Incliti
lettori,
ecco un altro
pezzo
del mappazzone. Ringrazio moltissimo il manipolo di valorosi (pochi,
felici pochi, banda di fratelli) che sta seguendo la vicenda. Un
ringraziamento speciale va ovviamente a tutti coloro che mi hanno
lasciato anche un parere.
Capitolo 4 –
Seconda parte
The
Bishop si costrinse a tornare alla situazione contingente. Di nuovo
scrutò attento la campagna, quindi trasse di tasca una mappa e la
dispiegò per terra.
Per
un po' la studiò assorto, valutando la distanza dei vari centri
abitati dal punto in cui si trovava. Calcolò quanto ci avrebbe messo
il Werwolf a raggiungere ognuno di essi, tenendo conto che non
avrebbe faticato a trovare mezzi di trasporto, rubandoli o facendosi
caricare da qualcuno. Da quello che diceva il suo dossier, l'agente
tedesco parlava un francese perfetto, per gli sarebbe stato facile
confondersi con la popolazione locale.
Nonostante
questo, ragionò, il Werwolf aveva due problemi. Il primo era
l'assoluta necessità di raggiungere le linee tedesche più
rapidamente possibile. Il secondo era avere al seguito una persona
senza alcun addestramento allo spionaggio. Si chiese perché il
tedesco non avesse ancora eliminato il pilota dell'aeroplano. Lui
stesso al suo posto l'avrebbe fatto: ubi
maior, minor cessat.
Stranamente, invece, quella macchina da guerra, quell'assassino senza
scrupoli si stava trascinando dietro una specie di palla al piede,
potenzialmente in grado di far fallire la sua missione.
Ponderò
perplesso la cosa, chiedendosi se c'era qualcosa che non sapeva,
qualche elemento che stava trascurando a proposito del misterioso
pilota. Forse era a sua volta un agente? Se non lo era, per quale
motivo il Werwolf lo teneva con sé?
Stabilì
che con le ipotesi non sarebbe andato da nessuna parte: la priorità
era recuperare il materiale rubato, tutto il resto era mera
speculazione. Socchiuse gli occhi, cercando di immedesimarsi nella
mentalità dell'avversario: dove sarebbe andato, cos'avrebbe fatto,
se fosse stato lui? Sorrise fra sé e sé: ogni paesello di quella
zona era in pratica un nido di spie, dell'una o dell'altra fazione.
Sarebbe bastato attivare quelle al soldo dell'Inghilterra e in breve
avrebbe scoperto dove si nascondeva il Werwolf.
§
“Ha
ancora della paglia tra i capelli,” disse l'agente segreto.
“Mi
stupirebbe il contrario,” brontolò von Knobelsdorff. Si passò
comunque una mano fra le ciocche castane, allontanandone
effettivamente alcuni fili giallastri. Subito dopo si sbottonò la
giacca e se la sfilò con un sospiro di sollievo. “Non ne potevo
più,” sospirò.
L'altro
non rispose.
Il
tenente si guardò intorno: erano su una strada bianca che nella luce
del crepuscolo brillava come un lungo osso calcinato. Il carro da cui
si erano lasciati cadere non era ormai altro che una vaga sagoma
all'orizzonte, il suo rotolio e cigolio era un'eco lontana, a stento
distinguibile tra gli innumerevoli rumori della sera di prima estate.
Un
buffetto sulla spalla lo fece sussultare: si girò di scatto e si
trovò di fronte l'uomo, che lo fissava con un'espressione vagamente
divertita.
Aggrottò
le sopracciglia e arretrando di un passo ringhiò: “Non l’ho
sentita avvicinarsi.”
Per
tutta risposta, l’altro disse: “Aveva un po’ di paglia nel
colletto.”
“Me
la tolgo da solo.”
“E
come, se non sa di averla?”
“Le
battute sono fuori luogo.”
L’altro
scosse la testa come di fronte a un bambino molto sciocco e molto
testardo. “Non sono battute,” replicò. “Se vuole restare vivo,
non deve attirare in alcun modo l’attenzione. Un giovanotto che se
ne gira con un ridicolo costume da caccia, pieno di paglia come se
avesse passato il pomeriggio ad amoreggiare con una contadinella nel
fienile, viene notato da tutti. Cerchiamo di limitare i danni
togliendo almeno la paglia.”
Von
Knobelsdorff aggrottò le sopracciglia. “Il mio abbigliamento non è
ridicolo,” protestò.
L’altro
emise un sospiro. “Di tutto ciò che le ho detto, è questa l’unica
cosa che le è rimasta in mente?”
“La
deve smettere di trattarmi come un moccioso,” lo rimbeccò il
tenente.
L’uomo
non rispose. Trasse di tasca un fazzoletto di una stoffa leggera che
sembrava seta, lo dispiegò e lo sollevò controluce. Pur nel debole
chiarore del crepuscolo, von Knobelsdorff si accorse che sul tessuto
vi era una mappa. Si avvicinò incuriosito e riconobbe ogni paese,
ogni strada e quasi ogni casa. “È quella di von Stade,” disse.
L’altro
si girò a fissarlo. “Prego?”
“È
la stessa che mi ha mostrato il mio comandante, la riconosco. La
mappa che gli aveva lasciato la giovane donna che poi mi ha spiegato
la missione. Solo che quella era su carta, non su stoffa.”
“Come
fa a ricordarsela?”
Von
Knobelsdorff si strinse nelle spalle. “Sono un pilota, navigare fa
parte delle mie competenze.” Indicò un punto della mappa e
soggiunse: “Questo incrocio, ad esempio, con due strade, la
ferrovia e il fiume, è inconfondibile, lo riconoscerei tra mille.”
L'uomo
non rispose, ma il tenente ebbe l'impressione di averlo per la prima
volta colpito. “Ora dove si va?” chiese.
“Verso
questo paese.” Indicò un punto sulla mappa di seta. “Passeremo
attraverso i campi, non è prudente rimanere sulla strada.”
“The
Bishop, come lo chiama lei, ci sta cercando?”
“Può
scommetterci.”
“Non
lascerà perdere, vero?”
“No.”
Il
tenente rimase in silenzio per qualche secondo, si guardò intorno
come se temesse di veder spuntare l'agente avversario dal fondo della
strada, quindi chiese: “Abbiamo qualche speranza di sfuggirgli?”
“Andiamo,”
disse l'uomo per tutta risposta, quindi si incamminò risolutamente
verso la macchia.
Raggiunsero
il paese che ormai era buio. I lampioni erano spenti, il coprifuoco
faceva trapelare dalle finestre oscurate solo esili lame di luce, che
si riflettevano qua e là sul selciato. Nel silenzio denso si
coglievano l'eco di qualche conversazione portata avanti sottovoce e
un frinire lontano di insetti notturni.
Il
Werwolf strinse gli occhi. Quell'apparente pace gli suscitava
un'inquietudine che andava facendosi più intensa di momento in
momento.
La
galleria è ampia, oscura, ha un'alta volta a botte di cui si coglie
a stento il profilo. L'aria è fredda e umida. Un tanfo venefico
pervade ogni anfratto.
Tubi
di varie dimensioni scorrono lungo il soffitto, infiltrazioni d'acqua
gocciolano lungo le antiche pietre lasciandosi dietro rosse scie
ferruginose.
I
suoi passi rapidi e il suo respiro ormai ansante sono unici suoni che
turbano la quiete secolare del luogo.
Si
ferma, si costringe a calmarsi. Sta correndo troppo, fa troppo rumore
e la ferita, malamente bendata, rischia di stillare una scia di gocce
rutilanti che condurrebbero the Bishop esattamente sulle sue tracce.
Tende
l'orecchio: nel silenzio ancestrale c'è un passo, o forse solo
l'idea di esso. È lento e inesorabile, la sua cadenza è come un
rintocco.
Anche
senza l'ausilio della traccia di sangue, the Bishop sta arrivando.
Si
passa la mano sulla fronte, la ritrae coperta di sudore gelido. La
ferita pulsa, il sangue scorre caldo, quasi piacevole nel freddo
mortifero del sotterraneo, intridendo pian piano la medicazione.
Ricaccia
il desiderio di abbandonarsi, riprende la marcia. La luce minima che
si permette – l'esile fascio di una torcia schermata – si perde
nel buio infinito della galleria, trae vaghi baluginii come
d'ossidiana dal canale silenzioso che ne occupa la parte centrale.
Per
un attimo si chiede come sarebbe immergersi in quella torpida
corrente, lasciarsi trasportare da essa fin nell'oblio.
Subito
dopo si riscuote, stringe i denti. Allunga il passo per quanto la
ferita glielo consente e con la mano libera si accerta che la pistola
sia ancora al suo posto, infilata in cintura. Si volta indietro. Alle
sue spalle c'è solo buio piceo, ma ha l'impressione che a un tratto
sull'antica volta guizzi qualcosa come uno sprazzo di luce.
Torna
a guardare avanti, dove la lama di luce della sua torcia fa brillare
pietre antiche, lucide d'umidità, percorse da insetti diafani che
fuggono al suo apparire.
Conosce
la mappa di quel posto a memoria, sa che entro breve raggiungerà le
scale che portano verso l'alto. Si chiede se riuscirà a issarvisi, o
se la ferita glielo impedirà.
Un
refolo d'aria gli passa sul volto umido, dal canale altrimenti
silenzioso sale un lieve gorgoglio. Egli lo illumina con la torcia e
l'impressione è che il livello dell'acqua si sia impercettibilmente
alzato.
A
quel punto ricompare la luce dietro di lui. Non è più l'idea vaga
di un riflesso, ma un piccolo punto dorato, come una stella in un
cielo nero.
L'acqua
tracima, gli lambisce un piede. L'aria si muove con più vigore.
Fa
girare la torcia dinnanzi a sé, individua il brillio metallico della
scala a pioli poco più avanti. Allunga il passo, ma barcolla ed è
costretto a cercare appoggio con la mano contro la parete fredda.
Scrolla la testa, si sta impadronendo di lui la sensazione di
sprofondare nell'ovatta.
Si
gira e la luce alle sue spalle è un minaccioso occhio di demone, che
lo scruta malevolo.
Si
rimette in marcia, pregando che la debolezza non arrivi a sopraffarlo
proprio in quegli ultimi metri. Afferra un piolo, pronto a issarsi
verso la salvezza.
Dietro
le sue spalle, l'occhio malevolo si trasforma in un fascio di luce
che per un attimo gli fa sbattere gli occhi. La galleria gli appare
in tutta la sua cupa vastità, ricordandogli la volta immensa di una
cattedrale.
L'acqua
ormai copre tutto il corridoio e ribolle portando con sé cartacce e
rifiuti.
Echeggia
un colpo di pistola, rimbombando come un tuono. Un proiettile si
schiaccia sulla parete a un palmo dalla sua testa, facendo schizzare
via schegge di pietra.
Si
gira, spara a sua volta, la luce scompare e torna visibile subito
dopo, segno che the Bishop ha cercato copertura da qualche parte ma
poi ha ripreso ad avanzare.
Correnti
d'aria frattanto si insinuano nelle antiche strutture sempre più
rapide e violente, traendo sibili e ululati da ogni anfratto, come se
migliaia di creature si stessero mandando richiami attraverso
l'intrico di cunicoli.
Con
fatica sale un altro gradino, deve rimettere via la pistola per
muoversi più in fretta. Altri colpi fanno sibilare l'aria
tutt’intorno.
Perde
la presa, si ritrova in acqua fino alla cintura, ghermito come da
un'immensa mano decisa a trascinarlo via.
Getta
un fugace sguardo alle sue spalle, la luce è immobile. Investite da
quel fascio giallastro, le onde paiono una torma di animali che
avanza frenetica, apparendo e scomparendo nelle ombre dense.
Riguadagna
la scala, sale un alto piolo, di nuovo l’acqua lo lambisce, ma
ormai il tombino a a poca distanza dalla mano.
Si
issa con un ultimo sforzo, rovescia da una parte il disco di ghisa,
crolla ansante sul selciato umido di una via parigina.
Sotto,
tutto ribolle e ulula, come se un mostro fosse rimasto intrappolato
nella galleria e stesse mugghiando furente.
The
Bishop non c’è, ma non si fa illusioni: tornerà.
Il
passo cadenzato di una pattuglia che transitava poco lontano lo
richiamò bruscamente alla realtà.
“Dobbiamo
toglierci dalla strada,” disse a bassa voce.
L'ufficiale
non replicò. Il Werwolf si chiese se rimanesse in silenzio per uno
dei suoi puntigli da adolescente o se fosse solo stanco. Doveva
esserlo, in effetti: soldati del genere erano abituati ad azioni
esplosive, in cui si dava tutto nel giro di pochi minuti, e poi ci si
riposava, quasi dimenticandosi della guerra. Pur prontissimi a
precipitare intrappolati in un aereo in fiamme, non sapevano nulla di
saltare pasti, dormire se ve n'era la possibilità, sopportare freddo
o dolore, scappare braccati giorno e notte.
Colse
nell'oscurità la sagoma chiara di un'insegna. Dall'edificio sul
quale era affissa filtravano qua e là sprazzi di luce, alcuni di un
giallo pallido, altri rosati o addirittura rossi. Tese l'orecchio e
gli parve di cogliere l'eco di risate e conversazioni.
Si
avvicinò cauto. L'insegna recitava: Da Madame Salomé. Seguiva un
tariffario: alla buona, doppietta, mezza ora, ora intera. Riduzioni
ai militari.
“Entriamo,”
disse.
Prevedibilmente,
l''ufficiale si impuntò. “Le pare il momento di andare in certi
luoghi?” protestò indignato.
“Dobbiamo
toglierci dalla strada e questo è il posto ideale.”
“Perché
sarebbe il posto ideale?”
Il
Werwolf gli circondò le spalle con un braccio e lo spinse dentro.
Prima
di poter protestare, von Knobelsdorff si trovò in un corridoio
semibuio, con una tappezzeria scura alle pareti e poche luci fioche
sul soffitto. L'aria era piuttosto calda e sapeva di colonia da poco
prezzo, con una vaga nota di varechina e acido fenico.
In
fondo c'era una pesante tenda di velluto, oltre la quale si
coglievano barbaglii di luce e un lieve parlottio.
Fece
per sottrarsi alla presa che l'uomo gli manteneva sulla spalla, ma
questi si limitò a sussurrare: “Stia attaccato a me.” Lo
sospinse poi in avanti.
Sbucarono
in quello che al tenente parve il salotto buono di una famiglia
medio-borghese: tappezzeria alle pareti, una vetrina con dentro le
ceramiche, un'angoliera con qualche libro, un lampadario di vetro
opalino che diffondeva una luce giallo-rosata.
Lungo
i lati della stanza, divani e poltrone ospitavano giovani donne
variamente spogliate. A parte qualche uomo in borghese, i clienti
erano tutti militari britannici in libera uscita, che comunque non
dedicarono loro che qualche occhiata distratta.
A
quella vista egli non poté fare a meno di irrigidirsi, e subito
l'uomo rinsaldò la presa sulla sua spalla.
Si
costrinse alla calma. Non
hai l'uniforme, non sanno chi sei,
si ripeté un paio di volte. Non
hai nulla da temere.
Mentre
stava indugiando in quei ragionamenti, una delle donne si alzò dal
divano su cui era adagiata e li raggiunse. Pareva un po' più vecchia
rispetto alle altre, portava i capelli castano-rossicci raccolti in
uno chignon e aveva pendenti di granati alle orecchie. Indossava un
abito da sera nero, decorato da pietre di giaietto. “Buona sera,
signori,” li salutò, “sono madame Salomé. Cosa posso fare per
voi?”
L'uomo
salutò a sua volta, poi a bassa voce chiese: “È possibile avere
una stanza?”
La
tenutaria aggrottò interdetta le sopracciglia, quindi in tono
sussiegoso gli disse: “Questo non è un albergo, signore.”
L'agente
segreto annuì come chi si fosse aspettato esattamente quella
risposta. Infilò la mano libera in tasca e ne trasse una banconota
arrotolata. La porse con riservatezza alla donna, quindi chiarì:
“Una camera discreta,
per me e il mio amico.” Si piegò verso il tenente, che dovette
farsi forza per non sussultare quando si sentì baciare sulla tempia.
Un'altra banconota seguì la prima. “Una camera e poche domande,
non so se mi spiego.”
Von
Knobelsdorff cercò di mettere un po' di distanza tra sé e l'altro,
ma questi, esternamente imperturbabile, strinse la presa talmente
forte che al tenente parve di avere intorno alla spalla la morsa di
un fabbro. Rimase immobile.
Madame
Salomé srotolava intanto le banconote con fare professionale. Von
Knobelsdorff diede un'occhiata: erano molti
soldi. Probabilmente, la totalità degli avventori che si trovavano
nel salotto le avrebbe lasciato a fine serata poco più della metà
di quella cifra.
“Intesi?”
la richiamò alla realtà l'agente segreto.
“Ma
ecco... non sarebbe nello stile della casa...”
Una
terza banconota si aggiunse alle prime due. “Non potrebbe fare
un'eccezione?” le chiese l'uomo suadente. “Domani il mio amico
tornerà al fronte, volevo offrirgli un vero letto.”
Sotto
lo sguardo indagatore della donna, il tenente non riuscì a fare
altro che abbassare lo sguardo. Si sentiva le guance in fiamme, gli
pareva che tutti lo stessero fissando. Quel dannato individuo lo
stava facendo passare per un invertito! Si morse il labbro
impedendosi ogni reazione, anche quando l'uomo abbandonò la presa
sulla sua spalla e gli scompigliò affettuosamente i capelli.
“Mi
capisce, madame?” lo sentì dire. Il tono era quello di chi cerca
la comprensione di una persona più adulta e più esperta per un
problema di cui non riesce a venire a capo. “È la nostra ultima
notte insieme.”
“Ma
certo,” rispose la donna con un sospiro. Si rivolse poi al tenente:
“E tu cosa dici, mon
petit chou, sei
contento di passare la notte col tuo amico? Fatti vedere.” Cercò
senza successo di sollevargli il mento.
“È
molto timido,” intervenne l'uomo.
“Oh,
ma certo, capisco. Del resto, è così giovane, non è vero?”
“Ha
diciotto anni.”
“Diciotto
anni! E domani andrà al fronte!” Fece un nuovo, profondo sospiro.
“Povero ragazzo.”
“La
camera, signora. E anche qualcosa da mangiare, se è possibile. Vede
com'è pallido?”
§
“Io
non so come si sia permesso di fare una cosa del genere!” sibilò
l'ufficiale. “Ora penseranno che siamo degli anormali.” Stava
cercando di togliersi la camicia, ma le mani gli tremavano così
tanto che non riusciva a slacciare i bottoni.
“La
aiuto?” gli propose il Werwolf serafico.
“Stia
lontano da me,” fu la
tagliente risposta.
L'agente
non replicò. Si mise nel piatto un altro po' dello stufato che
madame Salomé gli aveva fatto generosamente recapitare, si versò un
bicchiere di vino e riprese a mangiare. “Venga anche lei,” disse
dopo un po'. “Non sappiamo quando avremo la possibilità di fare un
altro pasto.”
“Non
ho fame.”
“Non
dica idiozie, è tutto il giorno che non tocchiamo cibo.”
“Si
dà il caso che il suo lauto pasto non mi interessi.”
Il
Werwolf emise un sospiro infastidito, quindi posò la forchetta e
sollevò lo sguardo a fissarlo in viso. “Si avvicini, prego,” gli
disse.
“Sto
bene qui.”
La
voce dell'agente segreto divenne un minaccioso ringhio: “Si
avvicini, ho detto, altrimenti vengo io da lei, e le garantisco che
non le piacerà.”
L'ufficiale
tentennò qualche istante, forse chiedendosi se fosse il caso di
rispondere per le rime, ma poi fece un paio di riluttanti passi nella
sua direzione.
A
quel punto, il Werwolf proseguì: “Ora mi ascolti bene, giovanotto,
perché questa spiegazione la sentirà una volta sola. La mia
priorità è portare a termine la missione che mi è stata affidata.
Se per raggiungere l'obiettivo devo uccidere, rubare, farmi passare
per un pederasta o qualsiasi altra cosa, io lo faccio, è chiaro?
Perché la considerazione di una tenutaria francese e di quattro
marmittoni mangia-roastbeef è niente, mentre servire la Patria è
tutto.” Fece una pausa, poi in tono duro soggiunse: “Mi sono
spiegato?”
Pur
guatandolo con occhi di fuoco, il giovane ufficiale chinò il capo in
un cenno affermativo.
“Molto
bene, allora la smetta di crearmi problemi, ne ho già abbastanza da
risolvere. Venga al tavolo, si nutra adeguatamente e assuma un
aspetto presentabile, poi valuteremo il da farsi.”
Il
giovane prese posto sulla sedia come se si stesse accomodando sui
carboni ardenti. Evitando con ostinazione di guardarlo in faccia, si
servì un po' di boeuf bourguignon, poi chiese: “Come le è venuta
in mente... quella cosa?”
“Che
cosa?”
“Far
finta che noi due...” Non riuscì nemmeno a terminare la frase, le
guance gli si accesero di nuovo.
Impassibile,
il Werwolf spiegò: “Certe donne sono molto sensibili ai drammi
degli omosessuali di bell'aspetto, lo tenga a mente per il futuro.”
“Io
non sono omosessuale,” replicò rapido l'ufficiale.
L'uomo
sorrise. “Ma è senz'altro di bell'aspetto.”
Il
più giovane si tese come per balzare via dalla sedia. “Cosa?”
“È
di bell'aspetto. E la smetta di sussultare come l'eroina di un
romanzo per fanciulle appena si toccano certi argomenti.”
L'ufficiale
si limitò a fissarlo torvo, poi abbassò lo sguardo sul piatto e ve
lo mantenne ostinatamente mentre mangiava.
Il
Werwolf si alzò, si guardò intorno. La stanza, piccola,
dall'arredamento modesto, non sembrava destinata all'uso dei clienti.
Forse un tempo era servita per ospitare una cameriera, ma era
chiaramente vuota da mesi: sui mobili c'era un leggero velo di
polvere e l'aria sapeva di canfora, più che di lavanda.
In
un angolo, seminascosto da un separé di stoffa, vi era un tavolino
su cui si trovavano una bacinella e una brocca piena d'acqua. Accanto
ai due recipienti vi erano due asciugamani dal bordo di macramè.
L'agente segreto ne sollevò uno e l'osservò: tessuto fine, morbido.
Tutt'altra cosa rispetto ai ruvidi teli di canapa che venivano
forniti agli avventori del bordello per le necessarie abluzioni.
Lo
posò. Alle sue spalle vi era un silenzio glaciale, rotto appena, di
tanto in tanto, da qualche lieve acciottolio di stoviglie. “Tutto
bene?” chiese, ma non ottenne risposta.
Immaginò
che il rigido ufficialetto volesse sdegnosamente ignorarlo.
Ripensò
a quello che gli aveva appena detto: se
per raggiungere l'obiettivo devo uccidere, rubare, farmi passare per
un pederasta o qualsiasi altra cosa, io lo faccio.
Una
frase che decisamente strideva con la scelta di portarselo dietro.
Considerata
l'importanza di quello che aveva con sé, avrebbe dovuto lasciare
indietro un generale di corpo d'armata, se gli avesse impedito di
muoversi con la necessaria velocità e segretezza, figurarsi quel
tenentino, che a ogni richiesta che considerava troppo strana si
impuntava come un cavallo ombroso.
Scosse
la testa quasi con indulgenza: forse non era ancora così immune da
certi sentimenti come credeva.
Si
girò a guardare il giovanotto e vide che si era addormentato con la
testa appoggiata sul braccio. Il piatto era ancora mezzo pieno, nella
forchetta era infilzato un boccone di carne.
Sorrise
fra sé e sé, poi prese la coperta e gliela stese sulle spalle.
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