Gente mia,
ecco
qui il capitoletto settimanale. Succedono un po’ di cose, quindi
spero che non vi annoierete. Grazie a tutti coloro che mi stanno
seguendo; un ringraziamento particolarmente caloroso a tutti coloro
che sono così gentili da lasciarmi un commento!
Capitolo
13
La
quiete del parco di Rollwitz fu turbata dal rombo furioso di una
motocicletta lanciata a tutta velocità.
Il
bolide sfrecciò sul viale d'ingresso della villa e si fermò di
fronte al portone facendo schizzare la ghiaia da sotto le ruote. Il
motore tacque.
Il
Werwolf balzò giù dal veicolo e mentre ancora si toglieva gli
occhialoni da pilota salì la scalinata che conduceva all'ingresso.
Venne
intercettato da un domestico, che con sussiego gli chiese: “Il
signor capitano desidera?”
Pur
vagamente ansante, l'altro recuperò la propria compostezza e
rispose: “Devo vedere con urgenza il barone Maximilian von
Knobelsdorff, è già tornato?”
Il
maggiordomo sollevò le sopracciglia nel riconoscere la sua voce,
quindi rispose: “Sono desolato, eccellenza, il signor barone non è
ancora rientrato.”
Il
Werwolf si sentì gelare. Pur avendo già ricevuto risposta al
telefono, chiese: “Ha lasciato detto dove sarebbe andato?”
“No,
eccellenza.”
“È
cosa della massima importanza,” specificò di nuovo, nell'assurda
speranza che Maximilian fosse a divertirsi con qualche servetta e
avesse dato ordine di non rivelarlo a nessuno. “Il barone è in
grave pericolo.”
Il
domestico rimase interdetto. “Il signorino è in pericolo?”
ripeté.
“Gravissimo,”
specificò il Werwolf, sperando che ciò convincesse l'uomo a
sbottonarsi maggiormente.
L'altro
però non si mosse.
“Non
le importa che il barone sia in gravissimo pericolo?” lo incalzò
lui.
“Certo
che mi importa, eccellenza,” fu la risposta, proferita in tono
vagamente piccato, “Ma deve credermi: il signorino non c'è e non
ha lasciato detto quando sarebbe tornato.”
“Sono
passate ore dalla mia telefonata. Possibile che il barone non abbia
ancora dato segno di sé? Possibile che nessuno si sia preoccupato?”
L'altro
apparve confuso. “Mi dispiace, eccellenza.”
Il
Werwolf strinse le labbra obbligandosi alla calma. “Mi
faccia parlare con la baronessa,” ordinò infine.
Il
domestico si allontanò. Egli immaginò che sarebbe tornato e
l'avrebbe scortato verso qualche salottino dell'ampia dimora, invece
fu la baronessa in persona a raggiungerlo.
Edeltraud
von Knobelsdorff era alta quanto lui, asciutta come un tronco
d'abete, regale nel portamento. Egli riconobbe nel suo volto pallido
alcuni tratti di Maximilian: il colore degli occhi, la piega delle
labbra, lo sguardo attento e indagatore. Notò che aveva alla radice
del naso la stessa ruga che compariva anche al figlio nei momenti di
più intensa attenzione e preoccupazione.
Le
si presentò secondo le regole dell'etichetta.
La
baronessa lo osservò attenta, quindi senza preamboli disse: “Anselm
mi ha riferito che a suo parere mio figlio sta correndo un grave
pericolo. Vuole essere più chiaro, per favore?”
Il
Werwolf assentì. “C'è un posto dove possiamo parlare, baronessa?”
La
donna lo condusse a un piccolo salotto dalla severa mobilia in
quercia, scura e lucida. Gli indicò una poltrona e prese posto in
quella che si trovava di fronte. “La ascolto,” gli disse poi.
Von
Thurn und Taxis le raccontò per sommi capi la missione dietro le
linee.
La
baronessa annuì grave, quindi chiese: “Per quale motivo la spia
britannica di cui lei mi parla dovrebbe interessarsi a mio figlio? A
quanto ho capito, è lei l'agente segreto. Lui ha solo pilotato
l'aereo che avrebbe dovuto ricondurla dietro le nostre linee.”
“La
spia sa che non riuscirebbe mai a catturare me. Suo figlio è
semplicemente un'esca per attirarmi in trappola.”
La
baronessa lo fissò dritto negli occhi, quindi lentamente chiese:
“Lei rischierebbe la vita per salvare Maximilian?”
Il
Werwolf annuì.
Impassibile,
la donna replicò: “Lei è un agente segreto. La vita di un anonimo
tenente viene prima della sicurezza della Nazione?”
“Agisco
in questo modo proprio per non essere costretto a scegliere,
baronessa.”
§
Von
Knobelsdorff sbatté gli occhi cercando di mettere a fuoco the
Bishop. Diede un colpo di tosse e una fitta lancinante lo costrinse a
gemere. Sentì un rivolo di sangue colargli lungo il mento.
“Non
fare la commedia, Gretchen,” lo schernì l'agente segreto, “nessuno
muore per una faccenda del genere, nemmeno uno stupido mangiacrauti
come te.”
Il
tenente non rispose. Le parole dell'inglese gli giungevano
indistinte, come attraverso l'acqua. Portò una mano al manico del
forcone, ma gli parve di toccare dell'ovatta.
Di
nuovo gli giunse la voce beffarda di the Bishop: “Hai ragione,
sarebbe piuttosto ingombrante portarsi dietro anche questo attrezzo.”
Si avvicinò.
Egli
cercò di farsi indietro, ma l'altro gli fu addosso in un attimo. Gli
puntò un piede contro l'addome, estrasse il forcone come avrebbe
sfilato una vanga piantata nel terreno, poi lo buttò con noncuranza
da una parte.
Von
Knobelsdorff non riuscì nemmeno a urlare. Anche solo respirare gli
spediva brividi di dolore in tutto il corpo, si sentiva l'uniforme
inzuppata di sangue. La debolezza si stava impadronendo di lui.
The
Bishop si chinò fino a trovarsi col viso all'altezza del suo, quindi
gli disse: “Ora ti porterò in un posticino sicuro, Gretchen. Ti
terrò lì nascosto e farò sapere al tuo amichetto che sei da
qualche parte ferito e stai soffrendo.” Tacque per qualche secondo,
quindi soggiunse: “Perché tu stai soffrendo, non è vero? Di' un
po', soffri di più per questi quattro buchetti in pancia o perché
lui non è qui con te?”
Il
tenente non rispose.
L'altro
attese per qualche secondo, poi disse: “Il tuo silenzio mi spezza
il cuore, Gretchen.” Scosse la testa ostentando delusione, si
rialzò in piedi e proseguì: “Ma ora è meglio andare, altrimenti
rovineremo la sorpresa che ho preparato.”
Von
Knobelsdorff si sentiva sprofondare in un baratro buio. Di attimo in
attimo diventava più debole. Il dolore si affievoliva, sostituito da
una sempre più intensa sensazione di gelo.
Sto
morendo, pensò.
Spostò
appena la mano destra. Avrebbe voluto sollevarla per tergersi il
sudore freddo che ormai gli imperlava il viso, ma le dita
intercettarono un oggetto metallico.
The
Bishop stava ancora parlando. Andare
via, nascondiglio, Werwolf...
Ormai non riusciva più a seguire le frasi per intero, coglieva solo
qualche parola qua e là.
La
mano strisciò adagio, palpò cieca, come una specie di animale
terricolo alla ricerca di un rifugio. Riconobbe la zigrinatura del
calcio della Mauser.
Stava
morendo, ne era certo. Ormai sedeva in una pozza di sangue, tutto si
stava facendo buio. The Bishop era una sagoma indistinta, nella quale
coglieva solo l'ovale bianco del viso. Strinse i denti raccogliendo
le ultime forze, impugnò la pistola e sparò.
Perse
la cognizione delle cose.
§
L'eco
della detonazione, sebbene appena percettibile, fece scattare in
piedi il Werwolf.
La
baronessa lo fissò tesa. “Che cosa c'è?” gli chiese. Puntò le
mani sui braccioli della poltrona, come per scattare a sua volta.
“Qualcuno
ha sparato.”
“Ne
è certo?”
“Sì.”
Indicò la provenienza del rumore. “Cosa c'è da quella parte?”
“Le
scuderie.”
“Vado
a vedere,” rispose asciutto il Rittmeister. Trasse la pistola dalla
fondina e fece per uscire. La donna lo fermò: “Vengo con lei.”
“Con
tutto il rispetto, baronessa, mi intralcerebbe e basta. Se lo sparo
significa ciò che temo, avrò bisogno della massima libertà
d'azione.”
Edeltraud
von Knobelsdorff aggrottò le sopracciglia e in tono duro replicò:
“È di mio figlio che stiamo parlando, principe.”
“Ne
sono consapevole. Se lei venisse con me, lo metterebbe maggiormente
in pericolo. Stia qui, piuttosto, convochi lo chauffer, gli dica di
tenersi pronto con l'automobile. Chiami i gendarmi. Queste sono tutte
cose che mi aiuterebbero molto.”
Senza
attendere risposta, uscì rapido dalla stanza e si portò
all'esterno. Corse nella direzione da cui era giunto lo sparo e dopo
poco vide profilarsi tra le querce un alto edificio di mattoni rossi.
Qua e là c'erano garzoni di stalla che si guardavano intorno
perplessi, evidentemente attratti dalla detonazione. “Via tutti!”
urlò senza fermarsi. “Questa è un'operazione militare!”
Sperò
che l'ingiunzione avrebbe perlomeno contenuto la curiosità della
gente, concedendogli più tempo per neutralizzare the Bishop.
Entrò
in scuderia, si guardò rapidamente intorno, ma tutto sembrava
tranquillo. I cavalli masticavano la biada, nulla faceva pensare che
da qualche parte stesse succedendo qualcosa fuori dall'ordinario.
Ispezionando
rapido l'ambiente, si accorse che la porta sul retro era aperta. Vi
si diresse, si affacciò con cautela, adocchiò nella luce violacea
del crepuscolo un fienile. Anche la porta di quell'edificio era
aperta, all'interno era accesa una lampada fioca.
L'arma
stretta in pugno, lo raggiunse adagio.
Si
fermò sulla soglia, tese immobile l'orecchio. Dapprima non sentì
nulla, poi gli parve di cogliere un lieve tramestio. Infine una voce
ben nota ringhiò: “Piccolo figlio di puttana.”
Non
giunse risposta.
Avanzò
adagio, mantenendosi al coperto dietro i cumuli di fieno. Cominciò a
percepire l'odore ferroso del sangue.
Si
impose di fare il vuoto in mente: c'era the Bishop, e c'era qualcuno
chiaramente ferito o morto. A prescindere da quanto grave potesse
essere quel connubio, non poteva permettersi di cedere all'emotività.
Doveva essere freddo, anzi. Addirittura distaccato.
Come
se avesse dovuto occuparsi di un perfetto estraneo, con tutto il
tempo del mondo per farlo.
Fece
un altro passo avanti, inspirò ed espirò silenziosamente.
Udì
un nuovo tramestio, il raschiare di qualcosa di metallico sulla
pietra. Quel suono ebbe il potere di portare al parossismo
l'inquietudine che già gli attanagliava il petto. Si fece avanti
risoluto e dovette farsi forza per non sussultare: la pistola ancora
in pugno, von Knobelsdorff giaceva immobile in un lago di sangue. Di
fronte a lui the Bishop, una spalla trapassata, fiotti vermigli che
gli inzuppavano la camicia, reggeva con il braccio sano un forcone,
pronto a conficcarlo nell'ormai inerme avversario.
Premette
il grilletto, doppiò il colpo per sicurezza, l’agente inglese
crollò a terra. Egli non se ne curò nemmeno, corse invece a
inginocchiarsi accanto al tenente.
“Maximilian,”
lo chiamò. Andò alla ricerca della pulsazione della carotide, che
colse dopo un po', debole e irregolare. Strinse le labbra.
“Maximilian,” ripeté, ma il tenente non rispose. Gli sbottonò
l'uniforme, mettendo a nudo le quattro ferite prodotte dai rebbi del
forcone.
Si
alzò rapido, trasse di tasca il coltello da cui non si separava mai,
staccò dalla camicia dell'esanime avversario lunghe strisce, con cui
improvvisò bendaggi.
Quando
premette una compressa di stoffa sulla più profonda delle ferite, il
giovane ufficiale emise un gemito.
“Maximilian!”
esclamò il Werwolf.
Il
tenente socchiuse gli occhi e li volse verso di lui. Li strinse,
evidentemente lottando per metterlo a fuoco, infine mormorò:
“...Karl...”
“Sono
qui, Maximilian, non ti preoccupare.”
“Sono...
morto?”
“No,
hai la pelle dura. Ma ora non parlare e non muoverti, stai perdendo
molto sangue.”
Continuò
a tamponare come poteva le ferite. I rivoli rossi che nonostante i
suoi sforzi continuavano a filtrargli fra le dita gli facevano capire
che era in corso un'emorragia interna.
C'era
bisogno di un dottore, di trasfusioni, probabilmente addirittura di
una sala operatoria, ma dove trovare una sala operatoria e relativa
équipe chirurgica nel bel mezzo della campagna brandeburghese? La
risposta era semplice: in una caserma.
Valutò
rapido il da farsi, quindi si chinò sul tenente e gli disse: “Ho
bisogno di cercare aiuto. Non provare nemmeno ad alzarti mentre sono
via, ti giuro che torno presto.”
Ormai
pallido come un cencio, stremato, von Knobelsdorff si limitò ad
annuire. Il Werwolf lo fissò critico, augurandosi che non tentasse
nonostante tutto uno dei suoi colpi di testa, quindi si risolse ad
alzarsi per andare in cerca di aiuto.
Subito
fuori dal fienile s'imbatté in un paio di garzoni di stalla, che
evidentemente stavano girando lì intorno incuriositi dagli spari.
“Lei!” intimò brusco al più anziano dei due. “Vada
immediatamente ad avvertire la baronessa: è necessario portare qui
l'automobile.”
“È
successo qualcosa, signor capitano?”
“Il
barone Maximilian ha urgente bisogno di cure mediche. Ora si muova!”
L'uomo
corse via.
Il
Werwolf si rivolse all'altro: “Ci sono bende, qui?”
L'uomo
esitò qualche istante, colto alla sprovvista dalla domanda
inaspettata.
“Delle
bende!” ripeté asciutto l'agente segreto.
“Sissignore.
Abbiamo quelle che usiamo per i cavalli, signore.”
“Basta
che siano pulite.”
Nonostante
la concitazione del momento, il tono della risposta suonò vagamente
piccato: “Certo che lo sono, signore.”
“Allora
vada a prenderle immediatamente, e faccia approntare una barella.”
Detto
questo, il Werwolf si disinteressò del garzone di stalla e tornò da
Maximilian. Lo fissò critico: era sempre più pallido. Da sotto i
bendaggi non usciva quasi più sangue, ma sicuramente i rebbi del
forcone avevano lesionato qualche arteria, o magari squarciato organi
come fegato o milza. Si augurò che, dato il tipo di ferite e lo
strumento che le aveva inferte, non subentrasse una sepsi del
peritoneo.
Sistemò
le improvvisate fasciature e passò una mano sulla fronte sudata del
giovane, che però rimase immobile. Andò di nuovo alla ricerca del
polso carotideo ed ebbe l'impressione che fosse già più fioco, più
debole. Girò lo sguardo verso la sagoma riversa dell'agente inglese:
the Bishop era morto. Aveva passato anni a inseguirlo o a scappare da
lui, anni a guardarsi alle spalle in ogni momento, a controllare
ossessivamente ogni sua mossa, nella speranza di riuscire finalmente
a ucciderlo. Aveva fantasticato tante volte sul momento fatidico.
Aveva immaginato frasi a effetto, perlopiù su Reiner, perché certo,
the Bishop era un agente nemico, ma la faccenda tra loro due era da
tempo scivolata sul personale.
Si
chiese se al posto suo the Bishop lo avrebbe abbattuto così, senza
nemmeno dargli il tempo di girarsi a guardarlo.
Forse
sì, non era uno cui piaceva perdersi in chiacchiere.
L'arrivo
del garzone lo distrasse da ulteriori elucubrazioni. “Ecco qui,
signore,” disse, deponendo al suo fianco un sacco pieno di rotoli
bianchi. “Serve aiuto?”
Il
Werwolf lo fissò critico, ma l'uomo specificò: “Ho combattuto
nell'Africa del Sudest.”
“In
tal caso, mi aiuti a
bendarlo meglio.”
Pochi
minuti dopo, von Thurn und Taxis era sul sedile posteriore della
vettura, lanciata a tutta velocità verso la caserma di Pasewalk,
sede di un reggimento di fanteria.
Fra
le braccia sorreggeva Maximilian.
Il
tenente aveva la pesantezza inerte di una bambola di stracci, solo la
sua testa si muoveva appena in risposta alle curve brusche della
macchina.
Il
Werwolf gli toccò per l'ennesima volta il collo e sospirò di
sollievo quando i suoi polpastrelli percepirono una fievole
pulsazione.
Rivide
acqua rossa, che gorgogliava tra pietre coperte di muschio. Rivide
una mano inerte da cui una Mauser era scivolata via.
Chiuse
gli occhi e quella mano – la mano di Reiner – si trasformò in
quella di Maximilian, che stringeva la stessa arma.
La
prima abbandonata sui ciottoli del torrente, l'altra coperta di fili
di fieno insanguinati.
Abbassò
lo sguardo sul volto pallido del tenente. Non aveva mai pregato, non
avrebbe nemmeno saputo come farlo, ma capiva perché in certe
situazioni la gente rivolgesse suppliche a una non meglio
identificata Trascendenza.
Quando
gli strumenti terreni finivano, quando non rimaneva altro che
assistere impotenti al compiersi dell'inevitabile, forse veniva
naturale invocare gli idoli.
L'acqua
ormai non è più rossa. Tutto il sangue, ovvero la vita, è fluito
via e Reiner è un involucro vuoto. La midriasi post mortem è così
imponente che l'azzurro delle sue iridi si è trasformato in sottili
anelli chiari intorno a insondabili pozzi di oscurità.
Egli
fissa quegli abissi, desideroso nonostante tutto di immergervisi, di
perdersi in essi come ha fatto tante volte, ma non riesce a
sopportarne l'immobilità terribile. Arretra angosciato, realizzando
di colpo che tra lui e Reiner c'è ormai una barriera invalicabile.
Corre
via. Per portare a termine la missione, ma anche per allontanarsi da
quell'atroce consapevolezza.
La
macchina rallentò.
Egli
sollevò lo sguardo dal viso cereo di Maximilian e lo volse
all'esterno: ormai era buio, ma nel chiarore freddo di luci a gas
vide che una cancellata si stava aprendo lentamente. Colse un vociare
confuso, ordini gridati, tramestio.
Dedusse
che erano arrivati a Pasewalk.
Immaginò
che la baronessa avesse avvertito il comandante della caserma: di
sicuro lui e il barone von Knobelsdorff si conoscevano e
probabilmente si frequentavano, inoltre Maximilian era un eroe di
guerra decorato con il Pour le Mérite.
Proseguirono
adagio, attraversando un piazzale rischiarato da lampioni posti lungo
i quattro lati, e si fermarono di fronte a un edificio severo,
ingentilito da sobri fregi neoclassici.
Sulla
porta dell’edificio comparvero due camici bianchi.
Quelle
figure alte e mute evocarono al Werwolf ‘L’isola dei morti’, di
Böcklin. Si chinò sul tenente, che giaceva immobile fra le sue
braccia, e gli sussurrò: “Siamo arrivati, Maximilian.”
Non
ci fu risposta.
“Maximilian?”
La
portiera si aprì facendolo sobbalzare. Fuori c’erano due soldati
con una barella e uno dei dottori, un capitano medico alto e magro
dagli occhiali cerchiati d’oro.
Questi
si chinò e osservò il tenente, quindi alzò gli occhi su di lui in
una muta richiesta di spiegazioni.
“Quattro
ferite penetranti
dell’addome,” rispose asciutto il Werwolf, “sospetto
un’emorragia interna.”
L’altro
annuì. Si protese a fissare con più attenzione Maximilian, gli
tastò il polso e aggrottò la fronte.
Si
raddrizzò e ordinò rapido ai due soldati di porlo sulla barella.
Von
Thurn und Taxis si ritrovò da solo sul sedile posteriore della
lussuosa vettura. Lo sportello si era richiuso, per cui aveva
l’impressione di essere dentro una specie di bolla, dalla quale
vedeva ciò che stava succedendo ma non poteva influire sugli eventi.
Fece
scattare la maniglia, scese a sua volta e mosse qualche stanco passo,
respirando adagio l’aria della sera. Si era fatto freddo, o forse
era l'uniforme fradicia di sangue che gli dava quell’impressione.
Infilò
la mano in tasca, ne trasse un portasigarette. Lo osservò per
qualche secondo e la la mente saettò a una mattina di alcune
settimane prima. A un salone deserto e a un giovane tenente che
continuava a guardare fuori per vedere se la sua Jasta stava
rientrando dalla missione di guerra.
Lo
rimise via.
Si
voltò verso la porta da cui erano passati con la barella. Si chiese
cosa stesse succedendo in infermeria. Immaginò i due medici che
scuotevano la testa e un soldato di sanità che copriva il viso di
Maximilian con il lenzuolo.
Strinse
i denti imponendosi di non cedere all’emotività. Non era con
simili fantasie che avrebbe aiutato il ragazzo.
Si
voltò di nuovo verso la porta: non poteva più aiutarlo in nessun
modo, ormai. Le cose non dipendevano più da lui.
A
un tratto, sentì una mano posarglisi sulla spalla. Distratto
bruscamente da quei pensieri angosciosi, d'istinto fece un salto
indietro e si mise in posizione di guardia.
Udì
una breve risata, poi una voce bonaria chiese: “Sono tutti così
nervosi, gli ussari?”
Il
Werwolf rilassò i muscoli, emise il fiato che aveva trattenuto. Di
fronte a lui c’era un colonnello di fanteria, verosimilmente il
comandante della caserma.
Si
mise sull’attenti e salutò.
L'altro
rispose al saluto, quindi chiese: “È lei che l'ha portato qui?”
“Sissignore.
Rittmeister Karl Ludwig Amadeus von Thurn und Taxis.”
Il
colonnello sollevò le sopracciglia. “Dei principi von Thurn und
Taxis?”
“Sissignore.”
“Conosco
Friedrich Wilhelm von Thurn und Taxis.”
“È
il fratello di mio padre, signore.”
“Ha
ancora quelle magnifiche tenute di caccia dalle parti di Blankensee?”
“Sissignore.”
“Ricordo
che vi abbattei uno splendido esemplare di cervo maschio. Colonnello
Konrad von Ziemssen, a proposito. Sono un buon amico del barone Ernst
Wilhelm von Knobelsdorff. E della baronessa, ovviamente.”
All'udire
quel cognome, il Werwolf non poté fare a meno di gettare di nuovo
uno sguardo verso la porta. L'altro notò il gesto e disse: “Il
piccolo Maximilian: sempre a cacciarsi in qualche guaio. Lo conosco
da quando era un bimbetto alto così, sa?”
Il
Rittmeister si limitò ad annuire.
“È
un suo camerata?” chiese allora von Ziemssen.
Il
Werwolf strinse gli occhi. Un ussaro e un ulano erano camerati quanto
un fante e un artigliere. Si sorprese a chiedersi se la domanda del
colonnello avesse qualche significato recondito, ma l'altro
continuava a fissarlo con l'aria più tranquilla del mondo. Concluse
che tutta la faccenda l'aveva reso troppo nervoso. “Abbiamo
combattuto insieme,” rispose laconico.
“Ah,
pilota gli apparecchi anche lei?”
“Sissignore,”
rispose il Werwolf, sperando che la curiosità salottiera
dell'ufficiale non si spingesse fino a chiedergli particolari sulle
tattiche di volo.
Von
Ziemssen però non sembrava interessato a certe diavolerie moderne.
Protese il braccio per toccargli di nuovo la spalla, ma all'ultimo,
forse memore del suo scatto precedente, si interruppe. “Venga con
me,” disse invece, “lei ha un gran bisogno di bere qualcosa di
forte. Cos'è successo, a proposito?”
§
L'ufficio
di von Ziemssen era esattamente come lui: mobili di quercia, quadri
alle pareti, trofei di caccia, una vetrina con i fucili, un
caminetto. Spento, data la stagione, ma con alari d'ottone lucidi
come oro.
I
due sedevano in una specie di salottino composto da due poltrone fra
cui si trovava un basso tavolino rotondo.
Sulla
superficie del mobile c'erano una bottiglia di Schnaps e due
bicchieri.
Il
colonnello raccolse la bottiglia e propose: “Un altro?”
Il
Werwolf annuì. “Sì, grazie.” Spinse il bicchiere nella sua
direzione.
Von
Ziemssen mescé il liquore, poi disse: “Ora, capitano, sarei
curioso di sapere cos'è successo.”
Von
Thurn und Taxis annuì e sorbì un paio di sorsi. Abbassò gli occhi
sulla propria uniforme, che il sangue ormai secco stava rendendo
rigida come cartone. Infine dichiarò: “Il barone von Knobelsdorff
ha subito un'aggressione.”
Il
colonnello aggrottò le sopracciglia. “Un'aggressione? Come sarebbe
a dire?”
Impassibile,
il Werwolf spiegò: “Uno dei garzoni di stalla ha attaccato il
tenente von Knobelsdorff con un forcone. Per fortuna io ero nelle
vicinanze e sono intervenuto.”
“L'ha
attaccato? Com'è possibile?”
“Suppongo
che fosse uno squilibrato.”
Von
Ziemssen raccolse la bottiglia e versò da bere anche per sé. Sorbì
un generoso sorso di liquore, quindi brontolò: “Questi squilibrati
sono davvero un problema. L'uomo è stato assicurato alla giustizia?”
“L'ho
ucciso.”
Il
colonnello che stava per portare di nuovo il bicchiere alle labbra,
rimase col gesto a metà. “L'ha ucciso?”
Il
Werwolf annuì secco. “Non c'era altro da fare.”
All'apodittica
affermazione seguì qualche secondo di silenzio. Infine von Ziemssen
tossicchiò e disse: “Immagino abbia ragione. Del resto, questa
tragica vicenda dimostra con chiarezza che certa gente è solo un
peso per la società e dovrebbe perlomeno stare rinchiusa.”
“Esattamente,
signor colonnello.”
In
quel momento si udì bussare alla porta.
“Avanti!”
ordinò von Ziemssen.
L'anta
si aprì e sulla soglia comparve un'ordinanza, che si mise
sull'attenti e disse: “Signor colonnello, il signor capitano medico
Bergmann chiede di poter parlare con lei.”
L'ufficiale
annuì, poi rispose: “Riferisca al capitano che andrò da lui
appena possibile.”
Il
soldato non si mosse. “Signore, il signor capitano medico ha detto
che è molto importante,” specificò.
Il
colonnello annuì di nuovo. Fissò il Werwolf, poi si alzò in piedi.
“Voglia perdonarmi, Rittmeister,” borbottò evitando il suo
sguardo.
Abbandonò
la stanza.
Von
Thurn und Taxis rimase immobile. Abbassò lo sguardo sul bicchierino
di Schnaps pieno a metà. Lo beve d'un fiato, poi prese la bottiglia,
versò altro liquore e inghiottì anche quello.
Le
sue attività di spionaggio lo obbligavano a non ignorare nessuna
eventualità, ad avere sempre un piano di riserva. Fino a quel
momento si era proibito di elaborarne uno, ma a quel punto dovette
porsi la fatidica domanda: cos'avrebbe fatto se il colonnello fosse
rientrato e gli avesse detto che Maximilian era morto?
Niente
di diverso da quello che aveva fatto fino a quel momento,
probabilmente. Avrebbe recuperato la sua motocicletta, sarebbe
tornato a Berlino e avrebbe aspettato la prossima missione.
Forse
la faccenda di the Bishop avrebbe suscitato qualche clamore, ma certo
non troppi: nei servizi segreti non si era abituati al chiasso.
Probabilmente Matthesius gli avrebbe fatto una telefonata per
complimentarsi, rigorosamente in codice, spacciandosi per suo zio, e
la faccenda sarebbe finita lì.
Tese
meccanicamente la mano verso la bottiglia, ma la ritirò prima di
toccarla: non era certo stordendosi con l’alcol che avrebbe risolto
la situazione.
Doveva
essere lucido, anzi, altrimenti avrebbe potuto fare o dire qualcosa
di troppo.
Si
alzò, andò alla finestra. Il moschetto a spallarm, una sentinella
stava attraversando lentamente il piazzale. La seguì con lo sguardo
fino a che non venne inghiottita dalla zona d’ombra fra due
lampioni, poi abbandonò il suo punto d’osservazione e fece qualche
passo nella stanza. La stoffa irrigidita dal sangue gli grattava la
pelle, avrebbe voluto togliersi quei panni dall’odore ferroso,
buttarli via. Immaginò che la stanza ormai fosse impregnata di quel
sinistro tanfo da campo di battaglia, come lo sarebbe stato lui
stesso per chissà quanto tempo.
Per
quello che gli restava da vivere, forse.
Udì
dei passi avvicinarsi rapidi, istintivamente si irrigidì come per
assorbire un colpo.
La
porta si aprì, sulla soglia c’era il colonnello von Ziemssen.
Aveva l’espressione contrariata. Il Werwolf si trovò a deglutire.
L’altro
entrò risolutamente nella stanza e brontolò: “Una dannata
complicazione.”
Von
Thurn und Taxis considerò fra sé e sé che il dignitoso ufficiale
non avrebbe mai definito la morte di Maximilian come dannata
complicazione, quindi
non era di quello che si stava parlando.
Lo fissò con
aspettativa.
Von
Ziemssen spiegò: “Serve una trasfusione, ma gli uomini sono quasi
tutti fuori per la libera uscita, inoltre il dottor Bergmann mi ha
detto che il sangue non è tutto uguale, bisogna fare delle prove per
vedere se quello del donatore e quello del ricevente si possono
mescolare. Ha parlato di… categorie?”
“Gruppi
sanguigni,” esalò il Werwolf. Maximilian non era morto, ma stava
morendo, sarebbe morto se non avesse ricevuto del sangue. “Mi
faccia parlare con il medico,” disse rapido.
“Lei?
Ritiene che il suo sangue sia compatibile con quello del tenente?”
“Non
lo so, ma so qual è il mio gruppo sanguigno. Se per caso è lo
stesso, possiamo procedere subito, senza perdere tempo in prove.”
§
La
prima cosa che il Werwolf pensò, vedendo Maximilian adagiato sul
lettino operatorio, fu che non aveva senso fare una trasfusione a un
morto. Da cereo che era, il volto del ragazzo si era fatto livido. Le
labbra erano esangui, le orbite infossate. Immaginò che se l’avesse
toccato, l’avrebbe trovato freddo come il marmo.
La
voce del medico lo distrasse dalle sue meditazioni: “Il suo gruppo
sanguigno, capitano.”
“A[1],”
rispose subito il Werwolf.
“Iddio
sia ringraziato,” fu la risposta. “Prego, si tolga la giubba e si
stenda: non c’è tempo da perdere.”
Il
sottile tubo che gli usciva dalla vena era di una gomma opaca, color
arancione spento, per cui non ne vedeva il contenuto. Esso però
sussultava come una specie di piccolo serpente ogni volta che il
medico azionava lo stantuffo dell’apparecchio per la trasfusione.
Il Werwolf pensò che dava l’impressione della vita, che da lui
passava in Maximilian.
Si
augurò solo che ci fosse ancora tempo per rianimarlo, che non fosse
già troppo tardi.
Chiuse
gli occhi. Tutto era silenzio, a parte il fruscio del camice di
Bergmann e rari tintinnii di strumenti. Da qualche punto lontano
proveniva anche un parlare fioco, di una voce che sembrava femminile.
Suppose che la baronessa fosse giunta alla caserma e stesse
domandando a von Ziemssen notizie del figlio.
Si
chiese se il colonnello l’avrebbe portata in infermeria. Immaginò
la severa dama che osservava le procedure della trasfusione più
impassibile di qualsiasi ufficiale del fronte, magari con la ruga
verticale fra le sopracciglia come unica testimonianza del tormento
interiore.
A
quel pensiero si voltò verso Maximilian, che giaceva al suo fianco.
Seguì con lo sguardo il tubicino di gomma che gli portava il sangue,
si fermò al bagliore metallico dell’ago che gli entrava nella
vena.
Non
aveva il coraggio di risalire oltre, lungo il braccio, fino al collo
e poi al viso. Si concentrò su quella cannula d’acciaio,
immaginando il rassicurante, salvifico torrente scarlatto che da esso
entrava e si spandeva nei vasi.
Il
dottor Bergmann gli si avvicinò, gli tastò il polso. Prese da
un’arcella un batuffolo di ovatta e glielo premette sul punto in
cui l’ago gli penetrava nella pelle.
“Cosa
fa?” chiese il Werwolf, squadrandolo diffidente.
Il
capitano medico rispose: “Interrompo la trasfusione.”
“Lui
è già fuori pericolo?”
“No,
ma le ho già tolto molto sangue. Se ne prelevassi di più, sarebbe
lei a rischiare.”
Il
Werwolf gli fermò la mano prima che potesse sfilare l’ago.
“Continui,” ordinò categorico.
Bergmann
entrò nel suo campo visivo. “Cosa?”
“Continui,
ho detto. Vada avanti finché è necessario.”
“Ma
capitano...”
“Vada
avanti.”
L’altro
rimase in silenzio per qualche secondo, il Werwolf immaginò che
stesse riflettendo sulla faccenda. Si avvicinò poi al lettino su cui
giaceva Maximilian, gli tastò il polso, gli misurò la pressione e
corrugò la fronte. Infine disse: “E va bene, continuiamo. Ma mi
fermerò se dovessi accorgermi che lei corre qualche pericolo.”
“Ho
corso pericoli ben peggiori, dottore.”
Bergmann,
di nuovo chino su Maximilian, non rispose.
Von
Thurn und Taxis emise un sospiro. Provò a sistemarsi meglio sul
lettino, ma si sentiva così pesante che faticava a muoversi.
Nonostante gli avessero steso addosso una coperta, cominciava anche
ad avere freddo. La cosa non lo stupì: anche lui stava perdendo
molto sangue.
Chiuse
gli occhi. Forse avrebbe potuto dormire un po’, mentre finivano con
la trasfusione.
Tutto
si fece buio.
[1]
All’epoca il fattore Rh non era ancora stato scoperto, per cui i
gruppi sanguigni conosciuti erano solo quelli principali: A, B, AB e
0.
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