Gente mia,
ecco
un altro mezzo capitolo, col quale spero vi sollazzerete. Come sempre
ringrazio la mia “Band of Brothers”, ovvero i pochi, felici
pochi, che mi stanno seguendo.
Un
ringraziamento particolare va, come sempre, a chi mi ha anche
lasciato un parere.
Ma
bando alle ciance: buona lettura!
Capitolo
5
Il
Werwolf aprì gli occhi. Doveva essere notte fonda, il buio era
impenetrabile.
Nell'aria
c'era odore di legno vecchio, di polvere, della canfora che
sicuramente Madame Salomé faceva mettere negli armadi, del borgogna
che era rimasto nel bicchiere. C'era anche un sentore – ma più che
altro una specie di calore,
una vibrazione vitale
– che proveniva dal suo accompagnatore.
Tese
l'orecchio: il silenzio era denso, corposo. Era come se ovunque fosse
stato steso uno strato di ovatta, che soffocava ogni suono. Il
fruscio delle coperte sembrava il crepitare di legna secca, il verso
di un uccello notturno echeggiò come il grido fatale di un'erinni.
Pur
nell'oscurità picea strinse gli occhi, mentre una sorda sensazione
di minaccia lo pervadeva.
Scivolò
cauto giù dal letto, si avvicinò tentoni alla finestra e la aprì.
Al fioco chiarore di un'esile falce di luna e poche stelle, colse un
alternarsi di tetti variamente inclinati, di abbaini e grondaie.
Per
un po' lo contemplò in silenzio, calcolando la difficoltà che
avrebbe offerto a un neofita, poi si volse nuovamente verso la
stanza. Quello che percepiva non era propriamente qualcosa che
provenisse dai sensi. Era un'impressione, più che altro. Una
generica sensazione di allarme.
Il
silenzio non era quello di una tranquilla casa immersa nel sonno:
somigliava piuttosto a quello di una foresta in cui si sta aggirando
un predatore.
Possibile
che the Bishop fosse già riuscito a trovarlo? Non era impossibile,
in effetti. Non era escluso, del resto, che qualcuna delle ragazze
del bordello fosse una spia inglese. La comparsa dei due sfortunati
amanti, che aveva così intenerito la maîtresse, poteva invece aver
insospettito gente più portata al pragmatismo.
In
ogni caso, tutto, in quella calma gelida, gli urlava che era il
momento di andarsene.
Studiò
l'alternarsi di spioventi su cui la luce fioca della luna disegnava
vaghe chiazze lattee. Si vide balzare sulle tegole, raggiungere
l'altana di cui i pallidi raggi disegnavano il contorno e da quella
scendere verso un secondo tetto, più largo e basso. Da lì avrebbe
facilmente trovato una grondaia lungo la quale sarebbe sceso fino a
terra.
Se
si fosse lasciato alle spalle l'ufficiale – cosa per nulla
difficile, dal momento che stava dormendo della grossa – the Bishop
se lo sarebbe trovato davanti, servito per così dire su un piatto
d'argento. L'avrebbe ignorato o avrebbe speso qualche minuto per
capire cosa sapeva della missione?
Si
voltò verso il punto dove si trovava il giovanotto e considerò fra
sé e sé che in qualche minuto potevano succedere molte cose.
Tentennò.
Forse the Bishop era troppo furbo per cadere in una trappola così
banale.
Forse
avrebbe ignorato il giovane – o magari l'avrebbe rapidamente
abbattuto – e poi avrebbe proseguito l'inseguimento.
Raggiunse
l'ufficiale, lo scosse delicatamente.
Egli
mugolò qualcosa di indistinto e sulle prime fece per girarsi
dall'altra parte.
“Dobbiamo
andare,” gli disse sottovoce.
“Cosa?”
“Dobbiamo
andare via.”
“Ma...”
In
quel momento, un lieve scricchiolio ruppe il silenzio che gravava
ovunque.
“Si
muova,” sibilò il Werwolf. Afferrò il giovane per le spalle e lo
scosse di nuovo.
Finalmente
l'altro si alzò. Ancora intontito dalla stanchezza, barcollò e
rovesciò il bicchiere, che si ruppe toccando il tavolo.
Al
suono del cristallo infranto, l'agente segreto dovette farsi forza
per non sobbalzare. “Si muova!” ripeté con urgenza, poi lo
sospinse verso la finestra.
Scavalcò
il davanzale.
Al
suo fianco, l'ufficiale sussurrò: “Che cosa sta facendo?”
“Fuori!”
In
quel momento la porta si schiuse con violenza e nel riquadro buio
comparve una sagoma umana. Ci furono due brevi sibili in rapida
successione e per un istante brillò nell'aria lo sbuffo bianco del
cuscino che esplodeva in un nugolo di piume. L'odore della cordite
saturò l'atmosfera.
“Fuori!”
ripeté il Werwolf.
Un
terzo colpo fece schizzare schegge di legno dallo stipite della
finestra.
I
due rotolarono sullo spiovente, inseguiti da altri colpi. Una tegola
andò in frantumi poco lontano.
L'umidità
della notte aveva coperto il tetto di una patina scivolosa. Von
Knobelsdorff fece qualche passo malfermo, perse l'equilibrio e cadde
a faccia in giù. D'istinto allargò braccia e gambe per non mettersi
a rotolare, ma l'inerzia lo spingeva comunque verso il basso, in
quello che gli appariva come uno spaventoso abisso di tenebre.
Si
contorse cercando di offrire la maggior superficie possibile alle
tegole incrostate di muschio, contrasse le dita alla ricerca di un
appiglio, ma il movimento non si arrestava.
Una
mano lo afferrò per i vestiti, frenando la sua caduta. Alzò gli
occhi e intravide il volto pallido dell'uomo. Colse, o forse immaginò
e basta, un suo sguardo di riprovazione. “Grazie,” brontolò, ma
l'altro stava già correndo verso la linea di colmo con l'agilità di
un felino.
Egli
si sollevò con cautela, spasmodicamente attento a non perdere di
nuovo l'equilibrio, e si mosse per raggiungerlo. Udì un breve sibilo
alle sue spalle, quasi ebbe l'impressione di percepire lo spostamento
d'aria di una pallottola. Balzò in avanti con nuova energia,
bilanciandosi con le braccia aperte come quando da piccolo andava a
pattinare sul ghiaccio.
Scorse
dinnanzi a sé l'uomo, più che altro come una sagoma appena
delineata dalla luce lunare. “Aspetti!” boccheggiò. Di nuovo
scivolò con un piede, si riprese all'ultimo, si chinò per
appoggiare sul tetto anche le mani.
Alle
sue spalle percepiva un tramestio leggero, segno che qualcuno altro
si stava muovendo sulle tegole, però con molta più agilità di lui.
Di
nuovo si sentì afferrare e sollevare quasi di peso. Barcollò,
annaspò nel vuoto con le mani protese, chissà come riprese a
correre, un piede di qua e uno di là dalla linea di colmo, poi d'un
tratto superò una balaustra, si trovò su un pavimento, poi di nuovo
su un tetto, meno inclinato del precedente.
Udì
rumore di cristalli infranti, si accorse che l'uomo aveva rotto e
aperto la finestra di un abbaino. Fece per entrarvi, ma l'altro lo
fermò e gli indicò di proseguire in silenzio. Lo guidò verso lo
spiovente che non riceveva la luce lunare.
A
quel punto, von Knobelsdorff entrò nel buio pesto. Non vedeva la
propria mano neppure se la teneva a un palmo dalla faccia, procedeva
carponi guidato unicamente dai lievi suoni che l'uomo produceva
avanzando.
A
un tratto, quasi gli andò a sbattere contro.
L'agente
segreto era fermo. Non appena si accorse di lui, con un sussurro
appena percettibile gli disse: “Ora scendiamo.”
Il
tenente si sentì gelare. “E come?”
“Lungo
la grondaia. Non ricominci a crearmi problemi con le sue domande
inutili, o questa volta la lascio davvero al suo destino.”
Un
istante dopo, l'uomo si stava già sporgendo dal bordo del tetto,
praticamente senza fare alcun rumore.
Von
Knobelsdorff deglutì. Gli occhi gli si erano un po' abituati al buio
piceo nel quale era immerso e percepiva vagamente i contorni delle
cose. Oltre l'ultima fila di tegole c'era un abisso che a occhio e
croce – considerando le rampe di scale salite per raggiungere la
camera – non doveva essere profondo meno di otto metri.
Mancare
un appiglio significava sfracellarsi a terra, e passare nel migliore
dei casi per un anonimo suicida. Niente Pour le Mérite e niente
gloria.
Si
adagiò sul ventre, sporse cauto le gambe nel vuoto, cercò coi piedi
qualcosa che somigliasse al supporto di una grondaia.
Strisciò
sempre più giù, obbligandosi a non pensare alla possibilità di un
tubo mangiato dalla ruggine o di un intonaco mezzo marcio.
Toccò
finalmente, molto più in dentro rispetto a quanto immaginasse,
qualcosa che gli rimandò un suono cavo e metallico. Si lasciò
scivolare un altro po', finì a penzolare nel vuoto mentre annaspava
freneticamente per ritrovare il tubo che aveva colpito un attimo
prima.
Infine
raggiunse la più alta delle staffe, che data la situazione gli parve
solida come la base di un monumento. Sospirò di sollievo, poi con
circospezione tastò in giro alla ricerca di un appiglio per l'altro
piede.
A
questo punto, veniva la parte difficile, ovvero abbandonare la presa
sul bordo del tetto per agguantare il tubo e tramite quello scendere
pian piano fino a terra.
Si
chiese dove fosse l'uomo, se avesse infine deciso di lasciarlo
indietro. Tendendo l'orecchio non coglieva che pochi fruscii
provenire dal basso, il che voleva dire che l'agente segreto era già
lontanissimo.
Staccò
con circospezione una mano e afferrò il tubo della grondaia, che dal
bordo del tetto piegava verso l'interno per raggiungere il muro.
Pensò
alle scimmie in Africa, rivide l'illustrazione di una bertuccia che
penzolava da un tronco di palma obliquo e gli parve di essere
esattamente nella stessa posizione, però senza l'agilità e la forza
del primate.
Staccò
la seconda mano. Trovandosi a sostenere tutto il suo peso, il tubo
emise uno scricchiolio sinistro. Egli cercò di non pensarci. Non
aveva molte alternative, del resto, poteva solo tentare di scendere,
possibilmente senza sfracellarsi al suolo. Cominciò a procedere
adagio verso il basso.
Cercò
di fare il vuoto in mente, di concentrarsi solo sui movimenti
necessari a scendere lungo la grondaia. Provò a guardare giù, ma
gli parve che l'abisso di buio nel quale stava scendendo fosse
un'enorme bocca spalancata, pronta a inghiottirlo. Serrò gli occhi
per un istante mentre un brivido gli percorreva la spina dorsale.
Nonostante il fermo proponimento di pensare solo alla discesa, gli si
ripresentavano di continuo episodi della sua vita. Qual era il
rischio maggiore che aveva mai corso? Si era trovato su un aereo in
fiamme, oppure in sella a un cavallo imbizzarrito, fuori controllo,
che correva con la schiuma alla bocca nella terra di nessuno. Era
passato con noncuranza accanto a un obice che sporgeva da terra per
metà, salvo poi essere investito un minuto dopo dall'onda d'urto
della sua esplosione.
Scendere
lungo una grondaia umida nel buio pesto era più o meno rischioso?
Rinunciò
a darsi una risposta. Continuò a ripetere i movimenti della discesa
in modo meccanico e possibilmente sempre uguale: staccare un piede,
farlo strisciare lungo la grondaia verso li basso, allungare adagio
le braccia per far scendere anche il corpo, trovare un sostegno col
piede, staccare anche l'altro piede, portarlo all'altezza del
primo...
Qualcosa
gli si strinse intorno a una caviglia.
Egli
sussultò, perse la presa rimanendo appeso solo per le braccia, si
contorse nel vuoto alla ricerca di un nuovo appiglio mentre una
sferzata di adrenalina gli troncava il respiro.
“La
pianti di agitarsi,” lo ammonì la voce asciutta dell'uomo,
“dobbiamo trovare una chiesa.”
Ancora
sotto l'effetto della sorpresa, von Knobelsdorff non poté altro che
ansimare: “Cosa?”
“Si
muova,” fu la risposta dell'altro. “E stia zitto, possibilmente.
Ci sono pattuglie ovunque.”
Il
tenente abbandonò la presa sulla grondaia e prese contatto col
selciato. Non fece in tempo a godersi la sensazione di sicurezza
delle pietre solide sotto i piedi che già l'uomo l'aveva afferrato
per un braccio e lo stava spingendo via dalla strada.
Si
infilarono in un androne scomparendo nell'oscurità. Dal fondo della
via cominciò a farsi udire il ritmo cadenzato di un reparto in
marcia. Ci furono fugaci guizzi di luce.
I
passi si avvicinarono, poi rallentarono. Comparvero altri rumori,
come di qualcosa che battesse contro qualcos'altro traendone un suono
cavo. Uno dei soldati disse qualcosa, un altro rispose.
“Polizia
militare,” sussurrò l'uomo.
Von
Knobelsdorff si girò verso di lui, cercando di individuarlo
nell'oscurità, ma percepì unicamente il vago calore che emanava la
sua persona. Colse il sibilo lieve di una lama che veniva estratta
dal fodero.
I
colpi continuavano, era chiaro che qualcuno stava battendo col calcio
del fucile contro imposte e porte.
Di
nuovo qualcuno parlò, ma venne zittito bruscamente e l'operazione
proseguì in un silenzio attento.
L'ufficiale
si chiese cosa stesse succedendo e perché. Era chiaro che quegli
uomini erano alla ricerca di qualcosa: mancati rientri al
contrappello, violatori del coprifuoco, disertori... oppure loro due?
Possibile che l'agente inglese che stava dando loro la caccia fosse
già riuscito ad allertare una o più pattuglie di polizia militare?
Si
appiattì più che poteva contro il muro. Avrebbe voluto chiedere
all'uomo cosa fare, ma quello era chiaramente il momento di mantenere
l'assoluto silenzio. I rumori si avvicinarono, l'agente segreto al
suo fianco si tese come un felino.
La
lama catturò un barbaglio di luce e per un istante il suo filo
brillò gelido.
I
rumori all'esterno frattanto sembravano essersi fermati. C'era
scalpiccio di passi poco lontano, qualcuno tossì. Si udì l'ormai
noto battere dei calci di fucile contro il legno.
L'agente
segreto era come una freccia incoccata. Von Knobelsdorff capì che se
qualcuno si fosse affacciato nell'androne, probabilmente non ne
sarebbe uscito vivo.
E
poi cosa sarebbe successo? Quanti soldati c’erano sulla strada?
L'uomo li avrebbe abbattuti tutti? Avrebbe dovuto aiutarlo? In che
modo? Aveva ancora la sua pistola, ma capiva che sparare un colpo in
quel frangente avrebbe come minimo svegliato tutto il paese, con
ovvie conseguenze.
La
porta si schiuse. Il pennello di luce di una torcia si insinuò
all'interno, dardeggiò qua e là.
Giunse
da fuori una domanda in inglese. Chi era affacciato sull'androne
rispose con un diniego. La figura sulla soglia tentennò, fece girare
la lanterna schermata, poi fermò il debole fascio di luce contro la
parete. Sopraggiunse un'altra figura.
Nel
silenzio assoluto echeggiò un rumore decisamente corporale. Il nuovo
arrivato ridacchiò, il primo replicò qualcosa che suonava come una
protesta, ma vi si coglieva un'intonazione scherzosa.
La
porta si richiuse.
I
passi e i colpi sul legno si allontanarono.
Solo
dopo qualche minuto von Knobelsdorff sentì l'uomo rilassarsi. Lo udì
emettere il fiato come se fino a quel momento l'avesse trattenuto; la
lama scomparve con lo stesso breve sibilo di quando era stata
estratta.
Subito
dopo il tenente sentì sul braccio l'ormai ben nota presa che questi
usava per attirare la sua attenzione. Si chiese come avesse fatto a
individuare con tanta precisione la posizione dell'arto nella
completa oscurità.
Forse
vedeva al buio come i gatti.
“Andiamo,”
sussurrò l'uomo con voce appena udibile.
Il
tenente rinunciò a chiedere dove sarebbero andati. Perché tanto non
avrebbe ricevuto risposta, perché bisognava stare in silenzio, ma
anche perché cominciava a sentirsi esausto e lasciarsi condurre era
un buon modo per risparmiare energia.
Sentì
la presa sul braccio guidarlo e docilmente la seguì.
Uscirono.
La strada era deserta, alla debole luce della luna si intravedevano
appena i contorni degli edifici. Nell'aria vi era un silenzio denso,
carico di oscura minaccia.
Von
Knobelsdorff si guardò intorno, quasi aspettandosi di veder
comparire da qualche parte l'agente che li stava inseguendo, ma tutto
era immobile e gli unici suoni che si udivano erano quelli che loro
stessi producevano.
Cauti
come animali selvatici, si misero in marcia.
Il
Werwolf individuò un campanile. Per quanto scavasse nella memoria,
ripercorrendo la topografia della cittadina, non riusciva a ricordare
a quale chiesa appartenesse. Poco male, l'importante era che ci fosse
dentro quello che gli serviva.
Si
appiattì in un lembo d'ombra, l'ufficiale lo imitò in silenzio.
L'agente segreto si chiese se avesse rinunciato finalmente a
discutere con lui per ogni singola cosa o se fosse solamente esausto.
Probabilmente
si trattava della seconda opzione, ragionò, e poi distolse
l'attenzione dal suo accompagnatore per rivolgerla all'edificio
sacro.
Era
poco più di una chiesetta, la struttura di base era quella solida di
un edificio romanico, ma quel poco che si coglieva del suo aspetto
lasciava indovinare successivi rimaneggiamenti barocchi. Suppose che
di giorno sembrasse una specie di piccola bomboniera, rosa o color
crema, con volute bianche come panna montata un po' ovunque.
Nella
canonica, che emergeva dal buio come una solida sagoma nera, non si
indovinava il minimo punto di luce.
Dato
l'orario, il tranquillo parroco di provincia che la occupava doveva
essere immerso nel sonno.
Attraversò
la strada silenzioso, muovendosi di ombra in ombra. Raggiunse la
chiesa, iniziò a percorrerne le pareti alla ricerca di una porta.
Un
debole tramestio – tipico di chi sta cercando di muoversi senza
rumore ma non è addestrato a farlo – gli fece capire che
l'ufficiale l'aveva raggiunto. Si limitò ad afferrargli un braccio
nel buio e a spingerlo contro il muro, dove le ombre erano più
dense.
Ricominciò
poi il suo lavoro di ispezione.
Alla
fine trovò una porticina di legno alla base del campanile, nel punto
in cui la canonica si collegava alla navata principale. Palpò la
serratura, che gli parve una semplice piastra di ferro irruvidita
dalle intemperie. La forma della toppa suggeriva una chiave a mappa
singola, probabilmente di fattura antica.
Trasse
di tasca grimaldello e tensori.
§
The
Bishop soffocò un'imprecazione. Strinse gli occhi, cercando di
penetrare l'oscurità densa del coprifuoco. Tese l'orecchio, ma tutto
era immobile e silenzioso.
Quel
dannato tedesco era riuscito a sfuggirgli di nuovo.
Ripensò
a una massima di Epicuro che recitava: guardati dal desiderio, esso è
la fonte di ogni dolore.
Gli
parve che la frase si attagliasse particolarmente a quanto appena
accaduto.
Per
un attimo era stato a tanto così da lui. L'aveva intravisto sul
tetto, mentre correva sulle tegole con l'agilità di un felino. Per
un istante era anche riuscito a prenderlo di mira, ma l'istante dopo
il Werwolf era già scomparso.
Era
stata la brama di catturarlo che gli aveva tolto la lucidità. Quando
aveva udito il rumore del vetro infranto, e successivamente trovato
la finestra dell'abbaino rotta, aveva quasi sentito la stoffa della
sua camicia sotto le dita, il guizzare dei suoi muscoli tra le mani
serrate.
Aveva
pregustato il suo respiro ansante, il suo divincolarsi rabbioso.
Era
stato un grossolano errore, ovviamente. Il Werwolf gli aveva teso una
trappola e lui c’era caduto come l’ultimo dei novellini: nessun
agente segreto degno di questo nome avrebbe fatto tutto quel rumore
rompendo un vetro, nessuno si sarebbe lasciato dietro tracce così
evidenti.
Emise
un sospiro. Ovunque fosse il Werwolf, ormai era fuori dalla sua
portata. Era riuscito a sgusciare fra le maglie della rete che lui
aveva pur rapidamente intessuto intorno all’edificio del bordello e
ancora una volta aveva fatto perdere le proprie tracce.
Cercò
di ragionare: cos’avrebbe fatto se fosse stato al posto suo? Di
certo non si sarebbe arrischiato a trasmettere via radio i dati in
suo possesso. Sicuramente il Werwolf aveva intuito – se non sapeva
già per certo – che l’Inghilterra era in possesso dei codici
radio segreti dell’Impero Tedesco fin da prima del conflitto.
Non
li avrebbe nemmeno affidati ad altre persone: se lui era in grado di
sfuggirgli, altri non avrebbero avuto quell’abilità.
Non
li avrebbe infine nascosti per andarli a recuperare in un altro
momento: era vitale che quelle informazioni raggiungessero prima
possibile il quartier generale tedesco.
Quindi
che cosa avrebbe fatto?
Senza
dubbio avrebbe cercato di raggiungere più in fretta possibile colui
o coloro cui avrebbe dovuto comunicare quei dati.
Ricordò
i safari in Africa: per catturare un leopardo non era necessario
addentrarsi nella savana, bastava appostarsi presso una pozza
d'acqua. La bestia prima o poi sarebbe arrivata per bere, e a quel
punto sarebbe stata con relativa facilità abbattuta.
Allo
stesso modo, non aveva senso setacciare la cittadina alla ricerca del
Werwolf: la cosa più razionale da fare era presidiare la stazione
ferroviaria e le strade in uscita.
Che
stesse nascosto lì dentro, se voleva. Poteva starci anche fino alla
fine della guerra. Ma se avesse provato a uscire avrebbe trovato lui
ad attenderlo, esattamente come il cacciatore presso la pozza
d'acqua.
Raggiunse
il più vicino dei posti di guardia inglesi. Al suo apparire, il
comandante della sezione, un sergente, scattò sull'attenti e salutò,
quindi a voce alta e chiara scandì: “Ancora nulla, signor
colonnello!”
Abituato
al silenzio della segretezza, the Bishop ebbe un fugace moto di
fastidio a quella reboante ostentazione di vigore marziale, ma subito
dopo recuperò una perfetta impassibilità. “Dica agli uomini di
continuare a cercare,” ordinò conciso. Era ben consapevole che
quella volonterosa soldataglia non avrebbe trovato assolutamente
nulla, il Werwolf era troppo furbo per loro, ma era come scatenare i
battitori nella foresta: non avrebbero certo catturato il leopardo,
ma l'avrebbero comunque disturbato.
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