Cari lettori, care lettrici,
ecco
un altro po’ di mappazzone, sempre con la speranza che ciò vi doni
svago e sollazzo. Come sempre ringrazio la mia “Band of Brothers”
di commentatori, ma anche tutti quelli che sono passat di qui, mi
hanno letto o magari mi hanno collocato in qalche lista.
Grazie
a tutti!
Capitolo
7
La
luce che filtra fra i rami degli abeti è verde e fredda, una leggera
nebbia la rende vagamente opaca. Sembra quella che si potrebbe vedere
sul fondo di uno stagno.
Tutt’intorno
c’è un silenzio solenne.
L’aria
odora di conifere, di muschio e di limo. Oltre che di sangue,
naturalmente.
Naturalmente.
Si
sofferma a pensare all’avverbio scelto. È naturale, in effetti,
che nella foresta il sangue scorra e nutra, nel ciclo infinito della
vita.
Certo
non pensava che sarebbe toccato a lui entrare in quel ciclo. Non così
perlomeno, non in quelle circostanze.
Forse
nessuno è mai veramente pronto a certe cose.
Non
sa perché sia lì, cosa sia successo. Confusamente ricorda qualcosa
a proposito di una caccia.
Si
sente esausto, ha dolore ovunque. Prova a sollevarsi, ma le braccia
non lo reggono.
La
consapevolezza che morirà lì, che è necessario che ciò accada, si
fa strada in lui come acqua che intride un terreno.
Il
sangue dell’uno è il nutrimento dell’altro, si ripete, e così
sarà all’infinito.
D’un
tratto sente un lungo ululato lontano, dove i tronchi imponenti degli
abeti creano una navata che si perde nella nebbia.
Non
ha paura di quel suono sinistro. Sorride fra sé e sé, anzi, come se
sentisse la voce di un vecchio amico.
L’ululato
si ode di nuovo, più vicino, e quando termina sembra che il silenzio
tutt’intorno si sia fatto più teso, come carico d’aspettativa.
Con
un fruscio di felci si fa avanti un uomo.
Egli
solleva lo sguardo nella sua direzione: è l’agente segreto, che lo
raggiunge adagio e si ferma a un passo di distanza.
Sorride
di nuovo, fa per tendere una mano verso di lui, ma è troppo debole.
L’altro allora si china al suo fianco, gli porge un ramoscello di
quercia.
Si
fissano. Gli occhi dell’uomo sono chiarissimi e trasparenti, paiono
d’argento. “Aspettami,” sussurra.
Von
Knobelsdorff sbatté gli occhi. Nell’aria c’era odore di fumo
stantio, di cuoio conciato e di sangue; quello su cui posava la
guancia non era il morbido muschio di una foresta, ma un pavimento di
metallo zigrinato.
Emise
un sospiro: solo un sogno.
Cercò
senza successo di deglutire. Si mosse appena e terribili fitte di
dolore gli attraversarono il corpo come lame.
Si
risolse a spostare in giro solo lo sguardo. La stanza era quella dove
l’uomo l’aveva interrogato, pur nella penombra densa del tramonto
si distinguevano bene la scrivania, la sedia cui l’avevano legato e
il finestrino con le sbarre a croce. Poteva supporre che la porta
fosse di nuovo chiusa a chiave.
C’era
silenzio, le ruote non sferragliavano, la carrozza non vibrava. Solo
di tanto in tanto proveniva da un punto che sembrava lontanissimo
l’eco di qualche ordine gridato.
Ebbe
l’impressione di essere solo al mondo, abbandonato in un treno
fantasma, destinato a dissolversi lentamente nelle tenebre.
Mosse
appena le dita, e già il semplice atto di piegare le falangi gli
diede l’impressione che dalla mano alla spalla i suoi tendini si
stessero strappando come vecchie corde sfilacciate.
Strinse
i denti e si obbligò a perseverare.
L’uomo
– il Werwolf, come l’aveva sentito chiamare – se n’era
andato. Con giusta ragione, peraltro, dato il compito che aveva da
portare a termine.
Non
disapprovava la sua condotta, al posto suo avrebbe fatto esattamente
la stessa cosa, ma allo stesso tempo non aveva la minima intenzione
di rimanere lì ad attendere che l’inglese tornasse. Di sicuro quel
tizio l’avrebbe interrogato di nuovo. Una volta appurato per la
seconda volta che non aveva preziosi segreti da rivelare, cos’avrebbe
fatto? L’avrebbe spedito insieme ai prigionieri di guerra, o
avrebbe risolto il problema tirandogli una palla in testa e
buttandolo in una fossa comune?
La
seconda, probabilmente.
Mosse
la mano con più decisione, strinse i denti alla fitta di dolore che
gli attanagliò il braccio. Aprì di nuovo le dita, le chiuse ancora.
Si
era arruolato per combattere, per difendere la Patria, per sfidare
gli inglesi nel cielo. Doveva andarsene da lì.
Non
sapeva cosa sarebbe riuscito a ottenere, se una fuga o solo una morte
eroica, ma una cosa comunque gli era chiara: non si sarebbe lasciato
abbattere come una bestia al macello.
Le
nubi sono sontuose montagne di panna montata, così bianche che
guardarle fa quasi male agli occhi.
La
campagna francese sembra un tappeto color smeraldo costellato di
giocattoli: casette, villaggi, animali qua e là, una ferrovia con un
piccolo treno blu, così lucido che potrebbe essere appena uscito
dalla fabbrica. Anche il suo pennacchio di fumo grigio è morbido e
corposo come zucchero filato.
Avvista
all’orizzonte un nugolo di puntini che appaiono e scompaiono fra le
nubi. Si volta verso il caposquadriglia con l’intenzione di
segnalarglieli, ma il suo superiore li ha già visti e dà il segnale
di attacco.
Cabra
per guadagnare quota, i puntini assumono le fattezze spigolose di
biplani nemici. Le distanze si accorciano, cominciano a baluginare i
lampi dei primi spari. Individua un avversario e manovra per
metterglisi in coda.
Nota
con la coda dell’occhio che il suo caposquadriglia sta invece
planando verso il basso. Visto dalla sua posizione sembra irresoluto,
confuso. Dà l’idea di essere un novellino ai suoi primi voli di
guerra.
Che
si senta male?, pensa. Possibile che sia già ferito?
Un
inglese, attratto dalla ghiotta preda, gli si mette in scia. Spara un
paio di raffiche, accorcia le distanze, spara di nuovo. Il tedesco
sembra guardarsi intorno come se cercasse di individuare la
provenienza degli spari.
Egli
lo fissa perplesso, indeciso se sganciarsi dal suo combattimento per
andare a dargli una mano, quand’ecco che il caposquadriglia spiazza
l’avversario con un Immelmann, gli si mette in coda e con due
raffiche lo manda in vite.
Fine
del combattimento.
Von
Knobelsdorff stirò le labbra in una parvenza di sorriso: ci era
cascato persino lui, figurarsi un povero inglese che non aveva mai
visto né conosciuto Heinrich von Stade.
Quella
era la chiave, in effetti: occorreva spogliarsi di ogni orgoglio e
fingere di essere incompetenti, spaventati e disorientati.
L’avversario
allora abbassava la guardia, e quello era il momento giusto per
colpirlo.
Non
aveva la pretesa di colpire l’agente inglese, ovviamente, ma forse
l’avrebbe spinto a sottovalutarlo, con tutte le conseguenze del
caso.
§
Il
sole era già sparito dietro l’orizzonte. In basso vi era ancora
una striscia di azzurro cupo, venato di arancione laddove gli ultimi
raggi tingevano le nubi, ma sulla volta celeste brillavano già le
prime stelle.
Dal
basso proveniva il chiacchiericcio di due soldati che parlavano delle
rispettive fidanzate. Saliva anche un lieve odore di fumo, segno che
mentre chiacchieravano si stavano anche godendo una sigaretta.
Più
lontano si sentivano ordini gridati. Solo poco prima, approfittando
dell'ultima luce, un biplano era rientrato al campo.
Il
Werwolf si arrischiò ad alzare la testa e per prima cosa scrutò i
dintorni cercando di identificare il luogo in cui era atterrato
l'aereo.
Ci
fu uno scoppio di risa: i due soldati evidentemente erano passati
alle storielle da caserma.
Egli
si sporse cauto a osservarli, cogliendo solo due vaghe sagome nella
penombra. Sogghignò al brillio arancione delle sigarette accese.
Avrebbe
potuto ucciderli da cento metri di distanza.
Tornò
ad appiattirsi sul tetto del vagone. Non era stato difficile salirci:
una volta liberatosi della tonaca, per quei bravi marmittoni era
diventato praticamente invisibile. Gli era bastato trovare per terra
un bastone, metterselo in spalla a imitazione del manico di una vanga
e camminare come se niente fosse. Nessuno gli aveva rivolto una
seconda occhiata, nemmeno quando si era avvicinato ai binari.
Forse
avevano pensato che li volesse semplicemente attraversare, o che
fosse incuriosito dalla tradotta ferma, fatto sta che era riuscito ad
arrampicarsi sul treno senza che nessuno facesse caso a lui.
Poi
aveva proseguito il viaggio non proprio in prima classe, ma di sicuro
più comodamente dell'ufficiale.
Poteva
immaginare che the Bishop l'avesse immediatamente interrogato, alla
ricerca di informazioni sulla missione. Si chiese se fosse ancora
vivo e a quel pensiero si sentì attraversare da una fitta di
apprensione.
Subito
dopo si costrinse a fare il vuoto in mente. Se voleva portare a
termine la missione non poteva farsi prendere dai sentimenti, doveva
considerare quel giovanotto semplicemente come una delle variabili in
grado di influire sulla soluzione di un problema.
Si
voltò di nuovo nella direzione in cui aveva visto atterrare l'aereo.
Strinse gli occhi cercando di cogliere nel buio qualcosa che gli
ricordasse un campo d'aviazione. Uno spiazzo erboso, luci di qualche
genere, magari un edificio a più piani, possibilmente signorile: in
generale, i piloti tendevano a trattarsi piuttosto bene in materia di
alloggiamenti.
§
Von
Knobelsdorff sentì il cuore balzargli nel petto: dei passi si
stavano avvicinando. Rimase in ascolto con l'attenzione spasmodica
del coniglio che percepisce l'arrivo del predatore, cercando di
capire se quell'andatura misurata appartenesse effettivamente al suo
aguzzino.
Si
chiese se sarebbe riuscito a fingere in maniera credibile.
I
passi si fermarono subito al di là della porta. Ci fu un breve
scambio, del quale non riuscì ad afferrare il contenuto.
Successivamente
la chiave girò nella serratura e la porta si aprì con un cigolio.
Il
tenente percepì un refolo d'aria fresca, odore di lucido da scarpe e
olio per armi. Si impose l'immobilità.
I
passi si avvicinarono. Ci fu un istante di silenzio che al giovane
parve lunghissimo, nel corso del quale ancora una volta si chiese
spasmodicamente se quello in piedi a poca distanza, che
verosimilmente lo stava fissando, fosse l'agente segreto inglese.
Infine
la voce beffarda che ormai ben conosceva disse: “Ma guarda un po'
questo valoroso ufficiale del Kaiser. Tante chiacchiere, tanta
spavalderia e alla fine...”
Von
Knobelsdorff non si mosse. Poteva immaginare che l'uomo lo stesse
osservando attentamente, forse proprio alla ricerca di segni di
simulazione.
La
voce si fece udire di nuovo: “Mi sente, giovanotto?”
Il
tenente rimase immobile. Qualcosa di duro, forse la punta di una
scarpa, lo picchiettò sul fianco, come per saggiare la sua
reattività.
“Gretchen,
questa prostrazione non fa che confermare l'idea che mi sono fatto di
voi tedeschi: siete un popolo di fanfaroni inutili, buoni solo a
strepitare in quella vostra orrenda lingua da barbari.”
Von
Knobelsdorff tratteneva addirittura il respiro. L'uomo si era accorto
che stava fingendo e lo provocava per spingerlo a tradirsi?
La
punta della scarpa lo colpì con maggiore forza, strappandogli un
breve gemito.
“Oh,
dunque la nostra Gretchen non è morta,” apprezzò l'inglese. “Per
fortuna, stavo cominciando a preoccuparmi.” Ci fu un fruscio di
vestiti, il tenente capì che l'altro si era chinato accanto a lui.
Una luce, forse quella di una torcia, gli venne puntata in faccia.
“Siamo davvero così malmessi, piccola Gretchen?”
Il
tenente non mostrò alcuna reazione. Il cuore gli batteva talmente
forte che a un certo punto ebbe l'assurda paura che l'altro riuscisse
a sentirlo. Il tempo sembrava non passare mai, tutto si dilatava in
lunghissimi secondi di angoscia.
Oscillava
costantemente tra speranza e disperazione, dibattendosi tra il
sollievo di aver ingannato il suo aguzzino e il terrore di non
esserci riuscito. Ad ogni momento si aspettava un urlo, una botta che
però non arrivava mai.
Qualcosa
lo pungolò fra le costole ed egli dovette farsi forza per non
sussultare. “No, Gretchen, non ci siamo,” disse alla fine
l'inglese, in un teatrale tono di delusione.
Il
tenente si sentì ghiacciare, ma l'altro si rialzò in piedi e
proseguì: “Lei è solo un piccolo, miserabile straccio, inutile
sotto ogni punto di vista. Vediamo se almeno servirà come esca.”
I
passi si allontanarono, ma con orrore di von Knobelsdorff non
uscirono dalla stanza. Si diressero invece verso la scrivania e
l'aggirarono.
La
sedia scricchiolò, poi ci fu il tonfo di un oggetto pesante, forse
metallico, che veniva appoggiato sul sottomano.
Passò
il tempo. Nella stanza c'era un silenzio denso e carico di minaccia.
Dolorante, stremato, tormentato dalla sete, il tenente non osava
nemmeno socchiudere gli occhi per controllare dove fosse l'inglese.
Lo immaginava però seduto alla scrivania, con lo sguardo puntato su
di lui.
L'ansia
lo stava divorando, decine di domande gli si affastellavano in mente,
e a nessuna di esse riusciva a dare una risposta: stava facendo la
scelta giusta? Era meglio stare immobile e attendere gli eventi, o
così facendo si stava giocando le uniche possibilità di fuga? Se
fosse saltato su e avesse assalito l'uomo, posto che il suo corpo
prostrato ne fosse in grado, sarebbe riuscito a sorprenderlo e a
sopraffarlo?
Ma
l'interrogativo più angosciante, quello che gli suscitava il
maggiore tormento, riguardava l'agente tedesco. Davvero stava
tornando a prenderlo? Le parole dell'inglese facevano supporre di sì.
Se
da una parte la cosa in un certo senso lo confortava, dall'altra lo
metteva in uno stato di ancora più tormentosa irresolutezza. Si era
fatto una ragione di essere stato lasciato indietro. La cosa gli era
parsa anche giusta, in fin dei conti, e si era organizzato per
cavarsela da solo, ma se cercando di cavarsela da solo avesse perso
l'occasione di essere aiutato dall'agente segreto? Se l'agente
segreto, per aiutare lui, avesse messo a rischio la missione? Doveva
intervenire? Agire? In che modo, poi?
Scelse
di rimanere immobile. Sapeva ancora troppo poco di quello che lo
circondava per improvvisare qualcosa.
La
sedia scricchiolò appena, producendo un rumore che alle sue orecchie
sovreccitate parve forte come una raffica di mitragliatrice. Ebbe
addirittura l'impressione che quel suono gli facesse male.
Da qualche ora tutto gli faceva male, in effetti, persino il mero
atto di esistere. Non gli sarebbe parso strano se addirittura il
cuore, pulsando, gli spedisse piccole stilettate nel torace.
Si
chiese cosa sarebbe successo e per l'ennesima volta non fu in grado
di darsi una risposta. Nonostante ogni suo proposito di rimanere
vigile, scivolò senza nemmeno accorgersene in un sonno plumbeo e
privo di sogni.
§
Il
tenente spalancò gli occhi. Non sapeva quanto tempo fosse passato, o
se l'uomo fosse ancora lì con lui, ma aveva la nettissima sensazione
che stesse per succedere qualcosa.
C'era
una calma strana. L'aria era immobile, non si udiva il minimo rumore.
La stanza era pressoché buia: solo i raggi della luna, passando
attraverso il finestrino, disegnavano sul pavimento una chiazza
diafana.
Fece
girare intorno lo sguardo e si accorse che l'inglese c'era ancora.
Era una massa scura, incombente, talmente immobile che se non avesse
saputo che si trattava di un uomo in carne e ossa l'avrebbe creduto
una statua.
Anche
lui era palesemente in attesa di qualcosa. Gli parve di notare che
avesse un'arma in mano, più che altro per un barbaglio di acciaio
che per un attimo baluginò in quella sagoma altrimenti nera.
Non
ci voleva un genio per capirlo: era in agguato. Chi stesse aspettando
era altrettanto chiaro.
Il
tenente rimase immobile, ben attento a non dar segno di sé.
Passò
altro tempo, il silenzio era sempre più profondo, la sensazione che
stesse per accadere qualcosa era sempre più intensa, tanto che
l'ufficiale doveva faticare per mantenere il respiro lento e costante
di una persona addormentata.
A
un certo punto dal tetto provenne un rumore. Un tramestio a stento
percettibile, qualcosa come il muoversi cauto di un animale
selvatico.
Poi
silenzio.
Sogguardò
l'inglese, che però manteneva un'immobilità assoluta.
La
ghiaia della massicciata scricchiolò appena, un sassolino rotolò
giù facendo due o tre rimbalzi, che in quella quiete tesa parvero
altrettanti colpi di cannone.
Il
cuore gli accelerò i battiti: qualcuno si stava muovendo
all'esterno.
Di
nuovo calò il silenzio. Il tenente rimase in ascolto, ma i rumori
sembravano essere stati inghiottiti da una campana pneumatica. Ebbe
l'impressione che persino il suo corpo avesse smesso di produrne e
che il suo cuore pulsasse in un silenzio assoluto, fluttuando come
una specie di medusa.
Ci
fu un lievissimo raschiare di metallo.
Ancora
una volta egli si irrigidì e volse lo sguardo alla porta con
aspettativa, ma l'anta rimase immobile.
Passò
altro tempo: secondi lunghissimi, che sembravano non voler finire
mai. E poi un tonfo soffocato, come un pugno su un mucchio di
coperte, e l'afflosciarsi morbido di qualcosa.
Un
altro lungo silenzio, poi dalla serratura provenne uno scatto di
metallo oliato.
I
muscoli di von Knobelsdorff si tesero come corde.
L'anta
si schiuse lentamente, creando sulla parete una debole lama di luce.
Al di là vi era un uomo.
Un
altro scatto metallico, questa volta proveniente dalla figura seduta
alla scrivania, fu per il tenente come una scossa elettrica: con
quanto fiato aveva in gola gridò: “È una trappola!”
Il
silenzio teso sembrò andare in frantumi come una lastra di vetro.
Una detonazione lacerò la quiete, il lampo dello sparo illuminò a
giorno la stanza.
Pur
dolorante, provato dalla lunga immobilità, von Knobelsdorff balzò
in piedi e fece per uscire, ma una mano lo agguantò per il collo e
lo tirò brutalmente all'indietro, scaraventandolo nuovamente a
terra. L'agente inglese poi lo oltrepassò e si chiuse la porta alle
spalle.
L'ufficiale
si rialzò.
Da
fuori proveniva il rumore di una colluttazione feroce. Un altro colpo
di pistola lo fece sobbalzare, poi udì il rimbalzo metallico
dell'arma che cadeva a terra. Il tramestio riprese, ci furono colpi,
gemiti e ansiti rabbiosi.
Spalancò
la porta e pur nella scarsa luce vide che l'agente inglese era
avvinghiato con qualcuno. In un silenzio mortale, i due stavano
lottando come furie.
Schizzi
di sangue imbrattavano pareti e pavimento.
All'esterno
si sentiva gridare, segno che gli spari avevano messo in allarme le
sentinelle. Comparvero delle luci, che gettarono ombre sinistre
all'interno del vagone.
Senza
starci troppo a pensare, egli afferrò l'agente inglese per le spalle
e cercò di strapparlo via, questi si rivoltò come un felino e gli
sferrò un pugno che gli spedì un nugolo di farfalle luminose
davanti agli occhi, poi tornò alla colluttazione. I clamori
all'esterno andavano aumentando, già si sentiva gridare qualcosa a
proposito di tedeschi in arrivo.
Egli
scrollò la testa disorientato. Colse il baluginio di una lama,
seguito da un gemito soffocato, poi carne che colpiva altra carne e
lo schiocco di qualcosa di duro, forse un cranio, contro il
pavimento.
Corrugò
la fronte cercando di individuare uno spiraglio di intervento. Fuori
formicolava ormai una moltitudine. “Non c'è più tempo!” si
sorprese a dire.
Il
tramestio cessò d'improvviso, egli percepì una stretta familiare
sul braccio. “Andiamo,” disse una voce vagamente ansante ma ben
nota.
Si
sentì spingere lungo il corridoio. Andare, dove? Poteva immaginare
che il campo fosse ormai in allarme, e che i soldati fossero ovunque.
Come avrebbero fatto a sgusciare tra le maglie di una rete che pur
non consapevole di loro, si andava comunque inesorabilmente
chiudendo?
“Non
abbiamo molto tempo,” disse l'agente segreto.
Egli
non replicò. Comparve una figura in uniforme davanti a loro, l'uomo
abbandonò la presa sul suo braccio e scattò in avanti, si udì uno
scricchiolio sinistro e il soldato si accasciò.
Lo
scavalcarono, arrivarono all'esterno. Nei rari sprazzi di luce, von
Knobelsdorff si accorse che la camicia dell'uomo era per metà rossa
di sangue. Abbassò gli occhi e vide che dietro di lui c'era una scia
di gocce rutilanti. “Lei è ferito!” esclamò.
“Andiamo,”
fu la risposta.
Il
tenente aggrottò le sopracciglia e replicò: “Si sta lasciando
dietro una traccia. Pensa che il suo nemico non ne approfitterà?”
L'altro
si fermò a guardarlo e, come era successo tempo prima, l'ufficiale
ebbe l'impressione di averlo in qualche modo colpito. In tono più
conciliante, soggiunse: “Non sarebbe meglio fare una medicazione di
fortuna?”
L'agente
segreto scosse la testa. “Ci penseremo più avanti, ora dobbiamo
andarcene di qui.”
Il
giovane rinunciò a replicare.
Corsero
via dal treno, verso le zone in cui le tenebre erano più fitte. Von
Knobelsdorff individuò nel buio la sagoma di lunghi baraccamenti,
separati fra loro da vialetti coperti di ghiaia bianca.
Qua
e là vi erano finestre illuminate, dall'interno delle costruzioni
provenivano voci.
“Si
muova,” lo incitò l'uomo.
Cominciò
a farsi udire l'ululato basso di una sirena a manovella. Il suono era
come un lungo lamento che man mano aumentava di tono, facendosi nel
contempo più acuto.
A
quel richiamo tutto il campo parve animarsi, la luce si accese
ovunque, dalle baracche cominciarono a uscire di corsa soldati,
perlopiù reclute, che frettolosamente indossavano gli ultimi pezzi
dell'equipaggiamento e si guardavano intorno spaesati, cercando di
capire per quale motivo stesse suonando l'allarme generale.
Qualche
sottufficiale abbaiava ordini.
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