Momenti di tensione, su
Rieducational Channel! Ecco che torna fuori il nostro amico
britannico, per la gioia dei suoi fan.
Come
sempre grazie a tutti coloro che mi stanno seguendo e commentando.
Von
Knobelsdorff guardò fuori dalla finestra: stava arrivando un'altra
automobile. La vide procedere adagio sul viale ghiaiato, poi fermarsi
davanti all'ingresso. Da essa scese uno chauffeur in uniforme, che
aprì cerimoniosamente la portiera del sedile posteriore.
Ne
uscirono divise e abiti lunghi da signora, con tanto di cappello.
Sbuffò
infastidito: divise e abiti lunghi, cappelli per signora larghi come
ruote di carro, pieni di velette, fiori finti e pernici impagliate.
Non vedeva altro da giorni. Ogni tanto compariva qualche raro abito
civile da uomo, perlopiù di membri anziani della famiglia.
Aveva
sperato di trascorrere la licenza nella pace e nel riposo, ma vi era
un'ininterrotta processione di parenti che volevano vederlo e
complimentarsi con lui, amici di famiglia, funzionari e delegati di
associazioni patriottiche.
Aveva
già posato per decine di foto, aveva già sopportato gli sguardi
forzatamente innocenti di innumerevoli signorine aristocratiche in
cerca di marito, aveva signorilmente tollerato l'invadenza delle loro
madri, che invece l'innocenza non si preoccupavano nemmeno di
simularla.
Il
fastidio che da qualche giorno lo assediava ebbe un parossismo. Senza
starci troppo a pensare su, abbandonò il suo punto d'osservazione e
si diresse alle scuderie.
Respirò
sollevato quando l'edificio di mattoni rossi apparve dietro una
barriera di querce. Rallentò e socchiuse gli occhi, lasciandosi
accarezzare da refoli d'aria carichi di quello che nella sua mente
era sempre stato l'odore della libertà.
Si
appoggiò con la schiena al tronco di un albero, già pregustando la
gioia di una lunga cavalcata in sella al suo cavallo preferito.
Si
avvicinò di soppiatto, attento a non farsi vedere. Ormai era
talmente infastidito da complimenti e felicitazioni che avrebbe
rischiato di rispondere male anche agli incolpevoli garzoni di
stalla. Molto meglio non dar segno di sé, sellare il suo bravo sauro
e distendersi i nervi con una bella galoppata.
Entrò
adagio. Nell’aria c’era silenzio, a parte i tonfi di qualche
cavallo che si muoveva sulla lettiera. Dalla selleria proveniva lo
sfregare rapido di qualcuno che ungeva dei finimenti.
Nonostante
ogni suo buon proposito, sorrise fra sé e sé al pensiero di
rivedere il decano degli artieri: un uomo piccolo, rugoso,
precocemente ingobbito, che però gli aveva insegnato più cose sui
cavalli di tutti gli istruttori di dressage e ostacoli con cui aveva
mai avuto a che fare.
Con
l’intento di fargli una sorpresa, cominciò a strisciare
silenziosamente lungo la parete. Raggiunse la porta della selleria,
azzardò una cauta occhiata all’interno e d’improvviso il cuore
gli balzò nel petto.
Seduto
su una cassa, una testiera sulle ginocchia, un barattolo di grasso a
fianco, c’era un uomo dalle spalle larghe, sicuramente non vecchio,
con i capelli neri e la pelle stranamente pallida. Lavorava con
impegno sui finimenti, ma era evidente che si trattava di un’attività
cui non era abituato.
Notò
accanto a lui, sul bordo del tavolo, il levarsi di un esile filo di
fumo. Riconobbe l’odore di tabacco forte che aveva già sentito
all’interno del vagone in cui era stato rinchiuso e interrogato.
Arretrò.
Rinculò passo passo, di colpo attento a non produrre alcun rumore,
aspettandosi a ogni istante che una mano gli calasse sul collo e lo
strattonasse indietro. Raggiunse l’entrata della scuderia con i
muscoli tesi come corde, si dileguò rapido all’esterno,
addentrandosi come un animale selvatico nel folto dei boschi che
circondavano la tenuta.
Solo
quando fu ad alcune centinaia di metri dall’edificio si concesse di
fermarsi a riposare. Si lasciò cadere su una pietra, si passò una
mano fra i capelli.
The
Bishop.
Era
lui. L’aveva visto solo di spalle, ma era certo di non sbagliarsi.
Si
guardò intorno sentendosi un cervo che percepisce l’avvicinarsi
dei cacciatori, consapevole che avrebbe dovuto fare qualcosa, ma
troppo agitato per pensare lucidamente a cosa.
§
Di
nuovo al magazzino delle granaglie, in abiti da semplice impiegato,
von Thurn und Taxis entrò in uno degli uffici al piano terra e
chiuse la porta alle proprie spalle. L’uomo che sedeva alla
scrivania al suo ingresso sollevò appena lo sguardo. “Desidera?”
chiese neutro.
Il
Werwolf non si scompose. Anche se la persona che aveva di fronte era
un suo collega e amico, in quel posto la regola era di trattarsi
sempre come estranei. “Le bolle di carico per la spedizione in
partenza,” rispose.
L’altro
annuì. “Le ho già preparate.” Spinse verso di lui una
cartellina bigia.
Il
primo la raccolse, quindi senza aggiungere altro abbandonò la
stanza, si trasferì al primo piano ed entrò in un ufficio nel quale
si trovavano un tavolino, un telefono, una libreria vuota e uno
specchio. Fece un cenno di saluto verso la lastra di vetro e si
sedette al tavolino. Aprì la cartella.
All’interno
vi era una seconda cartella, più piccola, con scritto sopra
Maximilian von Knobelsdorff. Ne sfogliò il contenuto: fotografie,
corso di studi, una copia del brevetto di ufficiale, parenti
conosciuti, amici. Sollevò le sopracciglia nel leggere di un cadetto
di nome Friedrich von Wangenheim, col quale il tenente sembrava avere
avuto un’amicizia intensa che si era poi inspiegabilmente
raffreddata.
Scorse
i dati anagrafici, l’indirizzo della residenza di famiglia. Una
grafia conosciuta aveva tracciato una sequenza di cifre sul margine
di una pagina.
Tese
una mano verso l’apparecchio telefonico e compose il numero. Attese
la linea tamburellando sul piano del tavolo. Dall’altra parte,
l’apparecchio cominciò a suonare.
“Forza,”
ringhiò il Werwolf dopo un po’.
Il
palazzo era grande, magari non c’era nessuno vicino al telefono.
“Forza,”
ripeté. “Rispondi.”
Finalmente,
dall’altra parte del filo una voce maschile annunciò: “Residenza
von Knobelsdorff.”
“Devo
parlare immediatamente con Maximilian von Knobelsdorff,” disse
asciutto l’agente segreto.
Dall’altra
parte ci fu qualche secondo di silenzio. “Chi devo dire?” chiese
infine la voce.
“Principe
Karl Ludwig Amadeus von Thurn und Taxis.”
Altro
silenzio, infine l’uomo rispose: “Abbia la compiacenza di
attendere, eccellenza.”
Il
Werwolf percepì il rumore della cornetta che veniva posata su una
superficie dura e poi dei passi che si allontanavano rapidamente.
Trascorsero
lunghi secondi, l’agente segreto riprese a tamburellare sul tavolo.
“Muoviti,” disse a mezza voce. “Muoviti, maledizione. Quanto
accidenti potrà essere grande questa residenza?”
I
passi del domestico che ritornava interruppero il picchiettare delle
dita. “Il signor barone è uscito, eccellenza,” annunciò l’uomo.
Il
Werwolf sentì i muscoli irrigidirsi. “Dov’è andato?”
“Non
lo ha lasciato detto, eccellenza.”
“È
questione della massima urgenza,” specificò tagliente il principe.
“Mi
dispiace, eccellenza, il signor barone non c'è.”
Von
Thurn und Taxis chiuse pensoso la comunicazione. Maximilian era
solito andarsene senza specificare dove? Impossibile saperlo, così
come era impossibile essere certi che la sua scomparsa non avesse a
che fare con the Bishop.
L'unica
era verificarlo di persona. Si voltò verso lo specchio e disse: “Mi
serve un mezzo veloce.”
Dall'altra
parte del vetro provenne la domanda: “Per andare dove?”
“Rollwitz.”
“Quando?”
“Adesso.”
§
Von
Knobelsdorff girò lo sguardo in direzione della scuderia. Dal punto
in cui si trovava non riusciva a vedere l'edificio, ma era come se ne
percepisse l'immanenza sinistra.
The
Bishop.
Si
costrinse ad abbandonare ogni emotività, a fare il vuoto in mente.
Cercò di ragionare con la testa dell'agente inglese.
Perché
era arrivato lì a Rollwitz? Non certo per lui. Di sicuro intendeva
usare lui per arrivare al Werwolf, ma come? Pensava forse che fosse
in possesso di informazioni sull'agente tedesco? Che sapesse dove si
nascondeva?
Oppure,
più semplicemente, supponeva che il Werwolf avrebbe preso parte al
ricevimento in preparazione?
Quale
che fosse la risposta, il dato di fatto era uno solo: the Bishop era
lì.
La
cosa da una parte gli comunicava una tormentosa sensazione di
angoscia, ma dall'altra lo poneva nella necessità di agire.
Sulla
fusoliera dell'aereo inglese sono dipinte almeno otto croci nere.
Forse sono anche di più, ma in volo, con l'occhio ancora poco
allenato del novellino, lui conta solo quelle.
Deve
essere un asso, si dice, un veterano.
Sta
inseguendo il suo capopattuglia, il maggiore von Stade, e tutta la
sua attenzione sembra essere assorbita da quella caccia. Vuole
aggiungere un'altra croce nera, probabilmente, e l'aereo del
maggiore, pieno di coccarde rosse e blu, sarebbe un magnifico trofeo.
Si
chiede se sia vero quello che dicono i vecchi, ovvero che alla fine
ottenere nuove vittorie diventa una specie di ossessione, che fa
dimenticare prudenza e buon senso.
Ha
sentito di piloti che si sono fatti abbattere per quel motivo.
Guarda
di nuovo l'aereo inglese, caparbiamente incollato alla coda di von
Stade, e si rende conto che l'unico che può fare qualcosa per il
maggiore è lui, un tenentino appena arrivato dalla cavalleria, con
un Albatros talmente nuovo che l'abitacolo puzza ancora di vernice.
Senza
starci troppo a pensare dà gas: l'aereo si lancia in avanti, prende
quota. Lo SPAD inglese sta volando a zig zag dietro l'Albatros di von
Stade e non fa nemmeno caso a lui.
Due
raffiche ed è finita: il caccia nemico scivola d'ala, butta il muso
verso il basso ed entra in vite. Poco dopo si schianta sulla terra di
nessuno e prende fuoco.
Rimane
a fissarlo serio. Un po' si pente di averlo attaccato così, alle
spalle, senza dar segno di sé, ma il rimorso dura poco: ha abbattuto
un pericoloso avversario, ha salvato la vita al suo comandante. Le
acrobazie sfrenate dei colleghi gli confermano meglio di ogni altra
cosa che ha fatto quel che si doveva fare.
Un
refolo di vento fece frusciare le foglie. Egli si tese, si guardò
intorno. Doveva agire. Non avrebbe saputo come avvisare il Werwolf e
non avrebbe avuto alcun senso avvisare altri. Cosa avrebbero potuto
fare, ad esempio, i tranquilli gendarmi di Rollwitz, abituati a
gestire ubriachi e ladri di polli, contro the Bishop?
L'unico
che poteva fare qualcosa per eliminare la pericolosa spia era lui.
A
quel pensiero ebbe un attimo di sgomento: aveva ucciso molti nemici
in azioni di guerra, ma non si era mai trovato a pianificare
lucidamente un omicidio.
Che
fare?
Il
problema non era a livello morale, ovviamente: l'inglese era una spia
e il suo dovere era ucciderlo. Le sue preoccupazioni erano più che
altro di ordine pratico: sarebbe riuscito a sorprenderlo? Sarebbe
riuscito a fare ciò che si proponeva? E una volta portato a termine
l'ingrato compito, come avrebbe evitato di passare per assassino ed
essere perseguito come tale? Chi avrebbe confermato l'identità della
spia straniera, se l'unico che lo conosceva, ovvero il Werwolf, era
sparito chissà dove?
Si
impose di non indugiare oltre in quelle considerazioni: era chiamato
a rendere un servizio alla Patria, null'altro importava.
§
A
cavallo di una potente motocicletta, un paio di occhiali da pilota a
proteggergli gli occhi, di nuovo in uniforme, von Thurn und Taxis
divorava la strada che portava a Rollwitz. Il rombo del veicolo,
lanciato a tutta velocità, era talmente forte da coprire ogni altro
suono; il paesaggio si era trasformato in un indistinto susseguirsi
di macchie verdi e marroni, punteggiato qua e là del bianco d’una
masseria, o del baluginare fugace di specchi d’acqua sotto il sole.
The
Bishop era là.
Era
chiaro come il sole che sarebbe andato là.
Si
chiese come aveva potuto essere così stupido, come aveva potuto
lasciar capire a un avversario come l’inglese che sulla faccia
della terra esisteva una persona che gli interessava.
Aveva
passato anni a costruirsi un usbergo che gli consentisse di scendere
in battaglia, anni a tappare ogni falla, a togliere ogni appiglio.
Era
diventato uno scafandro impenetrabile, che opponeva all’osservatore
solo buio e silenzio.
E
dopo tutto ciò, dopo essersi reso un micidiale strumento di morte,
dopo aver rinunciato a qualsiasi altra cosa, si era lasciato prendere
da quei sentimenti che credeva di aver eliminato, e invece aveva solo
sopito.
“Non
voglio nessun altro.”
Lo
dice pacato, con il tono delle decisioni su cui non si ritorna mai
più.
Il
suo collega interrompe il lento passeggiare, costringendolo a
imitarlo. Si gira a fissarlo in viso. “Prego?” chiede infine.
“Hai
sentito.”
Morgenrot
alza le spalle. “Si farà quel che dice Matthesius.”
“Non
io. Altrimenti si trova un altro agente.”
“Tutti
noi facciamo quel che dicono lui e la Lesser. Non vedo perché tu
dovresti fare di testa tua.”
Stringe
i denti. “Lavoro meglio da solo.”
“Non
mi risulta.”
“Invece
è così. Non posso preoccuparmi di un...” esita. Stava per dire
‘compagno’, ma si corregge: “Non posso preoccuparmi di un
collega. Devo concentrarmi sulla missione, devo essere libero di
muovermi in completa autonomia.”
Morgenrot
riprende a camminare. Pone la braccia dietro la schiena, come un
tranquillo signore di mezz’età che fa la sua passeggiata
quotidiana. Egli lo segue per un po’ con lo sguardo: è tutto
finto, naturalmente. Se volesse, il suo collega potrebbe fare una
capriola da in piedi senza nemmeno darsi lo slancio. Sa che ha una
lama nascosta nella manica ed è in grado di usarla con micidiale
destrezza.
“Non
capisci, vero?” dice raggiungendolo.
“Oh,
no. Capisco benissimo, invece.”
“Lavorare
con qualcuno mi distrarrebbe,” ripete caparbio, come se volesse
convincere anche se stesso. “Mi costringerebbe a preoccuparmi di un
altro.”
“E
l’altro si preoccuperebbe di te. Quante volte è successo fra voi?”
“Preferirei
evitare l’argomento.”
Di
nuovo Morgenrot alza le spalle con fare noncurante. “Puoi farlo,
certo, ma ricordati sempre che certi argomenti non eviteranno te.”
Aveva
ogni parola di quel breve scambio scolpita in mente.
Mai
più nessuno, l’aveva giurato.
Eppure,
certe cose di Maximilian gli facevano pensare, o forse sperare, che
un giorno avrebbe potuto occupare un posto che forse era rimasto
vuoto troppo a lungo.
In
fondo, pensò con un sospiro, i lupi cacciano in branco, o a coppie.
Una
figura comparve a un tratto nel mezzo della carreggiata: forse un
animale selvatico, di cui colse soltanto una sagoma marrone e occhi
gialli spalancati.
D’istinto
sterzò bruscamente.
La
moto sbandò, s’inclinò, uscì di strada e prese a sobbalzare
sullo sterrato a folle velocità.
Il
Werwolf lottò per mantenerne il controllo, evitò di stretta misura
un albero, sbandò di nuovo e infine terminò la folle corsa a un
passo da un torrente, con una sterzata che sollevò una nube di
polvere.
Il
motore tacque e per un po’ gli unici suoni che si udirono furono il
gorgogliare dell’acqua e l’ansare concitato dell’uomo.
Infine
il Werwolf si guardò indietro, constatando che l’animale era
sparito. Gli fu grato: la sua comparsa aveva avuto il potere di
strapparlo a un rimuginare inane, che lo portava a rannicchiarsi in
se stesso invece di proiettarlo nell’azione.
Fece
ripartire la motocicletta, la riportò sulla strada. Certo, the
Bishop era là, si era preso il vantaggio di minacciare l’unica
persona che era stata in grado di evocargli Reiner, ma non aveva a
che fare con uno sprovveduto.
La
resa dei conti si avvicinava.
§
The
Bishop raccolse un secchio, lo riempì di biada e si avviò
zoppicando lungo il corridoio centrale della scuderia.
Non
era stato difficile ottenere il posto: gli era bastato sfruttare
quello che a suo tempo aveva detto alla finta dama della Pentecoste,
ovvero che a seguito di una ferita di guerra aveva una gamba di
legno. La baronessa von Knobelsdorff, donna di forti sentimenti
patriottici, non aveva esitato a dargli lavoro.
Dire
balle a certa gente era come sparare sulla croce rossa.
Tutt’altra
cosa sarebbe stata sorprendere il Werwolf. Una trappola per un
leopardo era comunque preparata per catturare una belva, non un
timido cerbiatto. Certo, la presenza del ragazzo lo rendeva meno
letale, appannava in qualche modo la sua pericolosità, ma non lo
rendeva innocuo.
Ha
dislocato in giro parecchi soldati, ha spiegato loro che una
pericolosa spia tedesca è nell’edificio. Si è premurato che tra
essi non ci fossero novellini, ha preso solo gente esperta, che non
si lascerà travolgere dall’emotività.
Nella
luce che sta calando, fissa attento il villino padronale immerso nel
verde. Sa che il Werwolf è lì dentro e sa che dovrà per forza
uscire, a un certo punto.
Passa
un tempo imprecisato, i soldati camminano su e giù in lenti giri di
ronda. Il silenzio è talmente profondo che riesce a sentire persino
il fruscio dei suoi stessi abiti quando si muove.
Poi
d’un tratto c’è odore di fumo. Al primo piano una finestra si
spalanca, tutti puntano i fucili in quella direzione, ma ne escono
solo sinistre lingue di fuoco.
Un
istante dopo, al lato opposto del villino succede la stessa cosa: una
finestra si sfonda e ne esce una fiammata che fa accartocciare le
foglie degli alberi vicini.
“Ma
che fa,” ringhia inquieto, “vuole bruciare vivo?” E mentre lo
dice sa che non è così, sa che quello è un diversivo per qualcosa,
anche se non riesce a capire cosa.
Le
fiamme frattanto ruggiscono, ormai è il calore stesso che sfonda le
finestre, colonne di fumo denso salgono verso il cielo.
Un
graduato lo raggiunge, gli chiede istruzioni. È chiaro che si
aspetta l’ordine di chiamare i pompieri.
“Mantenete
la posizione,” ordina conciso.
L’altro
lo fissa attonito, deve faticare per non rispondere qualcosa. Lo
capisce: non sa chi sia il Werwolf, pensa di avere a che fare con un
normale agente segreto.
Un
istante dopo, qualcuno urla.
Corre
in quella direzione, solo per trovare un uomo a terra, che sussulta
gorgogliando con la gola tagliata. Echeggiano a breve distanza colpi
di fucile, si ode un urlo d’agonia.
Va
a vedere: altri due soldati morti, intravede una sagoma riversa anche
al limitare della macchia.
Si
odono altri spari, quasi coperti dal rombo cupo delle fiamme. I
soldati ormai tirano a casaccio, dovunque pensino di vedere un
movimento. Tutt’intorno alla casa divorata dal fuoco crepita una
disordinata fucileria.
Il
mattino dopo, lo spettacolo è desolante: dell’edificio rimane solo
un rudere annerito, da cui si levano lente colonne di fumo. Otto
uomini sono morti.
Del
Werwolf nessuna traccia.
Qualcuno
dice che sia perito nel rogo, ma ovviamente non è così, lo
testimonia la scia di cadaveri che si è lasciato dietro fuggendo.
Eppure
aveva calcolato tutto, organizzato la cattura nei minimi particolari.
Non
aveva pensato al fuoco. Chi sarebbe così pazzo da dar fuoco a una
casa standoci dentro?
Il
dannato tedesco, evidentemente.
Proseguì
con il suo secchio, lo distribuì nelle mangiatoie secondo le
quantità che gli erano state indicate. L’ultimo cavallo cui diede
la biada era un sauro con le quattro balzane bianche, snello e
vivace, che scartò e frustò l’aria con la coda quando lo vide
arrivare.
Era
il cavallo preferito del signorino, a quanto gli avevano detto, il
che lo portava a tenerlo d’occhio con particolare attenzione.
Teneva
d’occhio tutto, comunque. Origliava i discorsi degli altri garzoni
di stalla e si intratteneva con certe servette del palazzo. Quando
era sicuro che nessuno lo vedesse, abbandonava l’andatura
claudicante e compiva giri d’esplorazione nella tenuta.
Catturare
l’amichetto del Werwolf non sarebbe stato difficile. Più complesso
sarebbe stato convincere il suo nemico a consegnarsi. Si chiese
quanti pezzi del tenente sarebbero stati necessari.
§
Chiuso
nella sua camera, Maximilian von Knobelsdorff estrasse la Mauser
d’ordinanza dalla fondina e controllò che fosse carica.
Successivamente
andò alla porta, la aprì cauto e si affacciò in corridoio:
nessuno.
Nascose
l’arma nella cintura, quindi uscì rapido, scese le scale e
attraversò il salone. Anche lì, nessuno in vista.
Sgattaiolò
fuori e s’inoltrò nel parco.
Al
riparo delle piante ripensò per l’ennesima volta a come portare a
termine il compito nel migliore dei modi. Si sentiva un cacciatore da
solo, nel folto della foresta, in attesa di un cinghiale
particolarmente grosso e feroce.
Avrebbe
avuto il sangue freddo di mirare al punto più vulnerabile e
lasciarlo avvicinare quel tanto che avrebbe reso il colpo letale?
Non
aveva senso porsi quelle domande: era un ufficiale di un esercito in
guerra, combattere con sangue freddo ed efficienza era semplicemente
il suo dovere. Si era mai chiesto cose del genere prima di decollare
per le missioni di combattimento?
Portò
una mano dietro la schiena, a palpare la sagoma familiare della
Mauser, e ne trasse una sensazione di sicurezza: the Bishop poteva
essere un impareggiabile agente segreto, ma di certo nemmeno lui era
invulnerabile.
Si
spostò adagio, sempre mantenendosi al riparo della vegetazione.
Quando raggiunse la scuderia, andò alla parte posteriore
dell'edificio, dove normalmente si concentravano le attività dei
garzoni di stalla. Si acquattò silenzioso.
Era
ormai pomeriggio inoltrato e i cavalli che avevano trascorso la
giornata nei pascoli venivano man mano riportati dentro. Entro breve
avrebbero cominciato a distribuire il fieno nelle mangiatoie.
Si
chiese se fosse il caso di aspettare il buio: l'oscurità avrebbe
forse agito in suo favore nascondendolo, ma allo stesso tempo
l'avrebbe intralciato, perché tutti gli addetti sarebbero stati
all'interno dell'edificio e quindi trovare the Bishop da solo sarebbe
stato molto più difficile.
Rimpianse
che non ci fosse il Werwolf: lui avrebbe di certo saputo cosa fare.
Avrebbe saputo quando attaccare e come, sfruttando al massimo tutti i
vantaggi che la situazione offriva.
Senza
staccare gli occhi dalla scuderia, emise un lungo sospiro. La
competenza in determinate faccende non era l'unico motivo per cui il
principe von Thurn und Taxis gli mancava. Rimpiangeva le sue frasi
taglienti, la sua decisione. La sua stretta sul braccio.
A
quel pensiero, involontariamente si toccò appena sotto la spalla,
dove solitamente si chiudeva la mano del Werwolf.
Fugacemente
si domandò dove fosse, cosa stesse facendo. Aveva già un'altra
missione? Era da qualche parte dietro le linee, magari travestito da
ufficiale inglese o francese?
Se
fosse riuscito a uccidere the Bishop, forse gli avrebbe facilitato il
lavoro. A quel pensiero sorrise fra sé e sé.
Un
istante dopo tutti i suoi sensi si focalizzarono sulla porta della
scuderia, dove era comparso l'uomo pallido dai capelli neri. Questi
scambiò qualche parola con uno dei garzoni di stalla, poi raccolse
da una staccionata una serie di coperte stese ad asciugare e si
allontanò.
Il
tenente aggrottò perplesso le sopracciglia: claudicava vistosamente,
trascinandosi dietro una gamba irrigidita.
Eppure
era lui. Anche se da lontano, ne aveva riconosciuto la forma del viso
e la struttura fisica. Inoltre, quei capelli neri, associati a quello
strano pallore, erano inconfondibili.
Lo
osservò di nuovo: zoppicava come se avesse avuto una gamba di legno.
The
Bishop era sano quando lui e il Werwolf erano decollati
dall'aeroporto inglese. Possibile che nel frattempo gli fosse
successo qualcosa alla gamba? E come avrebbe potuto continuare a
svolgere l'attività di agente segreto, con una mutilazione così
grave?
Rimase
a guardare. La luce andava calando, le ombre si allungavano sui
prati. Gli ultimi cavalli rientravano in scuderia.
Gli
parve che fosse una specie di segnale, come un invito all'azione.
Avanzò
cauto, attento a non farsi vedere. Si appiattì a ridosso del muro e
subito dopo scivolò lesto all'interno.
Non
c'era nessuno, gli unici rumori che si udivano erano quelli dei
cavalli che si muovevano sulla lettiera o masticavano la biada. Per
lunghi minuti, egli rimase immobile a guardarsi intorno, attento a
ogni suono, a ogni segno di presenza umana.
Poi
sentì avvicinarsi un passo claudicante.
Il
cuore gli accelerò i battiti. Si addossò maggiormente alla parete
per non farsi vedere.
Qualcuno
chiese: “Sei sicuro di farcela, Anton?”
Una
voce ben nota rispose: “Sì sì, ci penso io.”
“Allora
vado?”
“Tranquillo,
finisco io col fieno.”
Poi
di nuovo silenzio, rotto solo dal rumore irregolare dei passi zoppi
dell'agente inglese.
Von
Knobelsdorff arrischiò un'occhiata: l'uomo procedeva adagio lungo il
corridoio centrale. Spingeva una carriola da cui spuntava il manico
di un forcone.
Sapeva
dove stava andando: a lato della scuderia c'era il fienile. Il che
era un gran bene, perché nell'edificio si sarebbero trovati solo
loro due. Non doveva fare altro che lasciarlo entrare e poi
raggiungerlo.
Attese
col cuore in gola, il tempo sembrava non passare mai. I passi si
affievolirono sempre di più e poi cessarono del tutto.
Quando
fu certo che l'uomo fosse uscito dalla scuderia, abbandonò il suo
nascondiglio e si diresse verso il fienile.
Si
fermò a ridosso della porta: da dentro proveniva il frusciare
regolare del foraggio smosso, segno che the Bishop stava riempiendo
la carriola. Sarebbe stato di spalle rispetto a lui.
Estrasse
la Mauser ed entrò rapido nell'edificio.
Annullò
la distanza che lo separava dal deposito del fieno. D'un tratto era
come se avesse urgenza di concludere la faccenda. Di farlo subito,
prima di ripensarci.
L'uomo
era di spalle, stava lavorando tranquillo. Sollevò la pistola, ma
nel movimento urtò appena un falcetto appeso a un gancio. Lo
strumento emise un debole tintinnio.
In
un istante, the Bishop si girò, brandì il forcone e glielo scagliò
contro.
Von
Knobelsdroff venne trafitto a mezzo corpo. Arretrò con un gemito di
dolore mentre la pistola gli sfuggiva di mano. Istintivamente afferrò
il manico dell'attrezzo come per strapparselo via, ma i rebbi,
affilati come lame, gli si erano conficcati profondamente nella
carne.
L'inglese
lo raggiunse e ghignò: “Ma chi si rivede: Gretchen.” Afferrò a
sua volta il manico del forcone e spinse brutalmente in avanti,
piantandolo ancora più a fondo.
Il
tenente gemette di nuovo, sentì le ginocchia cedergli. Crollò a
terra accanto al mucchio di fieno.
“Sei
stupido e impulsivo come ricordavo,” considerò sarcastico the
Bishop.
|