Cari lettori, care lettrici,
ecco
un altro (mezzo) capitolo tutto per voi, spero che lo troverete
interessante.
Come
sempre grazie a tutti coloro che mi stanno seguendo, che mi hanno
messo in qualche lista o che sono stati così adorabili da lasciarmi
un commento.
Spero
di poter dire: enjoy^^
Capitolo
6
Carico
di soldati all'inverosimile, il treno arrancava sbuffando come un
vecchio ronzino. Von Knobelsdorff sedeva tra un finestrino opaco e un
enorme caporale britannico che faceva del suo meglio per non pesargli
troppo addosso, e aveva l’angosciante sensazione di essere un gatto
in mezzo a una muta di cani. Per qualche motivo essi erano ignari
della sua natura di felino, ma per quanto tempo lo sarebbero rimasti?
In
realtà, era così esausto che anche la paura stava lasciando il
posto a una specie di blanda rassegnazione. Sollevò una mano per
spostarsi il rigido collarino bianco, forse la cosa peggiore di tutta
quell'assurda mascherata, e così facendo incontrò lo sguardo acuto
dell'agente segreto, che sedeva di fronte a lui con un breviario
aperto fra le mani.
“Qualcosa
non va?” domandò questi in francese.
Il
tenente scosse la testa e come da istruzioni rispose: “È tutto a
posto, padre Jacques.”
L'altro
annuì e tornò a leggere. A far
finta di leggere, per
la verità, perché quello sguardo apparentemente concentrato sulle
Scritture stava invece sondando l'ambiente con scientifica
precisione.
Il
giovane si chiese come riuscisse a non mostrare alcun segno della
stanchezza che obiettivamente doveva provare. Tentò di muovere le
spalle e gli parve di avere al posto di muscoli e ossa un polveroso
sacco di ghiaia. Aveva male alle mani, alle braccia, alla schiena,
alla testa e in generale a tutto ciò che in un corpo umano può
dolere. Si sarebbe addormentato lì dov'era, in braccio a quel
caporale che senza fatica avrebbe potuto sollevarlo come un coniglio,
ma per quanto prostrato, per quanto stremato, sapeva che non sarebbe
riuscito a chiudere occhio.
Giunse
le mani in grembo, poi di nuovo fissò l'agente segreto, incontrando
il suo sguardo tagliente. Si chiese se oltre a vedere al buio come i
gatti riuscisse anche a leggere il pensiero. Accennò a un lieve
sorriso e l'altro in francese gli suggerì: “Dorma un po', padre
François. Sarà un lungo viaggio.”
Il
tenente non replicò, chiedendosi se la sua stanchezza fosse così
evidente o se davvero quella specie di demonio fosse anche
telepatico.
Lo
fissò di nuovo, ma l'altro mantenne lo sguardo sulla pagina che
stava fingendo di leggere.
Eppure
era certo che se ne fosse accorto.
Forse
non voleva far trapelare troppa familiarità fra loro, voleva dare
l'impressione di qualcosa come colleghi di lavoro, in buoni rapporti
ma fondamentalmente estranei l'uno all'altro.
Forse
se si fosse concentrato su di lui avrebbe perso la panoramica sulla
carrozza e sui soldati che l'affollavano.
Una
bottiglia gli comparve davanti alla faccia con tale repentinità da
provocargli un sussulto. In tono di rimprovero, qualcuno che si
trovava al di fuori del suo campo visivo disse in inglese: “Ecco!
L'hai fatto spaventare.” Poi, in un francese fortemente accentato.
“Scusi, padre. Vuole?”
Il
tenente fissò la bottiglia, priva di ogni etichetta e piena di un
liquido trasparente, poi si girò verso la provenienza della voce e
chiese: “Che cos'è?”
“Roba
tedesca,” fu la risposta.
“Schnaps,”
precisò l'enorme caporale al suo fianco.
Von
Knobelsdorff si sentì attraversare da un brivido. Cosa significava
quell'offerta? Era forse una trappola, per vedere se si sarebbe
tradito? Rivolse di nuovo lo sguardo all'agente segreto, che però
appariva totalmente immerso nella lettura.
“Io...
non bevo,” balbettò, passandosi un dito nervoso sotto la fascetta.
Deglutì e ripeté: “Grazie, ma non bevo.”
La
bottiglia si allontanò riluttante, per qualche secondo gli parve che
il generale chiacchiericcio si fosse affievolito e tutti gli occhi
fossero puntati su di lui.
Infine
udì qualcuno che a bassa voce, di nuovo in inglese, diceva: “Cosa
ti viene in mente? Non si offre da bere a un prete.”
Nonostante
la reprimenda, lo Schnaps venne presentato anche all’agente
segreto, che a differenza sua prese la bottiglia e ne bevve con
disinvoltura un sorso. “Grazie,” disse poi, in un inglese al
quale era riuscito a dare un pesante accento francese.
A
quel punto uno dei soldati abbandonò lo zaino su cui stava seduto,
li raggiunse facendosi largo tra i commilitoni e chiese: “Dove
state andando, padre?”
Di
nuovo von Knobelsdorff si irrigidì. Cos’era quella curiosità,
tutt’a un tratto? Era qualcosa che aveva a che fare con l’offerta
di acquavite tedesca? Avevano capito chi erano veramente e volevano
spingerli a tradirsi in qualche modo?
Dardeggiò
un’occhiata tesa al compagno, che però sembrava perfettamente
tranquillo e a suo agio. Lo vide anzi tendere la mano verso la
bottiglia e bere un’altra generosa sorsata. “Andiamo dove c'è
molto bisogno della nostra opera,” rispose poi, assumendo
un'espressione devota.
“Sarebbe
a dire?”
L'uomo
emise un sospiro. “Al fronte, figliolo. Io e il mio vicario
porteremo il conforto della parola di Dio nelle trincee.”
“Ma
siete francesi,” fu lo sconcertato commento. Poi chi aveva parlato
protestò: “E smettila di darmi gomitate!”
Un
altro soldato, evidentemente quello che aveva colpito il primo, si
affrettò a specificare: “Non se la prenda padre. John voleva dire
che è stupito perché voi siete francesi, mentre qui noialtri siamo
tutti inglesi.”
L'agente
segreto annuì grave, quindi rispose: “Capisco, figliolo. Dio
provvederà.” Annuì di nuovo, con l'aria di chi è perfettamente
certo che le cose si sistemeranno nel migliore dei modi.
I
soldati si scambiarono sguardi perplessi, serpeggiò qualche
bisbiglio, poi l'ultimo che aveva parlato chiese: “Ecco... in che
senso, padre?”
“Dio
ci indicherà dove prestare la nostra opera. Non temiamo la
sofferenza, perché essa avvicina al Signore.”
Immobile,
i muscoli tesi come corde, von Knobelsdorff osservava l'agente
segreto addentrarsi con disinvoltura in una palude sempre più
infida. Quanto sarebbe riuscito a sostenere la parte? Quanto tempo
sarebbe passato prima che i soldati cominciassero a sospettare
qualcosa?
Non
era credibile la faccenda dei preti che andavano in prima linea,
anche un bambino se ne sarebbe accorto, ma l'uomo riusciva a spiegare
quello che avrebbero fatto con tale pacatezza, con tale affettuosa
sollecitudine che tutti, lo vedeva bene, ne erano soggiogati.
Il
caporale gli porse nuovamente la bottiglia, egli bevve e gliela
restituì con un sorriso.
Von
Knobelsdorff deglutì a fatica e si sforzò di rimanere immobile, ma
il cuore gli batteva talmente forte che sembrava volergli uscire dal
petto. Aveva rischiato la vita innumerevoli volte, aveva schivato
proiettili e sciabolate, aveva volato attraverso nubi temporalesche,
aveva domato cavalli imbizzarriti. In quei frangenti, l'azione
soppiantava il pensiero, affrancandolo da paura e preoccupazioni,
facendolo sentire addirittura vivo, libero e forte.
Quell'immobilità
invece lo stava facendo precipitare in un abisso di angoscia. Cercava
di figurarsi cosa sarebbe accaduto e si accorgeva di non esserne in
grado. Immaginava, più che altro, e ogni scenario che gli compariva
davanti agli occhi era peggiore del precedente.
Percepì
una goccia di sudore scendergli lentamente lungo la tempia, se la
terse cercando di dare al gesto una connotazione casuale.
In
tono di sollecitudine, qualcuno gli chiese: “Non sta bene, padre?”
Egli
fece guizzare lo sguardo intorno a sé. Tentò di nuovo di deglutire,
ma aveva la bocca talmente asciutta che la lingua gli si incollò al
palato.
Agire.
Doveva agire.
Si
alzò in piedi tentennando, istintivamente i soldati che affollavano
i sedili si fecero indietro per lasciargli spazio. “Devo uscire un
momento,” si limitò ad annunciare, quindi prese a farsi strada
verso il fondo della carrozza.
Si
trovò ad arrancare in un mare di uniformi khaki. Colse su di sé
sguardi stupiti, percepì qualche commento. Uno si fece il segno
della croce.
Continuò
ad avanzare, scavalcando zaini, facendo del suo meglio per muoversi
con disinvoltura nonostante la sottana lunga fino ai piedi. La porta
in fondo alla carrozza era stata aperta, forse per far entrare più
aria, c'era qualche soldato che fumava appoggiato alla balaustra
della piattaforma di salita.
Si
tenne a una cappelliera per mantenere l'equilibrio durante uno
scossone particolarmente violento, continuò caparbiamente ad
avanzare. Non aveva un'idea precisa di cosa avrebbe fatto, per la
verità. Prendere un po' d'aria, magari, farsi offrire una sigaretta,
posto che un prete con la sigaretta non risultasse troppo strano.
In
ogni caso gli era chiaro che non sarebbe riuscito a rimanere immobile
un secondo di più.
Una
mano sulla spalla lo fece sussultare, una ben nota voce gli chiese:
“Non si sente bene, padre François?”
In
quel momento, dietro di loro qualcuno gridò: “Fermateli!”
Egli
si girò di scatto e nella distesa di uniformi colse la macchia scura
di un uomo in abiti borghesi. Indovinò, piuttosto che vedere
chiaramente, una capigliatura nera e un volto pallido. Colse il gelo
di uno sguardo tagliente.
Poi
la presa sulla sua spalla si fece ferrea ed egli si sentì spingere
da parte. Udì una detonazione lontana, una cacofonia di grida e
subito dopo due detonazioni vicinissime. Il frastuono lo stordì, nel
fumo degli spari vide due corpi accasciarsi mentre l'uomo in borghese
con un guizzo saltava al coperto.
Il
nugolo di uniformi stava montando come una marea, pochi passi e
l'uscita del vagone sarebbe stata sbarrata. L'agente segreto sparò
altre due volte e altrettanti uomini crollarono.
Von
Knobelsdorff fece per estrarre la pistola a sua volta, ma la tonaca
lo impacciava troppo. Agguantò un fucile e prese a rotearlo come una
clava. Percepì contro l'arma l'impatto di qualcosa di duro, poi udì
un gemito soffocato. Non fece in tempo a vedere chi aveva colpito,
perché l'agente segreto sparò altre due volte, poi catapultò se
stesso e lui all'esterno, sulla piattaforma dove poco prima i soldati
erano appoggiati a fumare.
“Salti!”
urlò.
Il
tenente fissò sgomento il suolo, che la velocità del treno
trasformava in un magma indistinto. “Cosa?”
“Giù!”
Un
attimo dopo, una poderosa spinta lo scaraventò nel vuoto. Egli
annaspò sbracciando e atterrò malamente sui sassi aguzzi della
massicciata, rotolò per un tempo che gli parve infinito,
graffiandosi e ammaccandosi ovunque, infine si fermò nel folto di un
cespuglio. Per qualche secondo rimase immobile, cercando di capire se
era ancora tutto intero, poi si rialzò ansante su mani e ginocchia.
Sbatté gli occhi, faticando per mettere a fuoco quello che lo
circondava. Percepì un crepitio irregolare, al quale si sovrappose
un lungo stridere metallico.
L'agente
segreto comparve nel suo campo visivo come un'enorme ala di corvo.
“Si muova!” ordinò asciutto, “il treno si sta fermando, tra un
po' avremo alle calcagna mezzo battaglione.” Fece una pausa, poi
soggiunse: “Oltre a the Bishop, ovviamente.”
“Chi?”
mormorò il tenente, ancora frastornato dalla caduta.
“Quello
che ci ha sparato contro. E ora si muova, abbiamo già perso anche
troppo tempo.”
I
primi passi von Knobelsdorff li mosse come in trance, senza
praticamente vedere nulla se non macchie di colore, il verde di un
rado sottobosco, il giallo dei campi mietuti, l'azzurro pallido del
cielo ormai pomeridiano. Tutto era come ovattato. L’unica cosa che
percepiva con decisione era la presa solida dell’uomo sul suo
braccio.
Alle
loro spalle, quasi coperto dal tonfare rapido della loro corsa e dal
frusciare delle pesanti tonache, il crepitio si era fatto più rado e
si udiva qua e là l’eco fioca di ordini gridati.
Tutto
gli sembrava una girandola, un vortice, dove le sensazioni si
sovrapponevano le une alle altre. Gli pareva di essere a bordo di un
aereo che precipitava in vite e al tempo stesso di essere su una
barca preda di furenti marosi.
Si
accorse che stavano entrando nella vegetazione, più che altro dal
cambio della luce e dai rami incolti che lo sferzavano come fruste.
Scrollò
la testa, la visione divenne più nitida ed egli riuscì a
riconoscere un frutteto lasciato a se stesso e inselvatichito. Meli e
peri, non potati da anni, si ergevano altissimi. Qualche rado frutto
penzolava dai rami, masse di rampicanti davano l'assalto ai tronchi.
Malfermo com’era, correre tra le erbe che arrivavano fino alla
cintura, trattenuto a ogni passo da tenaci rovi, si rivelò ben
presto impossibile. Nonostante l’uomo lo tirasse vigorosamente per
il braccio, non riusciva a mantenere la sua andatura.
Dovettero
rassegnarsi al passo.
L'agente
segreto continuava a guardarsi alle spalle. “Stanno guadagnando
terreno,” disse dopo un po'. Si fermò ai piedi di un pero alto
quanto un giovane tiglio e prese a sbottonarsi l'abito talare. “Danno
troppo nell'occhio,” spiegò asciutto, “intralciano.”
Appese
la veste a un ramo, in modo che da lontano sembrasse uno di loro due
in piedi.
Von
Knobelsdorff tentò di imitarlo, ma si sentiva come ubriaco e i suoi
gesti erano maldestri e imprecisi. L’uomo dovette intervenire per
aiutarlo. “Si sente bene?” gli chiese, lasciando cadere la veste
sull’erba.
Il
tenente si accorse che lo stava fissando preoccupato. “Sì, bene,”
rispose incerto.
“Sicuro?”
“Sì.”
“Comunque
muoviamoci,” disse poco convinto l’agente segreto, “se
rimaniamo qui ci saranno addosso fra poco.”
Riprese
a tirarselo dietro per un braccio.
Dal
frutteto passarono a una vigna abbandonata, dove edera e vitalba
avevano coperto a tal punto le poche viti rimaste che tra i filari si
riusciva a passare solo in fila indiana.
Alle
loro spalle echeggiarono alcune detonazioni.
Il
tenente si girò di scatto, l'altro disse: “Hanno trovato le
tonache.” Poi, dopo una pausa: “Fanno sul serio, come può
notare.”
Nonostante
l’ottundimento, l'ufficiale replicò: “Non ho mai pensato che
scherzassero.”
“Si
muova.”
Proseguirono
facendosi largo fra le liane che serpeggiavano ovunque.
Sbucarono
in un'aia invasa dalle erbacce, al centro della quale sorgeva una
casa diroccata. Il tetto, forse originariamente di paglia, era ormai
scomparso e uno dei muri era crollato. Spezzoni di travi spuntavano
dal rudere.
Altri
spari echeggiarono nella vegetazione, molto più vicini. A poca
distanza da loro, un proiettile sollevò da terra una manciata di
foglie secche.
Von
Knobelsdorff si passò una mano sulla fronte, ritirandola sporca di
sangue. Forse si era ferito nel saltare giù dal treno. “Cosa
facciamo?” ansò.
La
presa sul suo braccio si fece più salda. “Intanto mettiamoci al
coperto,” disse l'uomo.
Si
spostarono all'interno della casa pericolante. Il pavimento del piano
superiore aveva qua e là ceduto, e macchie di sole screziavano quel
che rimaneva di antiche piastrelle decorate. Travi corrose e vecchie
pietre costellavano le stanze.
Al
loro ingresso, piovve dall'alto uno spolverio biancastro e i vecchi
muri tremarono lasciando cadere frammenti d'intonaco.
“Qui
crolla tutto!” esclamò preoccupato il tenente, rinculando
d'istinto verso il varco da cui erano entrati.
“Si
muova,” sibilò l'altro per tutta risposta. Lo spinse avanti,
serpeggiando con destrezza nelle aree più integre.
Von
Knobelsdorff lo vide guardare in alto come alla ricerca di qualcosa.
“Cosa vuole fare?” gli chiese, insospettito dallo strano
atteggiamento.
“Stia
zitto!”
“Io
non...” cominciò il giovane, ma altri spari all'esterno – molto
più vicini dei precedenti – lo spinsero a tacere.
L'uomo
nel frattempo aveva individuato un trave maestro caduto dal tetto,
che attraverso un largo buco del soffitto arrivava fino al pavimento.
Si fermò a osservare l’antico legno, fece qualche passo per
cercare di vedere cosa c'era nella stanza di sopra, poi abbandonò la
presa sul suo braccio e gli fece cenno di tacere.
Cominciò
ad arrampicarsi, silenzioso e rapido come un gatto.
Quando
ebbe raggiunto il piano superiore, dall'alto gli fece segno di
raggiungerlo.
Von
Knobelsdorff obbedì, ma forse la precaria struttura era già stata
sollecitata eccessivamente: una larga porzione di soffitto rovinò a
terra in una nube di polvere e il trave cadde, costringendolo a fare
un salto indietro per non rimanere schiacciato.
All'esterno
si udirono voci concitate e qualche sparo, seguiti da un frenetico
tonfare di passi. Il tenente si guardò intorno alla ricerca di una
via di fuga, ma già innumerevoli uniformi khaki stavano sciamando
all'interno del rudere.
Prima
ancora di poter pensare a come raggiungere l'agente segreto, si trovò
un fucile puntato contro il petto. Non gli rimase che alzare le mani,
mentre altri militari inglesi lo circondavano.
§
Immobile,
von Knobelsdorff faceva scorrere lo sguardo dall’uno all’altro
dei soldati che lo circondavano, cercando anche di farsi un’idea di
cosa ci fosse al di là del cerchio di uomini armati.
Si
chiese dove fosse l’agente segreto. Ovviamente sarebbe stato
impensabile che cercasse di liberarlo in qualche modo: gli inglesi
erano in troppi. E poi, realisticamente, avrebbe avuto senso farlo?
Più
volte l’uomo aveva ripetuto che i dati in suo possesso erano di
valore inestimabile ai fini della condotta bellica. La vita di un
singolo combattente era forse più importante di informazioni che
avrebbero potuto avvantaggiare l’intero fronte?
Ovviamente
non lo era.
Fissò
il soldato che si trovava proprio di fronte a lui. Un tizio di
altezza media, con la faccia larga, il naso un po’ schiacciato e
gli occhi castani. Dava l’idea di essere un buon diavolo,
dopotutto.
Il
suo Enfield era un po’ rovinato da una parte. Aveva una tasca
sbottonata, dalla quale spuntava qualcosa di chiaro, forse una
lettera frettolosamente messa via quando era arrivato l’ordine di
smontare dal treno.
Si
mosse appena e lo sguardo del soldato si fece ostile. L’Enfield fu
imbracciato più strettamente, l’indice si appoggiò sul grilletto.
Von
Knobelsdorff si immobilizzò di nuovo. Da dietro le sue spalle, una
voce disse in inglese: “Portatelo fuori di qui.”
Fu
afferrato per le braccia e, sempre sotto la minaccia delle armi, fu
spinto all’esterno.
A
quel punto, entrò nel suo campo visivo l’uomo in borghese che
aveva intravisto sul treno. Questi lo squadrò in silenzio per
qualche secondo, poi, in un tedesco perfetto, appena ammorbidito da
un vago accento inglese, gli domandò: “Dov’è il Werwolf?”
Il
tenente lo fissò, genuinamente stupefatto. “Chi?”
L’altro
aggrottò le sopracciglia e gli rivolse uno sguardo tagliente. “Il
Werwolf,” ripeté con minacciosa calma. “Mi dica dov’è
andato.”
L’ufficiale
strinse le labbra. Distolse lo sguardo, facendo ben attenzione a non
rivolgerlo verso la casa. L’agente tedesco – ora aveva scoperto
che il suo nome in codice era Lupo
Mannaro – era
riuscito a scappare, altrimenti quell’uomo non gli avrebbe chiesto
di lui. “Non lo so,” rispose asciutto.
Il
suo interlocutore sollevò un sopracciglio con aria di degnazione.
“Non lo sa?” fece eco.
“No.”
“Mi
perdona se dubito della sua affermazione, non è vero?”
Impegnato
in una rapida analisi della situazione, il tenente non rispose. La
faccenda era piuttosto chiara, per quanto certamente non semplice:
l’agente tedesco era effettivamente riuscito a far perdere le
proprie tracce. Come avesse fatto gli era del tutto ignoto, dal
momento che l’ultima volta che l’aveva visto era al piano
superiore di una casa pericolante e circondata da soldati inglesi,
fatto sta che era sparito.
Sicuramente
si stava già dirigendo verso le linee tedesche, per portare a
destinazione le preziose informazioni in suo possesso. Suo dovere, a
quel punto, era rallentare al massimo, o sviare, se possibile,
l’inseguimento che senza dubbio gli inglesi avrebbero messo in
atto.
Fissò
l’uomo con aria di sfida e replicò: “Dubito
ergo sum, diceva
Sant’Agostino.”
L’altro
non parve scomporsi troppo. Annuì un paio di volte, assumendo
l’espressione di chi sta vedendo un adolescente fare qualcosa di
molto avventato e molto stupido, quindi disse: “Ma bravo, abbiamo
qui un dottore in teologia, che bella cosa. Spero che sappia anche
pregare, giovanotto, perché ne avrà bisogno.” Poi a voce più
alta, in inglese: “Riportatelo al treno.”
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