaria non se lo ricordava bene)... ma il punto era che il proprietario pazzo di quella casa, il folle autore drogato delle annotazioni su quel quaderno e dell'architettura della villa, era morto lì – e che tutto quello che all'epoca della sua morte possedeva, là era rimasto.

Il percorso tortuoso per discendere nel sotterraneo non gli era parso mai tanto lungo. Scese le scale come una folata di vento: Mew, che non s'aspettava più di vederlo nel sotterraneo per quel giorno, trillò di gioia come se lo vedesse quel giorno per la prima volta, ma Emir non le rivolse uno sguardo. Era troppo eccitato per potersi curar di lei e dei suoi sentimenti offesi.

Se era rimasto qualcosa doveva essere nascosto in modo tale che pur avendo esplorato il sotterraneo per tutta la sua estensione, lui non se n'era mai accorto; abitava lì da otto anni e negli ultimi due era stato nel sotterraneo giorno e notte, ma non aveva mai guardato proprio dappertutto. Tutta la casa era piena di mobili con serrature chiuse a chiave che non s'era mai dato troppo peso di aprire, forse per disinteresse o piuttosto perché gli piaceva l'idea che quella vasta casa continuasse a celare misteri inaccessibili persino a lui. Ai piani superiori, durante la perquisizione, gli agenti gli avevano chiesto il permesso di aprire con la forza tutti i mobili cui non riuscivano ad accedere; ma nel sotterraneo dove solo lui aveva accesso, tutto era rimasto come il proprietario l'aveva lasciato. Lo disgustava un po' metter le mani in cassetti chiusi da quasi un secolo, a frugare tra la polvere e i ragni e i cadaveri di scorpioni morti – ma alternative non ce n'erano.

Perlustrare tutti i mobili del sotterraneo in un giorno era impossibile, ma si arrese a quell'evidenza solo a sera fatta, quando Mew venne a protestare rumorosamente per aver da mangiare e poi si mise a curiosare per scoprire che cosa stesse facendo, dal momento che proprio non le riusciva d'attirare la sua attenzione. I cassetti strabordavano di tutto: Emir tirò fuori quaderni, libri, piatti rotti, documenti battuti a macchina, posacenere antiquati, teiere, Pokéball d'anteguerra ricavate da ghicocche, tovaglioli ricamati ma privi di iniziali, tagliacarte, foulard di seta e persino una splendida macchina da scrivere Remington che mai si sarebbe aspettato di trovare lì – ma di laudano neppure l'ombra, ed Emir aveva così poca voglia di vedere Mew cacciare il naso in mezzo a tutta quella roba che decise di smettere di cercare, per quel giorno. Non voleva ammettere a se stesso la follia del suo tentativo: non c'era nulla in quel diario che gli facesse davvero credere che la casa potesse ancora nascondere laudano o eroina. Ma rifugiarsi in quella speranza era sempre meglio che arrendersi all'astinenza. No?

Per qualche giorno la ricerca occupò le sue giornate. Era da due anni che non aveva nulla da fare che lo tenesse impegnato. Era una sensazione quasi nuova, e c'erano momenti in cui la ricerca sopravanzava nella sua mente e diveniva fine a se stessa, prendendo il posto dell'ossessione delle droghe che cercava; ma di giorno in giorno la vista dei farmaci che diminuivano gli ricordavano la sua angoscia.

Il sotterraneo conteneva molta più roba di quanto avrebbe creduto in un primo momento. C'era di tutto, compresi oggetti e soprammobili dei quali non avrebbe saputo indovinare la provenienza né l'uso. Ma il meglio era nascosto in cassetti e ante chiuse a chiave: per potervi accedere Emir fu costretto a uscir di casa e andare in un negozio di ferramenta a comprare cacciaviti e un passepartout.

«Lavoretti alla vecchia villa, dottore?» gli chiese il fabbro battendo il totale alla cassa. Aveva particolarmente voglia di chiacchierare, quel giorno, ed Emir sapeva che era perché tutta l'isola – o almeno i vecchi tradizionalisti che avevano vissuto l'apertura del Laboratorio come un'intromissione, e l'arrivo degli scienziati come un'invasione di forestieri, sia pur di forestieri benevoli e colti che portavano lavoro agli isolani e facevano girare un bel po' di soldi del continente – nutriva nei suoi confronti una curiosità un po' morbosa. Non era neppur certo del perché, né di come facesse a saperlo; ma ne era consapevole come della temperatura dell'aria, perché sentiva addosso lo sguardo dei loro occhi quando era costretto a uscire di casa per andare a comprare qualcosa da mangiare (il che succedeva un po' più di rado rispetto alla media delle persone normali), si sentiva scrutato e studiato come un animale nella sua gabbia di laboratorio, e sapeva che tutta l'isola era affascinata dallo scienziato solitario che viveva solo e relegato in una grande villa deserta, che era magro e parlava poco e malvolentieri e che nessun isolano poteva dire di conoscere. Un tempo gli avrebbe dato più fastidio; ma aveva cose troppo urgenti da fare e più importanti a cui pensare, perciò si limitò a rispondere: «Un po' di lavoretti, già.»

«Se ha bisogno di aiuto alla Villa, posso mandarle un operaio. Basta che mi faccia un colpo di telefono e ci accordiamo.»

D'improvviso Emir lo considerò con sospetto. Perché gli aveva detto una cosa del genere? Certo, era il suo lavoro, ma forse il suo scopo era un altro – quello d'insinuarsi nella Villa e vedere coi propri occhi come viveva e poi raccontarlo a tutti quelli che venivano in negozio? O magari guardarsi attorno per cercare Mew? Ma non voleva che quell'uomo sapesse che lui aveva capito quali erano i suoi piani: voleva mantenere il vantaggio della consapevolezza, perciò tutto quello che rispose fu: «Ma senza dubbio. Se avrò bisogno le farò sapere» e uscì in fretta dal negozio senza soffermarsi a salutare.

Gli abitanti di Isola Cannella erano pescatori semianalfabeti e poco altro, esattamente come gli aveva detto Dale, ma erano furbi, oh, erano molto furbi, e non c'era da fidarsi di loro. E poi, ora che ci pensava, lui stesso aveva avuto per quasi sei anni una donna delle pulizie dell'Isola, e dopo che l'aveva licenziata chissà quante storie su di lui, per vendicarsi o per il semplice gusto di spettegolare, poteva essere andata a raccontare in giro; poteva aver raccontato chissà quali dettagli su com'era la casa e su come viveva lui e chissà cos'altro, e ora probabilmente tutta l'isola sapeva tutto su di lui e sulla Villa! Era stato proprio così stupido a fidarsi di un'isolana!

Tornò a casa quasi di corsa come se scappasse e si chiuse la porta alle spalle come se frapponesse un ostacolo tra lui e il mondo esterno.


Emir lavorava ogni giorno mentre Mew giocava con tutte le cianfrusaglie che aveva rovesciato fuori dai cassetti. Di giocattoli per la sua curiosità ce n'erano in abbondanza: in quei giorni Mew viveva nella convinzione ch'egli avesse creato per lei un fantastico parco giochi di oggetti gettati alla rinfusa sul pavimento e sui divani appositamente perché lei potesse prenderli e giocarci e portarglieli per attirare la sua attenzione; Emir trascorreva le giornate svitando serrature con le dita che gli dolevano mentre Mew fluttuava attorno a lui squittendogli nelle orecchie e gettandogli in grembo vecchie ghicocche secche e cave nella speranza che questo lo invogliasse a giocare con lei. Emir l'allontanava scacciandola con la mano, ma era contento di non provare più quell'impulso terrificante di farle del male. Doveva ignorarla soltanto fino a che non avesse trovato quello che stava cercando – e dopo, ne era certo, sarebbe andata molto meglio. A quel punto non gli sarebbe rimasto che da tener duro finché non fosse tornato Rotwang – che cosa sarebbe cambiato poi dopo il suo ritorno non lo sapeva, e neppure aveva voglia di pensarci; ma qualcosa sarebbe cambiato di sicuro. Ne era certo.

In ferramenta gli avevano dato qualche chiave passepartout, ma quando le aveva comprate Emir s'era scordato di specificare che i mobili per cui gli occorrevano risalivano a circa un secolo prima; il che implicava che quelle chiavi non andavano bene per la maggior parte delle serrature. In quei casi non gli rimaneva altro che armarsi di un cacciavite e smontare un po' per volta serrature vecchie di un centinaio d'anni svitando viti arrugginite da decenni. Il che, naturalmente, era un lavoro pienamente inutile la totalità delle volte, dato che una volta smontata e sfilata la serratura, di solito i cassetti riversavano per lui misteriosi tesori di documenti e libri, di termometri e mercurio e progetti di edifici che probabilmente non erano mai stati realizzati, argenteria e accendini e pipe di schiuma che Emir puntualmente scaraventava contro il muro e che Mew credeva di dovergli riportare, come un cane – ma niente laudano.

Odiava il sotterraneo quanto l'aveva amato una volta, perché oltre a tenerlo prigioniero ora si rifiutava di schiudergli i propri segreti; e soprattutto perché si accorgeva ogni giorno di più che, per quanto si rifiutasse di soffermarsi troppo su quel pensiero, ormai ogni giorno di più era evidente che se non aveva trovato niente fino a quel momento, probabilmente era perché non c'era niente.

«Potresti darmi una mano, sai» le disse all'ennesima volta che una ghicocca cava gli cadde in grembo. Non che nutrisse il benché minimo pensiero che ciò si sarebbe verificato, né tantomeno che Mew capisse cosa cercava di dirle; ma era confortante, ogni tanto, aprire la bocca e fingere di avere una conversazione reale con qualcuno in grado di capirlo. Ciò equivaleva, naturalmente, a parlar da solo; ma la sua era l'unica voce umana che avesse modo di udire, e ogni tanto faceva piacere sentirne una.

«Mew» ribatté Mew incuriosita, sentendosi autorizzata ad avvicinarsi dal fatto stesso ch'egli le aveva rivolto la parola, ed Emir si pentì immediatamente d'aver parlato. Ma di buono c'era che per avvicinarsi a lui Mew aveva smesso di giocare e disturbarlo, e la cosa lo mise parzialmente di buon umore.

«Non sai nemmeno cosa sto facendo, vero?» domandò ironicamente, tanto per dir qualcosa. Impazzita di gioia per l'ebbrezza di venir considerata, Mew venne a cacciare il muso contro la serratura ch'egli lottava invano per aprire, ma Emir si limitò a scostarla con la mano senza violenza. Era troppo stanco e sfiduciato per sprecare le forze. «No che non lo sai. È tutta colpa tua, però. Questo lo sai?»

«Mew» cinguettò Mew che non sapeva nulla, non capiva nulla di tutto ciò, ma era terribilmente innamorata del suono della sua voce e del profumo della sua considerazione. Emir provò un terrificante moto di rabbia di fronte alla sua eterna immutabile risposta, e per non esser più costretto a guardarla ricominciò con stizza ad accanirsi sulla serratura a rischio di scheggiarsi le dita.

«Sarebbe stato tutto diverso se tu non fossi stata tu, se non foste stati così. Tu e M1, intendo. Sarebbe andato tutto molto meglio se tu non ti fossi lasciata studiare e bucare come una cavia da laboratorio, se io e Rotwang non fossimo stati costretti a salvarti persino da te stessa, se lui non amasse te più di me... Se solo tu ti decidessi ogni tanto a fartene qualcosa di tutti i tuoi poteri anziché startene chiusa qua sotto, con me, a essere così stupidamente felice, e ci lasciassi liberi di vivere senza di te...»

S'interruppe imprecando perché le mani gli dolevano e perché non aveva più voglia né di parlare né di guardarla – ma sentiva lo sguardo di Mew bruciargli addosso come il raggio proiettato da una lente. I suoi occhi studiavano il suo volto con un'intensità che non avevano mai avuto, e per un attimo Emir ebbe il dubbio persino che lo stesse ascoltando e capendo – ma si rifiutò di dar retta a quel pensiero e si rimise al lavoro, per chiudere quella conversazione e tornare a far finta che lei non fosse lì.

La serratura ebbe uno scatto secco e l'anta oscillò sui cardini e si spalancò senza che il cacciavite l'avesse toccata. Emir rimase fermo a guardarla per un po'.

«Mew» commentò lei con un guizzo di una gioia che però non era assoluta e totalizzante come ogni volta – Mew lo stava guardando per vedere s'egli sarebbe stato contento di lei.

«Sei stata tu?» domandò Emir a bassa voce.

«Mew.»

Emir spalancò l'anta e introdusse la torcia al suo interno per accertarsi di non trovar sorprese. Anche uno scorpione morto sarebbe stato qualcosa di più emozionante delle solite cose: ma a parte un ragno che sgattaiolò via alla svelta, il mobile conteneva soltanto vecchi quaderni ingialliti. Ne aveva trovati così tanti che non avevano ormai neppure il fascino dei primi giorni, quando valeva la pena almeno di guardare che cosa c'era scritto: Emir se li gettò alle spalle senza nemmeno aprirli. Tutto era completamente inutile.

«Sei stata di grande aiuto» disse. «Non è che sai dov'è il laudano del vecchio pazzo, eh? Laudano, sai, si fa con l'oppio; hai presente?»

«Mew» ribatté Mew, ancora attenta a lui, scrutandolo come se volesse bere le sue parole dalle sue labbra direttamente, come da una fonte. Il pensiero lo fece sorridere d'un sorriso amaro, ed Emir sillabò quasi ridendo: «Lau-da-no. Non è che l'hai visto da qualche parte, eh?»

In modo del tutto inaspettato, Mew squittì di gioia come se avesse trovato la soluzione e si gettò in volo dall'altra parte della sala. Col cuore palpitante di aspettativa, Emir la seguì.

Non andarono molto lontano. Mew s'insinuò in un corridoio cieco che egli conosceva bene senza però esserci andato troppo spesso: più che un corridoio era una sorta di anticamera, perché un interruttore nascosto dietro un pannello apriva una seconda camera segreta che Emir aveva scoperto solo dopo diversi mesi dalla sua prima discesa nel sotterraneo. Mew si fermò di fronte al pannello che celava l'interruttore e si voltò a guardarlo con insistenza, quasi indispettita dalla sua lentezza: nei suoi occhi c'era un'eccitazione impazientita che pareva voler dire Ma insomma, non t'importava così tanto?

«Arrivo, arrivo» borbottò Emir, sentendosi quasi in dovere di scusarsi per il suo ritardo. Attivò l'interruttore, la porta segreta scivolò sui suoi misteriosi ingranaggi, meravigliosamente silenziosa, e Mew vi s'insinuò attraverso senza neppure aspettare che fosse completamente aperta. Emir la seguì nel buio non appena il passaggio fu largo abbastanza per farlo passare.

Si affrettò ad accendere la luce. All'interno era tutto un po' più ordinato che nel resto del sotterraneo, forse anche perché Emir non aveva avuto voglia di metterci le mani o di trasformare quella stanza. Conteneva i soliti mobili antichi, chiusi, e una vecchia cassapanca d'epoca di quelle che si usavano per riporre gli abiti – ma Mew ignorò tutto quanto e puntò direttamente contro la parete di fondo della stanza dove rimase ad aspettarlo con impazienza.

«Tutto qui? Bella scoperta» commentò Emir. Di fronte al suo scetticismo Mew rispose con un lungo squittio acuto, sottile, come quello di un cucciolo. Ma non c'era niente di fronte a lei, ed Emir si strinse nelle spalle e domandò: «Beh? Mi hai fatto venir qui per farmi vedere la tua parete?»

Ma si rese conto mentre stava ancora parlando di quanto era stato stupido e cieco. Nulla in quella casa era quello che sembrava, perciò quella come poteva essere solo una parete?

Posò il palmo della mano contro la parete, là dove Mew indicava con sdegnosa impazienza, e premette. L'armadio nascosto dalla falsa parete di legno laminato si aprì con la delicatezza di una molla non appena premuta dalla sua mano, ed Emir scoppiò a ridere istericamente di fronte agli scatoloni di plichi e fogli manoscritti e infine, proprio sullo scaffale all'altezza dei suoi occhi, una scatola di boccette di vetro scuro tutte uguali e ordinatamente disposte. Era tutto lì: nessuna serratura, nessun codice segreto, solo uno studiolo appartato nella quiete del sotterraneo e un armadietto nascosto dietro una falsa parete identica a quella che nascondeva il bagno nella camera padronale. Il vecchio pazzo giocava esattamente alle stesse regole di sempre, le regole della Villa.

Aveva la mente piena di pensieri che vorticavano come uccelli che sbattevano contro le sbarre di una gabbia: a che cosa pensava il vecchio proprietario e chissà quali segreti la casa celava ch'egli ancora non era riuscito a svelare, e se assumere il laudano sarebbe stato l'ultimo passo sulla china della sua autodistruzione o se avrebbe ancora avuto modo di tornare indietro... ma la sua mente era gravata ancora da altro, ed Emir non riusciva ad allontanare questo pensiero a sufficienza da poter mettere a fuoco gli altri.

Mew tripudiava di gioia. Si aspettava da lui un riconoscimento, una carezza, forse soltanto che fosse contento; ma Emir si voltò lentamente verso di lei e domandò: «Come lo sapevi?»

Mew squittì reclinando il capo sulla spalla in segno di curiosità.

Emir proseguì lentamente, con la voce che gli tremava di una rabbia che faceva fatica a trattenere: «Hai vissuto tutta la vita in Guyana, nella giungla. Tu non hai mai visto una bottiglia di laudano in vita tua. Non conoscevi nemmeno questa parola. Come facevi a saperlo?»

«Mew» ripeté Mew contenta, come a voler confermare le sue parole, ed Emir insistette ancora: «Come facevi a saperlo?»

Quella era una questione troppo più complessa del laudano, dei misteri della Villa. Emir si rigirò le fiale tra le mani lentamente, senza distogliere gli occhi da lei, e mormorò: «Mi hai letto nel pensiero, vero?»

«Mew.»

«Sei anche telepatica. Questo non mi stupisce, ma tu hai fatto più che leggermi ne pensiero, perché io non conoscevo questo armadio e non sapevo dove fosse il laudano, perciò in qualche modo hai fatto tutto da sola. Ma il vecchio pazzo è morto e soltanto lui sapeva dov'erano le medicine, perciò come hai fatto?»

Mew continuava a suggere le sue parole dalle sue labbra senza capire, felice soltanto ch'egli le stesse rivolgendo a lei. Ma Emir parlava più per se stesso che per lei. C'era in lui lo scienziato che si dibatteva e si risvegliava contro il torpore dei farmaci e dell'inerzia, come sollevando una coltre di ragnatele che lo avviluppava – ma i pensieri che lo agitavano erano rabbiosi e confusi e andavano ben al di là dell'interesse della scienza. Non trovava soluzioni. La telepatia era un'abilità non ignota ai Pokémon Psico, e che Mew avesse le stesse abilità della famiglia di Abra non era sorprendente, in quanto corrispondeva alle ricerche che avevano fatto anni prima; ma quello che Mew aveva fatto andava al di là di ogni conoscenza attuale. Si rigirava le boccette tra le mani senza capire, senza soffermarsi su nessun pensiero, solo a osservare i riflessi dei propri occhi sul vetro. Dopo un po' mormorò: «Mew, usa Teletrasporto.»

«Mew» cinguettò Mew in risposta.

Emir non aveva mai saputo pregare, mai, da quando era bambino; ma se avesse dovuto farlo, l'avrebbe fatto come in quel momento. «Tu puoi farlo, ma non vuoi. Potresti tornartene in Guyana se solo volessi, potresti andare dove vuoi... allora perché insisti a rimanere qui anche se vedi bene che io ti odio?»

«Mew» ripeté Mew, stavolta con una punta di confusione, ed Emir scacciò la sua perplessità con uno scatto nervoso della mano.

«Perché sei come lui, vero? Come M1. Indifesa e terribilmente felice di vivere, non sai provare rabbia, non sai provare dolore – o meglio lo sai, perché io ti ho vista, ma la verità è che sei troppo felice per provare rabbia a lungo. È per questo forse che Rotwang ti ama tanto – perché sei come M1 e lui avrebbe voluto salvarlo. Ma per salvare te Rotwang non potrà mai scegliere me, allora perché non te ne vai e ci lasci liberi senza di te?»

Mew era in grado di leggere il suo pensiero ed Emir lo sapeva perché lo aveva appena fatto. La sua disperazione era tale che non voleva altro: che Mew comprendesse ciò che provava e obbedisse al suo ordine, si Teletrasportasse e lo lasciasse libero per sempre senza di lei. Ma quando Emir guardò di nuovo verso di lei nella speranza di trovare nei suoi occhi una scintilla di comprensione, non trovò nulla. Il suo sguardo azzurro era ancora carico d'amore ed entusiasmo come ogni giorno della sua vita, colmo soltanto di gioia per la sua considerazione, ed Emir scosse il capo sorridendo di se stesso per averci anche solo sperato.


Suonò il telefono nel cuore della notte.

Emir si svegliò di soprassalto cogli occhi che gli lacrimavano e la bocca spalancata, e la sensazione di venir strappato e riportato al mondo reale da una regione molto lontana dello spazio. Non si ricordava dove fosse. Era troppo buio e lui era troppo confuso, e per qualche istante rimase intorpidito a massaggiarsi gli occhi finché non si rese conto di essere seduto. Si era addormentato sul divano senza nemmeno cambiarsi, e quando sentì le onde che si rifrangevano contro gli scogli capì di trovarsi nel salotto sul mare.

Non stava più nel sotterraneo da quel giorno con Mew. Scendeva ogni giorno una o due volte per darle da mangiare, non appena se ne ricordava, ma non la guardava neppure – lasciava un piatto per lei in fondo alle scale e questo era quanto. Che poi lei lo mangiasse o meno, non gli importava. Mew era passata dalla confusione allo sdegno e poi era tornata all'entusiasmo: sentiva i suoi passi sulle scale mentre scendeva e si precipitava su di lui in un vortice d'eccitazione, ma Emir lasciava il piatto sul pavimento e fuggiva via prima che lei facesse in tempo ad avvicinarsi. Aveva pensato persino di chiuderla nella sua Pokéball per qualche giorno, ma qualcosa dentro di lui lo aveva fermato.

Il telefono squillò ancora nell'indeterminatezza della notte, lo squillo si prolungò echeggiando nei corridoi deserti. Solo in quel momento Emir si ritrovò d'improvviso veramente sveglio e vigile, catapultato di nuovo nel mondo dei vivi come da una grande distanza, e si rese conto finalmente che c'era una sola persona che poteva telefonare a quell'ora.

Attraversò la casa come se volasse. Lo studiolo del telefono era maledettamente lontano, lontano come non gli era sembrato mai, di certo a sufficienza da perdere la chiamata – ma scivolando sul parquet Emir entrò come una folata di vento e si gettò sul telefono con tutto il proprio peso. «Rotwang?»

Il telefono gracchiava di un'orrenda tosse, come se la sua voce strisciasse rumorosamente per tutto il percorso attraverso il Pacifico. «Fuji? Fuji, mi senti? Riesci a sentirmi?»

S'accorse di stare piangendo solo quando si sentì le lacrime bagnargli gli angoli della bocca. Si asciugò le guance brucianti con un gesto pieno di rabbia, sentendosi profondamente stupido, e si disse con rabbia che era un effetto del laudano.

Fu allora che pensò: cazzo, il laudano.

«Sì... sì, ti sento» balbettò; si sentiva la voce piena d'incertezza come se da quella solamente, da migliaia di chilometri di distanza, Rotwang potesse smascherarlo e scoprire le sue bugie; ma poi il sollievo di udire di nuovo la sua voce, di non sentirsi più solo al mondo in una notte sconfinata che non trovava fine, fu tale che quell'incertezza passò. Per un istante gli parve riprende forza dentro di lui quella parte di lui menzognera e sicura di sé che aveva ingannato la Silph, la polizia e l'isola – ma quella parte di lui si dibatté pietosamente sotto coltri di autocommiserazione e psicofarmaci negli ultimi spasmi d'agonia. Non era più un superuomo. Era solamente Emir ed era solo. Ma andava bene anche così.

«Dio, grazie. Abbiamo trovato un telefono, ci siamo fermati in un villaggio missionario. Lestournelle sta litigando con le guide locali, ne ho approfittato per chiamarti...»

Sentì che le informazioni lo travolgevano e si accavallavano all'interno della sua mente intorpidita. «Un villaggio missionario?»

Rotwang rise di una risata amara che gracchiava nel ricevitore. «Potrebbe darsi che abbiamo corrotto le guide per farci portare qui a riposare, e ora Lestournelle è particolarmente incazzato e loro stanno facendo finta di non capire una parola.»

La risata fioca che gli strappò dal petto fu quasi dolorosa, sapeva di nostalgia e di solitudine. «Di chi è stata l'idea?»

«Ti sorprenderà, ma di Ami. Non è tanto scema quella ragazza, e...» La voce di Rotwang incespicò come se fosse in bilico, in cerca di qualcosa da dire; ma i convenevoli erano finiti, ora erano loro due soltanto ai due capi di un filo teso attraverso l'oceano, soli come non erano stati mai. «Come stai?»

Male, avrebbe dovuto rispondere; male, non riesco a mangiare, ho approfittato della tua fiducia, ho esagerato con le medicine che mi avevi dato, ho rischiato di ferire Mew, ho messo a soqquadro la villa per trovare due dozzine di bottiglie di laudano che probabilmente sono scadute, ma mi danno almeno l'illusione di assumere una medicina magica che possa farmi dimenticare il mio dolore atroce, inumano; male, avrebbe dovuto rispondere, e forse non sarebbe andato tutto perduto a partire da quel giorno, forse ancora qualcosa si sarebbe potuto salvare. Ma Rotwang era a migliaia di chilometri di distanza da lui, lontano come se neppure esistesse, solo e impotente esattamente come lui, e un qualche pudore oscuro dentro di lui rispose: «Bene. Insomma, un po' noioso, potrebbe andar meglio... e tu, come stai tu?»

«Come vuoi che stia? Mangiato vivo dalle zanzare, come tutti.» Emir poteva quasi vedersela di fronte agli occhi, la sua pelle pallida e arrossata dalle zanzare e dai vestiti pesanti della giungla, come l'esploratore più scorbutico del mondo. «Ma c'è di buono che Lestournelle ha ancora troppa paura di me, non mi ha ancora rivolto la parola da quando siamo partiti...»

«Avete trovato qualcosa?»

«Sicuro, un coprolite di Exeggutor. Non ci serve nemmeno per procedere al progetto dei fossili, Dale è furioso. Forse pensava che bastasse campeggiare un paio di notti nella giungla per svegliarsi in un nido di Pokémon scomparsi da secoli. Quell'uomo deve aver letto un po' troppo Conan Doyle...»

Emir dubitava che Dale avesse mai letto un romanzo di Doyle, o in generale un qualsiasi libro che non parlasse di macroeconomia in vita sua.«Sai quando tornerete?»

Un sospiro frusciò rumorosamente attraverso l'energia statica attraverso il telefono. «Non lo so, Fuji, veramente. Credo che ormai resteremo per tutti i due mesi previsti, perché Dale non vuole darsi per vinto e Lestournelle è isterico, ma... senti, non lo so, davvero. Ora devo andare...»

«Ah» disse Emir sentendosi molto stupido, e subito dopo si sentì ancora più stupido per averlo detto. Doveva già essere un miracolo che avesse potuto chiamarlo, e di certo anche gli altri avrebbero voluto telefonare a casa. Annaspò per un momento in cerca di che dire, di come salutarlo, quelle erano le ultime parole per giorni, di certo settimane, e come un ragazzino non sapeva che dire. Ma poi Rotwang parlò di nuovo. «E lei?»

Mew era ovunque come Lavandonia, come suo padre, come l'assenza di sua madre, era in ogni loro parola, era nella mente di Rotwang persino quel giorno.

«Mi hai telefonato per lei?»

«Che cosa? Puoi ripetere, Fuji? La linea...»

La linea non era disturbata: Emir aveva mormorato troppo piano perché sentisse. Gli pulsava il petto come se le parole volessero uscirne a viva forza, farsi largo dilacerandogli la carne per urlare – ma colle labbra irrigidite dal dolore e dallo sforzo, dall'inumana rabbia che provava, Emir rispose:«Va tutto bene, Rotwang. Non devi preoccuparti. Ci sono io con lei.»

Gli parve quasi di sentire la sua voce addolcirsi attraverso il telefono. «Beh, suppongo che questo dovrebbe tranquillizzarmi, giusto?»

Era l'unico modo che Rotwang conoscesse di dir grazie, ma per una volta, forse la prima, Emir non aveva la forza di giocare a controbattere le sue schermaglie. «Certo.»

«Fuji, io... ora devo andare. Ti chiamo non appena...»

«Non appena trovi un altro telefono» lo interruppe Emir, un po' più asciuttamente di quanto avrebbe voluto. «Lo so.»

Rotwang avrebbe ancora voluto dir qualcosa, forse quella strana inesplicabile durezza nella sua voce l'aveva sentita, avrebbe voluto domandare; ma erano tutti e due troppo orgogliosi, gli altri lo stavano aspettando, qualcuno avrebbe potuto essere in ascolto, la sua maschera sarebbe crollata; allora rispose: «Bene così, Fuji. Cerca... cerca solo di star bene, intesi?» Vi fu un momento ancora, Rotwang esitò; poi la chiamata si chiuse. Emir rimase da solo a osservare il telefono silenzioso.

Si mosse molto lentamente. Riappese ordinatamente la cornetta, chiuse in silenzio la porta e si avviò al piano di sopra, camminando molto lentamente. Non c'era nessuna fretta. Nessuno poteva disturbarlo, ora.

Percorse con calma i labirinti sotterranei della villa per scendere da lei: quando arrivò, la trovò addormentata sul divano, acciambellata come un gatto o un cane che si sentisse particolarmente al sicuro, parzialmente arrotolata sotto la vecchia coperta appallottolata ch'egli aveva lasciato sul divano l'ultima volta che ci aveva dormito. Probabilmente c'era ancora il suo odore.

Mew aprì gli occhi quando sentì i suoi passi rimbombare nel sotterraneo. Sollevò il capo dal divano coi sensi all'erta, cogli occhi che scintillavano di aspettativa nel raggio di luce dorata della porta; ma non si alzò per andargli incontro, forse perché percepiva tutta la stranezza di quella visita notturna, e rimase immobile a scrutarlo nell'ombra, sospettosa e tesa come un cobra. Ma Emir le passò accanto senza fermarsi e Mew non lo seguì.

Non era più rientrato nel suo studio dopo quella sera con Rotwang. Si sforzò di non pensare a quell'ultima sera, al suo respiro nel buio, all'incommensurabile vuoto; non ci pensò perché sapeva già quale pensiero sarebbe seguito a questo: se solo non fosse stato per lei...Se solo Mew fosse stata un po' diversa, un po' meno vulnerabile, un po' più in grado di difendersi, un po' più... Ma non valeva la pena di pensarci perché aveva già la soluzione; l'aveva appena scoperta eppure sempre conosciuta, era sempre stata là sotto per anni, gli era stata accanto per mesi...

Si prese tutto il tempo che gli occorreva, non c'era alcuna fretta: non aspettava nessuno; a nessuno là fuori importava di lui. Rotwang aveva detto un sacco di volte una battuta stupida che gli tornò in mente d'improvviso mentre armeggiava per cambiare la lampadina fulminata e che gli strappò una risata perché gli parve stranamente profetica e solo in quel momento, e perché solo in quel momento la capiva fino in fondo con tutte le sue conseguenze: qua sotto nessuno può sentirti urlare.

Cambiò la lampadina: la stanza fu inondata di una luce bianca fredda, asettica, e gli apparve com'era dopo tutti quegli anni in disuso: disgustosamente sporca, polverosa, ma ancora in ordine, quantomeno. Non si poteva lavorare in quelle condizioni, perciò andò al piano di sopra a prendere stracci e detersivi e passò la mezz'ora seguente a pulire. Si sentiva stranamente calmo, lucido come non era da tempo.

Si tenne il meglio per ultimo. La stanza era pulita e inondata di luce, un po' meno squallida di quando era entrato, ed Emir si sedette al tavolo con rinnovata calma. Il macchinario della sua tesi di laurea troneggiava di fronte a lui come se lo guardasse. Non era un bel prototipo – era grosso e ingombrante, sgraziato; era stato pensato esclusivamente per servire alla sua funzione, senza alcun intento estetico, ed era tutto tubi e filamenti al led; ma non l'aveva progettato per essere bello – di certo un vero ingegnere avrebbe saputo far di meglio, avrebbe costruito la stessa macchina impiegando metà degli spazi e degli elementi inutili; ma il piccolo utero artificiale che era il capolavoro della sua tesi, che permetteva allo scienziato d'intervenire sul DNA e di procedere all'impianto dell'embrione entro due settimane dalla fecondazione dell'ovicita, quello non avrebbe potuto crearlo un ingegnere - quello era opera sua, l'aveva inventato lui, e ora finalmente avrebbe anche visto la luce. 

Svitò le parti rimovibili con la massima cura, le sollevò innanzi agli occhi per osservarle in controluce, lucidò gli elementi in vetro sino a farli risplendere.

Finalmente, tutto era perfetto. Emir rimase seduto alla scrivania per un po', Incantato, a osservare ciò che la sua mente aveva compiuto da sola, strabiliato da se stesso. Doveva essere l'ora dell'alba, ma di sole, nel tempio del suo genio, non ne sorgeva mai.

Era il momento: sentì che non poteva aspettare un minuto di più. Emir si alzò e si affacciò nella sala principale del sotterraneo, dove Mew ancora aspettava un suo cenno. Emir sorrise, spalancò le braccia e domandò: «Vuoi venire a giocare con me?»



Nota chiarificatrice che vi avevo promesso: ormai avete capito tutti che cosa sta per succedere, perciò questo mi sembra il momento più adatto per spiegare una grossa assenza che alcuni di voi hanno giustamente notato – quella del Team Rocket.

Ora, nel nostro immaginario collettivo la nascita di Mewtwo è indissolubilmente legata a Giovanni e al Team Rocket per via dell'anime, ma studiando e ristudiando le entry del Pokédex e i dettagli presenti in Pokémon RBG, ho notato che in realtà il Team Rocket non viene mai menzionato parlando di Mewtwo, né a Isola Cannella in generale. Vi giuro che ho percorso quei sotterranei forse un milione di volte e mai sono riuscita a trovare un solo riferimento! Naturalmente, con questa storia mi sto esponendo al rischio che qualcuno di voi mi scriva domani per farmi notare che appena si arriva sull'Isola ci sia un NPC che dice “sai che Mewtwo l'ha creato il Team Rocket?” che io non ho mai visto. Questo è possibilissimo e io vi chiedo scusa, ma da buona filologa mi sono basata unicamente su ciò che io ho trovato nel gioco, cercando di non farmi condizionare dal fandom o dall'anime, e quello che ho trovato è questo: che Mewtwo è indubbiamente collegato al Laboratorio Pokémon e alla Villa, ma non al Team Rocket. Quando ho deciso di inserire Giovanni qualche capitolo addietro, l'ho fatto perché il Casinò Rocket è l'unico modo legale in gioco per ottenere Porygon, un Pokémon esplicitamente creato dalla Silph, perciò ho deciso di sfruttare questo elemento per suggerire la corruzione dell'azienda – ma per quanto riguarda il Team Rocket e Giovanni, questo è quanto. Ho già scritto fin troppo di Giovanni nelle mie storie. Questa è incentrata sulla storia di uno scienziato che, come afferma il Pokédex, crea Mewtwo «dopo anni di orribili esperimenti di ingegneria genetica».

   
 
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