Jean
spalancò la porta della cucina con tale furia che questa
sbatté
contro la credenza a fianco e fece tintinnare tutti i bicchieri.
«Ho
trovato!» urlò, senza neanche guardare chi ci
fosse dentro quella
cucina.
Beatris,
appoggiata a un bancone, sussultò dallo spavento e
urtò una pila di
pentole, bicchieri, padelle e piatti che erano state messe l'una
sopra l'altra a formare una torre. Una posizione insolita, che ne
causò il crollo definitivo non appena lei lo
toccò, nello spavento.
Cercò di salvare il possibile, si dimenò come un
pesce fuor
d'acqua, afferrò un bicchiere, tirò per sbaglio
un calcio a una
padella, provò a prendere una pentola, ma perse infine
l'equilibrio
e il resto delle cose finì col caderle addirittura
addosso.
Dall'altro
lato della cucina, Sasha, Connie e Reiner alzarono solamente gli
occhi per controllare cosa fosse appena successo, ma non intervennero
per salvare l'amica dalla disgrazia. Si assicurarono dalla loro
posizione che fosse tutto a posto, e appurata la sanità di
Beatris
tornarono a cucinare, troppo immersi e impegnati per preoccuparsi
d'altro. Armin, di fianco a Beatris, sussultò e le si
inginocchiò
vicino. Le tolse una pentola da sopra la testa che le copriva il
volto e le chiese, spaventato: «Stai bene?»
«Mi
hai fatto prendere un colpo, Jean!» rimproverò
questa, puntando un
dito contro il ragazzo sul ciglio della porta.
«Che
stavi combinando?!» chiese Jean, guardando ciò che
restava della
torre di stoviglie e pentole.
«Mi
annoiavo! Ti stavamo aspettando» gli ruggì contro,
arrabbiata con
lui come fosse stata colpa sua. Armin si alzò in piedi e
cominciò a
sistemare silenzioso, e da solo, tutto il disastro che era appena
stato causato.
«Potevi
evitare di usare anche la ceramica, però»
sospirò, prendendo una
scopa e iniziando a spazzare via i cocci da terra. Ma Beatris nemmeno
lo ascoltò, troppo impegnata ora a litigare con Jean.
Passava da un
insulto a un altro senza alcuna logica, accusandolo di qualsiasi cosa
le passasse per la testa. Probabilmente c'era qualcosa nel sangue
della famiglia di Eren che li portava a non andare d'accordo con
Jean, sembrava così assurdamente simile a lui ora. E
proseguirono,
rumorosi, come due bambini, fino a quando non intervenne Connie,
dall'altro lato della cucina.
«Smettetela
voi due, qui stiamo cercando di lavorare!» gridò,
infastidito.
Il
bisticcio tra Beatris e Jean era così senza senso e
così
superficiale, che bastò veramente quel misero rimprovero a
zittirli.
«Ho
trovato cosa cucinare» disse Jean, tornando improvvisamente
sereno.
«Sul serio?!» chiese Beatris, assurdamente anche
lei più serena,
anzi addirittura entusiasta. Jean annuì, deciso, e
poggiò un
cartone di uova sul banco con determinazione, mostrandole
così a
Beatris e Armin. Non disse niente, aspettò la loro reazione,
che non
tardò ad arrivare.
Confusi,
ma curiosi: «Un pasticcio?» chiese Armin.
«Una
torta?»
«Forse
qualche ricetta particolare con le uova? Un modo nuovo di
cucinarle?»
ipotizzò Armin, guardando Jean che con orgoglio negava tutte
quelle
proposte. E infine disse: «Faremo
un’omelette».
Nessuna
reazione. Da parte dei due compagni non vi fu alcuna reazione, alcuna
parola, se non uno sguardo vacuo colmo di confusione. Persino gli
avversari, dall'altro lato della cucina, si fermarono per un istante
a guardare Jean sorpresi. Era forse impazzito?
«Jean,
perché hai deciso di perdere?» gli chiese infine
Beatris,
sconsolata.
«Non
voglio perdere!» ringhiò lui e strinse un pugno,
determinato.
«Fidatevi di me! Vinceremo con questo piatto!»
«Loro
però hanno della carne...» mormorò
Armin, preoccupato.
«Bea!»
chiamò Jean e lei si drizzò come un soldatino.
«Hai detto che
volevi aiutarmi, giusto?!»
«Sì!»
rispose, come avrebbe risposto a un capitano.
«E
allora aiutami a rendere questo semplice piatto
indimenticabile!»
«Possiamo
farlo?» chiese Armin, improvvisamente interessato.
«Non
sono gli ingredienti a fare la differenza, non lo capite?»
Jean
iniziò ad animarsi, a riempirsi d'eccitazione, come se si
fosse
trovato di fronte a un esame o, ancora peggio, a un'intera orda di
giganti e fosse lì a dover motivare i propri soldati.
Strinse i
pugni, puntò gli occhi in quelli dei due compagni e
irrigidì le
spalle. «È facile essere i più forti
della squadra quando si ha
una prestanza fisica robusta per natura» e indicò
Reiner, intento a
girare delle verdure all'interno di una padella. Questo si
voltò a
guardarli, sorpreso di sentirsi preso in causa. «È
facile essere i
più forti quando ce l'hai nel sangue, il migliore quando sei
nato
con una predisposizione innata, è facile essere buoni
cacciatori
quando sei nata tra i lupi».
«Ehy»
lamentò Sasha, sentendo che quel commento in particolare era
rivolto
a lei. «O essere considerato imprevedibile quando sei scemo
dalla
nascita».
«Dacci
un taglio, Jean!» ringhiò Connie, capendo per
chissà quale
connessione che quello invece era rivolto a lui.
«È facile quando
nasci già perfetto, non c'è alcuna sfida, nessun
tipo di
competizione. Ma noi... ragazzi, noi siamo polvere! Veniamo dalla
miseria, siamo nati senza nessuna dote particolare, ed è per
questo
che saremo fantastici più di chiunque altro
perché la nostra forza
ce la siamo guadagnata!»
«Ma
non stava parlando delle uova?» mormorò Reiner,
alzando un
sopracciglio.
«I
nostri successi saranno più incredibili di chiunque altro
perché
noi, solo noi, possiamo dire di avercela davvero messa
tutta!»
continuò Jean, sempre più infervorato.
«Ragazzi! Noi siamo quelle
uova, riuscite a capirlo? Spetta a noi e a nessun altro renderle
uniche e perciò migliori di qualsiasi filetto di carne che
esista al
mondo! Siete con me?!»
«Daremo
il massimo, Jean!» quasi gridò Armin, battendosi
addirittura un
pugno al petto in segno di saluto militare.
«Quel
ragazzo ha delle doti da leader da non sottovalutare»
commentò
Reiner, guardando sorpreso come fosse riuscito a far emozionare
entrambi con così poco. In fondo, erano solo
uova...
«Bea!»
scattò Jean e le mise entrambe le mani sulle
spalle,
guardandola dritta negli occhi. Non aveva ancora detto niente, ma
riusciva a leggerle nelle pupille che aveva fatto centro. Il suo
discorso era riuscito ad emozionarla abbastanza, ora doveva solo
darle la carica giusta. «Ti fidi di me?» e le
sorrise, riuscendo a
infonderle una sicurezza incredibile. Beatris restò come
paralizzata
per qualche secondo, senza riuscire neanche a battere le palpebre, a
fissarlo con lo sguardo che le brillava dall'emozione. Talmente
rapita, da tenere le labbra dischiuse e non essere nemmeno in grado
di chiuderle. Lei era solo un uovo. Come aveva fatto a non pensarci
mai prima? Sarebbe diventata l'omelette perfetta.
«Sì»
mormorò infine, come rapita in un incanto. «Mi
fido di te, Jean».
«Reiner!»
urlò improvvisamente Sasha, allarmata. «La salsa!
La stai
bruciando!»
Reiner
urlò allarmato e d'istinto prese la padella per toglierla
dal fuoco,
ma la prese troppo vicina al bordo, senza usare le presine, troppo
spaventato per il danno da riuscire a ragiornarci su. La
sollevò dal
fuoco, ma si ustionò e lasciò cadere infine la
padella a terra
rovesciandone tutto il contenuto.
Sasha
lanciò un grido allarmato, si portò le mani ai
capelli e guardò il
disastro a terra. «La mia salsa!» disse, ormai in
lacrime. «Oh no,
che disastro» si disperò Connie, al suo fianco,
mentre Reiner in
preda alla confusione si teneva la mano ustionata stretta nell'altra.
«Mettila
sotto l'acqua fredda!» disse Beatris, improvvisamente vicino
a lui.
Gli comparve alle spalle e lo spinse vicino al lavandino, trascinando
la mano sotto il getto dell'acqua. Alle loro spalle Armin
fiancheggiò
Sasha, inginocchiata a terra, e le accarezzò affettuosamente
la
schiena mentre questa singhiozzava davanti alla sua salsa rovesciata.
«Avete
tempo, ne preparerete dell'altra» provò a
consolarla. Jean arrivò
pochi istanti dopo, con due stracci e un secchio pieno d'acqua. Ne
passò uno a Connie e prese lui per primo a chinarsi per
iniziare a
pulire. «Non sarà certo una cosa del genere a
distruggere la
competizione» disse, prima di puntare lo straccio pieno di
salsa a
Sasha e dirle: «Ricominciate a capo! Preparate la salsa
migliore che
sapete fare, batterò qualsiasi cosa! Anche la più
fantastica!»
«Non
abbiamo più prezzemolo, né carote!»
esclamò Connie, rovistando
nella busta dove avevano messo tutti gli ingredienti. E Sasha
urlò,
più disperata che mai.
«Avevate
comprato gli ingredienti contati?!» sussultò
Armin, sorpreso.
«Li
abbiamo usati tutti per rendere la salsa più gustosa che
mai».
«Potremmo
dargliene un po' dei nostri, Jean ne ha comprati molti»
propose
Beatris, tenendo ancora la mano di Reiner sotto il getto d'acqua
fredda. Jean la fulminò, furioso, e disse: «Non se
ne parla!»
E
Sasha urlò ancora più forte, in preda alla
disperazione.
«Mi...
Mi dispiace» balbettò Reiner, che fino a quel
momento era rimasto
come paralizzato. Lo sguardo truce, lacerato dai sensi di colpa, e
soprattutto da una profonda vergogna. Si era lasciato distrarre dai
discorsi di Jean, e soprattutto quando aveva visto lui e Beatris in
atteggiamenti così intimi. Inizialmente curioso, si era
chiesto
quando quei due fossero diventati amici, ma poi qualcos'altro aveva
iniziato a muoversi nel suo stomaco, l'aveva fatto irrigidire, e non
era riuscito a schiodare lo sguardo da quei due. Era stato stupido,
il suo nervoso ingiustificato l'aveva portato a quel disastro.
«A
che ti serve tutta quella roba, dobbiamo preparare solo
un'omelette?»
insisté Beatris e Jean rispose deciso: «Non
è solo un'omelette! È
l'omelette! L'omelette suprema! Si chiamerà l'omelette
corazzata!»
Reiner
ebbe un sussulto e d'istinto tolse la mano da sotto al getto
dell'acqua fredda, per ritrarsi, per indietreggiare, improvvisamente
allarmato. Ma Beatris gliel'afferrò, contrariata, e la
riportò al
suo posto, senza chiedersi il motivo di un tale allarme.
«Ma
che stai dicendo?! Che razza di nome sarebbe?»
continuò a ruggire
contro Jean.
«È
la mia omelette, Beatris! Sarà l'omelette che
risveglierà i sensi,
dal guscio croccante e il cuore morbido, sarà l'omelette che
mi
riscatterà! Trasmetterò il mio saper essere
empatico attraverso
quel piatto, dimostrerò di essere migliore di chiunque altro
con la
mia omelette corazzata!» era puro delirio per chiunque non
fosse
Beatris, ma anche per lei in realtà fu non proprio del tutto
chiara.
«Ma...
di che state parlando?» provò a balbettare Reiner,
più nervoso che
mai.
«Voi
mi credete empatico quanto il gigante corazzato, non è
così?»
chiese Jean, corrucciato.
«Non...
sappiamo se... come fate a dire che il corazzato...»
balbettò
ancora Reiner, ma non riuscì neanche a formulare un
pensiero.
Parlavano del corazzato come se lo conoscessero, come se sapessero la
verità. Si sentì in pericolo, iniziò
persino a sudare freddo.
«Ma
che stai sparando?!» ruggì Connie. «Il
corazzato è un dannato
gigante, come fa ad avere emozioni, spiegamelo?!»
«Esattamente!
Beatris ha detto che ho l'empatia del gigante corazzato, e io
dimostrerò che non è vero con la mia omelette
corazzata dal cuore
tenero!» rispose Jean euforico, per poi tornare a dannarsi
con:
«Argh! Vi ho svelato fin troppo!»
Ma
a quel punto nemmeno Beatris lo ascoltava più. Tenendo fermo
il
polso di Reiner, per tenergli la mano sotto l'acqua, aveva iniziato a
sentirlo tremare. C'era qualcosa che non andava. Stava fissando un
punto in silenzio, come vuoto, vacuo, con mascella e muscoli tesi e
la pelle della fronte aveva cominciato a inumidirsi appena di sudore.
Lasciò Connie e Jean dietro di lei bisticciare sulla teoria
del
corazzato empatico, con Connie che non riusciva a comprendere quella
metafora che invece per Jean era a dir poco perfetta, ma si
concentrò
su Reiner al suo fianco. Gli si accostò di più,
così da riuscire a
parlargli senza dare troppo nell'occhio, e mormorò
semplicemente:
«Reiner».
Reiner
sobbalzò come se fosse appena stato toccato da uno spettro,
tanto
forte che persino Beatris si spaventò. Si sporse poi in
avanti,
cercando preoccupata il suo sguardo. Era pallido, madido di sudore,
c'era ovviamente qualcosa che non andava. Allungò una mano
verso il
suo volto, intenzionata a scostargli dagli occhi una ciocca di
capelli per riuscire a vederlo meglio e provare inoltre a toccargli
la fronte, chiedendosi se non gli stesse salendo la febbre o qualche
tipo di malanno. «Stai bene?» gli chiese
preoccupata, nel gesto, ma
Reiner con una rapidità inaspettata tirò via la
mano ustionata
dalla sua presa, indietreggiò e scacciò via con
l'altro braccio la
mano che Beatris aveva provato ad allungare verso il suo volto.
«Sto
bene» disse, glaciale come l'inverno. Si voltò,
prese uno straccio
da sopra il mobile e lo usò per avvolgersi la mano ferita.
Una
reazione non solo inaspettata, ma del tutto nuova. Mai l'aveva
trattata con tale freddezza, nemmeno quando si erano conosciuti. La
preoccupazione di Beatris salì alle stelle, rapida come un
razzo, e
non solo ignorò il continuo blaterare tra Jean, Armin,
Connie e
Sasha alle sue spalle, ma iniziò persino a trovarlo
fastidioso.
«Reiner,
che ti prende?» gli chiese, allarmata, e provò
ancora ad
avvicinarsi. Gli poggiò una mano sulla spalla, chiedendogli
con quel
gesto di voltarsi e guardarla, ma sentì i suoi muscoli
irrigidirsi
ancora di più al tocco. Reiner si voltò di
scatto, le colpì la
mano così da scacciarla e le ringhiò, contro,
improvvisamente
furioso: «Insomma, la smetti di gironzolarmi sempre
attorno?!» Il
resto dei loro compagni si zittì improvvisamente.
«Lasciami in
pace, ogni tanto, Beatris!»
Neanche
un'ora prima lei aveva realizzato quanto amasse essere chiamata Tris
solo da Reiner, tanto da essere gelosa di quel nomignolo, tanto da
voler impedire a chiunque altro di usarlo, e ora lui non solo la
trattava improvvisamente come una nemica ma aveva anche scelto di
smettere di usarlo. Beatris restò come paralizzata. Si
portò la
mano colpita al petto, se la strinse tra le dita dell'altra mano, e
restò lì, pallida, a fissarlo in silenzio mentre
lui la guardava
come se avesse avuto davanti un demone. L'aveva colpita forte,
Beatris sentiva le dita pulsare, non era stato solo un gesto.
Sembrava che improvvisamente qualcosa in Reiner gli avesse detto che
doveva non solo allontanarla, ma attaccarla... come se fossero
improvvisamente nemici.
E
lo sguardo che le stava rivolgendo in quel momento pareva confermare
quella teoria. Da dove aveva tirato fuori tutto quell'odio,
all'improvviso? Mai, prima di allora, l'aveva visto in quelle
condizioni.
Reiner
si voltò, si strinse la mano ferita nello straccio, e si
allontanò
a passi pesanti, diretto alla porta. «Vado in
infermeria» comunicò.
«Ehy!»
Connie saltò in piedi, prima che Reiner potesse uscire.
«Che
diamine ti è preso? Sei impazzito?»
Ma
Reiner lo ignorò e se ne andò.
Camminò
a passo spedito lungo i corridoi del centro d'addestramento, ma non
si diresse in infermeria. Si allontanò, non seppe bene
nemmeno lui
dove era diretto, ma voleva andare il più lontano possibile
da lì.
Uscì fuori, si allontanò lungo la via, per le
strade, e senza
accorgersene si ritrovò nella stessa foresta dove avevano
cacciato
il cinghiale quel pomeriggio. Ormai era sera inoltrata, presto
avrebbe fatto buio, ma non gli importava. Aveva bisogno di
allontanarsi da tutto, il più velocemente possibile. Tutto
quello
era decisamente troppo per lui. Si era autoproclamato a capo della
spedizione contro Paradis quando Marcel era morto, si era sentito in
grado, voleva essere in grado di farlo e si era rafforzato nel corpo
e nella mente per anni per riuscirci. Era diventato sempre
più una
macchina da guerra, ma in tutto quello c'era stata una falla, che era
diventata enorme prima che potesse accorgersene. No, in
realtà non
era così, in realtà se n'era accorto subito,
semplicemente aveva
deciso di ignorarla. Era partita da Beatris, ma presto si era
allargata anche a tutto il resto dei ragazzi lì dentro.
Connie,
Sasha, Armin, Marco e Jean... e poi Eren, Mikasa, persino Ymir,
Christa... nessuno escluso. Aveva iniziato a provare dei veri
sentimenti per tutti loro, senza proteggersi, credendosi forte
abbastanza da potersene poi liberare con una scrollata di spalle. Non
sapeva quando fosse successo, non sapeva come fosse iniziato, aveva
creduto di avere il controllo fino all'ultimo. Si era sentito forte
abbastanza fino all'ultimo, fino a quando ormai non era stato
più
nemmeno in grado di rialzarsi, schiacciato dal suo stesso gigante
corazzato come in quegli incubi che ogni tanto lo tormentavano. Aveva
creduto di essere forte abbastanza, ma si era sbagliato. Si era
affezionato, si era affezionato profondamente a tutti loro, e aveva
provato gioia, tristezza, euforia, rabbia, e molto altro ancora.
Emozioni, sentimenti, ricordi che per sempre lo avrebbero tormentato
perché lui lì stava cominciando a starci
veramente bene. A sentirsi
a casa. Lui lì era in pace... e ingannando se stesso, vi si
era
crogiolato dentro, a quel benessere, convinto che non avrebbe poi
potuto nuocerlo se ne fosse approfittato solo un po'. Ci era annegato
dentro, ed era stato comunque così bello e piacevole che non
gli era
importato. Troppo concentrato sul presente, aveva dimenticato il
passato e cercava di non pensare al futuro, solo godersi quei
meravigliosi momenti insieme. Ma non poteva dimenticare, non avrebbe
mai potuto.
Lui
era il gigante corazzato.
E
loro, tutti loro, compresa Beatris... lo odiavano.
Si
accasciò vicino a un albero, accecato da una fitta alla
testa
intollerabile. Si portò una mano alle tempie e si strinse
tanto che
quasi si fece male. Quando cominciò a riprendersi
spostò la mano da
davanti agli occhi e vide che ancora era coperta dallo straccio
rubato dalla cucina del centro. Se lo tolse appena in tempo per
vedere l'ultimo accenno del rossore dell'ustione svanire, emettendo
un lieve vapore. Il potere del gigante aveva appena finito di
guarirlo e di ricordargli di quale tremendo fardello e maledizione
fosse portatore. Poteva ingannare se stesso, convincersi che poteva
stare lì dentro come niente fosse, provando emozioni,
affezionandosi
a loro, ma non avrebbe mai potuto cancellare la verità. Lui
era quel
gigante, lo sarebbe stato per altri dieci anni, che l'avesse voluto o
meno. Se solo non fosse nato a Marley...
Un
peso gli cadde pesantemente sulle spalle, spingendolo in avanti,
facendogli quasi male. Si lamentò, cercò di
tirarsi su, e riuscì
solo in quel momento a riconoscere nel peso che gli era atterrato
sulla schiena un corpo. Delle braccia gli cinsero il collo
delicatamente e un volto si affacciò oltre la sua spalla.
«Ti
ho preso, Reiner» mormorò Beatris vicino al suo
orecchio, allegra,
come se niente fosse appena successo. Un contatto che per un istante
gli fece battere il cuore più del dovuto. E
l'odiò.
«Tris...»
balbettò Reiner, ricoprendosi rapidamente la mano prima che
lei
avesse potuto vederla. «Cosa... mi hai seguito?»
«Hai
il passo bello spedito, non è stato facile»
sospirò lei,
lasciandolo andare e mettendosi a sedere al suo fianco. «Come
stai?»
gli chiese poi.
«Dovrei...
essere io a chiederlo a te» mormorò lui, confuso
per la reazione di
Beatris, ma soprattutto rammaricato. Lei l'aveva guardato con uno
sguardo che mai le aveva visto in volto, una tristezza profonda che
non avrebbe mai voluto vederle addosso. Solo ripensarci gli faceva
attorcigliare le budella nello stomaco. Beatris sospirò e
puntò lo
sguardo triste alla punta dei propri piedi, ma aspettò un
po' a
rispondere, pensierosa. «Mi dispiace non essermene accorta
prima...»
disse infine e Reiner ebbe un altro fremito. Accorgersi di cosa? Lo
aveva scoperto? Sentì di nuovo la paura accecarlo, ma
ciò che più
lo fece innervosire fu rendersi conto che quella era paura di perdere
ogni cosa lì dentro, paura di far finire quell'incredibile
sogno,
invece che paura di fallire la propria missione. Aveva seriamente
iniziato a voltare le spalle a Marley?
«Tutte
le volte che abbiamo accennato al gigante corazzato hai sempre
reagito molto male, non gli ho mai dato peso ma avrei dovuto»
mormorò e Reiner iniziò a tremare come una
foglia. Di nuovo una
fitta alla testa sembrò squarciargli l'anima.
Indietreggiò appena
col busto, provò a trascinarsi via, e balbettò:
«Tris...
ascoltami, per favore...» ma non ebbe la forza mentale di
proseguire. Cosa avrebbe mai potuto dirle? In che modo avrebbe potuto
uscire da quell'orrenda situazione? Ormai aveva perduto ogni cosa,
ormai aveva fallito, forse avevano addirittura già dato
l'allarme e
Bertholdt e Annie erano già stati presi. E la colpa era solo
sua.
«Reiner,
io posso capire la tua paura» gli disse Beatris, voltandosi e
poggiandogli una mano su un ginocchio. «E la tua rabbia.
Posso
comprenderla e condividerla».
«Comprendere...?»
mormorò Reiner, in preda alla confusione. Che non stessero
parlando
della stessa cosa? Che avesse frainteso?
«Anche
io mi agito molto quando si parla del gigante corazzato, per questo
mi odio per non averlo visto prima. Provavamo esattamente le stesse
cose, ma non ti ho mai dato peso. Mi dispiace, Reiner. Lo
dirò anche
agli altri, non parleremo mai più di lui. Ma se mai un
giorno ti
sentissi scoppiare e sentissi il bisogno di sfogare tutta quella tua
rabbia, puoi contare su di me» gli sorrise, dolce come solo
lei
sembrava essere in grado di fare. «Fidati, so cosa significhi
perdere ogni cosa per colpa sua. Io condivido il tuo stesso
dolore».
Una
fitta lacerò il petto di Reiner, tanto potente, tanto
violenta che
per un lungo istante gli tolse la coscienza di sé. E senza
accorgersene tornò a tremare e sudare, in preda alla follia.
I
muscoli tanto tesi che iniziarono a fargli un gran male, ogni cosa
era doloroso, ogni cosa lo portava lentamente verso la pazzia. Si
sentiva come affogare, come morire.
«È
stato lui... a...» balbettò, ma non
riuscì a proseguire a causa di
una morsa al collo che gli tolse non solo la parola ma proprio la
capacità di respirare. Beatris annuì e lo sguardo
che teneva fisso
ai propri piedi si riempì di un dolore intenso,
insostenibile, ma di
cui si fece carico e forza per poter condividere tutto quello con
Reiner. Sapeva, pensava, che se fosse stata forte abbastanza da
parlarne, allora anche lui si sarebbe sentito più leggero
perché
meno solo in tutto quel mare di follia. Ma si sbagliava, quanto si
sbagliava!
Non
poteva saperlo... che tutto quello avrebbe solo cancellato
ciò che
restava del guerriero marleyano, rendendo Reiner ancora più
vittima
della sua follia.
«Quando
il gigante corazzato è corso lungo la via centrale per
raggiungere
il Wall Maria, ha sfondato tutto ciò che trovava. Tra quelle
case,
c'era anche la mia. Mio padre si trovava ancora all'interno, ci aveva
mandate via, me, mia madre e mia sorella, per raggiungere la barca
che ci avrebbe portato in salvo dentro le mura, ma lui si era
trattenuto per cercare di portare via quanti più medicinali
possibili. Era un farmacista, lavorava spesso con il padre di Eren, e
sapeva che una volta al sicuro ci sarebbe stato bisogno del suo
aiuto. Ci disse che sarebbe passato poi a prendere Carla, la madre di
Eren, e ci avrebbe raggiunti, ma una volta in strada abbiamo visto il
corazzato travolgere casa nostra. Sono certa che papà fosse
ancora
dentro, lo avevamo lasciato da poco, e dopo non sono più
riuscita a
ritrovarlo. Non l'ho visto morire con i miei occhi, ma non
può
essere sopravvissuto... anche perché altrimenti ci avrebbe
cercate,
una volta al sicuro. Invece non l'ho più visto» si
fermò per
qualche secondo, prendendo un paio di boccate d'aria, cercando di
alleviare il dolore al petto che la stava inghiottendo nel dover
ricordare e raccontare quei particolari. Non si sarebbe aspettata
alcuna risposta di Reiner, probabilmente la cosa faceva male anche a
lui, che da come aveva falsamente intuito aveva vissuto qualche
tragedia simile alla sua. Ma si voltò comunque a guardarlo,
chiedendosi come stesse, e lo trovò ancora paralizzato.
Immobile, se
non per l'intenso tremore che ancora lo scuoteva da capo a piedi.
Sospirò, in cerca di coraggio, e proseguì.
«Noi ci trovavamo su
quella stessa via, qualche metro più avanti, ma dopo aver
sentito il
fragore ci siamo voltate a guardare cosa stesse accadendo. Abbiamo
visto casa nostra andare in pezzi e il gigante corazzato che correva
nella nostra direzione, puntando il Wall Maria alle nostre spalle.
Mia madre aveva in braccio Rose e io correvo al suo fianco,
aggrappata al suo vestito. Siamo scappate in una via perpendicolare,
mamma è riuscita a trascinarmi via, ma nella foga Rose si
è fatta
sfuggire di mano il suo coniglietto di peluche, Kitty. Sapevo quanto
significava per lei, e al tempo ero solo una bambina che poco capiva
cos'era il pericolo, perciò sono tornata indietro per
riprenderlo,
per terra, su quella via che stava andando in pezzi metro dopo metro.
Non mi sono mai chinata a raccogliere il pupazzo, ho guardato il
gigante che mi correva incontro, e lì sono
rimasta...» un sorriso
sarcastico le storpiò per un istante il viso. Quello era il
suo
difetto più grande, Reiner stesso glielo aveva fatto notare,
ed era
la verità. Era tutto nato quel giorno. «Mi sono
paralizzata. Di
fronte al terrore, mi sono paralizzata… come
sempre» ebbe un
fremito e si chiuse per un attimo in se stessa, pronta a nascondere
il volto tra le ginocchia. Ma si fermò. Fece un altro
sospiro
profondo e cercò di distendersi. «Ho ancora nei
miei incubi quel
mostro che mi corre incontro, a passi pesanti, schiacciando e
sfondando tutto ciò che incontra».
L'incubo
che in quegli anni aveva tormentato Reiner, scoprì in quel
momento
non essere il suo. Era l'incubo di Beatris. Lui tutte le notti
sognava di essere lei, e si vedeva mentre furioso gli correva
incontro, pronto a schiacciarla. Non si chiese nemmeno come facesse a
conoscere quel particolare, perché in un improvviso
flashback riuscì
a ricordarlo. E nemmeno ascoltò il resto del racconto di
Beatris,
avendolo finalmente ben chiaro in testa.
Ecco
cosa il suo cervello aveva provato a dirgli, quando aveva visto
Beatris la prima volta nella cattedrale: quella bambina lui l'aveva
già vista. Si era incuriosito tanto a lei, si era sentito
attratto,
l'aveva seguita con lo sguardo perché lui l'aveva
già vista. E si
era da sempre sentito responsabile per lei, come se le dovesse
qualcosa, come se fosse sua responsabilità... e lo era
davvero. Era
tutta colpa sua, e solo ora lo ricordava. Nel caos di Shiganshina,
stremato dal viaggio, mentre lui stesso cercava di scappare dai
titani che cercavano di mangiarlo, con Annie e Bertholdt protetti
dentro le proprie mani, il suo sguardo si era puntato improvvisamente
su quel punto. Davanti ai suoi piedi, unica figura immobile mentre il
resto delle persone si disperdeva come uno sciame, lei era rimasta
lì. Vestita di una vestaglia logora, la stessa della
cattedrale, con
un pupazzo abbandonato ai propri piedi. L'aveva guardato con lo
sguardo vacuo, terrorizzato, e solo ora si accorse che era lo stesso
identico sguardo che lei gli aveva rivolto poco prima nella cucina.
Un terrore in grado di paralizzarla, un terrore che la inghiottiva
completamente. Non c'era stato che caos, quel giorno, aveva ucciso
centinaia di persone e nemmeno se n'era accorto troppo concentrato a
correre e lottare con la fatica. Ma lei l'aveva vista. E le aveva
pregato di scappare...
Spostati,
stupida!
Aveva
urlato, ma ovviamente il suo titano non poteva ripetere ciò
che lui
diceva, non sapeva parlare, e quella frase disperata si era tradotta
in un ruggito che probabilmente aveva solo peggiorato la sua paura.
Non poteva fermarsi, non l'avrebbe fatto, e non poteva nemmeno
preoccuparsi di provare a schivarla o avrebbe perso lo slancio della
corsa. E lei era rimasta lì, immobile, a guardarlo come
avrebbe
guardato il peggiore dei mostri. Reiner aveva chiuso gli occhi e
aveva continuato a correre, costringendosi a non preoccuparsene.
Aveva percepito il corpo che veniva schiacciato sotto al piede,
l'aveva sentito chiaramente, più di qualsiasi altro corpo,
ed era
stata una sensazione orribile. Era stato convinto di averla uccisa e
probabilmente per quel motivo il suo cervello aveva cancellato quel
ricordo, dicendogli di aggiungere quella vittima alla lista delle
vittime di cui si sarebbe dovuto fare carico. Un volto ignoto in
mezzo a mille altri volti ignoti, l’aveva rimossa per
difendere se
stesso dalla follia. Quando l'aveva rivista nella cattedrale
probabilmente una parte remota del suo cervello l'aveva riconosciuta,
ma con la convinzione di averla uccisa non era riuscito a
ricollegarla a quella bambina, a ricordarsene. Anche perché
lo
sguardo che aveva avuto Beatris in quela cattedrale era decisamente
diverso da quello che aveva avuto a Shiganshina. Ma il suo istinto
aveva stimolato tutte le emozioni e i sensi di colpa che avrebbe
dovuto stimolare, così lui era rimasto rapito da lei,
curioso, senza
saperne il perché. Senza sapere che il suo cuore aveva
silenziosamente iniziato a sperare di avere un modo per potersi
redimere, proteggendo quella ragazzina, come se fosse stata mandata
lì apposta per lui, per dargli
un’opportunità. Tutte quelle morti
erano troppe da sostenere per un bambino, indipendentemente
dall’addestramento ricevuto, indipendentemente dalla sua
ideologia
e convinzione. Proteggere Beatris lo faceva sentire meglio…
e ora
cominciò a capire il perché. Lui le stava
chiedendo perdono.
«Mi
avrebbe preso» sentì raccontare Beatris.
«Se mia madre non fosse
uscita all'ultimo dal viottolo dove era scappata. Mi ha presa per un
braccio ed è riuscita a lanciare via sia me che mia sorella,
un
istante prima che quel mostro la schiacciasse nella sua corsa. Ho...
visto chiaramente mia madre mentre...» tremò
ancora e questa volta
faticò a trattenere una lacrima, che si affrettò
a cacciar via,
ripulirsi. Sfoderò la sua arma migliore, quel sorriso falso
quanto
delicato che tanto la faceva sembrare un angelo ma che serviva a
nascondere il proprio dolore. «Il piede del gigante corazzato
mi ha
sfiorato, prendendo invece mia madre, e nel passare ha travolto altre
case e provocato altre macerie. È così che mia
sorella è rimasta
ferita, le è caduta addosso una grata di ferro che le ha
lacerato
una gamba. Pochi istanti dopo è arrivato un membro della
guarnigione
a raccoglierci, ci ha portate via e ci ha fatte arrivare sane e salve
fino a qui, a Trost. Dopodiché, poche settimane dopo, anche
Rose è
morta a causa dell'infezione e io... io...» iniziò
a tremare. «Non
ho potuto... per colpa mia, prima mia madre, poi...»
deglutì e
scosse la testa, frustrata. Era riuscita a essere forte, a raccontare
tutto con tranquillità fino a quel momento. Erano passati
anni,
sapeva di averla superata, aveva superato quel terrore e quel senso
di impotenza, era riuscita a ritrovare la forza e il desiderio di
continuare a vivere, una motivazione. Era riuscita a tornare a vivere
grazie a Reiner, poteva farcela, poteva confessare quel
crimine.
«Sono
morte perché non sono stata in grado di proteggerle. Ho
sempre
pensato che sarebbe stato meglio se fossi morta io, invece che mia
madre, perché così avrebbe saputo curare Rose e
allora almeno loro
sarebbero sopravvissute. Così invece non sono che rimasta
io, sola
con i miei sensi di colpa... e fino a l'anno scorso era convinta di
non avere nessuna motivazione per continuare a restare qui, che non
mi restasse niente, perché anche Mikasa, Eren e Armin si
sarebbero
fatti uccidere volontariamente da quei mostri unendosi al corpo di
ricerca. E io sarei rimasta ancora una volta a guardare, paralizzata
dalla paura. Ho pensato che dovevo reagire, che dovevo prendere il
loro posto, come avrei dovuto fare con mia madre, e ho iniziato a
camminare volontariamente verso la mia distruzione. A rincorrere il
modo più giusto per uccidermi. Ma poi tu...» e si
voltò finalmente
a guardarlo, sorridendogli solare, pronta a rivelargli quanto lui
fosse stato importante per lei, ma si paralizzò. Reiner,
immobile
come una statua, con una mano a coprirgli occhi, stava piangendo
silenzioso. Per quanto si sforzasse di premere la mano sugli occhi,
non poté fare niente per impedire alle lacrime di lavargli
completamente il viso. Serrava i denti, strozzava i singhiozzi, ma
non poteva impedirsi di tremare tanto che l'altra mano, serrata tra i
capelli, per poco non pareva che potesse strappaglieli.
Beatris
si spinse vicino a lui e riuscì a mettergli una mano sulla
spalla,
in segno d'affetto.
«Immagino
che la tua storia non sia molto diversa dalla mia»
mormorò,
interpretando erroneamente quella reazione. «Non voglio che
me la
racconti per forza, ma vorrei che sapessi che posso offrirti la mia
spalla per piangere tutte le volte che vuoi. Così come... tu
hai
fatto con me. Tante volte».
Attese
un qualche tipo di reazione, ma non ce ne fu alcuna. Solo altre
lacrime, tremori e singhiozzi strozzati... e un vago mormorio, che
solo dopo un po' riuscì a distinguere: «Mi
dispiace».
«Reiner»
mormorò Beatris, chinandosi verso di lui e poggiandogli una
mano
sulla guancia umida di lacrime. «Non mi importa quale dolore
e quale
rabbia tu ti possa ritrovare a esprimere, anche se come è
successo
prima finisco con l'esserne colpita io. Non devi
preoccuparti,
lo so che non vuoi davvero ferirmi. Tu non lo faresti mai, ormai ti
conosco. Sono venuta a cercarti, hai visto? Non mi importava di
ciò
che mi hai detto, non mi hai fatto niente».
«Non
è vero» lo sentì quasi ringhiare.
«È tutta una bugia...
Tris...»
Era
davvero sul punto di confessare? Rivelarle la menzogna in cui l'aveva
coinvolta fin dall'inizio, le colpe di cui si era macchiato,
così da
poter smettere almeno di ferirla a sua insaputa? Così da
darle il
rispetto che in realtà meritava.
«Io...
sono un dannato bastardo...» si scosse, la voce gli
morì in gola, e
infine riuscì solo a dire: «Tu dovresti
odiarmi».
Le
aveva rovinato la vita, era tutta colpa sua, e poi, sempre mosso solo
dall'egoismo, l'aveva legata a sé solo per alleviare un po'
i propri
sensi di colpa. L'aveva ingannata, l'aveva tradita, e mai una sola
volta aveva realmente pensato a lei. Non aveva fatto altro che essere
egoista, fin da subito, tenerla al proprio fianco per riuscire a
sentirsi meglio senza preoccuparsi di cosa fosse realmente giusto per
lei. Era proprio un bastardo. E non riusciva più a
tollerarlo.
«Reiner»
sospirò Beatris, ammorbidendosi nell'espressione. I
sentimenti che
provava per lui erano talmente intensi che non sarebbe riuscita a
odiarlo nemmeno se l'avesse voluto. Non ce l'avrebbe mai fatta.
«Non
potrei mai odiarti» disse e in risposta, con foga, Reiner
colpì
nuovamente la mano di Beatris così da allontanarla da
sé. Con quel
gesto si tolse però la mano dal volto, scoprendo
così la sua
espressione e Beatris per un istante si sentì vacillare. Non
era
disperato, come aveva creduto... era arrabbiato. Arrabbiato come mai
l'aveva visto prima. Ma non appena quello sguardo colmo di furia e
follia incrociò quello di Beatris, dolci e ricolmi d'amore,
Reiner
si sentì crollare. Lui… possibile che lui non
provasse solo
rammarico? Possibile che ci fosse qualcosa nel suo petto di molto
più
intenso? Qualcosa di travolgente, di profondo… di simile
all’amore?
Per lei? Per un demone dell’isola, per la ragazza a cui aveva
rovinato l’esistenza, per la persona… che era
riuscita a renderlo
felice, davvero, forse per la prima volta in tutta una vita?
Accasciò
le spalle e si corrucciò in un'espressione disperata. Come
aveva
potuto fare una cosa simile proprio a lei?
«Mi
dispiace» singhiozzò ancora.
E
Beatris sorrise piena di dolcezza. Si sollevò in ginocchio e
si
voltò, così da essere perfettamente di fronte a
lui, e infine
gattonò vicino al suo fianco.
«Puoi
scacciarmi tutte le volte che vuoi» gli disse, amorevole. Gli
avvolse le braccia intorno alla testa e Reiner provò invano
a
indietreggiare, ma la sua forza di volontà non era poi
così forte,
mentre quella di Beatris pareva indistruttibile. Lo strinse a
sé,
portandogli il volto al petto, poggiò una guancia tra i suoi
capelli
e lo abbracciò. Lo abbracciò come aveva da tempo
desiderato fare,
chiudendolo totalmente all'interno del suo amore. «Non
smetterò mai
di prenderti, Reiner» sorrise di un sorriso dolce che
riuscì a
trasmettere alla propria voce. Reiner poteva sfogare la sua rabbia e
il suo dolore come voleva, lei sarebbe stata sempre in grado di
amarlo, qualsiasi cosa avesse fatto.
«Non
riuscirei mai ad odiarti. Mai, in nessuna occasione, per nessuna
ragione. Sei...» lo strinse e affondò il naso tra
i suoi capelli.
Lo sentì ancora tremare e il pianto si sciolse in uno meno
teso, più
libero e perciò anche più disperato.
Sentì le mani di Reiner
afferrare i suoi vestiti dietro la sua schiena, stringerli tra le
dita, con disperazione. La tirò a sé, forse non
era ciò che
avrebbe voluto fare, ma era ciò di cui aveva bisogno. Morire
dentro
quell'abbraccio. Forse era davvero l'unica cosa felice che avesse mai
potuto avere. Si schiacciò contro il suo petto, la strinse
contro il
proprio volto, e tra i suoi abiti, contro la propria pelle,
riversò
tutto quel dolore in un pianto disperato. Forse davvero
all’inizio
si era legato a lei per quel latente senso di colpa di cui sentiva il
bisogno di liberarsi, forse davvero all’inizio non aveva
desiderato
altro se non chiederle perdono, ma le cose erano cambiate…
degenerate… e ciò che provava in quel momento era
molto di più. E
lei non lo meritava. Non meritava di amare, di essere amata, da un
mostro come lui.
Sentì
le labbra di Beatris sfiorargli le tempie in qualcosa di molto simile
a un bacio.
«Sei
tu la mia forza, Reiner». Lo sentì rabbrividire se
possibile ancora
di più, ebbe un tremore come se qualcuno lo avesse appena
colpito
alla base della colonna vertebrale con una scarica elettrica. Reiner
la strinse con una forza tale che quasi le fece male, ma subito dopo
allentò la presa. E smise persino di singhiozzare. Si
staccò dal
suo petto, ma restò comunque avvinghiato a lei, prendendosi
solo lo
spazio necessario per riprendere a respirare.
«Gliela
farò pagare» mormorò con la voce ancora
gracchiante per lo sforzo
a cui era stata sottoposta poco prima. «Al corazzato e a
tutti i
giganti. Gliela farò pagare cara per averti fatto
questo».
«Che
stai dicendo?» gli sorrise con dolcezza. «Io non
desidero vendetta
e non voglio che lo faccia nemmeno tu. Ti esporresti a un rischio
inutile, non potrei sopportarlo».
«Non
unirti alla legione esplorativa» le disse improvvisamente e
alzò
gli occhi, puntandoli in quelli di Beatris. Sembravano animati di un
nuovo fuoco, intenso e deciso. «Non andare
all'esterno».
«Io...»
mormorò Beatris, riappoggiandosi sui suoi talloni. Raggiunse
l'altezza del volto di Reiner, ma abbassò lo sguardo
rammaricata.
«Non posso farlo... Non posso lasciarli. Non posso di nuovo
restare
a guardare mentre le persone più importanti della mia vita
vengono
uccise. Questa volta devo combattere, Reiner. Mi stai allenando per
questo, no?»
«Ti
sto allenando perché non voglio che tu muoia».
«Beh,
stai facendo un ottimo lavoro» sorrise, imbarazzata. Era
ridicolo,
ma quella banalità, sapere di essere qualcuno a cui lui
teneva, le
faceva venire il batticuore. «E poi con me ci sarà
Mikasa, non mi
accadrà niente di male. Sapremo proteggerci a
vicenda».
«Non
è abbastanza!» disse, risoluto. «Non
posso lasciarti andare
così... non posso restare solo a pregare di vederti tornare
tutte le
volte». Tirò un profondo sospiro e
sembrò accasciarsi sulle sue
stesse spalle. Chiuse gli occhi e si abbandonò in avanti,
come se
fosse sul punto di crollare. Beatris sussultò e d'istinto
indietreggiò appena, arrossendo nel vedere il suo volto
avvicinarsi
al proprio. Si irrigidì nelle spalle e si
paralizzò quando Reiner
raggiunse la sua fronte, su cui appoggiò la propria. Erano
così
vicini, ora, che poteva sentirlo respirare contro la propria pelle.
«Voglio essere io a proteggerti»
mormorò, come addormentato.
«Non
farlo» sussultò Beatris, improvvisamente
allarmata. Questo spinse
Reiner ad aprire gli occhi, puntarli nei suoi, curioso di scoprire
quali sentimenti vi fossero all'interno. E vi trovò gioia,
mista a
panico, mista a tante altre cose che non riusciva nemmeno a
identificare. «Non unirti alla legione esplorativa solo per
me».
«Voglio...»
tentò di dire ma Beatris lo interruppe con un disperato:
«No!»
Gli
posò una mano sul viso, gli accarezzò la guancia
e tornò poi a
sorridere. Era lusingata, era felice di vederlo così legato
a lei
tanto da rinunciare a ogni cosa, ma non glielo avrebbe mai permesso.
«Reiner» gli sorrise, dolce, ma questa volta fu lui
a
interromperla. «Resta con me» e la fece ancora una
volta
sussultare. «Non... andartene. Resta con me, Tris, resta al
mio
fianco».
Beatris
tornò a sorridere, colma di una gioia che non avrebbe mai
immaginato
avrebbe potuto provare. Si sentiva completa, ora che sapeva di
appartenergli, ora che non aveva più dubbi. Glielo leggeva
negli
occhi, lo stesso identico sentimento divampante che bruciava anche in
lei. «Tu mi aspetteresti?» gli chiese con dolcezza.
«Dopo il
diploma io mi unirò alla legione esplorativa e tu hai sempre
voluto
andare nella gendarmeria. Le volte che io uscirò in
esplorazione...
tu davvero mi aspetteresti?»
Mancava
solo un anno alla fine dell'addestramento, ormai erano quasi alla
conclusione di tutto quello, il tempo era volato così
velocemente.
Sapeva che non avrebbe potuto godere di quella gioia per sempre, che
prima o poi le loro strade si sarebbero separate, e da qualche tempo
aveva iniziato a logorarsi nel tormento che una volta usciti di
lì
non l'avrebbe mai più rivisto. Sapere che non sarebbe andata
così
era qualcosa che la scaldava nel profondo.
«Ti
verrei a cercare» le rispose lui, tremando all'idea di
vederla
oltrepassare le mura.
«Ma
non ce ne sarebbe bisogno» gli sorrise, confortante.
«Reiner» e
strofinando leggera il pollice contro il suo zigomo lo
liberò di una
lacrima che era rimasta lì da prima e non se n'era ancora
andata.
«Io ti prenderò sempre, te l'ho già
detto. Non importa quello che
succederà... tu devi solo aspettarmi, ok?»
Vide
l'espressione di Reiner contrarsi nuovamente, in un nuovo dolore che
faticava a tenere sotto controllo. Era difficile da credere che
proprio lui, il compagno più controllato e serio del corpo
cadetti,
fosse in realtà così emotivo. Beatris l'aveva
sempre creduto una
montagna, indistruttibile. Non si era mai fatto abbattere da niente,
nemmeno dagli allenamenti più duri ed estenuanti, nemmeno da
quelli
che portavano la mente a rompersi prima che il corpo, e l'aveva
ammirato per questo. Ma ora che poteva vederlo realmente, ora che
finalmente era riuscita a penetrare dentro quel guscio,
riuscì a
scoprire qualcosa di completamente nuovo... e meraviglioso. Si era da
sempre affidata totalmente a lui e alla sua forza, si era aggrappata
alle sue spalle, provando un'ammirazione tale da essere simile
all'amore. I suoi batticuore, l'emozione nell'averlo vicino, erano
sempre dati dalla sensazione di trovarsi di fianco a una sorta di
divinità. Ma ora che poteva vederlo, fragile e reale,
aggrappato ai
suoi vestiti come se avesse avuto il terrore di crollare da un
momento a un altro, qualcos'altro le esplose nel petto. E
scoprì di
sentirsi pronta a qualsiasi cosa, pur di proteggerlo. Una nuova
forza, una nuova determinazione, e fu quello l'inizio della sua vera
ascesa. Sarebbe diventata forte abbastanza da poter dare a Reiner
sempre un paio di braccia dentro cui piangere liberamente, e sentirsi
al sicuro.
Gli
accarezzò la guancia. Corrucciandosi, Reiner si
schiacciò contro la
sua mano, ci si strofinò contro, desideroso di averne sempre
più. E
lei sorrise, intenerita.
«Dopo
averti trattato in quel modo... avresti dovuto lasciarmi perdere.
Perché sei venuta a cercarmi? Perché sei qui
adesso?» gracchiò, e
sembrò che quelle domande se le ponesse davvero. Tutta
quella
dolcezza e quella comprensione nei suoi confronti erano qualcosa che
non riusciva proprio a comprendere. La risposta di Beatris
tardò ad
arrivare, timorosa, ma alla fine riuscì a sussurrare:
«Davvero non
lo sai?»
Le
voci sul loro conto, tra i compagni cadetti, erano numerose e sempre
più frequenti. Non erano stupidi, le avevano sentite anche
loro
eppure non erano mai riusciti a smentirle. Le ignoravano e
continuavano a comportarsi come sempre, a cercarsi, a stare sempre
insieme, a rincorrersi in ogni occasione. Si comportavano come due
innamorati, era ovvio, anche se avevano sempre fatto di tutto per
ignorare l'etichetta che avrebbero dovuto dare a tutto quello.
Fuggendo dall'evidenza... ma era passato più di un anno, e
tutto ciò
che mancava a quel rapporto era un nome. Non c'era niente che potesse
smentirlo, lo sapevano, fingevano solo di no, forse per pudore, forse
per proteggere loro stessi e basta. Ma era quella la verità.
Il loro
legame non era solo mera amicizia. Avevano messo l'uno la vita nelle
mani dell'altro, vi si erano abbandonati, e lì avevano
trovato il
loro posto. Beatris lo amava, non c'era niente che potesse smentirlo,
e lo stesso valeva per Reiner. Avevano bisogno l'uno dell'altro. E
adesso lo sapevano con certezza.
Per
quanto lui avesse provato a fuggirne, a non ascoltare tutto quello...
lui lo sapeva. Sapeva perfettamente perché lei era
lì. E sapeva
anche perché fosse così felice di questo.
Socchiuse
gli occhi, ma volle continuare a guardarla, mentre lei gli si
avvicinava a occhi ora serrati. Incontrò le sue labbra, ci
affondò
dentro, e sentì una scossa percorrerlo da capo a piedi. La
mano di
Beatris si spostò dietro la sua nuca, si sentì
per un istante
debole e terrorizzato nel percepire quel contatto proprio nel suo
punto più vulnerabile, ma sentì una bizzarra
fiducia nascergli nel
petto. Le avrebbe sempre permesso di raggiungere la sua parte
più
fragile, sapeva che poteva lasciarglielo fare. Sentì le sue
dita
accarezzarlo e immergersi infine tra i suoi capelli. Gli fece venire
i brividi lungo tutta la spina dorsale e qualcosa ustionarlo
interamente. Chiuse gli occhi ed ebbe come la sensazione di prendere
letteralmente fuoco. Faceva quasi male, ma era un dolore
perversamente piacevole. Con un profondo sospiro, facendo tremolare
l'aria che gli uscì dalle narici, si spinse in avanti e
prese il
volto di Beatris tra le mani. Schiuse le labbra e non si
limitò a
toccare quelle della ragazza, ma le intrappolò tra le
proprie, le
accarezzò, bramoso, come se avesse voluto divorargliele.
Riaprì gli
occhi e si staccò da lei, solo di pochi centimetri. La
sentì
prendere fiato, affaticata: era rimasta in apnea fino a quel momento,
e il fiato corto gli suggerì anche che doveva avere il
battito
cardiaco eccessivamente accelerato.
«Ti
aspetterei» mormorò e questo portò
Beatris a riaprire gli occhi.
«So che mi prenderesti, riesci sempre a prendermi»
sorrise. «Se
mai le nostre strade dovessero dividersi, verrei a cercarti, ma se
non dovessi trovarti... allora ti aspetterò».
Beatris
sorrise, emozionata e felice, inconsapevole di quanto quelle promesse
che si stavano scambiando in quel momento avessero per sempre
cambiato le loro vite. E infine, scelse così quale sarebbe
stata la
strada da seguire d'ora in avanti: quella che l'avrebbe sempre
portata da Reiner.
«Riuscirò
sempre a trovarti. Riuscirò sempre a prenderti,
Reiner».
«È
una promessa?»
«È
una promessa».
Nda.
Siete
mentalmente pronti alla valanga di eventi che ci saranno da ora in
poi? XD Il “segreto” (intuibile, dai ahahah)
è venuto a galla…
a uccidere la famiglia di Tris, durante l’attacco a
Shiganshina,
non è stato un gigante qualunque. È stato proprio
Reiner. E lui, in
un meccanismo di difesa per proteggersi dall’enorme senso di
colpa,
aveva rimosso ogni cosa, ma quando ha visto Beatris la prima volta
qualcosa dentro lui è scattato. Lo “strano
motivo” che lo
spingeva a tenerle gli occhi addosso era proprio quello, quella
sensazione da “io questa l’ho già
vista” mescolato a un forte
senso di colpa. Ma non ricordava, non riusciva a spiegarselo, e le
è
rimasto troppo vicino per troppo tempo… la verità
è venuta a
galla, ma ormai è troppo tardi. Il danno è fatto,
i sentimenti
hanno preso il sopravvento. Verrà mai a galla la
verità? (Vabbé,
conoscete il manga, sapete che Sì! VERRà A GALLA!
E SARà UNA
TRAGGGGEDIA)... come la prenderà Tris? Quali saranno le
conseguenze?
Vi
lascio a questa BELLISSIMA canzone, che questa volta vorrei davvero
che ascoltaste più di altre perché è
molto struggente e da i feels
perfetti. La voce che la canta è femminile, ma in
realtà il POV è
di Reiner, sono parole che escono dalla sua mente. Alla fine
ricordatevi che Tris… è pur sempre un
“demone dell’isola”.
https://www.youtube.com/watch?v=LoB5i0w5gso&ab_channel=Aegrnox
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