Primo capitolo
5
Pripyat, Ucraina.
8 Novembre 2009.
Ospedale nr. 126.
12:31.
Irina Kabakova, Vassili
Karavaev, Boris Volkov.
Irina e Vassili hanno accompagnato Boris in ospedale per
farsi togliere il proiettile.
«Fa
tanto male?»
Irina
era accanto a Boris, allettato dopo l’operazione. I medici
dell’esercito
avevano allestito un presidio medico nell’ex ospedale
principale di Pripyat, il
numero 126. Seppur in assenza di condizioni sanitarie idonee, i dottori
erano
riusciti a rimuovere il proiettile sparato da Irina e ricucire la
ferita. Fortunatamente,
il colpo non aveva reciso arterie.
«Nulla
che non possa sopportare» fece il ragazzo. «Ho
fatto lo stupido, è giusto che
ne abbia pagato le conseguenze».
«Non
dire così, Boris.» cercò di confortarlo
Irina. «Dovevo prendere la mira, e non
sparare alla cieca.»
«Già…
ormai è andata così. Guardiamo avanti.»
I
due stettero in silenzio per qualche momento.
«Quindi
ce l’abbiamo fatta» disse lui.
La
ragazza annuì.
«Quando
uscirai, ti farò vedere il mio appartamento. E potrai
sistemarti da me,
ovviamente.» aggiunse.
«Prima
però voglio visitare la città. Voglio vedere i
posti dove ho ucciso tutti quegli
ultranazionalisti russi con il capitano MacMillan… e dove ho
combattuto i
Monolith assieme ai membri della Freedom e ai Duty.»
«Calma,
stalker. Faremo una cosa alla volta.»
I
due risero, per poi fissarsi.
«Ira... c'è
qualcosa di cui vorrei parlarti.» disse Boris. «Io...»
Un dottore entrò nella
stanza.
«Signorina,
il paziente ha bisogno di riposo. E, a quanto ho capito, ne avrebbe
bisogno
anche lei, a giudicare dal viaggio che avete fatto per arrivare fin
qui» disse.
«Va
bene, me ne vado subito.» fece, alzandosi.
Irina
volse un ultimo sguardo a Boris, che sorrise amaramente, facendole
cenno di andare.
«Starò
bene.» proferì.
«Ti
aspetto a casa.» disse lei.
E lo baciò in fronte.
Irina
si guardò intorno. Lo spettacolo che aveva davanti non
avrebbe mai immaginato
di vederlo in vita sua. La città dove era nata era stata
conquistata dalla
natura, stravolgendone tutti i ricordi che aveva. Guardò
l’enorme ospedale a
pochi metri da lei. Tra quelle mura, il 16 gennaio del 1983, aveva
visto la
luce. Ora era in condizioni fatiscenti, ma l’esercito se
n’era riappropriato,
usandolo per fare sporadici controlli medici e, come nel caso di Boris,
operazioni chirurgiche, seppur in situazioni disagianti e non adatte.
Si
voltò, guardando i palazzi a poche centinaia di metri da
lei. Posti che
ricordava essere pieni di vita. Ora, guardando attraverso le finestre
rotte, le
uniche cose che percepiva erano freddo e morte. Notare la presenza di
rifugiati
ai balconi o alle finestre dei blocchi di appartamenti le ricordava
ciò che
c’era fuori dalla città, nel resto del mondo.
Pripyat,
la città morta tornata in vita.
La città zombie.
L’arrivo
di Vassili, che la stava aspettando fuori dalla struttura, interruppe
il suo
flusso di pensieri.
«Cosa
dicono i dottori?» chiese.
«Il
tempo che i punti facciano il loro dovere e sarà libero di
scorrazzare dove
vuole all’interno della città.» rispose
Vassili. «Ad eccezione del seminterrato
dell’ospedale.»
«Perché?
Ci sono i mostri dei videogiochi ai quali ha giocato?»
«Durante
un giro di perlustrazione hanno trovato degli indumenti altamente
radioattivi.
Dicono siano le divise dei pompieri che per primi sono intervenuti per
domare
l’incendio alla centrale nucleare. Inutile che ti dica che
stare nei loro
paraggi non è esattamente una botta di salute.»
Irina
accennò un sorriso.
«Olga
è all’hotel ‘Polyssia’. Ti
ricordi la strada per arrivarci?»
La
ragazza annuì, andando verso il blocco di appartamenti
davanti a loro,
iniziando a camminare in mezzo agli alberi.
«Vivevi
qua vicino?» domandò il poliziotto.
«No.
Il mio appartamento non era distante dal posto dove siamo arrivati. Era
in una
posizione strategica. Vicino a noi c’era la fabbrica dove
lavorava papà, la
piscina, una scuola elementare, il centro della città era a
circa un
chilometro…»
Il
membro della Militsiya era a dir poco sconcertato.
«Come
fai a ricordarti tutto questo?»
Lei
abbassò lo sguardo.
«Papà
mi diceva sempre di non dimenticarmi da dove venivo. “Ci
rende unici, a modo
nostro”, diceva. Mi faceva vedere di continuo i posti che
frequentava lui, dove
mi portava, dove lavorava mia madre. Così che un giorno,
quando e se saremmo
tornati, mi sarei saputa anch’io orientare
all’interno di Pripyat.»
Irina
si fermò, osservando nuovamente l’ambiente
circostante.
«Se
solo potesse vedermi in questo momento…»
Vassili
mise una mano sulla spalla della ragazza.
«Lui…
sarebbe contento di vederti sorridere.»
I
due continuarono a camminare per qualche minuto, fin quando tornarono
su una
strada asfaltata.
«Via
Kurchatov.» annunciò la ragazza. «Quello
là è il cinema
‘Prometey’» fece,
indicando un edificio sulla destra. Si voltò poi verso
sinistra, rivolgendo lo
sguardo verso un alto edificio bianco sporco. «E quello
è il posto da dove
l’allora tenente Price e il capitano MacMillan cercarono di
uccidere Imran
Zakhaev nell’inverno del 1996.»
«Ovvero?»
«L’hotel
‘Polyssia’. Ero con Boris quando ha giocato le
missioni ambientate a Pripyat su
Call Of Duty.»
A
Vassili non sfuggì lo sguardo divertito della ragazza.
«C’è
del tenero tra voi?» chiese.
Irina
non rispose.
«Irina!»
Olga
corse ad abbracciare la ragazza.
«Mi
dispiace tanto per Sergei.» disse.
«Sto
bene, Olga. Sto bene. Vorrebbe vedermi felice in questo posto, ora che
sono
tornata a casa.»
Il
sergente sorrise.
«Come
sta Boris?» chiese a Vassili, abbracciando anche lui.
«Il proiettile non ha
danneggiato sensibilmente la gamba. Guarirà
presto.» rispose l’agente.
Il
caporale Yakovenko si sporse.
«Chi
ha detto di essere tornata a casa?»
Irina
alzò la mano, sospettosa.
«Sei
un’ex cittadina di Pripyat?» continuò il
militare. La ragazza annuì.
«Nata
all’ospedale 126 di Pripyat il 16 gennaio 1983. Io e i miei
genitori abitavamo
al sesto piano del numero 10 G, interno 14, in Via dello
Sport.»
«Ho
una bella notizia per te, figliola.» le annunciò
il soldato. «Ti spetta
quell’appartamento di diritto. E di gente in Via dello Sport
non ne abbiamo
molta, quindi è altamente improbabile che qualcuno si sia
stabilito lì. Spero
per te che non sia stato razziato troppo dai liquidatori o dagli
stalker.»
A
Irina spuntò un sorriso a trentadue denti.
«Quanto
a me, invece? Sono un membro della Militsiya» fece Vassili,
esibendo il suo
tesserino.
«Militsiya?
Dovrebbe esserci la caserma, a nord-ovest della città. Non
è distante da dove
abita la ragazza, è al numero 5 di Via Lesya Ukrainka. Da
quanto dicono è stata
abbandonata solo sette anni fa, non dovrebbe essere in cattivissime
condizioni.»
«Ti
accompagno io» si offrì Irina. Vassili
ringraziò.
«Già
che ci siete, passate al Palazzo della Cultura. Vi daranno un
po’ di cibo e la
tessera per richiederlo.» aggiunse Yakovenko, congedandoli.
I
due lasciarono l’hotel, e percorsero il colonnato che
collegava l’edificio all’Energetyk.
Al suo interno, dove una
volta sorgeva il teatro, trovarono dei militari, che consegnarono loro
le
tessere per le razioni, assieme a un fornelletto per cucinare. Per
raggiungere
le loro destinazioni, i due sopravvissuti scelsero di passare per la
“via turistica”. Uscendo dal Palazzo della Cultura,
andarono a nord, ritrovandosi
pochi minuti dopo al luna park. Furono sorpresi nel trovare una giovane
madre con un bimbo in braccio
intenta a guardare la ruota panoramica.
«È
quella a cui ti riferivi ieri sera?» domandò il
poliziotto.
«L’unica
e sola» rispose la ragazza. «È quasi
diventata l’icona della città, dopo l'abbandono.
Ancora
pochi giorni, e sarei potuta salirci a fare un giro.»
«Beh,
ora puoi. Non si muoverà, ma è meglio di
niente.»
Irina
iniziò a muoversi come se fosse ipnotizzata. Ignorando le
radiazioni, che
resero quella zona di Pripyat una delle più contaminate,
avanzò verso la ruota
divorata dalla ruggine, fino a trovarsi a pochi metri da essa.
È
come se fosse tornata bambina, pensò Vassili.
La
ragazza salì in uno dei posti a sedere, e chiuse gli occhi.
Vide la
ruota partire, iniziare il suo
giro. Dall’altro lato, papà Sergei rideva e faceva
versi buffi per farla
divertire. Piano piano, salivano sempre più su, fino ad
arrivare in cima. Vide
i blocchi di appartamenti, l’ospedale, lo stadio Avanhard, la
piscina Lazurny,
il Palazzo della Cultura, Piazza Lenin, l’hotel, il fiume
Pripyat costellato di
battelli… la centrale nucleare.
La
centrale nucleare.
La
centrale nucleare.
VNIMANIYE VINIMANIYE.
Irina
riaprì gli occhi, e sospirò.
«Tutto
bene?»
Vassili
la osservava, pochi metri più a destra.
Lei
annuì, e iniziò a camminare verso
l’uscita del luna park.
«Non
penso di aver mai visto una cosa del genere.»
I
due erano entrati nella piscina Lazurny.
Vassili osservava stupefatto l’immensa piscina olimpionica
vuota, mentre Irina
si arrampicava sui trampolini.
«Papà
adorava tuffarsi da qui.» disse, una volta arrivata e
accomodatasi. «Lo
guardavo prendere il volo e finire in acqua, facendo mille schizzi, che
facevano infuriare chi nuotava nelle vicinanze o chi era fuori dalla
vasca. Era
il suo momento di libertà.»
Il
poliziotto entrò nella vasca, e camminò in lungo
e in largo al suo interno.
«Cosa
darei pur di farmi una nuotata.» sospirò.
«Quando arriverà l’estate non
potrò
nemmeno andare a nuotare sul fiume.»
«A meno che tu non voglia
radiografie gratuite.»
I due risero, e il loro eco
riempì il locale.
«Chissà
se hanno rimesso in funzione la cisterna, in qualche modo.»
si chiese la
ragazza, iniziando a scendere. «Non sarebbe male lavarci,
dopo tutto quello che
abbiamo passato.»
I
due uscirono dalla piscina per non iniziare a fantasticare troppo.
Percorsero
qualche centinaio di metri, fin quando Irina si fermò
davanti a un blocco di
appartamenti.
«Io
sono arrivata.» annunciò. «Continua fino
alla fine della strada e poi gira a
destra. La caserma dovrebbe essere sulla destra.»
Vassili
ringraziò per l’informazione, passandole la radio.
«Serve
più a te che a me.» fece. «Bentornata a
casa.»
Il
poliziotto si congedò, continuando a percorrere la via.
Irina alzò lo sguardo,
fissando un balcone al sesto piano di uno degli edifici che aveva
davanti.
«VNIMANIYE
VNIMANIYE!»
Attraversò
il portone, e fissò il vecchio ascensore rotto.
Sergei
si alzò dalla sedia e uscì dalla
finestra. Il fumo continuava ad alzarsi dalla centrale.
«VNIMANIYE
VNIMANIYE!»
Nadiya
accorse. Era stranamente
tranquilla.
«VNIMANIYE
VNIMANIYE!»
«Che
succede, Sergei?» domandò.
«Non
ne ho idea.»
Iniziò
a salire le scale di corsa, non curandosi del fatto che doveva arrivare
in cima
all’edificio.
Anche
la piccola Irina corse fuori dal
balcone. Dall'altoparlante di un blindato dell'esercito, la voce di una
donna gracchiò un messaggio pre-registrato.
«Cari
compagni!
Il Consiglio Comunale informa che, a seguito di un incidente alla
centrale
nucleare di Chernobyl, nella città di Pripyat le condizioni
dell'atmosfera
circostante si stanno rivelando nocive e con alti livelli radioattivi.
Il
Partito Comunista, i suoi funzionari e le forze armate stanno adottando
le
dovute misure. Tuttavia, al fine di garantire la totale
incolumità delle
persone, e in primo luogo dei bambini, si rende necessario evacuare
temporaneamente i cittadini nei vicini centri abitati della regione di
Kiev. A
tale scopo, oggi 27 aprile, a partire dalle ore 14, saranno inviati
autobus
sotto la supervisione della polizia e dei funzionari della
città. Si raccomanda
di portare con sé i documenti, gli effetti personali
strettamente necessari e
prodotti alimentari di prima necessità.»
Arrivò
al sesto piano col fiatone. Percorse il corridoio, fino a vedere la
targhetta
col numero 14.
«Che
cosa ha detto, papà?» domandò
innocentemente.
«Dobbiamo
andarcene, Ira.»
«Perché?»
«Tranquilla,
cucciola. Torneremo tra
qualche giorno.»
Qualche
giorno... da allora sono passati ventitré anni.
L’appartamento
era stato quasi completamente ripulito. Il tavolo, il televisore, il
divano,
gli armadi… tutto quello che c’era al momento
dell’abbandono era scomparso.
Tutto troppo contaminato per essere lasciato dov’era. Restava
solo il materasso
dei suoi genitori, assieme a una bambola di pezza, sfuggita o lasciata
di
proposito dai liquidatori.
Lasciò
la busta con le provviste a terra assieme alla Makarov e Masha, e si
distese
sul materasso. Guardò l’orsacchiotto di peluche, e
non nascose un sorriso.
Siamo
tornati.
L’atomo
le aveva tolto la casa. Gli zombie le avevano tolto i genitori. Il suo
futuro e
quello dell’umanità erano incerti.
Ma
Irina era tornata a casa. Aveva esaudito il desiderio dei suoi genitori.
E
nient’altro sembrò più importare.
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