Runaway
Mi misi supina sul telo da mare e chiusi gli occhi in
modo che il sole non li ferisse. “Detesto questo fottutissimo
costume intero,
fa decisamente troppo caldo.”
Muriel si sollevò sui gomiti, si sfilò gli
occhiali da
sole e me li passò, poi mi rivolse un’occhiata
divertita. “Devi imparare a non
farti nuovi tatuaggi d’estate.”
Misi su una smorfia. “Ho imparato a fare nuovi tatuaggi
quando ho i soldi per pagarli.” Afferrai l’oggetto
che mi stava porgendo e lo
indossai.
Gli occhiali da sole erano solo una delle tantissime cose
che io e Muriel condividevamo; da quando ci eravamo conosciute, ormai
quattro
anni prima, eravamo diventate praticamente inseparabili. Era
l’amica più
stretta che ero riuscita a trovare all’Alibi, colei con cui
trascorrevo la
maggior parte del mio tempo, anche se non riuscivo mai ad aprirmi e
confidarmi
del tutto come dovrebbero fare le migliori amiche.
Non ci riuscivo con nessuno a dire il vero.
Lei si sporse appena verso di me e sorrise, alcune
ciocche scure e ancora umide le piovvero sulle guance.
“Dai… perché non mi dici
di che si tratta?”
Risi beffarda e mi passai una mano sul fianco sinistro,
là dove sapevo esserci il nuovo disegno che avrebbe
marchiato a vita la mia
pelle. “No.”
Lei mise il broncio. “Perché?”
“Perché lo vedrete tutti quando sarà
ben guarito!”
“Ma non puoi fare un’eccezione nemmeno per
me?”
Le scoccai un altro sorrisetto. “No. Non sei mica
speciale!”
“Ah no? Rendimi gli occhiali allora!”
Cercò di risultare
minacciosa, ma le sfuggì una risatina.
“Col cazzo, li abbiamo comprati anche con i miei
soldi!”
Lo sciabordio delle onde faceva da sottofondo ai nostri
battibecchi, alle conversazioni e alle risate di tanti altri ragazzi
come noi.
A diversi metri da noi, in riva al mare, alcuni tra i più
piccoli giocavano a
pallone e si insultavano scherzosamente, mentre le loro voci si
mischiavano a
quelle di chi era immerso in acqua e si divertiva a nuotare e schizzare
i
propri amici; dietro di noi, il nostro fatiscente chioschetto di
fiducia era
gremito di gente ammassata attorno ai tavolini e il solito giradischi
sul
bancone diffondeva le note di un album degli AC/DC. Era incredibile
come,
nonostante ci trovassimo nell’anfratto più
malfamato del lungomare di Los
Angeles, si riuscisse a respirare quasi un’atmosfera allegra
ed estiva.
Era una calda mattinata di maggio che io avrei dovuto
trascorrere tra i banchi di scuola, erano passati quasi cinque anni da
quando
ero entrata a far parte della cerchia di scalmanati
dell’Alibi e da allora
nulla nella mia vita era cambiato. Le mie giornate si assomigliavano
tutte tra
loro, e in un certo senso mi andava bene così: uscivo,
andavo al locale,
qualche volta ci spostavamo a Hollywood in qualche altro pub
più in vista,
andavamo ai concerti e alle serate, d’estate ci trasferivamo
tutti sul
lungomare. Si beveva, si fumava, ci si sballava con ciò che
si aveva, si
scopava, si cantava e si ballava, tutto sommato ci si divertiva. Era il
mio
modo per sfuggire al malessere interiore che provavo e alla situazione
disastrosa in casa mia.
Per quanto riguardava quest’ultima, avevo imparato a
starci fuori più tempo possibile: non mancavo mai
all’Alibi, non avevo
rinunciato alla giornata al mare nemmeno quel giorno, nonostante il
tatuatore
mi avesse intimato di non esporre il nuovo tatuaggio al sole. Avevo
dovuto
usare un costume intero, pazienza.
Mancavo solo quando ero troppo malconcia per impersonare
il ruolo della solita Bess, ovvero quando avevo il ciclo –
ormai era tradizione
che stessi da schifo in quei giorni – e quando ero in preda a
un attacco di
panico.
Mentre io e Muriel battibeccavamo e ridevamo tra noi, una
pallonata proveniente dalla riva mi colpì alla gamba e non
ebbi la prontezza di
pararla. Infastidita e incazzata, scattai subito seduta e, una volta
afferrato
il pallone, trucidai con lo sguardo i ragazzini che si accingevano
già a raggiungermi
per riprendersi ciò che era loro.
Presi la mira e tirai dritto alle parti basse di uno dei
due, facendo perfettamente centro. “La prossima volta la
palla lanciatela a
fanculo, okay? Buon proseguimento di partita” li liquidai,
mentre il povero
malcapitato si piegava in due dal dolore.
“Nervosa la ragazza!” commentò Fanny
che, appena uscita
dall’acqua, stava camminando nella nostra direzione e aveva
assistito a tutta
la scena.
Ogni volta che la guardavo non potevo fare a meno di
pensare che fosse una dea: pelle ancora più abbronzata del
solito, fianchi
larghi, fisico da modella di origini caraibiche, bikini azzurro che
aderiva
perfettamente alle forme generose, capelli scuri e umidi che
incorniciavano un
viso angelico.
Nel primo periodo io e Muriel ci sentivamo degli esseri
insulsi in confronto a lei, così minute e anonime, ma pian
piano avevamo
acquisito sicurezza in noi stesse e imparato da lei. A me non
importavano più i
paragoni, perché sapevo perfettamente come attirare
l’attenzione sfruttando i
miei punti forti.
Mi misi in piedi. “Che c’è? Gli ho reso
la palla, tutto
qui!” Mi strinsi nelle spalle e mi guardai attorno.
“Mi sono rotta il cazzo di
stare al sole. Non è che per caso ti serve un telo da
mare?”
Fanny mi sorrise. “Me lo presteresti? Ah, grazie tesoro,
io l’ho dimenticato!” cinguettò.
Restituii gli occhiali da sole a Muriel e mi diressi
verso il portico in legno del chiosco, in cerca di un po’
d’ombra.
“Ehi Bess!” mi intercettò Oliver non
appena mi vide
salire i gradini. “Per caso hai visto Ives, Ethan e
Alick?”
Scrutai per un istante il cantante biondiccio, poi
lanciai un’occhiata attorno a me in cerca dei suoi compagni
di band. “Li ho
visti quanto te. Sicuramente Alick starà amoreggiando in
qualche angolo
appartato con May, mentre Ives e Ethan… staranno
amoreggiando tra loro, non so.
Ma posso prendere un sorso della tua birra, vero?” aggiunsi
poi, accennando al
bicchiere che stringeva in mano.
Lui rise. “Bess Hadley che chiede il permesso per fare
qualcosa?”
Gli sorrisi sorniona, per poi sfilargli la birra di mano.
“Infatti era una domanda retorica.” Presi un lungo
sorso, fresco e ristoratore,
poi gliela resi. “Come mai li cercavi? Qualcosa di
urgente?”
Il ragazzo mise su un’espressione enigmatica. “Se
te lo
dico, prometti di non prendermi per il culo.”
“Non te lo posso promettere.”
“Allora niente.”
Mi puntai le mani sui fianchi per risultare minacciosa.
“Parla o ti rubo nuovamente la birra.”
“Che paura!” ribatté lui in tono ironico.
“Oliver…”
Sospirò. “Da giugno comincio a vendere granite per
le
spiagge e quindi tutte le prove pomeridiane con gli Storm It Down
salteranno.”
Mi morsi il labbro, divenni paonazza, provai qualsiasi
cosa pur di non scoppiare a ridergli in faccia, ma dopo qualche istante
non
resistetti più ed esplosi in un accesso di risa
incontrollabile. “Tu andrai a vendere
granite? Col carretto colorato e tutto il resto?!”
“Sei una stronza! Io non so perché continuo ad
avere a
che fare con una testa di cazzo come te!” si finse offeso
lui, dandomi una
leggera spinta.
“Andiamo, è troppo bello! Un fottutissimo
venditore
ambulante di granite che passa lungo le spiagge con tanto di marmocchi
urlanti
appesi al carretto… Oliv, io ti adoro, prima o poi mi farai
crepare!” Mi
asciugai le lacrime che erano venute fuori a furia di ridere sotto lo
sguardo
torvo di Oliver.
“Non è divertente!”
“Oh, sì che lo è!”
“D’accordo.” Affilò lo sguardo
e una scintilla fece
brillare i suoi occhi verdi; prese l’ultimo sorso di birra,
poi gettò a terra
il bicchiere in plastica vuoto. “Visto che non hai mantenuto
la promessa,
adesso voglio sapere cosa ci nascondi con quel nuovo
tatuaggio!”
“Col cazzo!” Incrociai le braccia al petto.
“Bess Hadley, quel costume ti sta
d’incanto!” La voce di
Viktor alle mie spalle catturò la mia attenzione.
Beh, d’accordo che ero stata costretta a usare un costume
intero, ma non ne avevo certo scelto uno da vecchia zitella: era
ovviamente
nero, aveva un profondo scollo sulla schiena e un complesso intreccio
all’altezza del seno che gli dava un tocco gotico.
Mi voltai verso di lui e gli scoccai un sorriso: almeno
aveva apprezzato la scelta. Certo, a ricevere un complimento del genere
proprio
da Viktor non c’era gusto, ci conoscevamo da quando eravamo
bambini e non me lo
sarei portato a letto nemmeno se fosse stato l’ultimo uomo
sulla Terra.
“Bello, per chi mi hai preso? Mi sta bene qualsiasi
cosa”
ribattei, accostandomi a lui e posizionandomi tra lui e Josh. Le sedie
erano
finite, quindi ero costretta a stare in piedi.
“Nulla da ridire” commentò Josh,
squadrandomi da capo a
piedi con uno sguardo di fuoco.
Gli picchiettai sulla schiena. “Senti un po’, mi
hai
portato la roba che ti ho chiesto?”
Josh era lo spacciatore ufficiale della nostra cerchia,
colui che procurava ogni tipo di sostanza gli venisse chiesta. A quanto
pareva
si riforniva da un certo fratello maggiore di Ethan, ma non ne sapevo
tanto.
Io in genere gli chiedevo soltanto un po’ di marijuana,
sia perché non avevo tanti soldi da sperperare in droghe,
sia perché quella,
l’alcol e le sigarette mi erano sempre bastati. Una volta
avevo provato la
cocaina, ma ero stata inspiegabilmente male per due giorni e non ci
tenevo a
ripetere l’esperienza.
“Te la porto tra poco” mormorò il
ragazzo con fare complice.
“Ehi ragazzi, stasera chi viene al Rainbow? Ci sono un
paio di nuove band che vorrei sentire” propose Oliver, di
ritorno dal bancone
con un nuovo bicchiere di birra.
“Io ci sono!” accettai subito.
La mia vita andava avanti così da quattro anni e mezzo:
tutto allo sbando, tutto alla giornata, ogni ora sembrava promettere
qualcosa
di nuovo ma in fondo era uguale alla precedente. Avevo il culto della
libertà
ma, anche se mi illudevo e fingevo che andava tutto bene, sentivo che
la mia
salvezza – quel mondo, quello stile di vita – era
anche la mia prigione.
Spinsi la porta d’ingresso, leggermente preoccupata per
quello che avrei potuto trovare: non avevo nessuna intenzione di
incrociare mio
padre, nemmeno per sbaglio.
Doveva essere più di una settimana che non lo vedevo,
fatto che accadeva molto spesso. Così come io facevo il
possibile per non
tornare a casa, lui trascorreva la maggior parte del suo tempo tra bar
fatiscenti e qualsiasi altro punto vendita di alcolici. Sembrava
essersi
dimenticato di avere una dimora e io non potevo che ringraziarlo,
perché mi era
ormai impossibile trovarmelo davanti senza sbottare e urlargli in
faccia tutto
il mio disprezzo e odio.
La piccola zona giorno era deserta, ma la voce di mia
sorella mi giunse ovattata dal minuscolo andito che conduceva alle
camere da
letto, in cui tenevamo il telefono.
“Certo, più avanti possiamo metterci
d’accordo… puoi
ricordarmi le date, così le segno?”
Mi diressi verso il frigo e lo aprii, con l’intento di
cercare qualcosa da mettere sotto i denti. Ero quasi al verde
– il tatuaggio mi
era costato caro –, non era il caso di spendere altri soldi
per comprare la
cena d’asporto.
Non c’era tanta scelta, com’era prevedibile;
nessuno si
era preoccupato di fare la spesa.
“Certo, avete fatto bene. Quindi le ragazze non ci
saranno? Ah, capisco! Certo, è comprensibile!
Sarà una bella esperienza anche
per loro, anche perché il nostro quartiere non ha molto da
offrire!”
Afferrai un vasetto di yogurt e mi sedetti al tavolo,
domandandomi pigramente con chi stesse conversando Yelena. Dal tono
cordiale e
le frasi di circostanza che stava utilizzando, doveva trattarsi di
qualcuno con
cui non aveva molta familiarità.
“Sì, certo, se lo incrocio glielo dico. Okay,
allora ci
risentiamo più avanti. Ciao zia, buona serata!”
Zia?! Non ricordavo nemmeno di avere una zia o
comunque non credevo che qualche parente chiamasse ancora a casa nostra.
Udii mia sorella riappendere la cornetta e qualche
istante più tardi eccola che si affacciava sulla soglia.
“Ah, sei tu! Mi pareva
di aver sentito entrare qualcuno!”
“Chi era?” incalzai subito curiosa, mentre mi
portavo una
cucchiaiata di yogurt alle labbra.
Lei prese posto accanto a me. “È una storia lunga.
Allora… hai presente la zia Ruth, la sorella di
papà?”
Rimestai tra i miei ricordi in cerca di qualche
informazione compatibile, ma non mi venne in mente niente.
“Sposata con lo zio Lawrence…”
tentò di aiutarmi lei.
“Ma chi cazzo ci ha mai avuto a che fare con questa
gente?”
Yelena rise. “Effettivamente credo che io e te non li
abbiamo mai incontrati, dato che hanno sempre vissuto a Londra. Ma
qualche
volta hanno chiamato per gli auguri di Natale e stronzate del
genere.”
Mi strinsi nelle spalle, sempre più confusa. Sapevo che
tutti i parenti di mio padre abitavano in Inghilterra, ma non avrei
saputo
ricostruire quel ramo del mio albero genealogico.
“Ecco, comunque… hanno chiamato per dire che hanno
intenzione di fare un viaggio in California
quest’estate.”
“Beh, buona fortuna” bofonchiai con la bocca piena.
“Vorrebbero venire a trovarci, la zia Ruth vorrebbe
rivedere suo fratello dopo tanti anni. Che potevo fare? Le ho detto che
non
c’erano problemi.”
Lasciai cadere il cucchiaino dentro il vasetto semivuoto.
“Ma sei impazzita?! Probabilmente quella nemmeno sa che
nostro padre è un
alcolizzato!”
Lei scrollò le spalle e si sistemò una ciocca
castana
dietro l’orecchio. “Ho spiegato più o
meno questa situazione alla zia, lei si è
dispiaciuta parecchio e ha detto che ci tiene comunque a conoscere noi
due,
visto che non ci ha mai visto.”
Aggrottai le sopracciglia con fare scettico e ripresi a
mangiare. “Dopo sedici anni mia zia si accorge che esisto. Che
culo.”
“Anche lei aveva una famiglia da tirare su.”
“Hanno dei figli?” mi informai.
“Due figlie, gemelle. Ma non so se avremo occasione di
conoscerle perché i genitori hanno intenzione di spedirle in
un campo estivo
sulla costa insieme ad altri ragazzi della loro
età.”
Ero sempre più allibita. “Cioè, fammi
capire: vengono a
fare le vacanze di famiglia in California e al posto di stare tutti
insieme
mandano le figlie in mezzo a un branco di sconosciuti?”
Yelena si strinse nelle spalle. “La gente è
strana. La
zia Ruth ha detto che in questo modo le ragazzine avranno modo di
divertirsi e
godersi davvero le vacanze in California.”
“Secondo me lei e il marito se ne vogliono sbarazzare per
qualche giorno e rilassarsi in pace. Mi stanno già sul
cazzo. E poi quanto
devono essere ricchi per pagare il campo a entrambe le
figlie?”
“Se vengono tutti e quattro a fare un viaggio di dieci giorni
oltreoceano, sicuramente non stanno morendo di fame.” Yelena
si alzò e si
diresse verso l’imboccatura dell’andito.
“Vado a prepararmi per il lavoro. Tu
stasera che devi fare?”
“Il solito: mi faccio una doccia ed esco, probabilmente
andrò in centro con Muriel.”
“Okay.”
Anche da quel punto di vista nulla era cambiato: mia
sorella continuava a fare la prostituta per permettere alla famiglia di
tirare
avanti e per mantenere il vizio di mio padre, che si faceva ogni giorno
più
pesante e dispendioso. La situazione mi faceva ancora incazzare
tantissimo, ma
ormai avevo sviluppato una sorta di rassegnazione a riguardo. Tante
volte avevo
detto a mia sorella di scaricare nostro padre, che ci saremmo potute
creare una
vita senza di lui e che avrei potuto cercare un lavoro per aiutarla, ma
lei non
se l’era mai sentita di cambiare quella situazione. Non
voleva lasciarlo al suo
destino e non voleva che io interrompessi gli studi per andare a
lavorare come
aveva fatto lei.
Studi a cui, peraltro, non mi stavo neanche davvero
dedicando.
“Non è così male fare la donna di
strada” mi aveva detto
una volta, forse più per rassicurarmi che per confidarsi.
“Certo, i clienti non
sempre te li scegli, ma se ti capitano i migliori puoi addirittura
riuscire a
fare del buon sesso e divertirti.”
Le avevo creduto perché, anche se non lo facevo per
lavoro, sperimentavo sulla mia pelle cosa significasse scopare ogni
sera con un
ragazzo diverso.
Una sigaretta tra le dita, camminavo accanto a Muriel con
passo sicuro sul Sunset Strip, quel luogo che ormai conoscevo come le
mie
tasche. Mi comportavo come la padrona di casa e non avevo alcuna paura
di farmi
notare: avevo lasciato i capelli tinti di blu sciolti sulle spalle
nonostante
l’aria bollente dell’estate, mi ero truccata con
cura, avevo scelto i pantaloni
più aderenti che avevo nell’armadio e una canotta
dal tessuto leggero che
lasciava intravedere il mio corpo in trasparenza, ma soprattutto mi
muovevo in
quel modo sicuro e sfrontato che funzionava sempre per calamitare gli
sguardi.
In quegli anni avevo imparato che, ancora più
dell’abbigliamento, era l’impressione che si dava
di sé a determinare il
successo.
Muriel era bellissima, anche se forse non ne era del
tutto consapevole: sembrava la mia gemella, anche se i suoi capelli
erano corvini
e aveva l’aria innocente da brava ragazza che comunque
mieteva le sue vittime.
Pareva più timida e insicura di me, ma non si tirava
indietro quando c’era da
divertirsi coi ragazzi.
E poco importava se eravamo delle poveracce che non
possedevano nemmeno i soldi per prendere un bus e tornare al loro
quartiere:
quella sera ci sentivamo due regine.
Chiacchieravamo di progetti per l’estate –
concerti,
giornate sul lungomare, viaggi che non avremmo mai fatto –,
di tatuaggi e di
ragazzi, prendevamo tempo prima di scegliere un locale in cui entrare a
prenderci un drink, ci guardavamo attorno, salutavamo gente che
conoscevamo di
vista e ragazzi dell’Alibi che come noi avevano deciso di
trascorrere la serata
altrove, ogni tanto ci fermavamo a chiacchierare e flirtare con
qualcuno. Non
avevo paura di portare fuori le peggiori battute sconce del mio
repertorio, di
rubare tiri d’erba e sorsi di alcolici dai bicchieri altrui,
di ridere forte e
attirare l’attenzione; di essere la Bess che mi piaceva di
più, sgraziata e
mascolina ma al contempo sexy e bollente.
Io e Muriel ci fermammo di fronte alla soglia di un
locale piccolo e poco illuminato in cui poco prima avevamo visto
entrare Fanny
e Becky, indecise se fermarci là o cercare qualcosa di
meglio, quando un rombo
di motori alle nostre spalle attirò la nostra attenzione.
Ci voltammo e sul ciglio della strada notammo tre giovani
su tre moto lucide: avevano capelli lunghi, indossavano pantaloni in
pelle e
avevano un’aria da cattivi ragazzi che li rendeva ancora
più interessanti.
Io e Muriel li conoscevamo già, li incontravamo spesso
quando andavamo in giro per lo Strip e spesso ci eravamo finite a letto
insieme.
“Ehi ragazze! Che bomba che siete oggi!” ci
salutò uno
dei due mori, Logan, sfilandosi il casco.
Accennai un sorriso malizioso e mi accostai al suo mezzo
fino a sfiorarne la carrozzeria nera. “Ma salve! Che
c’è di nuovo?”
Con la coda dell’occhio notai che Muriel si era subito
fatta avanti col biondo di cui mi sfuggiva sempre il nome –
Kell o Ken, o forse
era Jen? – come suo solito: aveva una passione per i biondi,
non se ne lasciava
scappare nemmeno uno.
“Solita merda, solito sballo. Tu che hai combinato,
ragazzina?”
Presi un tiro dalla mia sigaretta. “Ragazzina
lo
dici a tua madre” risposi con aria impertinente, per poi
sbuffargli la boccata
di fumo direttamente in faccia. “Ho un nuovo tatuaggio,
comunque.”
Lui sorrise malizioso e si sporse per mollarmi una pacca
sul sedere. “Sei proprio una stronzetta. E di che tatuaggio
si tratta?”
“Eh no, questo lo devi scoprire tu” insinuai,
scuotendo
la testa in modo che le ciocche blu notte mi oscillassero sulle spalle
nude,
poi mi allontanai con una risatina furba e mi accostai a Erik,
l’altro moro.
Stavo per aprire bocca, quando notai un’ammaccatura piuttosto
appariscente sul fianco della sua moto argentea. “Che cazzo
è successo al tuo
gioiellino?”
Lui disse qualcosa, ma il suono del motore mi impedii di
capirlo.
“Cosa?” Mi sporsi maggiormente, sdraiandomi quasi
sul
manubrio.
“Ho detto che è stato uno stronzo con cui ho avuto
una
discussione!”
“E portala ad aggiustare, no?”
“Non ho soldi: abbiamo speso tutto per i biglietti del
concerto dei Mötley Crüe!”
Mi strinsi nelle spalle, poi mi guardai attorno con fare
annoiato. “Sentite, mi sono rotta il cazzo di questo posto.
Ci sapete arrivare
al mare?”
“Per chi ci hai preso, bimba? Ti portiamo anche in capo
al mondo” si pavoneggiò Erik, lanciandomi
un’occhiata infuocata.
“È un viaggio lungo” mi
informò Logan.
“Io ho tutta la notte.” Spostai lo sguardo
dall’uno
all’altro, gettai il mozzicone a terra e poi schioccai le
dita. “Però salgo con
quello che ha la moto migliore!”
Detto ciò tornai da Logan ed ero sul punto di
posizionarmi dietro di lui sulla sella, quando improvvisamente il
ragazzo
allungò una mano e sollevò il lembo della mia
maglia semitrasparente,
scoprendomi il fianco destro. “Ho trovato il
tatuaggio!”
Scoppiai a ridere. “Sei uno stronzo!”
Ammirò la complessa ragnatela in stile gotico che mi
marchiava la pelle pallida, poi accostò le labbra al mio
orecchio. “Ti rende
ancora più hot.”
Sorrisi, poi montai sulla moto e gli strinsi le braccia
attorno ai fianchi, lasciando scorrere accidentalmente una mano verso
il basso,
fin quasi all’altezza del suo inguine. “Portami al
mare e avrai la serata più calda
della tua estate.”
Sentivo l’eccitazione crescere in me, la pelle bollente a
contatto col corpo di Logan e con la sua moto, il vento tra i capelli e
il
cuore pieno di fame di libertà, vita, piacere.
Ero una cattiva ragazza, una stronzetta, una persona
sguaiata e volgare, ma mi divertivo un mondo. Eccome se mi divertivo.
Era il mio turno di essere sulla cima del mondo.
Non ero mai stata brava a recitare la parte della brava
ragazzina davanti ai parenti, non avevo mai conosciuto la tradizione
dei pranzi
di Natale costituiti da sorrisi falsi e conversazioni di circostanza,
non mi
avevano mai insegnato a portare rispetto a zii, cugini e nonni, e
nemmeno a
fingere di portarglielo.
Quando la zia Ruth e lo zio Lawrence arrivarono a casa
nostra, nel giorno che avevano stabilito con Yelena per telefono, io
ero
stravaccata sul divano e mi stavo occupando di una rapida manicure:
tagliavo e
limavo le unghie, avevo intenzione di laccarle di un colore scuro ma
ero ancora
indecisa tra blu notte e viola. In genere quelle erano operazioni che
condividevo con Muriel e Fanny, ma quel pomeriggio avevo promesso a mia
sorella
che le avrei fatto compagnia nell’affrontare gli zii. Non che
mi ci stessi
impegnando troppo.
Ero anche stata tentata di svignarmela, in fondo era stata
Yelena a invitarli a passare da casa nostra, ma la curiosità
mi aveva spinto a
rimanere.
Me ne pentii non appena li vidi entrare nella nostra
piccola cucina insieme a Yelena: li inquadrai come una coppia di
anonimi
inglesi facenti parte della classe borghese, di quelli che vivevano in
una
bella casa a due piani col prato ben curato e delimitato da una
staccionata
bianca, di quelli con la puzza sotto al naso e lo sguardo schivo di chi
sa di
essere superiore. Non avevo nulla da spartire con loro.
“Tu devi essere Beatrix” esordì la zia
Ruth in tono
cordiale non appena posò lo sguardo su di me. Pareva la
fotocopia al femminile
di mio padre: capelli biondi, lineamenti delicati e tipicamente
inglesi,
sguardo mite di chi non vuole osare.
Mi strinsi nelle spalle e continuai ad armeggiare con la
mia lima. “Bess, sì.”
“Molto piacere” esclamò in tono
forzatamente allegro.
“Che bella ragazza! Quanti anni hai? Immagino tu sia
all’incirca coetanea delle
mie figlie.”
Inarcai un sopracciglio. “Perché, loro quanti anni
hanno?”
“Tredici.”
Le scoppiai quasi a ridere in faccia. “Io ne devo
compiere diciassette quest’anno.”
“Ah…”
Yelena attese che anche lo zio Lawrence avesse varcato
l’uscio prima di richiuderlo. “Prego, accomodatevi!
Cosa posso offrirvi?” tentò
di essere gentile.
Yelena era molto più abile di me quando c’era da
trattare
civilmente con gli adulti. Da una parte la ammiravo,
dall’altra mi chiedevo
cosa l’avesse portata a ficcarsi in quella situazione con
quei due sconosciuti
che ci ostinavamo a chiamare zii.
“Niente, siamo a posto, grazie comunque”
affermò la zia,
sistemandosi una ciocca che le era sfuggita dalla coda di cavallo.
Spostai lo sguardo dalla sua sobria figura a quella di
suo marito, un uomo possibilmente ancora più anonimo dai
capelli corti e
castani; non aveva aperto bocca da quand’era arrivato e si
era limitato a un
cordiale gesto di saluto, aveva la tipica aria da impiegato che
lavorava otto
ore al giorno in un ufficio con il condizionatore e un mucchio di
scartoffie
sulla scrivania.
Ma davvero quelli erano miei parenti? Non biasimavo mio
padre per essere fuggito dall’Inghilterra e aver inseguito il
sogno di sposare
mia madre.
La stanza era immersa in un’afa che però era
gelida e
sapeva di disagio, inadeguatezza.
“Allora… Richard non è in
casa?” proseguì la zia Ruth,
accennando un sorriso incerto.
Ecco, era esattamente quello che avrei voluto evitare: le
domande su mio padre. Non sapevo se avrei retto.
“No, ecco…” Yelena prese posto attorno
al tavolo insieme
a loro. “È una situazione complicata. Da quando
mia madre ha avuto l’incidente
lui si è lasciato andare, come ti spiegavo anche al
telefono, e ora io e Bess
stiamo cercando di cavarcela con le nostre forze.”
“Non è una bella situazione”
commentò mestamente la zia.
Che osservazione intelligente. Ci voleva il genio
della lampada per capirlo…
“Sembrava così felice quando è partito
per stare con
vostra madre tanti anni fa… pensavamo che stesse facendo una
follia, pensavamo
che si sarebbe messo nei guai…”
“Invece lui e mia madre stavano benissimo, la vera
disgrazia è stato l’incidente. È da
allora che è diventato un alcolizzato” la
interruppi io, quasi con rabbia. Avevo intuito fin
dall’inizio che la famiglia
di mio padre non avesse accolto con troppa gioia la sua scelta, dunque
ci
tenevo a puntualizzare che non era colpa di mia madre se le cose erano
andate
così.
Se avessero anche solo osato parlar male di mia madre in
casa mia, in casa sua, non avrei esitato un attimo
a buttarli fuori
senza troppi complimenti.
“Mi dispiace tantissimo per lui e soprattutto per
voi”
disse lei in tutta risposta.
“Dispiaciti solo per noi: tuo fratello ha scelto il suo
destino. Nessuno l’ha obbligato a bere fino a sfondarsi il
cervello” me ne
uscii in tono lugubre, poi mi resi conto – anche tramite
l’occhiataccia che mi
lanciò Yelena – che forse avevo un po’
esagerato. Del resto c’erano tante
dinamiche che loro non conoscevano, e Ruth era pur sempre una sorella
preoccupata per il suo fratellino minore.
Beh, non mi importava.
Mi schiarii la gola e sollevai due boccette di smalto per
le unghie. “Blu o viola?”
Yelena mi scoccò l’ennesimo sguardo ammonitore,
poi si
voltò verso gli zii e abbozzò un sorriso,
cercando di prendere in mano la
situazione e portandoci fuori da quell’attimo di tensione.
“Comunque l’ho
avvisato che sareste venuti, sono sicura che tornerà a casa
a momenti.”
Beh, se arriva lui me ne vado io, almeno ho la scusa
per non stare con questi due.
“Comunque, come vi state trovando in California? È
la
prima volta?”
“Molto bella” prese la parola lo zio Lawrence,
cogliendomi di sorpresa. Quindi non era muto!
“Davvero stupenda! Anche le ragazze sembravano entusiaste
quando le abbiamo lasciate al campo estivo… abbiamo avuto
qualche problema con
i mezzi pubblici, ma in linea di massima…” prese a
sproloquiare la zia Ruth, ma
ben presto io smisi di prestare attenzione e cominciai a laccarmi le
unghie con
meticolosità. Figuriamoci se mi interessava
l’andamento delle loro stupide
vacanze borghesi in un hotel a cinque stelle con vista mare.
Ascoltando distrattamente i loro discorsi, appresi che le
gemelle – Crystal e Joice – frequentavano una
scuola privata e avevano una
pagella brillante, che la zia Ruth lavorava come assistente nello
studio di un
avvocato e lo zio Lawrence, esattamente come avevo immaginato, era un
uomo di
ufficio che si occupava di faccende riguardanti il marketing o il
management o
qualche altra fesseria simile. Avevano una casa in un tranquillo
quartiere
residenziale di Londra non meglio identificato, una bella macchina e
amavano le
attività da svolgere tutti insieme in famiglia.
Mi infastidivano.
“E voi invece, ragazze, cosa fate o cosa pensate di
fare?”
La domanda della zia Ruth piovve come un fulmine a ciel
sereno e io, che stavo passando il pennellino intriso di blu notte
sull’ultima
unghia, sollevai il capo di scatto per verificare la reazione di mia
sorella.
Yelena si schiarì appena la gola e si sistemò una
ciocca
castana dietro l’orecchio, segno del suo disagio che solo io
potevo cogliere.
“Io lavoro come cameriera…
beh, in vari locali. Quindi mi divido tra un
bar qua vicino durante il giorno e un pub in centro durante
la notte,
cerco di tenermi il più impegnata possibile
perché… sapete, i soldi sembrano
non bastare mai, praticamente abbiamo solo queste entrate e i datori di
lavoro
non sono poi così generosi” dichiarò
con un leggero nervosismo nella voce.
Logicamente non poteva rivelare che la sua principale occupazione era
quella di
battere per le peggiori vie della città.
La zia annuì con un’espressione contratta sul
viso, quasi
dispiaciuta, poi si voltò verso di me. “Tu,
Beatrix?”
“Studio… più o meno.”
Lei rise. “Più o meno?”
Ma non poteva farsi i cazzi suoi?
Mi strinsi nelle spalle. “La scuola che frequento, ma
tutta la situazione in generale, non mi motivano particolarmente a
studiare.”
“E non hai un obiettivo?”
Sbattei le palpebre, quasi confusa. Era da più di cinque
anni che non avevo obiettivi, se non quello di arrivare a fine giornata
ancora
viva e tutta intera.
“Insomma…” Zia Ruth si mosse sulla
sedia, per la prima
volta da quando era arrivata pareva a disagio. “Cosa ti
piacerebbe fare in
futuro? Non hai un lavoro in testa in particolare, un
sogno…”
“Perché, secondo te qui mi è concesso
sognare?” ribattei
d’istinto, sollevando le mani in segno di resa.
“Non so se vi siete guardati
attorno mentre venivate qui. Vi siete resi conto di che quartiere si
tratta?
Sono nata e cresciuta in un posto in cui le siringhe stanno agli angoli
delle
strade, in cui i bambini giocano con la spazzatura e sulle stesse vie
in cui di
notte avvengono stupri e sparatorie. I miei genitori ci hanno provato a
portarci via da questo posto, era una soluzione provvisoria
perché all’inizio
non avevano tanti soldi, ma poi è successo il casino e
nostro padre si è
arreso, io e Yelena ci siamo arrese, e ora siamo qui.” Feci
una pausa e
richiusi la confezione dello smalto che avevo appena finito di
applicare. “Insomma,
come posso avere un sogno se non mi è mai stato concesso di
sognare? Studio in
una scuola che fa obiettivamente cagare, perché è
l’unica che ci possiamo
permettere, e anche se la completassi il mio titolo di studi non mi
servirà a
niente. Nessuna università accetterebbe tra i suoi studenti
una ragazza del
ghetto, nessun datore di lavoro onesto assumerebbe una disgraziata.
Quindi, se
proprio devo dirvi cosa mi aspetto dal mio futuro… penso che
sarò una morta di
fame, che salta da un lavoro di merda a un altro giusto per campare. E
non
perché l’abbia deciso, ma perché non ci
sono tante alternative.”
Solo allora mi accorsi che nella stanza era caduto un
silenzio assoluto e tre paia di occhi increduli erano rivolti verso di
me.
Quindi mi strinsi nelle spalle e accennai un sorriso,
cercando nella mia mente qualcosa da dire per uscire da quella surreale
situazione. “Beh, se mi va bene possono assumermi in qualche
hotel di Santa
Monica e posso godere anch’io della vista
mare…”
“Però” riprese la parola la zia Ruth
dopo qualche altro
pesante attimo, “immagina di vivere in una situazione
diversa. Cosa potresti
fare?”
Non capivo proprio questo suo insaziabile interesse per
le mie aspirazioni, cominciava a darmi seriamente fastidio.
“Qualsiasi cosa. Potrei fare letteralmente qualsiasi
cosa. Mi piace stare in mezzo alla gente, quindi… un lavoro
in cui si deve
avere a che fare con le persone, non so. Come dicevo prima, non ci ho
mai
pensato.”
“Io le dico sempre che è meglio che continui a
studiare,
perché questo può darle qualche chance in
più” prese la parola Yelena. Era
rimasta palesemente scioccata dal mio discorso: sapeva bene quale fosse
il mio
pensiero a riguardo, ma certo non si aspettava che lo esponessi davanti
ai
nostri zii.
La verità era che non sapevo fingere di essere qualcosa
di diverso da ciò che ero, a maggior ragione se avevo la
possibilità di
sbattere in faccia la merda che era la mia vita a due borghesucci che
un
quartiere malfamato non l’avevano mai attraversato nemmeno
per sbaglio.
Continuammo a chiacchierare del più e del meno, cercai di
partecipare attivamente al discorso senza risultare troppo ostile nel
mentre
che lo smalto si asciugava sulle mie unghie. Continuavo a non digerire
troppo
la presenza di quei due, ma man mano che li conoscevo cominciai a
notare anche
i loro pregi oltre che i loro difetti: lo zio Lawrence parlava poco e
niente,
forse perché era un tratto del suo carattere o forse
perché lo disgustavamo, e
ciò significava che si faceva i fatti suoi e non era di
disturbo; la zia Ruth invece,
nei suoi abiti estivi ma non troppo appariscenti, spesso dimostrava
più
sensibilità e capacità di ascolto rispetto a
ciò che la sua figura composta e
fredda lasciava presagire.
Non era trascorso poi tanto tempo quando la coppia decise
di andar via: il sole stava cominciando a tramontare e, come Yelena
aveva
suggerito loro nei giorni precedenti, era meglio non spostarsi per il
quartiere
quando faceva buio. Che io e lei lo facessimo ugualmente era un altro
discorso,
non eravamo due turiste sprovvedute.
Quando mia sorella aprii la porta d’ingresso per
accompagnarli all’esterno, si trovò faccia a
faccia col volto sfatto di mio
padre.
La zia Ruth sobbalzò incredula e sgranò gli
occhi, per
poi mormorare: “Richard”.
Non appena vidi la faccia del nuovo arrivato, lo stomaco
mi si contorse per il disgusto e la rabbia: era palesemente sbronzo, si
reggeva
in piedi a malapena e aveva quello sguardo stralunato che non avevo mai
imparato a sopportare.
“Ah, perfetto, allora ne approfitto e me ne vado
anch’io!” sbottai, alzandomi dal divano e
sgusciando fuori dall’abitazione come
farebbe una ladra, come se improvvisamente quella non fosse casa mia.
Mio padre parve non notarmi nemmeno, nonostante gli
passai proprio accanto.
Mi allontanai di qualche metro e mi accesi una sigaretta,
inspirando avidamente e tentando di darmi una calmata. Ero arrivata a
un
livello di insofferenza in cui anche solo vederlo mi faceva un male
quasi
fisico.
Alle mie spalle lo sentivo biascicare qualcosa in
risposta a Yelena e alla zia Ruth, li sentivo interagire e parlare in
tono
concitato, ma feci il possibile per ignorarli e fingere che non
esistessero. Ne
approfittai per fare ordine nei miei pensieri: quella sera
probabilmente sarei
andata all’Alibi, il giorno dopo mi sarei recata sul
lungomare con le ragazze –
dovevo ricordare di rendere a Becky la crema solare che mi aveva
prestato
qualche giorno prima! – e quel fine settimana ci sarebbe
stato un concerto
degli Storm It Down a cui ero indecisa se assistere, visto che Fanny ci
aveva
parlato di una nuova discoteca che voleva assolutamente farci
conoscere…
“Tutto bene?”
Sobbalzai e per poco la sigaretta non mi sfuggì di mano;
mi voltai verso lo zio Lawrence, che si era improvvisamente
materializzato
accanto a me, e gli rivolsi un’occhiataccia.
“Ti ho spaventato?”
“Sì.” Era la prima volta che mi
rivolgeva la parola
direttamente, non sapevo come gestirlo.
“Sei scappata” osservò. Pareva a sua
volta a disagio,
pronunciava ogni parola come se non ne fosse sicuro.
Sbuffai fuori il fumo. “È quello che faccio ogni
volta
che mio padre torna a casa, evito di condividere con lui qualsiasi
ambiente.”
Calò il silenzio per qualche secondo, poi lo zio
commentò
in tono piatto: “Non dev’essere bello”.
Quanto detestavo le frasi di circostanza…
Mi strinsi nelle spalle. “La maggior parte delle volte
rincasa in questo stato pietoso, a volte è pure peggio:
certo che non è bello.”
Presi una boccata di fumo e fissai un gattino randagio che, in fondo
alla
strada, giocherellava con un fazzoletto che qualcuno aveva gettato per
terra.
“Avete mai provato a parlarci?”
Risi amaramente. “Ho smesso di provarci anni fa, ho
capito che è inutile. Quindi, per non diventarci pazza,
semplicemente lo evito
e stiamo tutti più sereni, anche se non è bello e
non è facile. Ma sai una
cosa?” Mi voltai verso di lui. “Se restassi dentro
quella casa, l’epilogo della
faccenda potrebbe svolgersi in due modi: o quello là mi
porta al suicidio, o lui
finisce sotto terra e io in prigione. E, anche se non sembra, io ci
tengo sia
alla mia vita che alla mia fedina penale.”
Lo zio Lawrence tacque e lanciò uno sguardo alle nostre
spalle, dove sua moglie stava ancora parlando col fratello. A dirla
tutta lo
preferivo nella sua versione taciturna, dal momento che la zia Ruth era
già
abbastanza ficcanaso per entrambi.
Dopo circa un minuto la donna salutò e prese a camminare
lentamente verso di noi con la faccia di chi è appena stato
al funerale di un
suo parente. Evidentemente, anche se l’aveva perso di vista
anni prima, ritrovare
suo fratello in quelle condizioni l’aveva scossa.
“Sai Beatrix, sei una ragazza davvero matura” se ne
uscì
all’improvviso lo zio, quando sua moglie era ancora a qualche
metro da noi e
non poteva sentirci.
Gli rivolsi un’occhiata stralunata.
Lui si strinse appena nelle spalle. “Sei riuscita a
trovare un modo per affrontare la situazione, e sei stata attenta
affinché
nessuno si facesse male. Molte persone al posto tuo sarebbero
impazzite.”
Gli sorrisi beffarda. “E chi ti dice che io sono sana di
mente?”
Mi sopravvalutava: non poteva nemmeno immaginare quanta
sofferenza ci fosse dietro, quante suppliche a mio padre, quante
lacrime,
quanti attacchi di panico, quanto odio, quante fughe.
Non poteva nemmeno immaginare cosa significasse osservare
quella che sarebbe dovuta essere la mia casa e non
sentirmi a casa per
niente.
“Ci abbiamo riflettuto molto in questi giorni”
esordì lo
zio Lawrence, spostando lo sguardo da me a Yelena e viceversa.
Quella era la terza – e, si supponeva, ultima –
volta che
li vedevamo nell’arco della loro vacanza, che era giunta
ormai al nono giorno e
stava per concludersi. Il caso aveva voluto che tutte le volte
anch’io fossi
presente a casa, nonostante non fosse premeditato.
Ora, seduta al tavolo insieme a loro e a mia sorella,
attendevo con fare scettico che si decidessero a parlare: non appena
erano
entrati in casa, avevano annunciato che dovevano farci una proposta e
che era
il caso di parlarne seriamente e con calma, tutti insieme.
Non che mi fossi esaltata troppo, però ormai ero curiosa.
Si scambiarono uno sguardo, poi la zia Ruth riprese:
“Siete delle brave ragazze, entrambe. Siete intelligenti,
forti, avete tanta
voglia di fare e, nonostante la situazione difficile, non vi siete
arrese e
avete sempre trovato la forza di reagire; siamo fermamente convinti che
sareste
in grado di fare tante cose, se solo ne aveste la
possibilità. Io e lo zio vi
abbiamo osservato molto in questi giorni, abbiamo notato
l’ambiente che vi
circonda e il modo in cui siete costrette a vivere, e pensiamo che non
sia
giusto. Non lo meritate, ma siete capitate in questa situazione senza
poter
fuggire. Vostro padre – mio fratello – avrebbe
dovuto esservi di supporto,
reagire con voi e lottare per voi nel momento più difficile
della vostra vita,
invece ha imboccato una strada sbagliata e a rimetterci siete state
anche voi…
e io, in quanto sua sorella e in quanto vostra zia, mi sento in parte
responsabile.”
“Non potevi saperlo, non avresti potuto fare niente in
ogni caso” la interruppe Yelena, ma la zia sollevò
una mano per fermarla.
“Il punto è che avete bisogno di un aiuto, un
aiuto che
nessuno vi ha mai dato ma che meritate, perché dovete essere
libere di vivere
come due ragazze di diciassette e ventitré anni. E noi, che
siamo gli unici
parenti con cui siete in contatto e abbiamo la possibilità,
vogliamo darvelo.”
Improvvisamente il cuore mi era finito nella gola, la
pelle mi si era imperlata di sudore ovunque e l’aria si era
fatta più calda e
rarefatta. Non sapevo assolutamente cosa aspettarmi, ma avevo
l’impressione che
fosse qualcosa di grosso. Già solo il fatto che qualcuno
volesse aiutarci in
qualsiasi modo, anche solo regalandoci un paio di vecchie scarpe, era
una
novità sufficiente a destabilizzarmi.
La zia fece una pausa, prese un sorso d’acqua e
proseguì:
“Vi stiamo offrendo la possibilità di trasferirvi
a Londra con noi”.
“Cosa?!” esplosi, incapace di
trattenermi.
Zio Lawrence annuì. “Cambiare aria potrebbe farvi
bene,
potrebbe essere l’occasione di lasciare questa casa e questo
quartiere, anche
solo temporaneamente. Potremmo aiutarvi dal punto di vista economico
finché ne
avrete bisogno, potreste stare a casa nostra che è molto
grande, se vi va
potreste riprendere con gli studi o vi potremmo aiutare a trovare un
lavoro… in
un luogo migliore e con delle migliori condizioni.”
Non sapevo nemmeno a cosa pensare, come reagire – non
sapevo nemmeno se stessi ancora respirando, se fossi ancora viva, se mi
trovassi dentro un sogno. Riuscivo soltanto a guardare con occhi
sgranati
quelle due persone che poco più di una settimana prima erano
dei perfetti
sconosciuti e ora invece mi stavano aprendo la loro casa.
“Perché? Cioè, perché lo
volete fare, se ci conoscete a
malapena?” mormorò Yelena, anche lei sotto shock.
Lo zio accennò un sorriso, forse il secondo che gli
vedevo fare da quando lo conoscevo. “Possiamo farlo;
perché no?”
“Abbiamo capito che siete due persone leali e dotate di
buon senso, siamo certi che vi possiamo dare piena fiducia e speriamo
che in
questo modo vi possiate costruire quel futuro che non avete mai avuto.
E poi
facciamo pur sempre parte della vostra famiglia.”
Io ormai ascoltavo solo distrattamente; la mia mente era
già partita verso Londra, mi immaginavo già sui
pullman rossi a due piani, tra
le pittoresche strade di Camden, con la bocca spalancata davanti
all’immensità
del London Eye e lo stadio di Wembley, sulle famose strisce pedonali di
Abbey
Road. E immaginai tutto questo come se facesse parte della mia vita di
tutti i
giorni.
Era talmente bello che facevo fatica perfino a pensarlo.
Lanciai un’occhiata colma di emozione a mia sorella, ma
non riuscii a leggere la risposta nei suoi occhi. Forse era in dubbio
perché
era una persona orgogliosa, detestava chiedere aiuto e sentirsi in
debito con
gli altri; dopotutto però se gli zii avevano deciso di farci
una proposta del
genere voleva dire che ne erano sicuri e che se le sentivano, che non
sarebbe
stato un peso per loro.
Mi costrinsi a tornare con i piedi per terra e prestare
nuovamente ascolto alla conversazione in atto: Yelena, esattamente come
avevo
immaginato, aveva preso a borbottare che era qualcosa di troppo grande,
che non
potevamo accettare e che nel caso saremmo sempre state in debito.
“Ovviamente potete prendere tutto il tempo che volete per
pensarci, non possiamo pretendere che prendiate una decisione
così importante
nel giro di qualche ora. Ma, qualsiasi cosa sceglierete di fare alla
fine,
sappiate che per noi è un vero piacere e non lo facciamo per
avere qualcosa in
cambio, ma soltanto perché vogliamo il vostro
bene” disse la zia Ruth,
l’espressione più serena del mondo dipinta in viso.
Improvvisamente avevo una voglia matta di saltarle al
collo, riempirla di baci e ringraziamenti, implorarla di portarmi
subito via di
lì. Alla sola idea di non vedere mai più quel
tavolo sempre incrostato, quelle
sedie sempre vuote, quelle pareti sempre fredde, quelle strade piene di
scarti
e la faccia di mio padre mi veniva da piangere.
“Grazie” riuscii soltanto a mormorare, la voce
rotta da
un’emozione che mai avevo provato prima e a cui non sapevo
dare un nome.
Da una settimana viaggiavo a tre metri da terra, su una
nuvola di gioia che solo io potevo vedere. Mi svegliavo pensando a
Londra e mi
addormentavo pensando a Londra.
Non ne avevo ancora fatto parola con nessuno dei miei
amici, avrei annunciato la notizia alle persone che mi stavano
più strette solo
quando fossi stata certa di partire davvero. La zia Ruth e lo zio
Lawrence
erano ripartiti per l’Inghilterra ormai, ma non li avevo
ancora chiamati per
dar loro conferma.
Oltretutto io e Yelena, tra i mille impegni delle nostre
giornate, non avevamo ancora avuto occasione di riparlarne seriamente.
“Ma ci pensi? Io e te che ricominciamo tutto a
Londra!” esclamai
mentre, davanti allo specchio, applicavo l’ombretto scuro
sulla palpebra
destra. Tramite lo specchio lanciai un’occhiata a mia
sorella, che si trovava
alle mie spalle ed era appena uscita dalla doccia, poi ripresi a
parlare. “Alla
fine è quello che abbiamo sempre voluto, no? Quante volte
abbiamo detto che
saremmo scappate insieme, che ce l’avremmo fatta e che ci
saremmo lasciate alle
spalle tutta questa merda? Ma mai ci saremmo aspettate che fosse
così facile…
chi se l’aspettava questa proposta? E poi Londra è
praticamente dall’altra
parte del mondo, cazzo! Se avessi i soldi, partirei anche
adesso!”
“Beh, Bess, non è mica tutto bianco o tutto
nero” esalò
mia sorella mentre si tamponava i capelli con un asciugamano.
Mi voltai verso di lei, poi afferrai un rossetto
dall’astuccio dei trucchi e tornai a rivolgermi allo
specchio. “Beh,
ovviamente. Ora lo sto dipingendo come qualcosa di fottutamente
esaltante – lo
è, cazzo! – ma è normale che ci saranno
delle difficoltà. Chi se ne fotte,
tanto non saranno mai gravi come quelle che abbiamo qui.”
“Bess.”
Il tono perentorio che utilizzò per chiamarmi mi
costrinse a voltarmi, leggermente allarmata.
“Sì?”
“Io non ho mai detto che avevo intenzione di
accettare.”
Mi puntai le mani sui fianchi e aggrottai le
sopracciglia. “Ancora con questa storia del debito eterno con
gli zii e del
fatto che non possiamo accettare qualcosa di così grande? Ci
hanno detto di non
preoccuparci, no? Poi noi siamo delle persone oneste e non appena ci
saremo
sistemate restituiremo loro tutto! Non ti sembra un buon
compromesso?”
“E se non fosse per quello?” ribatté lei
dopo qualche
secondo con titubanza, forse timorosa della mia reazione.
Sentii il sangue defluire dal viso. “Cosa?!”
Lei sospirò. “Ecco, adesso con te non si
può più parlare,
ti stai già incazzando.”
“Ma di cosa dobbiamo parlare? Pensavo fosse palese,
insomma… pensavo fosse scontato! È da quando
eravamo delle poppanti che
parliamo di scappare, di farci una vita altrove, di andare
via!” cominciai a
inalberarmi.
“Ma nessuno te lo vieta.”
“Ah, a me. E tu allora?”
Lei mi diede le spalle con la scusa di raccattare i
vestiti e indossarli, ma sapevo che l’aveva fatto apposta per
non incrociare il
mio sguardo. “Se tu vuoi partire, chi sono io per
impedirtelo? Ma non sono
costretta ad accettare a mia volta, se invece preferisco restare
qui.”
“Cioè, un attimo… quindi secondo te ci
dovremmo dividere?”
sbottai, la voce intrisa di isteria.
Non sapevo nemmeno più definire se quello che mi stava
montando dentro era rabbia o semplicemente terrore allo stato puro.
Tutto mi
sarei aspettata dalla mia vita, ma non di affrontare una conversazione
come
quella, non di sentirmi dire quelle cose proprio da Yelena.
Lei tacque ma, anche se non potevo vederla, mi accorsi
che annuiva impercettibilmente.
Avevo voglia di picchiarla, di distruggere il bagno, la
casa, il mondo.
“Cosa cazzo stai dicendo? Ma tu sei completamente
andata!” gridai con tutto il fiato che avevo nei polmoni.
Lei, con addosso solo mutandine e reggiseno, si voltò
finalmente verso di me. “La smetti di urlare? Spiegami cosa
c’è di male: non
tutti possiamo avere le stesse aspirazioni.”
“Sai com’è, fino a ieri che io sappia la
nostra
aspirazione era stare unite contro tutto e tutti! Piuttosto, spiegami tu
perché ora non vuoi partire! Spiegami perché
dall’oggi al domani hai cambiato
tutti i nostri progetti e vuoi restare in questo posto di merda, porca
puttana!
Dimmelo! Dimmi: cosa ti trattiene qui? Cos’hai da
perdere?”
Lei non rispose, nei suoi occhi lessi una profonda paura
ma in quel momento non mi importava.
“Nostro padre, eh? Quel pezzo di merda? Vuoi continuare a
mantenerlo per tutta la vita e perdere tutte le occasioni?”
“Non è per lui.”
“E allora per chi? Chi hai da perdere? Chi ti resta, se
io me ne vado?” continuai a sbraitare.
Lei afferrò l’abitino che indossava sempre quando
andava
a battere e lo infilò in silenzio.
“Non mi hai risposto!” le feci notare.
“C’è qualcuno, okay?”
“Qualcuno chi?”
“Cosa te ne importa?”
“Scusa, ma penso di avere il diritto di sapere per chi
stai infrangendo le promesse che mi hai fatto per anni e anni, non
credi?”
Lei sospirò e borbottò qualcosa di
incomprensibile.
“Cosa?”
“Ho detto: Mark.”
Volevo morire. Avevo davvero sentito un nome maschile
uscire dalle labbra di mia sorella? Lei mi stava tradendo in quel modo per
un ragazzo?
Impiegai qualche secondo a digerire il colpo. “Chi cazzo
sarebbe Mark?”
“Un cliente.”
“Un cliente?!”
“Ma non è come tutti gli altri,
lui…”
“Ho capito, chiudiamo il discorso.” Lanciai il
rossetto
sulla specchiera con rabbia, le mani mi tremavano e sentivo che se non
avessi
lasciato subito la stanza avrei potuto fare qualcosa di cui pentirmi.
“Senti un po’, innanzitutto non hai il diritto di
gridarmi contro in questo modo e nemmeno di giudicare le scelte che
faccio! Io
ho tutto il diritto di restare qui, che sia per un uomo, che sia per
nostro
padre o che sia perché in questo posto del cazzo mi trovo
bene e sono contenta
di marcire qui! Questo non implica che non ti vorrò bene
ugualmente, ma
possiamo entrambe prendere le nostre decisioni, o lo puoi fare solo tu?
Vuoi
partire a Londra e all’improvviso dobbiamo essere tutti
pronti a seguirti?”
Il cuore rischiava di esplodermi nel petto. Non aveva
capito un cazzo, non aveva assolutamente idea di cosa tutto
ciò significava per
me.
Feci per lasciare il bagno, ma quando fui sulla soglia mi
fermai e mi voltai nuovamente verso mia sorella e le lanciai
un’occhiata
velenosa. “Sei una stronza, una traditrice e
un’egoista. Ti sei dimenticata di
tutte le volte che mi hai fatto delle promesse, ti sei dimenticata di
quanto mi
hai detto che ci saresti stata sempre, che non ci saremmo mai separate,
che ci
saremmo sempre salvate a vicenda. Ti sei dimenticata di tutti i sogni e
i
progetti, delle promesse che abbiamo fatto a nostra madre quando
eravamo
abbracciate a piangere e speravamo che lei ci vedesse
dall’alto, ti sei
dimenticata di tutte le volte che abbiamo fatto fronte comune davanti a
nostro
padre, ti sei dimenticata della rabbia e della speranza che abbiamo
condiviso.
Questo è il tuo modo per dimostrarmi che non mi lascerai mai
sola, eh? Questo
per te significa stare per sempre insieme, scappare, costruirci un
futuro
altrove con le nostre forze? Hai dimenticato tutto, hai rinnegato
tutto, e
l’hai fatto per una testa di cazzo che ti scopa come fossi
una bambola
gonfiabile e poi insieme alla grana ti dà una carezza per
farti stare buona,
per un pezzo di merda che dopodomani ti scaricherà
perché sei soltanto una
puttana come un’altra e per lui non vali niente. Per questo
rovini tutta la tua
vita e anche la mia, infrangi tutte le promesse, ti fotti il
futuro… che cazzo
devo dirti, eh? Pensavo di averti dalla mia parte, invece sei come
tutti gli
altri! Sei una merda, sappilo, sei una delusione, e spero che tu
rimanga qui a
marcire e vivere la tua vita da troia fallita per il resto dei tuoi
giorni!”
Sferrai un pugno allo stipite della porta, mentre lacrime di rabbia
infuriavano
con impeto sul mio viso.
Yelena era ammutolita, mi guardava con occhi sgranati e
terrorizzati come fossi un’aliena proveniente da un altro
pianeta.
“Adesso io me ne vado, mi sbronzo per bene, e domani
quando esco dall’hangover la prima cosa che faccio
è chiamare la zia per dirle
che mi sto fiondando a Londra, e sai
perché? Perché oggi ho capito che
qui non mi è rimasto davvero più niente, e
soprattutto spero di dover vedere il
meno possibile la tua faccia del cazzo!”
Anche Yelena aveva cominciato a piangere in silenzio, ma
le sue lacrime non contavano nulla per me in quel momento; girai i
tacchi e,
senza alcun ripensamento, corsi fuori di casa e sbattei la porta
talmente forte
che le pareti tremarono. Sperai che crollassero, come erano crollate le
mie
certezze e com’era crollato il mio intero mondo.
Camminai e piansi come una disperata, rovinandomi il
trucco e singhiozzando come una bambina. Come al solito nessuno si
interessò a
me, da quelle parti si era abituati a vedere scene ben peggiori.
Non capivo perché la mia vita dovesse per forza rivelarsi
una catastrofe totale. Ma, nonostante i drammi che mi ritrovavo a
vivere ogni
giorno, nulla era paragonabile a quella rottura se non la morte di mia
madre.
Tutti i legami più forti e importanti nella mia vita si
erano rotti; avevo
sedici anni, ero sola al mondo e avevo vissuto dei lutti troppo pesanti.
Se l’Alibi non fosse esistito, avrei cercato un posto
tranquillo per suicidarmi in pace.
Invece, con le guance incrostate di trucco. spinsi la
solita porta sudicia che cadeva a pezzi, mi diressi a passo di marcia
verso il
bancone e, senza nemmeno controllare chi ci fosse dietro e se mi stesse
ascoltando, annunciai: “Voglio l’alcolico
più forte che c’è a
disposizione”.
Nonostante la mia sete di cambiamento e il mio disprezzo
verso il luogo in cui vivevo, amavo l’Alibi e tutte le
persone che stavano al
suo interno.
Quando avevo chiamato la zia Ruth per annunciarle che
sarei andata a Londra, il mio primo pensiero era corso ai miei amici e
a quanto
mi sarebbero mancati nonostante tutto. Era stato grazie a quel luogo e
a quelle
persone che ero riuscita a sopportare la situazione di merda che avevo
in casa,
non riuscivo nemmeno a contare le volte in cui mi ero divertita e mi
ero
lanciata in avventure pazze e sconsiderate, non contavo più
le uscite con le
ragazze per le strade di Hollywood, le risate sul lungomare, i
concerti, le
sbronze, le notti insonni e le nuove conoscenze, il sesso, i momenti
spensierati trascorsi senza badare al passato e al futuro.
Era quello, in fondo, il luogo in cui ero diventata
grande. Avevo all’incirca altri sei mesi per godermelo prima
di lasciarlo
andare, un lasso di tempo che in quel momento mi sembrava brevissimo.
I miei zii avevano programmato il mio trasferimenti per i
primi mesi dell’86, l’anno seguente,
così da poter gestire con calma tutte le
faccende burocratiche, in modo che loro potessero dare con calma la
notizia
alle figlie e preparare per me la loro stanza degli ospiti. Il
pochissimo tempo
in cui stavo a casa lo trascorrevo al telefono con la zia per discutere
sul da
farsi e su come organizzarsi.
Ma ormai la mia dimora la evitavo come contenesse un focolaio
di peste, perché avevo ben due persone da evitare: mio padre
e mia sorella.
Quel giorno di metà settembre mi ero trascinata al locale
nonostante fossi a malapena nelle condizioni per alzarmi dal letto e
camminare.
Ormai non c’era scusa che tenesse: per stare lontana da casa
ero pronta a
sfidare anche il ciclo, l’unico motivo che in genere era in
grado di tenermi
tra le mura domestiche. Era qualcosa di devastante, mi provocava dolori
talmente forti che certe volte mi portavano a rimettere o a svenire,
temevo
terribilmente quell’appuntamento mensile.
Così, più pallida del solito e con un make up
approssimativo, me ne stavo addossata alla parete esterna accanto alla
porta
d’ingresso, laddove i ragazzi si radunavano durante il
pomeriggio per fumare,
chiacchierare e sperare in qualche soffio di vento ristoratore. In
genere io e
le ragazze che frequentavo arrivavamo un po’ più
tardi, ma avevo voglia di
vivere al massimo quegli ultimi mesi losangelini. Fosse stato per me,
all’Alibi
ci avrei pure dormito.
Presi una boccata di fumo e mi guardai attorno: nessuno
sembrava fare caso a me, nessuno si accorgeva che stavo male. Non
succedeva mai,
ero davvero brava a camuffare i miei malesseri e i miei stati
d’animo negativi,
ma quel giorno non mi ci stavo nemmeno impegnando e constatare che
tutti se ne
fregavano del mio volto cereo e del mio aspetto trasandato non mi
faceva
piacere. Dopotutto ero una persona che mirava a stare al centro
dell’attenzione.
Alcuni ragazzi, tra cui i componenti degli Storm It Down
eccetto Oliver, giunsero al locale e mi passarono accanto per entrare.
Li
salutai e in cambio ricevetti un cenno da Ethan e un sorriso da Ives,
Alick e
May, ma null’altro. Li vidi scomparire oltre la pesante porta
e sbuffai,
chiedendomi cosa ci facessi lì. Pareva quasi che se non mi
impegnavo ad
attirare l’attenzione, nessuno si accorgeva di me.
“Ehi, Bess!”
Mi sorpresi nel notare che Ives si era staccato dal
gruppetto e mi aveva raggiunto, posando a sua volta una spalla alla
parete
scaldata dal sole. Qualche volta in effetti capitava che ci fumassimo
una
sigaretta insieme, visto che condividevamo quel vizio.
“Ehi” replicai senza troppo entusiasmo, tenendo lo
sguardo basso.
“Tutto bene? Hai una faccia stranissima, l’ho
notato
subito non appena ti ho visto” mi domandò
preoccupato.
“Oh, finalmente qualcuno che se ne accorge”
borbottai con
un filo di voce. Ed era paradossale che a chiedermelo fosse stato un
ragazzo
che in fondo conoscevo a malapena.
Rivolsi lo sguardo all’ingresso del locale, domandandomi
se qualcun altro ci avrebbe raggiunto, ma ciò non avvenne.
Mi veniva da
vomitare pure per il malumore, oltre che per i dolori lancinanti che mi
trafiggevano la pancia.
“Cos’hai?” si allarmò allora,
notando la smorfia di
sofferenza sul mio viso.
“Non potresti capire.”
“Perché?”
“Perché sei un uomo.”
Scrutai il suo viso che per diversi secondi fu una
maschera di confusione, poi parve capire e annuì.
“Cazzo, mi dispiace. Non ti
avevo mai visto così…”
“Beh, diciamo che in genere me ne sto a casa mia e non
rompo il cazzo a nessuno con i miei drammi e i miei dolori.”
“E come mai oggi sei uscita lo stesso?”
Come potevo spiegarglielo?
Venni colta da un capogiro e serrai per un attimo le
palpebre. Stavo davvero di merda.
“Bess?” mi richiamò Ives, afferrandomi
d’istinto un
braccio.
Mi venne da ridere. “Ives, sono poggiata alla parete, non
cado. Tranquillo.”
Lui sorrise a sua volta. “Ah già.”
Lasciai trascorrere qualche istante di silenzio, in cui ognuno
inspirò una boccata dalla propria sigaretta.
“Sai… tra qualche mese mi trasferisco a
Londra” me ne
uscii all’improvviso. La notizia in ogni caso si sarebbe
diffusa, prima o poi
l’avrei data da tutti, tanto valeva cominciare da qualche
parte.
“Cosa?” sbottò il ragazzo sorpreso.
Annuii.
“Ma è fighissimo! Cioè… cosa
si dice in questi casi,
congratulazioni?” si entusiasmò lui, per poi
ridacchiare.
Non potei fare a meno di sorridere a mia volta: mi aveva
sempre fatto una gran tenerezza.
“Già. Andare via da qui è sempre stato
il mio sogno,
quindi inutile dire che sono al settimo cielo.
Però…”
“Perché deve esserci sempre un però?”
commentò lui
ironico.
“Perché la vita è una merda e tutte le
cose devono essere
per forza complicate” risposi ridacchiando.
“Però…?”
Mi guardai attorno e accennai a ciò che ci circondava.
“Questo è il posto in cui sono cresciuta, la gente
che è cresciuta con me, e
anche se odio ammetterlo tutto ciò mi mancherà.
In fondo è questo il posto che
ho sempre considerato casa… ed ecco,
è per questo che sono venuta qui
nonostante stessi da schifo: voglio godermi ogni momento che mi rimane
qui, con
voi.” Ero tentata di distogliere lo sguardo dalle iridi
azzurre del mio
interlocutore, perché detestavo parlare di questioni
così delicate e nel contempo
permettere agli altri di leggermi dentro, ma ero curiosa di sapere come
avrebbe
reagito.
Lui annuì, si scostò una ciocca corvina dal viso
e buttò
fuori una boccata di fumo. “Sai, c’è una
frase che Ethan dice a volte, che ho
sempre trovato molto bella e che è perfetta per questa
situazione; non so dove
l’abbia sentita, non so se è opera sua, ma in ogni
caso te la voglio dire. Casa
tua, Bess, si trova ovunque andrai. Il concetto, insomma, è
che forse non
apparteniamo davvero a un luogo, ma sono i luoghi in cui noi siamo che
ci
appartengono, e quando li lasciamo li portiamo sempre dentro. Quando tu
partirai per Londra l’Alibi non scomparirà, noi
non scompariremo, e anche se
dovesse esplodere tutto – speriamo che non capiti,
perché comunque qui ci sono io
– l’Alibi non scomparirà mai dentro di
te, te lo porterai sempre appresso. Ora
non so se quello che ho appena detto ha un senso perché oggi
ho già fumato e
bevuto abbastanza, ma ciò che volevo dire
è… questo posto è casa tua
perché
l’hai reso tale, perché qui ci sei tu e ci sono le
persone con cui vuoi stare,
ma qualsiasi posto potrà essere casa tua. E se un giorno
vorrai tornare qui,
noi ci saremo ancora, a perdere tempo tutto il giorno e ad
aspettarti.”
Concluse il suo discorso un po’ serio e un po’
sconclusionato con un sorriso
raggiante.
“Dovevi fare il filosofo, non il bassista” ribattei
con
una risatina; era il mio modo di ringraziarlo.
All’improvviso una fitta più forte delle altre mi
sorprese e mi piegai appena in avanti, strizzando gli occhi.
“Porca troia…”
“Bess, non svenire! In genere sono io quello che collassa,
non so cosa si fa!” si allarmò subito Ives.
“Essere una donna è una merda… okay,
sto bene.” Mi
raddrizzai e cercai di darmi un contegno, anche se la situazione non
sembrava
migliorare. “Forse è il caso che entro e mi siedo
da una parte, prima di
collassare per davvero.”
“Ma, senti…”
“Dimmi.”
Ives sorrise. “Possiamo fare il brindisi di addio quando
sarà il momento di andare a Londra?”
“Col cazzo, io detesto gli addii e le cerimonie
inutili!”
“Dai…”
“Ho detto: col cazzo!”
Mi sarebbero mancati i momenti come quelli.
Ma forse Ives – anzi, Ethan – aveva ragione: come
avevo
reso quel posto casa mia, avrei potuto trovare una dimora anche a
Londra, anche
in ogni angolo di mondo.
E forse avrei trovato delle altre persone a cui affidare
un piccolo pezzetto del mio cuore.
♠
♠ ♠
CE
L’HO FATTA.
HO
SCRITTOOOOOOOO FINALMENTE HO SCRITTOOOOOOO E PIU’ DI
DIECIMILA PAROLE, PIANGOOOOOOO!!!!!!
Scusate
quest’esordio per niente professionale, ma esco
da un blocco dello scrittore che mi ha tolto la gioia di vivere (?) e
riuscire
a scrivere un capitolo del genere di getto è una
soddisfazione immensa! Non so
assolutamente come sia venuto il capitolo ma sono talmente al settimo
cielo che
non fa nulla anche se dovesse fare schifo AHAHAHAH sono felicissima che
sia
venuto fuori!
Anche
perché tengo tantissimo a questa raccolta e la
volevo aggiornare *________________*
Dunque, qui
abbiamo un bel po’ di colpi di scena, come
vedete ^^ forse chi segue la serie alcune cose le aveva già
intuite, oppure
avrà trovato risposte a domande che si poneva da tempo, per
esempio: cosa ha
spinto Bess a trasferirsi a Londra?
Alcune delle
scene iniziali, che sembrano inserite per
“temporeggiare”, in realtà le ho pensate
apposta per dare un’idea di come la
ragazza vive e di come effettivamente le cose siano rimaste immobili
dal
capitolo scorso ^^
Sono molto
curiosa di sapere che ne pensate del conflitto
tra Bess e Yelena, che è stata una delle scene
più dure da scrivere per quanto
riguarda i contenuti… senza dubbio Bess ha avuto una
reazione tremenda, in
parte potrebbe avere ragione ma d’altro canto deve capire che
lei e Yelena non
saranno per sempre insieme in ogni caso… ah, Bess…
La smetto di
divagare e lascio a voi i commenti, ma
intanto segnalo alcune note/riferimenti.
Il fatto che
Oliver dovesse passare l’estate a vendere
granite sul lungomare appare anche nella storia “The only way
I can love”,
forse qualcuno se lo ricorderà… ed è
stato proprio durante l’estate dell’85!
Molti
riferimenti, come quello del solito chiosco
fatiscente sulla spiaggia e la band degli Storm It Down (formata da
Oliver,
Ethan, Ives e Alick) compaiono in altre storie della serie, ma qui
risultano
comunque marginali e spero non abbiano compromesso la comprensione
della
storia!
Hollywood, in
particolare alcune boulevard come il Sunset
Boulevard, sono famosi (e lo sono stati soprattutto negli anni Ottanta)
per i
famosi locali che ospitavano le rock band del momento, attorno a cui
ruotava
tutta la vita notturna losangelina.
Infine la frase
che Ives riporta a Bess, “Casa tua si
trova ovunque andrai”,
è già comparsa in una mia storia e forse qualche
attento lettore l’ha riconosciuta. Si tratta di una frase che
Arthur, uno dei
fratelli maggiori di Ethan, dice a quest’ultimo quando
è ancora bambino nella
shot “The world is yours, take it all”. Ho trovato
plausibile che questa frase
gli sia rimasta dentro e che l’abbia ripetuta qualche volta
davanti a Ives, il
suo migliore amico!
Insomma, spero
che questa chilometrica lettura non vi
abbia affaticato troppo (XD) e… ci vediamo presto col
prossimo e ultimo
capitolo, prometto di non far attendere altri quattro mesi XD
Alla
prossimaaaaa! ♥
|