Gente
mia,
eccomi
qui con un altro po’ di mappazzone, si spera sempre per il vostro
sollazzo.
Come
ogni volta ringrazio tutti coloro che sono passati per di qui e
magari mi hanno letto o messo in qualche lista. Un ringraziamento
speciale va ovviamente a chi è stato così gentile da lasciarmi un
commento.
Ma
bando alle ciance: vi lascio in compagnia del tenente von
Knobelsdorff e dei suoi guai^^
Von
Knobelsdorff tentò per l’ennesima volta di sciogliere le mani
intorpidite, ma le corde che aveva intorno ai polsi sembravano
stringersi di più a ogni movimento.
Era
in una specie di cabina, legato a una sedia, davanti a una scrivania
vuota. L’unico finestrino era così piccolo che a stento ci avrebbe
potuto infilare la testa, ed era chiuso da due sbarre a croce.
Della
robusta porta metallica aveva sentito scattare la serratura.
Per
un po' il treno era rimasto fermo sui binari, probabilmente perché
gli inglesi stavano ancora cercando il Werwolf, poi era ripartito.
Da
un bel po' di tempo non udiva altro che il monotono sferragliare
delle ruote.
Dovevano
essere passate molte ore, perché la luce esterna ormai stava
calando. La sete e la forzata immobilità lo tormentavano già da un
po'.
Si
voltò verso la porta, oltre la quale non si percepiva alcuna
presenza, poi per l’ennesima volta esaminò il luogo in cui era
rinchiuso, traendone conclusioni sconfortanti.
Si
chiese cosa sarebbe successo. Quel tizio – forse era quello che
l’agente tedesco chiamava the Bishop? – l’avrebbe probabilmente
interrogato. Con che metodi? Dubitava che la faccenda si sarebbe
risolta con una semplice chiacchierata.
Se
il Werwolf non aveva avuto scrupoli nemmeno di fronte all’omicidio
per portare a termine la missione, dubitava che l’inglese ne
avrebbe avuti di più.
Pensò
che probabilmente sarebbe morto, poi pensò al discorso che aveva
fatto tempo addietro col suo collega, prima di decollare per un volo
di guerra: Un soldato
non deve preoccuparsi della morte, perché essa lo accompagna
continuamente. L’unica cosa a cui deve pensare è servire la
Patria.
Si
disse che le belle frasi avevano un senso solo se poi si era pronti a
fare in pratica ciò che si dichiarava a parole. Del resto, come
pilota rischiava a ogni missione di bruciare vivo o di schiantarsi al
suolo. Quanto peggio poteva essere la morte che lo attendeva?
Il
rumore della serratura che scattava lo distolse bruscamente dalle sue
angosciose meditazioni. La porta si aprì adagio e a passi misurati
entrò nella stanza l’uomo in borghese, seguito da due graduati.
Andò
alla scrivania, l’aggirò e vi si sedette, quindi posò le mani sul
piano del mobile, una sull’altra, con studiata calma.
Sollevò
a quel punto lo sguardo su di lui, osservandolo come un entomologo
che si trova davanti un coleottero dai colori particolarmente
strani.
Il
tenente aggrottò le sopracciglia e ringhiò: “Nome, grado e numero
di matricola, non le dirò altro.”
L’uomo
fece una risatina. “Il suo nome e il suo grado non mi interessano
minimamente,” rispose, “e del suo numero di matricola non saprei
davvero che farmene.” Fece una breve pausa, che utilizzò per
scuotere la testa come di fronte a un atteggiamento terribilmente
stupido e fuori luogo, poi soggiunse: “Scoprirà presto, a sue
spese temo, che io non sono la Croce Rossa.”
Il
tenente rimase a fissarlo in silenzio.
L’altro
modificò la posizione delle mani, passando sopra quella che era
sotto e stendendo le braccia come per stirarsi, poi disse: “Mi
sembra di notare che lei è come tutti i suoi connazionali: ottuso e
rigido. Onde per cui, visto che in qualche modo dovrò pur attirare
la sua attenzione quando le rivolgo le domande, penso che la chiamerò
Fritz.” Fece una pausa, forse aspettandosi una reazione che però
von Knobelsdorff si guardò bene dal mostrare, infine chiese: “Che
ne dice, Fritz, le piace l’idea?”
Il
giovane non rispose.
“Chi
tace acconsente,” concluse allora l’altro dopo un po’, “non è
vero, piccolo Fritz?”
“Mi
chiami pure come vuole,” rispose a quel punto von Knobelsdorff,
“anche Gretchen, se le fa piacere. Questo non mi convincerà certo
a collaborare con lei.”
“Accetto
il suo suggerimento, Gretchen,”
replicò ironico l’inglese, “trovo che il grazioso diminutivo le
si addica. Le garantisco comunque che non sarà con i nomignoli che
la convincerò a collaborare, per usare parole sue.”
“So
che cosa farà,” disse il tenente. Già immaginava un fosco
repertorio di sevizie, che peraltro sarebbero state perfettamente
inutili, dal momento che nemmeno le più atroci torture possono far
confessare ciò che non si sa.
L'inglese
fece una risatina e rispose: “Davvero lo sa? Ne dubito.” Si alzò
in piedi, poi gli si avvicinò e prese a girargli lentamente intorno.
Il
tenente si irrigidì. Ogni volta che l’uomo entrava nel suo campo
visivo sembrava assorto nel decidere come avrebbe cominciato a
interrogarlo, quindi ogni volta che gli passava alle spalle, egli si
aspettava una percossa che però non arrivava mai.
Alla
fine l'inglese gli si fermò dietro la schiena. “Vediamo se
indovino,” disse. “Date le mani lisce, la proprietà di
linguaggio e la conoscenza delle lingue straniere, lei è un
ufficiale e un aristocratico. Fa senz’altro parte di un’arma
nobile, quindi la cavalleria, ed è un giovanotto ardimentoso, che
vuole dar prova del suo coraggio, motivo per cui è diventato
aviatore. Sogna di guadagnarsi molte decorazioni, magari anche un bel
Pour le Mérite. Quanti abbattimenti le mancano per diventare un
Asso?”
“Non
sono affari suoi,” rispose il tenente.
L’altro
emise un sospiro. “Non mi sta rendendo le cose molto facili,
Gretchen.”
“Non
è mia intenzione farlo.”
La
voce dell’uomo prese un tono di costernato stupore: “Perché?”
“Perché
sono un ufficiale tedesco, non collaboro con le spie nemiche.”
“Oh,
già. Ma certo.” L'inglese si spostò di fronte a lui. “In
effetti, lei è uno degli ufficiali che non è sul nostro libro paga.
Ma in fondo è un pesce piccolo, a cosa potrebbe servirci?” Scosse
la testa. “Anche il suo amichetto, vede, non ha avuto esitazioni a
lasciarla indietro, appena non ha avuto più bisogno di lei.”
“Non
è il mio amichetto,” ringhiò subito von Knobelsdorff.
“Ah
no, Gretchen? Eppure nell’ambiente è ben noto: il Werwolf se li
sceglie sempre piacenti, i collaboratori.” Si strinse nelle spalle.
“Chissà poi perché.”
Il
tenente gli rivolse uno sguardo di sfida e replicò: “Lei
crederebbe a quello che le dice un agente tedesco, signore?”
“Si
aspetta che risponda di no?”
“Se
rispondesse di sì farebbe la figura dello stupido.”
L'uomo
fece una risatina. “E lei non è stupido, vero?”
“Non
più di un altro.”
“A
me pare che lo sia molto di più, invece. Si è fatto abbindolare da
quell'avventuriero da strapazzo come una specie di sciacquetta di
periferia, e perso com'è nella sua storia romantica non si è
nemmeno accorto che il Werwolf l'ha usata e gettata via.”
Il
tenente cercò di ergersi quanto più poteva per fronteggiarlo.
L'avrebbe volentieri colpito con una testata, ma l'altro si manteneva
a distanza di sicurezza. Si accontentò di dire: “Faccia pure lo
spiritoso, lei, con le sue battute a doppio senso. Mentre perde tempo
a punzecchiare me, il suo avversario sta scappando chissà dove. Chi
è allora lo stupido fra noi?”
L'uomo
fece un passo indietro e rimase a fissarlo come se lo stesse vedendo
per la prima volta. Annuì grave, poi disse: “Credevo che avremmo
potuto trovare un modo per andare d'accordo, ragazzo mio, ma lei
decisamente mi vuole vedere al mio peggio. Chissà, forse le
piacciono gli uomini forti e rudi, dico bene?”
“Se
così fosse, lei non sarebbe sicuramente di mio interesse.”
L'uomo
sospirò come il genitore che dopo aver offerto al figlio degenere
innumerevoli occasioni per emendarsi, lo vede persistere
caparbiamente nel suo errore. Si sfilò dalla cintura un oggetto che
sulle prime al tenente parve una cinghia nera, fatta di cuoio
intrecciato. Nonostante si fosse ripromesso di rimanere impassibile
di fronte a qualsiasi minaccia, non poté fare a meno di irrigidirsi.
“Paura,
Gretchen?” lo canzonò allora l'inglese.
“No.”
“Eppure
dovrebbe. Sa che cos'è questa?”
“No.”
L'uomo
gli fece penzolare l'oggetto davanti agli occhi. Von Knobelsdorff si
accorse che si trattava di una frusta flessibile, lunga quanto una
normale cintura, grossa circa un dito, a sezione cilindrica. La punta
sembrava rinforzata da qualcosa di pesante.
“È
una nagajka,” gli fece sapere l'inglese. “I cosacchi dicono che
con tre colpi ben assestati di questa si può uccidere un uomo.”
Fece una studiata pausa, quindi in tono quasi confidenziale, come a
ricercare una collaborazione che lui chissà perché si ostinava a
non voler concedere, soggiunse: “Io l'ho vista usare e le dirò:
non stento a crederci.”
Cercando
di mantenere un tono indifferente, von Knobelsdorff chiese: “Vuole
uccidermi?”
“Dopo.
Per ora mi serve vivo.”
“Non
mi sembra un grande incentivo alla collaborazione.”
L'altro
si piegò a fissarlo negli occhi. “Davvero? Si può morire molto in
fretta o molto lentamente, Gretchen. Molto, molto lentamente.”
“E
secondo lei dovrei tradire la mia Patria per evitare qualche ora di
sofferenza, sapendo che comunque morirò?”
L'inglese
annuì. “Lo troverei assennato da parte sua.”
“Beh,
sa cosa le dico? Fanculo.”
L'altro
arretrò con l'aria di aver appena ricevuto uno schiaffo. Posò lo
scudiscio sul piano della scrivania, quindi rispose: “Vedo che non
si smentisce: oltre a essere rigido e ottuso, è anche rozzo come
tutti i suoi connazionali.” Si rivolse ai due uomini che erano
entrati con lui, e che per tutto il tempo erano rimasti in piedi ai
lati della porta, e in inglese disse: “Questo individuo è una
pericolosa spia dell'Impero Tedesco. Voglio che lo leghiate per i
polsi al gancio che c'è sul soffitto, ma state molto attenti: è
pericoloso.”
Poi
uscì.
I
due si avvicinarono cauti. “Non fare scherzi,” lo ammonì uno di
essi.
Si
fermarono a qualche passo di distanza, si scambiarono un'occhiata,
poi l'altro disse: “Questo qui è quello che è salito sul treno
vestito da prete.”
“Da
prete?”
“Lo
sanno tutti. Jackson, della terza compagnia, ce l'aveva seduto
proprio di fronte.”
“E
non si è accorto di niente?”
“Ma
figurati. Questo qui è una spia,
potrebbe fregare chiunque.”
Von
Knobelsdorff, immobile, lo sguardo fisso davanti a sé, faceva del
suo meglio per mantenere l'espressione neutra, sebbene la tentazione
di cercare il famoso gancio sul soffitto fosse disperatamente forte.
Ai margini del campo visivo aveva l'inquietante frusta cosacca,
negligentemente abbandonata sul piano della scrivania.
Cercò
di immaginare che effetto avrebbe fatto ricevere un colpo con quella.
Sarebbe riuscito a resistere? Quanti ne avrebbe tollerati?
Sollevò
lo sguardo sui due soldati, che immediatamente arretrarono come di
fronte a un cobra che gonfia il collo.
“Non
fare scherzi,” ripeté uno di essi.
L'altro
soldato uscì dalla stanza e vi rientrò subito dopo con in mano un
pezzo di corda. “Fagli il cappio,” suggerì, porgendola al
commilitone, “questo è il tipo che appena lo sleghi ti salta
addosso e cerca di farti fuori.”
Di
nuovo si scambiarono uno sguardo, poi fissarono lui. Von Knobelsdorff
rimase impassibile.
Uno
dei soldati gli si avvicinò, mantenendosi comunque a distanza di
sicurezza. “Mi capisci?” chiese, scandendo adagio le parole.
Il
tenente si limitò a fissarlo in silenzio.
L'inglese
aspettò qualche secondo, poi proseguì: “Non fare il furbo. Se fai
il furbo, noi ti facciamo male.”
Si
spostò alle sue spalle, gli passò la corda intorno al collo e la
tese quel tanto da fargliela sentire.
L'altro
soldato cominciò ad armeggiare con i lacci che lo legavano alla
sedia.
Il
tenente fece un rapido ragionamento: gli inglesi erano due uomini
robusti, ma avevano chiaramente paura di lui. Avrebbe potuto in
qualche modo sorprenderli e tentare la fuga?
Rimase
immobile, facendo del suo meglio per dare l'idea di essere esausto, o
comunque non intenzionato alla ribellione.
“Ora
alzati,” disse uno dei due.
Von
Knobelsdorff si decise in un attimo: tese i muscoli del collo per
contrastare la stretta della corda, quindi cercò di scrollarsi di
dosso l'uomo che lo stava trattenendo. La mossa fu così repentina
che esso rovinò al suolo con un'imprecazione, ma istintivamente
strinse la presa sulla corda, trascinandosi dietro anche lui.
Si
trovarono avvinghiati sul pavimento. L'altro soldato si unì alla
mischia, buttandoglisi addosso con tutto il suo peso.
La
corda cominciò a tendersi.
L'ufficiale
si divincolò per quanto poteva, irrigidì al massimo i muscoli del
collo, ma presto si trovò con i polmoni in fiamme e un velo nero che
gli oscurava la vista. Ogni tanto riusciva a liberarsi appena dalla
stretta e ad inalare un'ansiosa boccata d'aria, ma subito dopo il
laccio riprendeva a soffocarlo.
Portò
d'istinto le mani al collo, ma il canapo gli aveva letteralmente
scavato un solco sulla pelle delicata della gola e nel tentativo
frenetico di afferrarlo riuscì solo a graffiarsi a sangue.
Ormai
i rumori sembravano giungergli attraverso l'acqua, le voci concitate
dei due uomini erano eco distorte e incomprensibili.
Si
divincolò ancora con la forza della disperazione, si torse, di nuovo
cercò di afferrare la corda, ma i suoi movimenti erano sempre più
convulsi e imprecisi. Annaspò in cerca di aria e quasi si stupì
quando udì il rantolo stentato che ormai gli usciva dalla gola.
Sentì
una voce irosa, comprese che qualcuno stava imprecando. Una botta
contro le costole gli fece capire che gli era arrivato un calcio,
anche se curiosamente non sentiva alcun dolore.
“Che
figlio di puttana,” disse uno dei due soldati, ansando
pesantemente. Si rialzò in piedi e diede uno sguardo sprezzante al
prigioniero, che giaceva esanime sul pavimento. “Questo stronzo
sembrava un moccioso, e invece...”
L'altro,
la corda ancora in mano, rispose: “È un agente segreto. Fa finta
di essere un moccioso, per fregarci, ma appena ti distrai salta su
come un gatto.”
“Figlio
di puttana,” ripeté l'altro. “Eravamo anche stati gentili.” La
voce aveva uno sdegnato tono di costernazione. “L'avevamo trattato
correttamente.
E lui, invece...”
“Questi
qua sono tutti bastardi, pugnalerebbero alle spalle la loro stessa
madre, se fosse utile per la missione. Aiutami a legarlo, non vorrei
che tornasse l'altro e ci trovasse ancora qui.”
“Sì,
meglio sbrigarsi.”
§
Quando
riprese i sensi, von Knobelsdorff penzolava appeso per i polsi a un
gancio del soffitto, ondeggiando appena a seconda dei movimenti del
treno.
Cercò
di guardarsi intorno, ma la testa piegata all'indietro limitava il
suo campo visivo a una porzione di soffitto e al bordo superiore del
finestrino.
Studiò
il gancio a cui era sospeso, chiedendosi se sarebbe riuscito a
sfilare da esso la corda che lo teneva sospeso.
Prima
che potesse elaborare ulteriori piani, la porta alle sue spalle si
aprì. Si fece udire la voce dell'agente inglese: “Mi dicono che
non ha avuto un comportamento molto edificante.”
Il
tenente udì i suoi passi misurati avvicinarsi. Nella posizione in
cui si trovava non riusciva a vederlo, ma indovinava comunque la sua
presenza dietro la schiena.
Non
replicò.
L'uomo
si spostò davanti a lui, raccolse la nagajka dalla scrivania e la
fece sibilare in aria, poi prese a girargli lentamente intorno.
Von
Knobesldorff poteva immaginare che lo stesse fissando, magari
indeciso su dove assestargli il primo colpo. A parte camminare, però,
l'uomo non faceva nulla.
“Io
ho avuto pazienza con lei,” disse l'inglese, sempre girandogli
lentamente intorno, “non ho reagito alle sue puerili provocazioni,
considerandole frutto dell'inesperienza e forse anche di qualità
intellettive non proprio eccellenti, per usare un eufemismo.”
Tacque, si fermò di nuovo alle sue spalle.
Von
Knobelsdorff tese i muscoli aspettandosi la prima scudisciata, ma di
nuovo non accadde nulla.
L'altro
si limitò a emettere un sospiro e a dire: “Ora lei risponderà
alle mie domande, per favore. Se lo farà spontaneamente, eviterò di
usare metodi persuasivi.”
Il
tenente cercò di voltarsi verso di lui, ma dovette rinunciare. “E
se rifiutassi di parlare?” gli chiese.
“Non
glielo consiglio. Scoprirebbe che non tutti gli inglesi sono sportivi
come si sente dire in giro.”
A
quelle parole fecero seguito lunghi secondi di silenzio, rotti solo
dal vago sferragliare delle ruote in movimento. Alla fine, il tenente
disse: “Non mi importa se lei sarà sportivo o no, signore. Sono un
ufficiale tedesco, e il mio dovere è servire la Patria. Non intendo
rispondere a nessuna delle domande che mi porrà, quindi si regoli di
conseguenza.”
Passò
altro tempo. Tutto era silenzio, l'uomo sembrava dissolto nel nulla.
Poi
arrivò il primo colpo.
Nonostante
si fosse proposto di affrontare il supplizio con spartana nobiltà,
von Knobelsdorff non riuscì a trattenere un gemito di dolore. La
nagajika gli aveva assestato una violenta frustata e al tempo stesso
una sassata, nel punto in cui la sua estremità appesantita dal
piombo gli aveva colpito le costole. La correggia di cuoio si era
lasciata dietro una striscia che sembrava percorsa da metallo
incandescente.
Il
secondo colpo fu più forte del primo, il terzo fu talmente brutale
che gli mozzò il respiro e gli fece comparire farfalle luminose
davanti agli occhi.
Mugolò
stringendo le dita sulle corde mentre lottava per trattenere le
lacrime: quel dolore lancinante travalicava ogni altro mai provato
prima. Tutto quello che aveva mai subito nello sport, durante le
esercitazioni o nei pochi casi in cui si era ferito in qualche modo,
al confronto scompariva.
L’uomo
continuò a colpirlo con la stessa violenza, ma alternando con
diabolica astuzia percosse relativamente più lievi e percosse più
forti, in maniera del tutto imprevedibile. Anche la cadenza delle
sferzate era irregolare, il che non gli permetteva di tendere i
muscoli al momento giusto per cercare di ammortizzare almeno in parte
i colpi.
Cercò
per quanto poteva di mostrarsi impassibile, ma la sofferenza era tale
che gli impediva persino di pensare lucidamente. L’unica cosa che
occupava con prepotenza la sua mente erano le atroci fitte che gli si
irradiavano in tutto il corpo ogni volta che quell’orribile
strumento lo colpiva.
Scivolò
in uno stato di semincoscienza, mentre una pesante sensazione di
torpore lo invadeva, rendendolo sempre meno in grado di percepire ciò
che stava succedendo.
Si
fece udire la voce ironica dell’uomo: “Non mi perderà mica i
sensi, vero, Gretchen?” Poi, dopo una pausa, in tono canzonatorio:
“Un ufficiale tedesco, che serve la Patria. Suvvia, si dia un
contegno.”
Il
tenente sbatté gli occhi, incapace di stabilire quanto tempo fosse
passato e cosa fosse successo. Doveva essere svenuto, comunque.
I
polsi ormai non li sentiva più. Appeso in quel modo, faceva sempre
più fatica a respirare, perché i muscoli del torace erano stirati
verso l'alto e non riuscivano a far espandere le costole. Gli tornò
in mente che alla fine, a prescindere dai chiodi che tanto gli
facevano impressione nei crocifissi, era in realtà il soffocamento
la causa di morte per chi subiva quel supplizio.
Percepiva
qualcosa scorrergli sulla schiena e si chiese se fosse sangue o
sudore. Non avrebbe saputo dirlo con precisione, perché sentiva così
tanto dolore ovunque che paradossalmente era come non sentirne
affatto.
Si
soffermò per qualche secondo a meditare su quella stranezza.
Sentì
un paio di colpetti sulla guancia.
“Gretchen?”
lo richiamò alla realtà la voce ironica dell'inglese.
“Non...
mi chiamo Gretchen,” rispose von Knobelsdorff a fatica.
“Ecco,
bravo. Cominci a dirmi come si chiama, allora, ragazzo mio.
Presentarsi è sempre il primo passo per avviare una proficua
conversazione.”
Il
tenente rimase in silenzio. Udì dopo un po' lo sfrigolare di un
fiammifero, poi l'aria viziata della cabina fu ulteriormente
appesantita dall'odore del tabacco.
L'uomo
riprese a camminare lentamente. “Il suo nome,” ripeté dopo un
po'. “Non è difficile. Scommetto che anche un mangiacrauti ottuso
come lei sa rispondere a questa domanda.”
“Fritz.”
Ci
fu un lungo silenzio, poi l'uomo disse: “Lei non vuole
collaborare.” La voce era più che delusa, suonava addirittura
costernata.
Subito
dopo, von Knobelsdorff percepì un bruciore lancinante all'addome.
Sussultò e gemette mentre il dolore dell'ustione gli si irradiava
nel corpo come un'onda tellurica.
“Mi
ha fatto sprecare il sigaro,” lo rampognò l'uomo.
Di
nuovo si udì sfrigolare un fiammifero.
Il
giovane strinse i denti obbligandosi a un'impassibilità che era
sempre più difficile da mantenere. Cos'avrebbe fatto quel tizio? Gli
avrebbe spento addosso un altro sigaro? Avrebbe recuperato quella
diabolica frusta cosacca? Avrebbe fatto di peggio?
“Il
suo nome, prego.”
“Fritz.”
“Giovanotto,
sto perdendo la pazienza.”
“Fritz!”
Qualcos'altro
lo colpì. Sembrava un oggetto duro, come un bastone. La violenza
della percossa lo fece oscillare come un pesce appeso all'amo.
“Fritz,”
ripeté con un filo di voce.
Lo
stufato ha il sapore delle buone vecchie cose di una volta. Potrebbe
dire che è come quello della nonna, se sua nonna non fosse una
rigida contessa prussiana che probabilmente non ha mai toccato una
pentola in vita sua.
Sa
di buono, comunque, è caldo e fragrante.
Anche
il vino è buono. Alla luce fioca della candela prende un colore di
rubino cupo, ha un profumo che evoca il sole e i meli in fiore.
Siede
a un tavolino un po' traballante, accanto a una piccola finestra. Se
guarda fuori, vede un susseguirsi di tetti dalle tegole rosse, sotto
un cielo in cui i colori caldi del tramonto si stanno lentamente
spegnendo.
Di
fronte a lui siede l'agente segreto. La luce morente conferisce ai
suoi occhi una profondità cupa. La vaga sfumatura azzurra che ogni
tanto vi coglie è sparita e le iridi sono di un grigio metallico.
Abbandona
il bicchiere, spinge la mano nella sua direzione, l'uomo la copre con
la propria.
Egli
avvampa, sente il cuore balzargli nel petto. In un angolo della sua
mente c'è qualcosa a proposito di imbarazzo e vergogna, ma è come
se si trattasse di vecchi oggetti polverosi, abbandonati in soffitta
perché ormai inutili.
La
realtà è che quel contatto gli piace, lo fa stare bene.
Ripensa
alla donna dabbasso, a quello che l'agente le ha detto per
convincerla a dar loro la camera, e di colpo non ricorda più perché
quelle parole l'avessero tanto offeso.
§
The
Bishop si sedette contrariato alla scrivania e rivolse uno sguardo
sprezzante al giovanotto tedesco, che giaceva immobile sul pavimento
al centro della piccola stanza.
Sulle
prime, certo, aveva fatto il gradasso. Gli aveva dato le risposte
taglienti da scolaretto impertinente, aveva stretto i denti e aveva
cercato di mostrargli con il più grande impegno di che pasta fossero
fatti gli ufficiali del Kaiser.
Bravino,
nulla da dire. Per essere un principiante inesperto si era comportato
fin troppo bene.
Poi
a un certo punto doveva aver ceduto, ma quel dannato Werwolf era
stato ancora una volta più astuto del previsto, e il giovanotto non
sapeva assolutamente nulla.
Avrebbe
potuto torturarlo per giorni, ma sapeva già che la risposta a ogni
sua domanda sarebbe stata quella che da un certo punto in poi il
tedesco gli aveva ripetuto fino allo sfinimento: non lo so.
Si
chiese perché il Werwolf avesse speso parte delle sue preziose
energie per trascinarsi dietro quell'inutile individuo.
Non
era un agente segreto, non era un personaggio importante. Non era
niente, in definitiva.
Si
sporse di nuovo a osservarlo: eppure qualcosa doveva avere. Qualcosa
che spingeva anche un diavolo come il Werwolf a rischiare la riuscita
della missione più importante della sua carriera per non
abbandonarlo.
Sorrise
fra sé e sé. Non sapeva cosa fosse, anche se forse lo intuiva, ma
di certo non avrebbe sprecato l'insperato vantaggio.
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