Ecco
qua il ventinovesimo
capitolo!
Ulteriori
note si trovano a fine
pagina, ma qualsiasi domanda fatemi sapere.
Avvertimenti: altre peculiarità.
Un
ringraziamento ai miei lettori
e ai miei recensori: Alessandroago_94,
Semperinfelix, Sagitta72 e
Vanya Imaryek. Grazie a chi ha messo questa storia tra le seguite,
preferite e
ricordate.
Vi
auguro una buona lettura,
H.
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PARTE TERZA:
Treviso
(28 settembre
– 20 ottobre 1511)
Capitolo
Trentesimo
Domenica
28 settembre 1511
(prima
parte)
Aveva incominciato il suo cammino
determinato, sicuro e confidando nella presenza della dama fuori dal
padiglione
del suo carceriere, il quale se ne stava seduto immobile e reclinato in
avanti,
quasi l’avesse all’improvviso colto la morte.
Non s’era attardato a
meditare su
tale stranezza, spinto dall’urgenza di fuggire e di
ricongiungersi alla sua
salvatrice.
Che però non
trovò ad attenderlo.
Ogni fiammella di coraggio gli si
spense in cuore, righermendolo il gelido panico che fin a quel momento
l’aveva
tartassato; circospetto avanzò di qualche passo giusto per
nascondersi dietro
qualche carro, tenda, un qualsiasi angolo che potesse offrirgli
protezione
dalle occhiate vigili dei soldati intenti a smontare
l’accampamento per
l’imminente partenza.
Studiò il campo e ogni
singolo
movimento attorno a sé, sperando nell’altrui
distrazione o di un punto poco
sorvegliato dove sgattaiolare via indisturbato. La saliva gli si
seccò in gola,
percepiva lo stomaco contrarsi ogniqualvolta evitava, per il rotto
della
cuffia, di finire scoperto da una sentinella. Spuntavano militi da ogni
angolo,
parevano possedere mille occhi e mille orecchie, come i serpenti che
s’accorgono della preda alla minima sua movenza.
Non esisteva via d’uscita.
Erano
dappertutto. Non ce l’avrebbe mai fatta, sicuramente
l’avrebbero catturato e
ricondotto davanti al suo carceriere.
E una volta lì …
lo avrebbe … lo
avrebbe … nel peggiore dei modi … delle
umiliazioni … delle torture …
Tremò da capo a piedi,
ricacciando indietro le lacrime di paura e frustrazione: a che pro
sciogliersi
dalle sue catene, se poi doveva rimanere intrappolato
nell’accampamento? Un
ultimo istante di gioia e speranza, prima della sua definitiva caduta
nell’abisso della disperazione?
La strada, la strada!
Dov’era la
strada verso la libertà?
Non la trovava, non la conosceva,
smarrito e solo, circondato da nemici.
S’accoccolò per
terra, le
ginocchia al petto, dondolandosi sempre più in affanno
avanti e indietro,
imponendosi di recuperare la fredda calma e d’elaborare una
strategia di fuga.
Peccato che la sua mente non cooperasse, ostaggio degli affilati
artigli del
terrore.
La strada! La strada!
Dov’è?
dov’è?
“Concentrati su di
Lei”, udì
all’improvviso e nitidamente la voce di Padre, che credeva
averlo abbandonato,
invece tramite i suoi insegnamenti continuava a vivere in lui, a
guidarlo e
proteggerlo. “Odigitria, dal greco, vuol
dire: Colei che conduce e che mostra la direzione.
Lei ti guiderà
sulla strada della guarigione, oggi, ma un domani, quando ti sentirai
perduto o
non saprai quale cammino intraprendere, pensa a Lei e a Lei soltanto e
non ti
perderai mai.”
Disperato, in cerca di un segno,
La invocò nuovamente. Vieni ancora in mio sostegno, indicami
la strada …
indicami …
Una mano gli si posò sulla
spalla, afferrandolo e costringendolo in piedi …
Hironimo
gridò angosciato,
mulinando esagitato le braccia sia per difendersi sia per scacciar via
chi
stava tentando di tenerlo fermo per le spalle, chiamandolo ad alta voce
e
pregandolo di tranquillizzarsi, ch’era al sicuro.
In
questo scontro da gatti i due
indugiarono per un po’, finché il giovane Miani
esaurì le poche energie
accumulate durante il sonno, cedendo sfinito e in
attesa del suo
destino, il quale possedeva il volto benevolo e preoccupato del monaco
sedutogli accanto.
Non
apparteneva all’ordine dei
benedettini – constatò il patrizio, già
di questo sentendosi un poco sollevato
– bensì o di un agostiniano o di un canonico
regolare. Il che significava che
non si trovava più a Nervesa (e qua Hironimo si
schiaffeggiò mentalmente: ovvio,
che non era Nervesa) ed era capitato in un altro convento o monastero.
Ma dove?
Non riconosceva l’ambiente, o meglio, intuiva trattarsi di
un’infermeria o
comunque dove giacevano i malati in degenza, ma non il luogo esatto.
Dov’era
finito? Dove l’avevano
condotto? Possedeva della notte scorsa ricordi così confusi
…
Una
gentile presa dietro la nuca
lo distolse dai suoi scoordinati pensieri, conducendolo in posizione
seduta.
L’orlo d’un bicchiere
s’appoggiò alle sue labbra e il fresco liquido di
un’acqua finalmente salubre e pulita
s’infilò nella sua bocca, ammorbidendo la
secchezza in gola.
“Piano,
piano … bevi piano”,
l’avvertiva il religioso, in una curiosa prova di forza tra i
due, lui che
tratteneva l’angolazione del bicchiere acciocché
la bevanda scorresse
lentamente; Hironimo, al contrario, che insisteva su di una sua
accelerazione.
Inghiottì a rumorose sorsate, avido e assetato,
dimenticandosi sia di respirare
sia le piccole dolorose contrazioni dell’esofago fuori
allenamento, finché
qualche goccia d’acqua sfuggì al suo controllo e
scese nella trachea,
provocandogli un improvviso colpo di tosse e conseguenti sputacchi di
liquido
in eccesso. “Ecco … che ti dicevo?”,
roteò gli occhi il monaco, battendogli
delicatamente dietro la schiena.
“A-acqua
… acqua …”, gracchiò
ansimando il giovane Miani, passando la lingua sugli angoli umidi della
bocca,
asciugandoli. “Acqua …?”
L’uomo
annuì. “D’accordo, te ne
porto ancora. Basta che mi prometti di berla senza fretta,
sì?” e si alzò per
riempire la brocca vuota, uscendo momentaneamente dalla stanza.
Così
facendo, il religioso aveva
privato Hironimo di uno scudo umano, rendendolo visibile ai pazienti in
letto,
che il patrizio s’affrettò a squadrare uno alla
volta, alla ricerca d’indizi
sulla sua nuova ubicazione. Quand’ecco, che il suo sguardo
s’incrociò con uno a
lui assai noto e non in circostanze felici. La sua mano corse
istintivamente
alla ricerca di qualcosa con cui difendersi, raccogliendo solo il
cuscino che
comunque afferrò.
“Tu!”,
esclamò Zilio Madalo al
limite dello sconcerto, gli occhi comicamente tanto sgranati da far
concorrenza
ad un paio di uova all’occhio di bue. “Che diavolo
ci fai qui?”
Ad
Hironimo, altrettanto
sorpreso, risultò arduo formulare una risposta adeguata a
quella domanda
legittima, ignorando lui per primo il luogo e lo schieramento
dov’era
incappato. Il suo cervello, nel frattanto, formulava imbizzarrito mille
teorie.
“Sei
vivo …”, dichiarò infine il
giovane, sbattendo disorientato le ciglia, neanche avesse le
traveggole. “Tu
sei vivo”, ripeté incredulo, mentre una rabbia
montante gli ribolliva in petto:
ogni sevizia subita per mano di Mercurio Bua, negli ultimi giorni, era
figlia
della collera del greco-albanese, il quale aveva creduto, erroneamente,
morto
il suo luogotenente per colpa (indiretta) della fuga
d’Hironimo. Vederselo
dunque lì, davanti a sé, vivo e vegeto anche se
ridotto maluccio, la giudicò la
più ingiusta delle beffe.
Simili
ragionamenti
attraversavano la mente dello stradiota, che contemplava tramite il
Miani il
fallimento del suo capitano, ogni suo sforzo per tenerlo presso di
sé
vanificati da una fuga che lui primo aveva sempre ritenuto impossibile.
“E tu non
puoi
essere qui!”, ringhiò Zilio, appoggiando una gamba
per terra. Immediatamente,
Hironimo levò in alto il cuscino, pronto alla pugna.
“Tu non devi essere qui!
Come sei scappato? Che cosa ne hai fatto del mio capitano?!”,
poiché nella sua testa
egli era giunto all’ovvia conclusione che, se
l’ex-castellano si trovava lì, di
sicuro Mercurio Bua o era stato ucciso o in ogni modo attaccato per
privarlo
del suo ostaggio.
“Niente,
s’è soltanto
addormentato, il brocco!”, gli disse la nuda e cruda
verità Hironimo, ossia ciò
che si ricordava della notte precedente.
Peccato
che Zilio non la gradì.
“Schifoso rospo di palude, io ti …!” e
avanzò furioso verso il giovane, che gli
tirò prontamente il cuscino contro, colpendolo alla spalla
ferita. Al che lo
stradiota afferrò uno sgabello e
s’apprestò a spaccarlo in testa ad Hironimo,
che si schermò con le braccia e …
“Ciò!
Siete omeni o puteli?”,
ruggì il monaco infermiere, ritornato dalla pompa
dell’acqua potabile e
osservando stupefatto e deluso i due contendenti. “Vi paiono
atteggiamenti
consoni alla vostra età?”, rincarò la
dose severo. “Di domenica, poi, giorno di
Domine Iddio!”
“Ha
incominciato lui!”, indicò
petulante Zilio il suo avversario, che, dopo avergli elargito una
solenne
linguaccia, si discolpò in fretta:
“Io
non gli ho detto niente
d’offensivo, m’ha attaccato così, senza
motivo!”
Stringendo
le labbra in una linea
dura, il religioso si portò dubbioso accanto a Giorgio
Madalo. “Chi dei due
afferma il vero?”, lo interrogò e questi
replicò salomonicamente:
“Ambedue
e nessuno dei due, Fra’
Mauro. Mio fratello gli ha parlato da zaffo, mentre questo qua ha
ingiuriato il
suo capitano. Non che ci sia nulla di male in ciò, tuttavia
mio fratello lo
adora, di conseguenza l’ha presa sul personale.”
Il
canonico regolare sospirò
snervato. “E perché mai avrebbe dovuto insultare
il capitano di tuo fratello?”
“Da
quanto sto capendo”, asserì
meditabondo Giorgio, “costui”, e indicò
Hironimo, “dev’esser stato un
prigioniero del signor Mercurio, ch’è riuscito a
scappargli da sotto il naso,
se non l’ha ammazzato nel processo.”
“Se
l’ha fatto, lo squarto a mani
nude!”, fu la macabra promessa di Zilio, nel frattanto che
Fra’ Mauro, intuendo
l’antifona, lo trascinava lontano dal giovane Miani, il quale
protestava
indignato che lui aveva visto il condottiere orizzontale in quanto
addormentato, mica morto.
“Calmati, Oreste,
siamo in guerra: morir uccisi rientra
nell’equazione!”, lo rimbeccò scocciato
Giorgio.
“Non
a tradimento!”, digrignò i
denti Zilio, posto forzatamente seduto da uno sbuffante Fra’
Mauro.
“Sì,
perché io in battaglia
t’avverto, prima d’aprirti le budella!”,
lo sbeffeggiò il maggiore, provocando
un rictus nel bizzoso minore, prontamente bloccato dal monaco
infermiere.
“Ciò,
basta voi due!”, brontolò
quegli, sfinito da tante bambinate.
“Invece, raccontatemi un po’
questa storia della fuga dal capitano Mercurio Bua!”
figurarsi se l’uomo non
conosceva bene quel nome, pronunciato col medesimo timore riservato al
Barababao. “Incominciando da te”,
incalzò Hironimo che, riprendendo possesso
del cuscino gentilmente raccoltogli da Fra’ Mauro,
cercò di riassumere in
maniera semplice ed esauriente l’intera faccenda:
“Mi
chiamo Hironimo Miani, del fu
magnifico missier Anzolo Miani da Carità-San Vidal. Sono un
patrizio veneziano
e castellano di Quero”, e deglutì, vergognoso e
furente contro se stesso al
ricordo della sua sconfitta militare. “Per un mese sono stato
prigioniero del
capitano Mercurio Bua Spata, da cui, come vedete, sono riuscito a
fuggire la
notte scorsa”, disse, glissando su di essa, fintanto che la
memoria non gli si
fosse raddrizzata, permettendogli di porre in chiaro ordine cronologico
eventi
e dinamiche.
Intanto,
nelle cucine, Fra’
Anselmo combatteva la sua personale battaglia, onde impedire che
Thomà ne
combinasse l’ennesima delle sue: il giorno scorso, infatti,
il capo-bombardiere
Orlando da Bergamo era venuto all’Ospedale a riportargli
indietro un
imbronciato fantolino, spiegando al monaco come questi avesse
approcciato i
suoi uomini, domandando se avessero bisogno di qualcuno per mescere le
polveri
da sparo.
“Perché non posso
aiutarvi? Odio
quanto voi i Tedeschi e i Francesi e conosco bene il
mestiere!”
“Stare tra i soldati nelle
casematte non è il posto più adatto ad un
bambino!”
“Balle di musso! Io ho
servito a
Castel Novo di Quer e ho condiviso il tetto con uomini, donne e bestie
senza
alcun problema!”
“Ugualmente non li servi,
hanno
già i loro aiutanti.”
“Allora prendetemi al vostro
servizio!”
“No, in campanile non ci
stai.”
“Perché
no?”
“Perché mi
saresti d’intralcio.”
“Non avete spazio per me, ma
per
ingrumarvi con la Zanze sì, eh?”
Fra’
Anselmo avvertì un certo
calore avvampargli le gote al ricordo di tal prosaico litigio tra il
bambino e
il bergamasco, conclusosi con quest’ultimo che tirava le
orecchie a Thomà,
apostrofandolo irritato e chiamandolo birba, canaglia, manigoldo.
Orecchie, a
giudicare dal rossore, che ancora bruciavano all’indispettito
fanciullo,
concentrato in quel momento a girare la polenta, borbottando
maledizioni e
improperi in un misto di veneto-feltrino e ladino.
“Suvvia,
mescere la farina di
polenta non sarà entusiasmante quanto le polveri da sparo,
ma almeno essa
produce un pasto, che aiuterà i nostri ammalati a guarire
presto e tornare a
combattere. Anche se indirettamente, lo stesso ti renderai
utile.”
Thomà
gracidò un gutturale e
profondo verso scettico.
“Ho
promesso che avrei vegliato su
di te, proteggendoti e assicurandomi che tu stessi al
sicuro”, gli ricordò
paziente il benedettino. “Fai torto al sacrificio del tuo
padrone, arrischiando
così sventatamente la tua vita.”
Il
piccoletto s’arrestò brusco,
tirando su col naso e guardando battagliero Fra’ Anselmo.
“Punto perché xéo
ancor prexon dil Bua, che mi vojo combatar: cussì quel
cancaro lo gh’avarà da
liberar, se lo spediamo a la malhorra!”
Il
monaco tentò di controbattere
quell’ostinata logica, sennonché Fra’
Mauro lo interruppe, scendendo a prendere
la colazione per i suoi ammalati. “Sei in ritardo”,
fu lieto l’uomo di cambiar
discorso, nel frattempo che una conversa scostava Thomà in
modo da levare la
pentola dal fuoco e rovesciarla su di un panno steso previamente sul
lungo
tavolo da lavoro. Un’altra delle conseguenze della parata
dimostrativa di La
Palice era che gli oblati e i novizi sia provenienti dalla
città sia tra i
fuggitivi fossero stati precettati a montar di ronda assieme ai
soldati,
rimpiazzati dunque dalle converse e le suore meno schizzinose.
“Mea
culpa”, ammise contrito Fra’
Mauro. “Purtroppo, mi sono ritrovato a separare due
litiganti, che saranno pur
ammalati, ma abbastanza pieni d’energie per menarsi
…”, si lagnò, scroccandosi
il capo indolenzito per la notte trascorsa sullo scomodo sgabello.
“Beati
i costruttori di pace”,
citò la conversa con ironica enfasi, intromettendosi, mentre
dava una forma di
cupola alla polenta con la punta del batocchio bagnato in acqua fredda.
Thomà,
in punta dei piedi, dopo aver immerso le mani sempre
nell’acqua fredda,
l’aiutava modellandola alla base.
“E’
pronta?”, tossicchiò il
canonico regolare, ignorando l’espressione divertita di
Fra’ Anselmo.
“Se
mi aiutassi …”, brontolò
sottovoce le donna, concentrandosi sul suo lavoro. “Bon da
niente”, aggiunse e
Thomà sogghignò d’accordissimo.
Fra’
Mauro, approfittando della
distrazione di lei, si guardò sospettoso intorno,
accostandosi poi al
benedettino con fare cospiratore. “Appena avrò
dato da mangiare a quelle belve,
mi recherò subito dal sior Provedador: prima lo
saprà, meglio sarà per noi.”
“Perché?
Cos’è accaduto?”,
inquisì perplesso Fra’ Anselmo, arcuando
sospettoso il sopracciglio e
conducendolo in un angolo più appartato.
“Cos’hai combinato?”, corresse la
domanda, intuendo l’imbroglio nel quale il religioso
s’era ritrovato suo
malgrado invischiato.
“Ebbene”,
fissò contrito Fra’
Mauro i suoi piedi, “stamattina s’è
aggiunto un … un paziente in più … e
…”
“E
…?”, pendeva il benedettino
dalle sue labbra, spronandolo a non cincischiare e ad arrivare al
dunque.
Thomà, dal canto suo, s’era allontanato in punta
dei piedi dalla conversa e
origliava sfacciato, smettendo quasi di respirare, le orecchie drizzate
a guisa
di gatto.
“Avrei
forse dovuto avvertire
immediatamente il sior Provedador, però …
Poareto, era giunto così malmesso e …
e m’ha fatto pecà doverlo svegliare, anche
perché, insomma, a quell’ora di
sicuro il missier Zuam Paulo se ne stava dormendo e non mi pareva il
caso di svegliarlo
…”
“Ciò,
stringi!”
“E
niente! Ho scoperto che il
nostro paziente non solo è un fuggitivo di quel barbaro di
Mercurio Bua, ma
addirittura il castellano della fortezza conquistata il mese
scorso!”, gli
rivelò Fra’ Mauro tra l’eccitato e
l’apprensivo, strabuzzando gli occhi dinanzi
all’espressione sconvolta dell’altro religioso.
“Me-Mercurio
Bua? Mese scorso?”,
balbettò stralunato Fra’ Anselmo, passandosi una
mano sulla bocca asciutta e
sulla barba pepe e sale. Vacillò indietro di un passo,
rischiando così di
pestare i piedi a Thomà, che rinculò
anch’egli, finendo contro il muro. “Ne sei
sicuro?”, esigette conferma, avvertendo la testa divenirgli
leggera.
“Ovvio
che sì, me l’ha raccontato
lui stesso”, confermò Fra’ Mauro
energicamente, nel suo intimo contento
d’essere portatore di tale novità. “Il
castellano. Sier Hironimo Miani.”
In
un attimo, due reazioni
contrastanti si svolsero sotto lo sguardo attonito del povero frate: la
prima,
in cui si vide spintonato via da Thomà che scattò
a guisa di lepre verso
l’uscita della cucina; la seconda, in cui dovette sorreggere
un Fra’ Anselmo
leggermente instabile sulle sue gambe, il tutto mentre la conversa li
fissava
disorientata.
“Fratello,
che vi succede? Vi
sentite male? Non sarà la febbre?”
“Oh,
Misericordia Divina …”, si
portò la mano al cuore l’uomo, accettando il
bicchiere d’acqua dalla solerte
donna, inginocchiatasi davanti a lui. “Quel … quel
volpone ce l’ha fatta …”
“Cosa
…?”
Sennonché,
un impaziente Thomà lo
distolse dai suoi confusi pensieri, tirandolo poco educatamente per il
saio.
“Ndove xélo? El mio patron, indove teo
gh’ha messo?”, insistette, battendo
nervoso il piede per terra. “Sto hospeal xé massa
grando!”, fu l’unica
spiegazione di cui lo degnò. “Mo’ via,
vecio! Resussita, no me vardare sì inbaucato!”
E
notando Fra’ Mauro totalmente
imbambolato, Fra’ Anselmo si ripigliò dal suo
incantamento e prese in mano la
situazione e con essa il braccio del fantolino, dirigendosi a grosse
falcate
laddove sospettava trovarsi il patrizio.
“No!
No!”, li corresse finalmente
il canonico regolare, sbracciando mentre li inseguiva.
“Dall’altra parte!
Dall’altra!”
“Ma
… e la polenta non ve la
prendete?”, rimase interdetta la conversa, lì col
tagliere in mano in mezzo
alla cucina, per poi sbuffare e correre a sua volta dietro a quegli
sciocchi
invasati.
Sicché,
entrando per l’ingresso
principale dell’Ospedale dopo la Messa mattutina e
domenicale, le madone Maria
Malipiero Gradenigo ed Helena Spandolin Miani e le loro fantesche
osservarono
sbalordite la curiosa processione ch’attraversa in fretta e
furia il cortile
interno, con Thomà aprifila diretto da Fra’ Mauro
che da dietro gli urlava le
indicazioni, seguiti da Fra’ Anselmo che teneva la mano
presumibilmente sulla
milza e la conversa che li seguiva reggendo in equilibrio precario la
polenta.
“Cos’è
tutto questo trambusto?”,
protestò indignata madona Maria, la cui bocca non riusciva a
chiudersi dallo
stupore e sconcerto. “Che razza di comportamenti sono questi?
Dove si credono
di essere? In un’osteria? In piazza il dì della
fiera?”, s’inalberò, mettendosi
subito alle calcagna dei gaglioffi col chiaro intento di rampognarli
per bene.
“Non tollero codesta gazzarra da bastasi! Di domenica,
poi!”
All’oscuro
di quanto avveniva
fuori dallo stanzone, Hironimo e Zilio seguitavano a scrutarsi in
cagnesco,
sfidandosi a vicenda a compiere il primo passo; Giorgio, invece,
spostava
apprensivo lo sguardo dal fratello al veneziano, elaborando rapido un
piano
onde evitare che s’azzannassero ambedue alla gola.
“E
così … siete fuggito?”,
intavolò un tentativo di conversazione, sperando di
distrarli tramite
cicaleggio.
“Sì”,
soffiò il giovane Miani,
gli occhi tuttavia puntati guardinghi sull’altrettanto truce
Madalo minore.
“Quindi …”, esitò, neppure
lui credendo a quell’inaspettata svolta d’eventi.
“Quindi sul serio siamo a Trevixo? Non … non mi
stai … ingannando?”
Giorgio
scosse il capo. “Perché
dovrei? Questa è Trevixo, dove siete giunto verso
… boh, manco mi ricordo …
comunque poco prima dell’alba. Due sentinelle vi hanno
condotto qui
all’Ospedale da Porta San Tomaso, purtroppo eravate svenuto o
addormentato e
non vi siete, immagino accorto di niente”, disse e
indicandosi orgoglioso il
petto: “Sono stato io che ho aiutato Fra’ Mauro a
districarvi da quelle orride,
orride catene. Ma che diamine pensava quel matto di Napoli di Romania?
Manco un
forzato nelle galee turche lo legano così! Io l’ho
sempre detto, che quello là
…” e fece un gesto sconciamente furbetto
“Il kyrie Petros, secondo me, s’è
pigliato una turca per seconda moglie, perché io non ho mai
…”
Al
che, balzando in piedi, Zilio
ruggì, interrompendo bruscamente il fratello:
“Avanti, bastardo! Confessa! Cosa
gli hai fatto? Era impossibile fuggire dal capitano, mi ricordo bene
come t’ha
incatenato! Lo hai ucciso, vero?” e d’un tratto i
suoi occhi si spalancarono
inorriditi. “E’ stato il Gambara! Tu e lui eravate
in combutta fin dall’inizio!
Il capitano aveva ragione! Quell’infame traditore bresciano!
Alla prima
occasione, giuro che … che …”,
sputò bile, impappinandosi, il collo rosso e
gonfio dallo sforzo.
“Il
Gambara, razza di cretino, si
trova ammalato a San Salvatore, dai Collalto!” , lo
sferzò snervato Hironimo,
sporgendosi in avanti e mulinandogli contro il pugno. “E non
ho ammazzato certo
il tuo moroso” qui Giorgio
ridacchiò a disagio e a Zilio andò di
traverso la saliva, “anche se Iddio m’è
testimone quante volte abbia
accarezzato l’idea di strangolarlo con le mie catene. Ma non
l’ho fatto: il tuo
capitano l’ho visto addormentato sul tavolo assieme ai suoi
degni compari,
probabilmente ubriachi della loro stessa boria!”
“Ugualmente
non potevi
scappare!”, insistette Zilio, paonazzo in volto.
“Non hai notato con che sorta
di catene sei arrivato? Nessuno avrebbe potuto camminare fin qui senza
attirare
l’attenzione, nessuno! E non ti sei guardato allo specchio?
Sei pelle e ossa,
potrei spezzarti in due come l’ala d’un
pollo!”, gli puntò contro l’indice.
“Qualcuno ti ha aiutato a fuggire! Parla! Chi è il
tuo complice? Che cosa ne
avete fatto del mio capitano?”
Inconsciamente,
il patrizio
incrociò le braccia al petto, sulla difensiva. Non
necessitava delle ovvie
constatazioni di Madalo per ricordarsi che sì, grazie al
trattamento del Bua
era divenuto più emaciato d’un gatto randagio.
“Figurati se a te vado
a raccontare i fatti miei!”, ribatté altezzoso.
“Perché
sei uno schifosissimo
bugiardo, ecco il motivo!”
“Puoah!
Non m’importa se mi credi
o no; ho detto la verità e della tua opinione, in tutta
franchezza, mi ci
sciacquo le …”
“Patron!!”
Hironimo
non riuscì a finire la
sua prosaica arringa, essendosi infatti all’improvviso
ritrovato scaraventato
all’indietro sul materasso e il viso bagnato da quelli che
suonavano come umidi
schiocchi di labbra e singhiozzi. Avvertendo un certo peso molesto
sullo
stomaco, il patrizio si sciolse da quell’inaspettato
abbraccio, afferrando il
suo assalitore per le spalle e costringendolo seduto.
“Patron!”
Gli
occhi del giovane Miani si
riempirono d’istintive lacrime di gioia: davanti a
sé, piangente e pure col
moccoletto al naso, il suo Thomà si sforzava titanicamente
di darsi un
contegno, sorridendogli però beato. Immediatamente, il
patrizio gli circondò il
viso con le mani, studiandolo fino all’ultimo dettaglio e
soltanto allora, in
quel momento, la consapevolezza che era a Treviso, al sicuro, gli si
presentò
chiara e nitida nelle fattezze del suo fantolino, che mai
più aveva sperato di riabbracciare
in quella vita.
Ed
eccolo là, invece, più paffuto
di quando l’aveva lasciato nel bosco del Montello, le gote di
nuovo rossicce e
lo sguardo sveglio e limpido. Tremante, gli passò la mano
tra i capelli biondi,
decisamente più corti e meno ingarbugliati. Era
così bello. Così perfetto. La
speranza del futuro.
Dio
l’aveva salvato. Aveva
ascoltato la sua richiesta e l’aveva condotto, contro ogni
aspettativa, in
salvo. E nella Sua infinita e imperscrutabile misericordia, gli aveva
concesso
la grazia di poterlo stringere di nuovo a sé, a
testimonianza che nulla Gli era
impossibile.
Si
portò il bambino al petto,
cullandolo, appoggiando la fronte sulla sua piccola spalla; gli
massaggiò la
schienuccia, il battito eccitato del suo cuoricino tanto dolce e
rassicurante
quanto il coro angelico dell’intera corte celeste, i suoi
baci teneri e puri
come le preghiere dei santi.
“Gh’avé
mantegnuo ea promesa,
patron!”, cinguettò contento Thomà,
mescolando risate a singulti. “Gh’avé
mantegnuo ea promesa …” e per lui, maltrattato e
disilluso dalle menzogne e
dall’opportunismo degli adulti, essa corrispondeva alla
più sublime
dichiarazione d’amore. Il suo patron gli aveva giurato di
ritornare e così era
stato, aveva mantenuto la parola data, di non abbandonarlo e di vivere
e
lottare per proteggerlo.
“Brutto
cancaro!”, s’intromise
una voce più anziana ed Hironimo, senza aver il tempo di
processare, venne
circondato da un secondo paio di braccia e il viso mezzo soffocato
dalla stola
di Fra’ Anselmo. “Ti avevo creduto
morto!”, farfugliò commosso.
“No!”,
protestò bellicoso Thomà,
sottraendogli il capo del patrizio, per tenerselo appresso,
gelosissimo. “Teo
ghavevo dito, che nol gera possibile ch’el mio patron se
fasesse copar da quel
turcho travestio da cristian!”
Il
benedettino, sopraffatto
dall’emozione, neanche si premurò di ribattere,
annuendo demente e seguitando
ad accarezzare la zazzera ingarbugliata del giovane Miani, tra i cui
capelli
sporchi indugiava ancora quell’intenso profumo di rose.
Inoltre, quando il
giovane levò la mano destra per detergere via i rimasugli
delle lacrime dalle
guance del fantolino, l’uomo s’accorse che detta
mano si mostrava
inspiegabilmente pulita, intatta, le unghie rosee e regolari,
contrariamente
alla sinistra che rimaneva sporca, graffiata, quasi una zampa
d’animale.
Com’era possibile? – si domandò confuso,
girandosi verso Fra’ Mauro, in piedi
dietro di lui, e il suo boccheggiare gli confermò che no, il
canonico regolare
non aveva avuto ancora occasione di lavare il patrizio e perfino la
conversa
assisteva in muta contemplazione, le narici dilatate dallo sforzo di
annusare
quell’odore così forte e avvolgente,
più delle corone di rose sugli altari
della Madonna a maggio.
“Una
fuga davvero straordinaria”,
mormorò Fra’ Anselmo, avvertendo nel cuore una
strana sensazione, conscio di
trovarsi dinanzi a qualcosa di misterioso e magnifico, sebbene
racchiuso in un
avvenimento in apparenza normale, quanti fuggitivi prima del Miani
s’erano
presentati a Treviso? Ma nessuno di essi gli aveva provocato quello
smarrimento
e al contempo sollievo, sentendosi testimone dell’inizio di
un progetto più
grande e imperscrutabile.
“Hieronymos!
Oh, Hieronymos!”
Degne
emule di Marta e Maria
davanti al fratello Lazzaro redivivo, madona Maria e madona Helena
erano rimaste
dapprincipio impietrite all’uscio della porta, le mani alla
bocca o al petto;
scuotendo il capo, avanzavano incerte verso Hironimo, gli occhi velati
di
stupore e per la greca di lacrime, la quale in un balzo
sorpassò la nobildonna
più anziana e raggiunse il capezzale del cognato. Si
bloccò tuttavia
all’ultimo, allungando cauta una mano, quasi temesse in
un’allucinazione.
“Eleni”,
la salutò Hironimo, le
gote vermiglie perché, sotto il lenzuolo, non indossava
alcunché, scoprendo che
la premura di Fra’ Mauro e Giorgio Madalo s’era
allargata a liberarlo dalle
mutande sporche, oltre che dalle catene.
Sua
cognata, infischiandosene del
suo palese imbarazzo, l’abbracciò
d’istinto, baciandogli ambedue le guance
barbute. Thomà si scostò pieno di gentile
discrezione, in paziente attesa però
di riavere il suo patron non appena possibile. “Ci rodevamo
dall’ansia per te!
E quello sciagurato non ci ha mai contattato né per un
riscatto né per uno
scambio! Abbiamo scritto ai nostri fratelli e allo zio Baptistes per
trovare
una soluzione … anche mio padre è andato a
negoziare con la moglie di quel
tanghero …” Il giovane Miani trattenne il fiato,
avvertendo un nodo allo
stomaco: dunque la sua famiglia s’era attivata con ogni mezzo
per liberarlo?
Non s’erano dimenticati di lui? Malgrado i suoi difetti, le
sue intemperanze e
meschinità, gli volevano ancora bene?
“Abbiamo
tentato di ottenere
informazioni sul tuo conto, di metterci in contatto con te,
però ci dicevano
che eri sempre tenuto sottocchio dal Buas e che impossibile perfino
avvicinarsi
al suo padiglione … ma …”,
farfugliò esagitata Helena e ghermitolo per il volto
e strizzandolo per le guance, lo costrinse perentoria a guardarla
dritto negli
occhi: “Ma come sei riuscito a fuggire?
Quand’è successo? Quando sei arrivato
qui?”,
lo scuoteva, incalzandolo.
“Dasin,
dasieto, madona Helena,
così finirà per ingoiare la lingua!”,
le pose madona Maria le mani sulle
spalle, invitandola a cessare il suo serratissimo interrogatorio.
“Tre domande
di fila sono troppe per questo poveretto”,
scherzò, per quanto anche la sua
voce tremasse impercettibilmente e anch’ella contemplasse
stranita il giovane
patrizio, il quale anguillava a disagio sotto le coperte.
“Non potete
immaginare quanta gioia ci arrechi il vostro ritorno”,
confessò sincera ad
Hironimo, che ricambiò in un debole sorrisetto, il lenzuolo
fin quasi sotto il
mento, da imitare il bozzolo d’un baco da seta.
“A
tal riguardo”, l’assicurò Fra’
Mauro, cogliendo l’occasione favorevole per minimizzare
l’impatto che tale
notizia avrebbe avuto sul provveditore, “mi stavo giusto
recando a Palazzo per
notificare il vostro sior marido. Di certo vorrà
anch’egli apprendere i
dettagli della fuga di sier Hironimo.”
Come
tutti all’interno di quella
stanza, d’altronde.
“Indubbiamente”,
convenne madona
Maria, riacquistando il suo usuale piglio determinato e programmatore.
“V’accompagnerò e per la via mi
spiegherete quanto già sapete”, aggiunse,
elargendo un’occhiata significativa al canonico regolare, che
tartagliò qualche
frase di circostanza su quanto la prospettiva gli recasse un immenso
piacere.
Dopodiché, sorridendo maternamente benevola al Miani:
“E voi adesso badate a
recuperare le forze. Mangiate, lavatevi, dormite. I vostri tormenti
sono
finiti: siete a casa, nella vostra terra. Sorella”, si
rivolse poi alla
conversa, che scattò sull’attenti.
“Quando avrai finito di servire la
colazione, corri a preparare una tinozza d’acqua calda e
soprattutto vai a
raccogliere della cenere di legna. Ne avrai molto bisogno
…”, le ordinò,
alludendo alla massa informe di capelli d’Hironimo, di sicuro
impestata di
pidocchi.
Ponendosi
in piedi e lisciandosi
la gonna, Helena aggiunse: “Io mi recherò invece
dal barbiere e poi a casa dei
Cimavin, a prendere i vestiti che il Marcolin ti ha lasciato.”
“Marcolin
è stato qui?”,
strabuzzò gli occhi Hironimo, incredulo e speranzoso.
“Non era a Padoa?”
“No,
s’è trasferito qui, ma poi
s’è ammalato ed è dovuto rientrare a
Veniexia e … oh, insomma! Non mi
distrarre!”, protestò falsamente indispettita la
greca, in realtà sorridendogli
raggiante, tanto da ingarbugliarsi in un contraddittorio balletto,
indecisa in
quale direzione andare, se a destra o sinistra, tipica sua reazione
quando
presa dall’entusiasmo.
“T’aggiornerò più tardi,
promesso!”
E
nell’allegra confusione
creatasi, laddove ognuno s’affannava di qua e di
là o ronzava attorno al Miani,
ricoprendolo di domande e attenzioni, tre persone erano rimaste in
disparte,
aliene da tanta contentezza: la prima, Zuaneta, ch’era
sgattaiolata via in direzione
del Castello; e la seconda, Giorgio Madalo, che fosco in volto
osservava suo
fratello mangiare ignaro la sua colazione, temendo in cuor suo come il
provveditore sier Zuam Paulo Gradenigo, venendo a conferire col
fuggitivo,
avrebbe potuto cogliere l’occasione per trasferire
definitivamente Zilio nelle
stinche e lì interrogarlo.
***
Solitamente,
niente nuove buone
nuove; peccato che l’ennesimo ritardo
d’informazioni da parte delle spie
nell’accampamento nemico più ch’ispirare
ottimismo, formasse teorie d’opposta
natura. Gli unici che ritornavano erano gli stradioti in esplorazione:
il loro
aspetto scarmigliato e le ferite riportate (uno di loro, piuttosto
grave, era
stato spedito immediatamente in ospedale) confermavano i sospetti del
provveditore di Treviso, ossia di come i Collegati si stessero
avvicinando
sempre di più alla città.
Rientrato
dalla funzione
domenicale e seduto a tavola, sier Zuam Paulo Gradenigo, disertato
dalla
moglie, aveva invitato sier Lunardo Zustignan a colazionare con lui e
non
soltanto per della mera compagnia, bensì per confrontarsi su
alcuni suoi dubbi.
Infatti, quando il trentaduenne patrizio lo aveva raggiunto, il
provveditore
aveva già compilato una lettera lunga due mani per la
Signoria, lamentando
l’eterna penuria di uomini e di danari per le paghe e, di
conseguenza,
richiedendo ambedue in gran pressa.
“Di
tasca mia ho già pagato buona
parte della guarnigione”, lo informò Zustignan,
addentando una fetta di pane,
burro e lardo. “Cosicché per altri quaranta giorni
i loro servigi – e il loro
collo, in caso d’indisciplina – sono stati
assicurati.”
“Ci
basteranno, questi quaranta
giorni?”, s’interrogò cupo sier Zuam
Paulo, appoggiando il bicchiere vuoto.
“La
Peliza ha scoperto le sue
carte”, cogitò ad alta voce Lunardo, due dita
sotto il mento. “E’ intenzionato
a porre Trevixo sotto assedio e questo significa che si sente forte dei
suoi
numeri. Non tarderà d’attaccare.”
“Dunque
o l’esercito di Zuanne
Gonzaga o dei Todeschi s’è unito a quello dei
Franzosi”, concluse amaro il provveditore,
tamburellando scocciato le dita sulla tovaglia.
“Quello
del Gonzaga dubito
assai”, replicò il patrizio più
giovane. “Ricordatevi la liberazione di Soave
da parte di sier Ferigo: quella fortezza era un punto nevralgico per i
nostri
nemici, senza di essa come collegamento tra Verona e Vicenza il signor
Zuanne
faticherà non poco ad armarsi e a raggiungere in tempo La
Peliza e se ciò
dovesse accadere, sarà o per aiutarlo ad assedio
incominciato oppure per
coprirgli le spalle durante la ritirata.” Morsicò
un altro pezzettino di pane,
masticandolo lentamente e, deglutitolo, si nettò
l’angolo della bocca. “A tal
proposito, cosa risponderete alla lettera di sier Christofal e sier
Polo?”
I
due provveditori di Padova,
oltre che ad informare il loro collega Gradenigo circa la vittoria
riportata
contro i Collegati a Soave, proponevano una seconda cavalcata e questa
volta a
Noale, onde rallentare le truppe gonzaghesche partite da Vicenza ed
isolare
ulteriormente La Palice. Sier Zuam Paulo aveva lodato tale iniziativa,
aggrottando tuttavia la fronte quando sier Moro e sier Capelo gli
avevano
richiesto di spostare parte delle fanterie e della cavalleria appunto a
Noale,
inviando Renzo di Ceri e Vitello Vitelli a sostegno degli stradioti di
sier
Ferigo Contarini.
“E’
una decisione molto
difficile”, ammise Gradenigo, “da una parte,
riconquistare Noal a qualche
giorno dall’assedio vero e proprio invierebbe un messaggio
molto forte a La
Peliza, dimostrandogli che non solo non temiamo né lui
né la sua masnada di
senzadio, ma che possediamo uomini e munizioni a sufficienza per
muovere guerra
contro i suoi alleati. Dall’altra parte,
però”, aggiunse, servendosi di un
altro bicchier d’acqua, “sappiamo benissimo che non
possiamo permetterci questo
lusso.”
Lunardo
emise un profondo
sospiro. “Stamane ne ho discusso col capitano Vitelli:
purtroppo, siamo a quota
millecinquecento di soldati ammalati di febbre, questo escludendo i
nostri
gentiluomini che sono dovuti rientrare a Veniexia. Io stesso ho dovuto
congedare uno dei miei fanti e anche sier Hironimo Capelo, sier Piero
Gradenigo, sier Alvixe Zorzi e sier Alvixe da Canal hanno perso alla
malattia
alcuni dei loro.”
“Ho
già richiesto almeno mille
fanti alla Signoria e ancora non ho ricevuto alcuna risposta a
riguardo. Non
capisco perché, ma sembra concentrata esclusivamente alla
difesa di Padoa.
Siamo forse noialtri i figli della serva? Questa terra per due anni
s’è tenuta
fedele a Sen Marcho, mai occupata, meriterebbe miglior
considerazione!”, si
sfogò l’uomo, frustrato. “Specialmente
ora, con la Patria del Friuli occupata e
il Cadore minacciato!”
“Quando
le nostre spie ci avranno
riferito i movimenti dell’accampamento nemico, otterrete
migliori
argomentazioni per supportare le vostre richieste”, lo
consolò pragmatico
Lunardo. “Dimenticatevi delle truppe del Gonzaga: non sono
che delle formichine
a confronto del vero avversario, ossia dei Todeschi i quali avranno di
sicuro
razziato ben bene la Patria del Friuli, portando a La Peliza vittuarie,
genieri, guastatori, barche, artiglierie, etc. A costoro
s’appoggia veramente
monsignor il maresciallo, non a quell’esercito da
parata dei
Mantovani.”
Malgrado
il futuro tutt’altro che
roseo, un mezzo sorriso sfuggì a sier Zuam Paulo, nel suo
intimo contento di
quel colloquio col Zustignan, che pur giovane possedeva quei nervi
saldi e
spirito calcolatore necessari a progetti a lungo termine, affrontando a
sangue
freddo ogni situazione. Similmente ai suoi fratelli Lorenzo e
Pangratio,
Lunardo s’era formato nello Stato da Mar e nel Levante,
l’unica esperienza a
detta di Gradenigo che forgiasse appropriatamente alla guerra. Quando
aveva
letto per la prima volta la lista di patrizi veneziani inviati a
Treviso, il
provveditore s’era rallegrato nel riconoscere
l’ex-sopracomito agli ordini del
capitano delle navi stanziate sul Po, sier Hironimo Contarini detto
“il
Grillo.” Era stata la rapidissima squadra navale di Lunardo
Zustignan, infatti,
ad aver liberato Loreo e Torrenuova [1a] dal giogo dei Collegati: le
sue barche
armate avevano intercettato e affondato tutte le fuste dei ferraresi, i
quali,
forti della loro vittoria a Polesella, avevano puntato a riconquistare
l’antico
avamposto veneziano o perlomeno di distruggerlo tramite un devastante
incendio.
Sfruttando il momentum e senza dar tregua ai ferraresi, “il
Grillo” e Zustignan
avevano organizzato una controffensiva nonché spedizione
punitiva nei confronti
di Are [1b] e Ariano, colpevoli non tanto d’essersi arrese
agli estensi, bensì
d’averli fornito una base d’appoggio per le loro
scorrerie a Loreo.
Di
confrontarsi con una persona
quindi avvezza alle fatiche e ai continui imprevisti della guerra aveva
bisogno
sier Zuam Paulo in quei momenti, non incontrando alcuna
affinità né tra i
condottieri dalla precaria lealtà né nel
podestà sier Andrea Donado, abile come
amministratore ma pessimo nelle questioni militari.
“Sospetto”,
proseguì Lunardo,
distogliendo Gradenigo dai suoi pensieri, “che il ritardo
delle nostre spie sia
dovuto ad uno spostamento del nemico …”
“Hanno
appena montato
l’accampamento a Torre di Maserada, perché
cambiare così improvvisamente?”
“Lo
scontro contro gli stradioti
dei capitani Andrea Pera – a chi Dio perdoni – e
Thodaro Rali li avrà
instillato il dubbio circa la nostra conoscenza della loro esatta
ubicazione,
al punto da persuaderli a cercare un luogo a noi ignoto e lì
riorganizzarsi.”
“Una
bella gatta da pelare per
noialtri”, constatò pensoso sier Zuam Paulo,
disegnando sul tavolo con la punta
del coltello dei ghirigori concentrici.
“Dobbiamo
pazientare”, s’arrese
Zustignan all’evidenza. “Anche se minaccia
battaglia, La Peliza si muove
comunque troppo lentamente per impedire una fuga di notizie e, in tutta
questa
confusione, è possibile che qualcosa trapeli o che qualcuno
…”
Un
deciso battito alla porta li
interruppe.
“An,
mojer, non v’aspettavo!”,
s’alzò in piedi il provveditore, tosto imitato da
Lunardo, che s’inchinò,
esclamando: “S-ciavo, patrona.”
Madona
Maria Malipiero Gradenigo
entrò in un vivace sgonnellare nella stanza, avanzando
dritta verso il marito,
il quale le afferrò le mani offerte, baciandogliele
lievemente. “Vi credevo
all’Ospedale”, dichiarò, aggrottando
preoccupato la fronte. “E’ successo lì
qualcosa? Vi hanno insolentita?”
“Sì
e no”, rispose ambigua la
donna, deliziandosi un pochettino del tormento del consorte.
“Nell’anticamera
v’attende Fra’ Mauro, frate canonico regolare alla
Madona Granda e infermiere:
vi supplica, in tutta cortesia, urgente udienza.”
Sier
Zuam Paulo cambiò peso da
una gamba all’altra, figurandosi in anticipo la petizione del
monaco,
arricchita da lamentele circa la penuria di medici e cerusici e
l’arruolamento
forzato di novizi e oblati, che li aveva privati d’utili
braccia.
O - Dio gliela scampasse
– il canonico forse era venuto a
denunciare l’ennesimo tentativo di Renzo di Ceri
d’abbattere la cappella di
Santa Maria Maggiore.
“Sta
bene”, sospirò
svogliatamente l’uomo, “vedrò come posso
accomodarlo.”
“Ora
però sono io che vi
supplico, sior marido, d’esercitare la vostra pazienza e
clemenza sia nei suoi
confronti sia dei suoi, per così dire, complici. Hanno agito
spinti da mera
carità cristiana, senza malizia alcuna né
tornaconto personale; meritano
pertanto la vostra comprensione e perdono, se necessario.”
“C’intrigate,
madona Maria”,
colmò Lunardo la momentanea incapacità di sier
Zuam Paulo di replicare dinanzi
a tal criptico discorso, seguitando infatti a fissarla perplesso.
“Avete
scoperto una piccola congiura?”
“A
fin di bene”, reiterò la
patrizia, la sua mano posata delicatamente sul braccio del marito,
quasi a
calmarlo preventivamente. “Fra’ Mauro si
è preso cura di un fuggitivo, arrivato
qui a Trevixo stamattina, poco prima dell’alba
…”
“Cosa?!”,
sbottò appunto
Gradenigo, livido in volto e subito sul piede di guerra.
“Hanno osato aprire il
portello di notte?! Chi è stato il folle e a quale
porta?”
“Forse
… forse è avvenuto quando
l’ultimo corriere è partito alla volta di Veniexia
…”, tentò Zustignan di
giustificare quel comportamento assurdo, in piena disobbedienza del
chiarissimo
regolamento.
Madona
Maria li chetò ambedue
tramite un deciso svolazzo della mano. “Avrete tempo e modo
d’esigere
spiegazioni, adesso vi limiterete per favore ad ascoltarmi
perché vi confesso
ch’io per prima sono basita dinanzi a quest’evento.
L’unica mia certezza è che,
per suo merito o per intercessione di questa Nostra Donna di Trevixo,
sier
Hironimo Miani è riuscito a scappare
dall’accampamento nemico e ora si trova
all’Ospedale e …”
E
suo marito e Lunardo non le
permisero di concludere il discorso, dimentichi della colazione ormai
abbandonata sul tavolo. Il provveditore, silente e sbigottito quanto il
concittadino, s’affrettò a pigliare sottobraccio
la nobildonna e i tre si
diressero quasi correndo nell’anticamera, pronti
all’interrogatorio prima del
frate e delle sentinelle e poi dello stesso Miani.
Chissà
che non fosse
l’ex-castellano di Quero la tanto sospirata “fuga
di notizie” di cui tanto
disperatamente necessitavano per la salvezza di Treviso, dei suoi
abitanti e
della Signoria.
***
“Oh,
xé la Zuaneta!”
“S-ciavo,
Zuaneta!”
“Zò,
splendore, ‘ndove corestu
cussì de pressa?”
La
ragazzina interruppe la corsa,
riprendendo fiato e sistemandosi una ciocca umida dietro
l’orecchio, sfuggitale
dalla crocchia. Si lisciò il grembiule, nettandolo da
dell’invisibile polvere e
raggiunse il gruppetto di fanti all’entrata del Castello, tra
la caserma e la
chiesetta di San Marco dei Bombardieri.
Memore
della terribile esperienza
sul Montello, Zuaneta di solito s’aggirava guardinga tra i
soldati,
considerandoli tutti imprevedibili e violenti alla stregua
d’animali selvatici,
indipendentemente dal gonfalone che servivano. Coloro che
l’avevano salutata,
al contrario, non la intimorivano un po’ perché o
avevano o le ganze o le mogli
appresso a garanzia e un po’ perché appartenevano
alla compagnia di sier Marco
Miani, il suo salvatore, i quali a loro modo l’avevano un
poco adottata,
comportandosi piuttosto protettivamente nei suoi confronti.
“Mi
voria parlar col magnifico
sier Marco Miani, de grassia”, dichiarò
forbitamente concisa la giovinetta, le
braccia dietro la schiena e il capo reclinato vezzosamente su di un
lato.
“Gh’ho un’imbasata di la soa clarissima
siora mojer …”, abbassò la voce,
ponendo la mano a cuneo agli angoli della bocca in modo che nessun
altro
ascoltasse la loro conversazione.
I
cinque fanti sghignazzarono
maliziosi. “Ahi, ahi … cossa ghalelo
combinà el missier, qua, per meritarse ambasador
et imbasada?”, commentò Cabriel, strizzando
l’occhio ed elargendo al
commilitone una giocosa gomitata. “Demo, su”, le
fece cenno di seguirlo dentro
in caserma, intanto che gli altri, rimasti alle loro postazioni,
confabulavano
peggio delle comari sulla natura del misterioso messaggio di madona
Helena al
marito.
La
peculiare coppia s’imbatté in
sier Marco proprio mentre quest’ultimo stava uscendo dai suoi
alloggi, appena
cambiatosi per il suo turno di ronda. Cabriel attirò
l’attenzione del
superiore, fermandolo e traendolo in disparte, acciocché non
intralciassero il
viavai degli altri militi lungo il corridoio. “Zelenza
colendissima, ea
tosatela qua gh’ha da comunicharve qualcossa. Xéa
vuostra siora mojer chea
manda.”
Il
Miani spostò circospetto lo sguardo
su Zuaneta, la quale avvertì un familiare calore alle
guance, avvampando
pudicamente lusingata da quell’attenzione.
“Donca?”, le domandò cortese,
intanto che infilava i guanti di cuoio. “Cos’ha la
mia siora mojer da
riferirmi?” e manteneva un tono neutro, cosicché
non tradisse alcun’ansia, non
attendendosi infatti un messaggio da parte di Helena a
quell’ora sì temprana e
già la sua mente formulava lugubri scenari circa il suo
contenuto.
“Patron”,
soffiò eccitata la
giovinetta, intrecciando le dita e saltellando quasi da un piede
all’altro, “la
vuostra siora mojer a me gh’ha comandà de dirve,
ch’el sior vuostro fradelo xé
fuzito da le man de’ inimici!”, gli
annunciò tutto d’un fiato e sorrise
complice, sperando di rallegrare il patrizio veneziano, la cui
espressione
invece si tramutò in pietra, irrigidendosi da capo a piedi
in un battibaleno.
Marco
strabuzzò gli occhi,
deglutì di traverso e arretrò d’un
passo, scuotendo la testa come per
riordinare i pensieri d’un tratto impazziti peggio
d’un vespaio. La lingua gli
s’attaccò al palato, sicché solo mezzi
versi e parole sconnesse uscirono dalla
sua bocca, mentre il suo cervello ripeteva ostinato e
all’infinito quella
semplice parolina. Fuzito. Suo
fratello, il suo Momolo,
costretto alla prigionia, separati da un esercito e da un mercenario
senza
scrupoli, il suo fratellino della cui sorte poteva solo immaginare e
per la cui
liberazione aveva incessantemente sofferto e pregato, ecco, era
scappato.
Fuggito, evaso dalla sorveglianza del nemico, scavalcando quel triste
ostacolo
che gli impediva di ricongiungersi, di figurarsi assieme.
Fuggito,
fuggito, fuggito.
Aveva
tanto sperato in
quell’evento, da non capacitarsi ora della sua
concretizzazione. Momolo era
libero. Libero. Gli era stato restituito. Gli pareva assurdo, una
beffa. Troppo
bello per essere vero.
“Non
ti stai burlando di me?”, si
sforzò l’uomo di rimanere calmo, ricordandosi che
la ragazzina gli veniva
incontro soltanto in veste d’ambasciatore e infierire su di
lei non serviva a
niente. “Mio fradelo …?”,
sbiascicò, mordendosi a sangue le labbra, il petto
stretto in una morsa dolorosa, neanche temesse che Hironimo si sarebbe
volatilizzato, se avesse pronunciato ad alta voce quelle parole.
“Patron,
ch’el liom di Missier
Sen Marcho me squarti a morseghi, se ve conto el falso!”, si
pose una mano sul
cuore Zuaneta, levando contemporaneamente l’indice e il medio
in alto. “Vuostro
fradelo stà horra a l’Hospeal, lo gh’ho
visto mi co sti ocij!”, gli raccontò
celere e il suo visetto si deformò in una triste maschera.
“Poareto, se savesse
chome lo gh’han maltrattà! Xélo
cussì secho-secho, pì dil fiol di la
miseria!”
Marco
cacciò fuori un secondo,
profondo sospiro, sforzandosi di respirare normalmente. Gli sorse
perfino un
piccolo riflusso acido in gola. “Devo … devo
informare sier Alvixe che … non
posso assentarmi senza … Torna da Helena e dille
… dille che la raggiungerò
appena potrò … non ci impiegherò molto
tempo …”, fu il suo distratto congedo
dalla ragazzina, la quale scoccò un’occhiata
perplessa a Cabriel, che replicò
tramite una scrollata di spalle.
Dal
canto suo, il Miani si
diresse nella direzione opposta, alla ricerca di sier Alvixe da Canal,
onde
persuaderlo a coprirlo per qualche ora, giusto il tempo di recarsi
all’Ospedale
e lì verificare con mano della veridicità della
notizia. Un po’ per la sua
innata santommaseria; un po’ perché fremeva dalla
voglia di stringere al petto
il suo fratellino finalmente salvo; un po’ per valutare gli
interessi da far
pagare a quel maledetto di Mercuria Bua …
“Ciò!
Ciò! Vacci piano col
mangiare! Il tuo stomaco non è abituato!”
Cacciandosi
in bocca un’intera
fetta di soppressa, previamente arrotolata ad arte, Hironimo
dissentì dal cauto
approccio di Fra’ Anselmo, che sottolineava i suoi consigli
tentando di
sottrarre qualsiasi alimento nel raggio d’azione
dell’affamatissimo giovane.
Tutto
era incominciato quando
Helena, chiedendo un’altra porzione alla conversa,
s’era sentita rispondere: “Ma
siora madona, quello era il pranzo!” e
soltanto allora la greca s’era
accorta della piccola pila di piatti appoggiata per terra, accanto al
letto. “Cosa faccio?
S’è mangiato due porzioni di stufato,
un’intera
pagnotta, una grossa fetta di formaggio, tre uova sode, mezzo pollo
… gli servo
l’altra metà? Gli preparo un brodetto di pan
fritto e uovo?”
“Basta
che te me s-ciopi!”
(esplodi, ndr.), si contese il benedettino la ciotola della zuppa ad
Hironimo,
il quale premeva una mano al petto dell’uomo e lo allontanava
da sé, intanto
che, voltato dalla parte opposta, ingollava a grosse sorsate il
delizioso
brodo. Sarebbe stato più facile strappare una bistecca ad
una tigre. “Nessuno
ti toglie né il pranzo né la cena, non
c’è bisogno d’ingozzarsi!”
“Hieronymos,
Fra’ Anselmo ha
ragione: potresti soffrire più tardi
d’indigestione …”, mediò
Helena tra i due
avversari. “Per favore, sii ragionevole!”
“Ho
fame!”
“Aspetta
magari l’ora di pranzo,
ti serviranno tutto il cibo che vorrai.”
“Ho
fame adesso!”
Thomà
convenne partecipe
all’impellenti necessità del patrizio,
approfittando dell’alterco a tre per pelarsi
indisturbato un uovo sodo.
L’intera
mattinata per fortuna
era stata spesa in modo più proficuo, avendo avuto la
conversa l’accortezza di
servire ad Hironimo la colazione solamente dopo il bagno e
l’incontro col
barbiere. Infatti, una volta addentato il primo boccone, non
c’era più stato
verso di farlo smettere di mangiare, buttandosi egli a pesce su ogni
portata.
Fra’
Anselmo e Thomà l’avevano
aiutato ad entrare nella tinozza, in quanto zoppicante per via delle
piaghe
aperte sotto le piote. Il fantolino, armato di spugna e sapone,
s’era
arrotolato le maniche e gli aveva sfregato la schiena con tutta la
forza delle
sue braccine, mentre il Miani provvedeva al resto, di tanto in tanto
interrotto
da qualche proditoria secchiata versatagli in testa da uno
sghignazzante
benedettino, rendendo il bagno tutto fuorché rilassante. Del
resto Hironimo per
primo s’era adoprato alacremente a levarsi di dosso
quell’insopportabile
sudiciume, grattando via croste, pelle morta e altre schifezze
appiccicatesigli, impaziente di contemplare infine il vero colore della
sua
pelle. Ad operazione terminata, l’acqua si presentava
talmente sporca, d’aver
assunto una tinta grigio-verdastra, manco l’avessero attinta
da una
palude.
Dopodiché,
il monaco benedettino
gli aveva disinfettato le ferite e bendato i piedi, le caviglie, i
polsi e
parte del busto, aspettando la rasatura della barba prima di fasciare
il collo,
che comunque presentava escoriazioni meno profonde. Indossare gli abiti
di
Marco Contarini aveva poi sortito un insolito effetto nel patrizio, il
quale
continuava a scorrere deliziato le dita sulle maniche dello zipone e
sulle
braghe, assaporando il tepore e la morbidezza degli indumenti contro la
sua
pelle dopo un mese di forzata nudità, perennemente
martoriata dal freddo e
dagli insetti. Soltanto i piedi aveva per il momento lasciato scalzi,
ragionando Helena e Fra’ Anselmo se fosse il caso di dargli
delle pianelle
piuttosto che delle vere e proprie scarpe, almeno fintanto che le
piaghe non si
fossero asciugate.
Non
che Hironimo dovesse recarsi
chissà dove, semmai era il mondo che veniva da lui, come il
barbiere, il quale
lo liberò sia dalla fitta barba irsuta sia dai fastidiosi
pidocchi a furia di
riempirlo di cenere di legna, questo però a scapito della
sua capigliatura. Il
giovane Miani aveva trattenuto fin allo stremo il doloroso fastidio ai
tentativi del barbiere di districare i nodi ai capelli, alcuni di essi
talmente
duri e compatti, da sembrare dei ciuffi di lana. Sicché,
scuotendo la testa,
l’uomo aveva sbrigativamente pigliato le forbici e ad
Hironimo s’era stretto il
cuore nell’assistere, una ad una, le sue ciocche scure
cascargli ora in grembo
ora ai piedi, accomiatandosi da coloro ch’erano state un suo
motivo di vanto.
“Mo’
via, patron! Vi ha
tagliato fino a quattro dita dall’orecchio! Sempre meglio di
me, che sembro
aver in testa le chiappe d’un pulcino!”
“Ecco, ed io faccio il
nido!”
In
tutta onestà? Malgrado i
disagi delle ferite, della nuova acconciatura, dei crampi della fame e
delle
liti con Fra’ Anselmo, Hironimo scoppiava di
felicità, beandosi della gioia di
trovarsi circondato da persone che gli volevano bene e che lui
ricambiava
altrettanto appassionatamente. Non ricordava l’ultima volta,
in cui aveva
provato tanta pura e spensierata allegria, sentendosi leggero e in pace
con se
stesso. Svanita la sottile e ben radicata collera, la cupezza
dell’invidia e
del risentimento, ingoiati dalla luce di una nuova serenità
interiore. I rami
pieni di spine del suo cuore s’erano seccati, lasciandolo
respirare e ritornare
alla sua iniziale morbidezza. Da un lato non trovava in sé
alcuna differenza da
prima; ciononostante, il giovane Miani era sicuro che qualcosa invece
fosse
cambiato, ma non in maniera eclatante, bensì discreta,
sottovoce ma persistente
…
“Hé-oh!
Posa quel coltello, razza
di brigante! Non incominciare, ciò!”, sottrasse
Fra’ Anselmo a Thomà la posata
indispensabile per tagliarsi la soppressa, ponendola in alto
cosicché il
fantolino ebbe il suo daffare a saltare in alto onde afferrarla.
Hironimo
ed Helena, davanti a
quel giocondo quadretto, se la risero a crepapelle, specie quando il
bambino
cambiò tattica, optando per l’arrampicata diretta
sul saio del frate.
Quand’ecco,
che la greca scattò
in piedi, correndo verso la porta. “Markos!”,
esclamò felice, stringendosi al
braccio del marito, i cui occhi fissavano indecifrabili il fratello.
“Hai visto
chi è arrivato? È riuscito a fuggire, a menare
quel tartaro del Buas per il
naso! Non è meraviglioso?”
Realizzando
l’identità del nuovo
arrivato, il sorriso svanì in un colpo dal viso
d’Hironimo, rimpiazzato dal
pallore della vergogna; d’istinto abbassò in
fretta lo sguardo, concentrandolo
sulle mani fasciate e artiglianti la stoffa delle braghe nel vano
tentativo di
zittire l’eco dell’ultimo suo diverbio col
maggiore. Inconsapevolmente, Thomà
gli coprì il dorso della mano con la sua più
piccina, quasi indovinasse il suo
malessere e volesse perciò consolarlo.
Le
orecchie d’Hironimo
riascoltavano nitidamente ogni crudeltà da lui vomitata
contro Marco e gli
altri suoi fratelli, così come l’occhio della sua
mente assisteva di nuovo
all’indecorosa scena, stupendosi ancora della sua stolta
puerilità. Il ricordo
del volto furioso e deluso di Marco, se all’epoca gli aveva
provocato un
leggero rimorso, adesso lo schiacciava, sopraffatto dal senso di colpa.
Madre
gli aveva suggerito di rinfoderare per una volta la spada
dell’orgoglio e
d’abbracciare il mite spirito di riconciliazione; ovviamente
Hironimo non aveva
seguito il suo consiglio, considerandosi nel giusto quando al contrario
era ben
conscio dei suoi sbagli e per questo aveva promesso di riappacificarsi
con
Marco, in caso di successo della sua fuga.
Perché
allora se ne rimaneva lì
seduto, imbambolato e muto?
Il
problema era l’imbarazzo -
unito al senso d’inadeguatezza e all’ansia di un
eventuale rifiuto - che gli
impediva di parlare e di conseguenza di compiere il primo passo. Marco
lo
avrebbe mai perdonato?, si tormentava interiormente Hironimo. Gli
avrebbe
concesso una seconda opportunità? Oppure era ancora
arrabbiato con lui? E se lo
avesse biasimato per il suo fallimento a Castelnuovo di Quero? E se
fosse
giunto fin lì all’Ospedale giusto per comunicargli
la sua delusione? O come lo
disconoscesse? O per deriderlo? O …
Tanto
aveva desiderato
riabbracciare il fratello, quanto adesso si vergognava anche solo di
guardarlo
negli occhi. L’amaro calice doveva esser bevuto fino in
fondo, però. Qualsiasi
fosse stato il risultato finale – se di perdono o di condanna
– Hironimo doveva
affrontarlo a testa alta, pur abbassandosi in umile supplica e
accettare il
verdetto. Defilarsi dall’inevitabile confronto gli avrebbe
guadagnato soltanto
ulteriori critiche, potenziate dall’accusa di
viltà.
E così sia. Hironimo si pose con
difficoltà in piedi, strascicando
qualche instabile passo verso Marco. Anche in quel frangente il suo
orgoglio si
rifiutava d’abbandonarlo del tutto: pur rassegnandosi
all’imminente sua
aspersione di ceneri sul capo, ugualmente il giovane Miani voleva
serbare una
parvenza di dignità e non dar spettacolo. Che suo fratello
si sfogasse pure su
di lui, purché in privato, lontano da occhi e orecchie
indiscrete, non
giudicandosi Hironimo ancora pronto d’affrontare anche le
altrui sentenze,
oltre a quelle del parente.
E
per quel legame speciale, che
li aveva uniti sin da piccini, Marco dovette intuire la
volontà del minore,
giacché si voltò verso la moglie per congedarsi
momentaneamente da lei,
rassicurandola quando Helena, temendo in uno scontro tra i due,
protestò con lo
sguardo contro quella decisione.
I
due uomini uscirono così dallo
stanzone ed Hironimo, appoggiandosi alla parete mentre scendeva le
scale
lentamente, costrinse a prolungare il teso silenzio, spingendosi fino
all’uscita interna. Avvertiva benissimo il peso dello sguardo
insistente del
maggiore sulla sua schiena, rimasto infatti Marco leggermente indietro,
la
testa reclinata appena sul lato, la medesima movenza di Madre quando
scrutava i
figli alla ricerca di che cosa li turbasse o quale menzogna le stessero
rifilando.
Suo fratello stringeva la bocca in una linea sottile, le nari
appena-appena
dilatate e il cuoio dei guanti sfrigolante a causa della ferrea presa
del pugno
stretto. Hironimo riconosceva alla perfezione i segni di
quell’apparente calma,
la quale preannunciava invece una montante collera gelida e su questo
avevano
sempre differito, essendo l’ultimogenito di Ca’
Miani vulcanico nell’ira,
rumoroso e violento e privo di senno, contro l’opposta
reazione di Marco,
silenziosa, di ghiaccio e che non colpiva mai a caso, semmai laddove
egli
sapeva dolere di più alla sua vittima. E se Hironimo dopo
l’esplosione si
calmava e voltava tranquillamente pagina, Marco no,
v’impiegava maggior tempo a
perdonare senza però mai dimenticare. Se Hironimo era rapido
nella vendetta, il
tempo per Marco non significava nulla, se ciò gli avesse
permesso di far
soffrire doppiamente chi l’aveva contrariato.
Perciò,
in quel momento, Hironimo
avrebbe preferito che il fratello pronunciasse almeno una parola, che
lasciasse
trapelare una piccola spirale d’emozione, perfino di stizza.
Pur avvezzo al suo
carattere, il giovane patrizio non sapeva come intavolare il discorso,
procedendo alla stregua d’un condannato a morte e,
ironicamente, quando
giunsero nel cortile interno dell’Ospedale egli
udì l’eco di una campana,
sicché anche il suo Malefizio era per lui suonato. [2]
Tanto
Hironimo si stava auto
flagellando in recriminazioni, da sbagliare l’interpretazione
dell’umore di suo
fratello: Marco ribolliva sì di rabbia a viva forza
repressa, tuttavia non era
il minore l’oggetto verso cui desiderava riversarla. La sua
fronte aggrottata,
i denti digrignanti dietro la bocca serrata e i guanti strizzati dalle
dita non
erano destinati a nessun altro se non a Mercurio Bua, lamentando di non
averlo
potuto torturare di più, se proprio il destino aveva
decretato di sottrarglielo
come prigioniero.
Che
cosa gli aveva fatto quel
maledetto, da ridurlo così?, s’interrogava furente
e protettivo. Suo fratello,
quand’era partito a marzo per Castelnuovo di Quero, lo
ricordava bello, fiero,
nel pieno del vigore e sicuro di sé, orgogliosamente in
groppa al suo
ubbidientissimo Eòo, il perfetto esempio
dell’esuberante speranza della
gioventù. Nulla di quel ragazzo rimaneva, al punto che Marco
dubitava
dell’identità della persona davanti a
sé: quell’incedere circospetto, la testa
china, le spalle ricurve, quel suo evitare ogni contatto fisico quasi
Hironimo
avesse paura di lui … No, non quasi. Il Miani conosceva bene
ogni movenza del
minore, quando questi provava timore verso qualcosa o qualcuno.
Perché era
spaventato? Non aveva nulla da temere da lui. Il litigio? Orrido,
certo, ma
ormai apparteneva al passato e dopo aver sperimentato
l’angosciosa prospettiva
di perdere per sempre il suo fratellino, esso gli appariva assai
futile,
indegno d’essere rivangato. Voleva soltanto abbracciare il
suo Momolo,
stringerlo al petto e scusarsi di non aver potuto né
proteggerlo né aiutarlo.
Finalmente
Hironimo individuò un
angolino tranquillo dove discorrere, interrompendo quella loro
deprimente
marcia. S’appoggiò ad un muro, gli occhi puntati
sulle pianelle da cui
spuntavano le fasciature. Marco si morse l’interno della
guancia alla vista
delle macchioline rosse comparirvi, così come
l’intero aspetto del fratello lo
straziava quanto un pugnale conficcato e roteato tra le viscere.
Pallido,
pallido, malsanamente pallido tanto da risaltare le profonde occhiaie e
le
ecchimosi sparse sul viso, una bella tavolozza di blu e giallognolo che
s’accompagnava alla macabra striscia rossa sul collo,
là dove lo aveva stretto
il collare e che il monaco infermiere non aveva ancora avuto tempo di
fasciargli. I capelli più corti e arruffati, spenti, i
vestiti decisamente più
larghi, a Marco suo fratello appariva così giovane e
indifeso, come il giorno
del funerale di Padre. Sconfitto, annientato, un guscio vuoto.
Il
Miani avanzò d’un passo verso
il minore, un braccio teso in avanti onde accarezzarlo o scuoterlo dal
suo
guscio protettivo, quand’ecco che Hironimo sollevò
inaspettatamente il capo,
alzò il mento e nelle sue iridi nerissime
fiammeggiò un ché di preternaturale,
ma al contempo di limpido e sereno che da molti anni egli non
contemplava nel
fratellino.
Indietreggiò
inconsciamente,
interdetto.
“Menego,
Trovaxo, Vico e Nadalin
sono morti”, esordì infine Hironimo, sostenendo lo
sguardo del maggiore che lo
fissava stranito, non comprendendo il motivo dietro
quell’incipit: perché non
raccontava della sua prigionia e della sua fuga, o semplicemente non
manifestava la sua gioia per la ritrovata libertà?
“Mi sono rimasti accanto
fino alla fine, non hanno ceduto d’un sol passo al nemico ed
io … ed io non ho
potuto neanche offrire loro una sepoltura cristiana, permettendo che
venissero
gettati nella Piave alla stregua di spazzatura …”,
continuò il patrizio,
grattandosi inconsciamente i polsi fasciati. “Non ho niente
da restituire
all’Orsolina su cui piangere … Niente a Zanetta
… niente ad Eudokia … Io glieli
ho strappati via per sacrificarli alle mie ambizioni, esponendoli al
nemico …
Ho giocato con le vite dei loro figli … Capisci? Ero
già il loro padrone, già
m’appartenevano i loro servigi e così …
anche delle loro vite ho potuto
disporre. Tanta devozione verso la nostra famiglia, ripagata versando
il sangue
della loro, mentre il mio … il mio continua a scorrere,
malgrado sia colpa mia,
mia, mia! …”, si batté forte tre volte
sul petto. “Potevo scegliere chiunque
altro, ma ho voluto loro perché non mi fidavo dei locali e
come biasimarli? Non
ho fatto nulla per meritarmi il loro affetto e la loro stima
… Li consideravo alla
stregua di strumenti utili ai miei obiettivi e non
m’importava un
fico secco di loro; allo stesso modo ho trattato Menego, i suoi figli e
Nadalin. Li ho dati per scontati. Sono stato cieco e imprudente, avrei
dovuto
congedarli acciocché rientrassero a Veniexia, una volta
terminata la torre. Non
erano soldati! Non dovevano morire così! Non …
non dovevano finire gettati in
acqua! Non ho mai … non mi sono mai fermato a pensare che
… Sono morti per la
mia negligenza e incapacità. Ed io ancora vivo.”
Marco
aprì la bocca, tentò in
svariate occasioni d’interrompere il cupo monologo del
fratello, finendo sempre
per tacere poiché neanche lui sapeva come replicare a quel
severo esame di
coscienza. “Sono sicuro che Menego, i suoi figli e suo nipote
non abbiano mai
nutrito alcun dubbio sulla bontà della loro
scelta”, provò a
contro-argomentare. “Erano uomini dabbene, leali, ti
avrebbero difeso fino alla
morte. A questo scopo ti avevano seguito a Castel Novo.”
“Mi
erano fedeli per amore di
Padre”, negò schietto Hironimo. “Io non
mi sono mai meritato la loro lealtà.”
“Così
fai torto al loro
sacrificio”, s’intestardì Marco.
“E
perché avrebbero dovuto
rinunciare alle loro vite in favore della mia? Possiede forse la mia
vita più
valore delle loro? In che modo? Soltanto per via del mio rango di
patrizio?
Così si misura la sostanza di un individuo? Sul ceto? Quelli
in alto sempre che
se la cavano, sempre scusati per ogni loro porcheria e quelli in basso
al
contrario schiacciati, uccisi, umiliati peggio degli animali? Menego e
i suoi
erano uomini degni di ogni rispetto, eppure non ne hanno ricevuto,
perché?!”
“Sono
morti sapendo quale fosse
il loro posto al mondo: di proteggere te e la Signoria Nostra! Hanno
vissuto
con onore e con altrettanto sono morti. Non c’è
nulla di riprovevole in quanto
successo! È stata la mano dei nemici ad averli uccisi, non
la tua!”
“Allora
il mondo gira in un buffo
verso, senza giustizia e senza pietà, se risparmia i vili e
uccide i valorosi
…”, ridacchiò amaro Hironimo, per poi
abbandonarsi ad un piccolo singulto.
“Vile?!
Benedetta Trinità, in che
modo sei stato vile? Vigliacco è stato il castellano di
Covolo di Butistone,
che pur avendo mezzi per resistere s’è arreso!
Vigliacco è stato il Batagin
Bataja che neppure ha sfoderato la spada per combattere, preferendo
fare
dietro-front e rifugiarsi sui monti! Vigliacco
è stato quel cane di
Antonio Savorgnan, che pur di salvarsi la pelle
s’è venduto al nemico! Tu, al
contrario, sei rimasto! Potevi anche tu arrenderti, scappare o cambiar
bandiera: niente di tutto ciò hai fatto, non ti sei
schiodato dalla tua
fortezza e hai virilmente affrontato la sorte. Potrei elencare molti
tuoi vizi,
ma la codardia non è certo uno di questi!”
“Perché
dunque siete arrabbiato
con me?”
Il
Miani più anziano emise un
ringhio frustrato. “E ti sorprendi? Da marzo che non ricevuto
tue notizie,
tutto ciò che ti accadeva lo apprendevo da Madre e Lucha!
Poi, perdi Castel
Novo e per un mese non sapevo neppure se tu fossi vivo o morto! E ora
che sei
riuscito - Dio solo sa come - a fuggire, mi vieni qui, mi imbastisci
questo …
sermone sulla vanità del mondo e mi domandi se sono
arrabbiato?! Per chi mi hai
preso?!”, berciò, schiaffeggiandosi subito
mentalmente: no! no! non voleva dire
questo! Idiota! Non voleva sfogare quei giorni di pena e ansia su suo
fratello,
non voleva finire di litigare come l’ultima volta! Il
trentenne patrizio scosse
il capo, appellandosi in tutti i modi stupido e attendendo la sfuriata
del
minore, il quale questa certamente non gliel’avrebbe
perdonata. E come dargli
torto? Aveva passato le pene dell’inferno, ovvio che si
presentasse così scosso
e d’umore pessimista! E al posto di trovare comprensione,
ecco che il suo
maggiore lo aggrediva e lo rimproverava alla stregua d’uno
scolaretto.
“Capisco”,
mormorò invece
Hironimo, tranquillissimo. “Capisco …”,
ripeté, sebbene il labbro inferiore
avesse preso a tremargli, scivolando lungo il muro quasi volesse
rimpicciolirsi
e sparire in esso.
Marco
scosse il capo in diniego,
si passò snervato una mano sulla fronte. “Ascolta,
ascolta”, afferrò il
fratello per le braccia, guaendo intimamente dinanzi al sobbalzo
dell’altro.
D’altronde, non era stato così il loro ultimo
diverbio? Con le mani addosso,
afferrando violentemente lo zupone del fratello? “Ascoltami:
è vero, sono
arrabbiato. Ma è soltanto perché
…” e si chetò bruscamente, notando
infine i
piccoli rii di lacrime che rigavano le gote smunte d’Hironimo.
“Ho
disonorato il nome della
nostra famiglia. Ho deluso la Signoria. Quanto costruito da Padre in
anni di
fatica, l’ho distrutto nel giro di neppure due giorni. Come
non puoi essere in
collera con me? Io sarei dovuto morire in quella fortezza, io gettato
nella
Piave! Avevi ragione: sareste stati meglio senza di me, ché
solo rogne v’ho
procurato, solo dispiaceri e vergogne! E ora dovrò comparire
a giustificarmi
davanti ai Cai di X e umiliare anche il nostro sior Barba! Sarei dovuto
morire
e sparire per sempre!”, si dolse acutamente Hironimo,
affidandosi alla
sincerità del suo pentimento, che lo soccorresse ponendogli
in bocca le parole
adeguate. “Quella volta vi ho insolentito, fradelo, merito il
vostro odio e
disprezzo. Voi e i vostri parenti avevate già messo a
repentaglio la vostra
vita per la salvezza dello Stato ed io ho onorato la vostra abnegazione
con la
calunnia, appellandovi codardi e meschini. La verità
… è che nutrivo una
fortissima invidia nei vostri confronti, perché avevate un
vostro ruolo a
questo mondo, un … uno scopo, una famiglia, dei figli
… ed io … io mi sentivo
un eterno minorenne, uno stupido incapace. Volevo dimostrarvi che
potevo
anch’io divenire qualcuno, volevo che foste tutti fieri di
me. Volevo che Padre
fosse fiero di me. Per anni mi sono considerato un fallimento, per
quanto mi
sforzassi ho procurato solo dispiaceri a Padre, a Madre e …
e non ho potuto
riconciliarmi con … dopo l’inchiostro lanciato al
priore di Santo Stefano … E’
morto senza che potessi domandargli scusa … Ho creduto
… ho creduto che fosse
una punizione divina per la mia cattiveria e pertanto ho odiato me
stesso,
dopodiché anche gli altri, soprattutto gli
altri che vivevano
felici e spensierati e ignari delle loro fortune e mi dicevo: Perché
loro sì ed io no? Li invidiavo e li
detestavo, considerandomi a loro
superiore e anche se nel processo per distinguermi ferivo le persone
accanto a
me e spezzavo cuori, ci passavo sopra perché tanto mi
ripetevo come ormai
peggio di così non potessi fare, io ero destinato a
sbagliare sempre ogni cosa
… Mi credevo all’apice della saggezza, quando al
contrario voi tentavate di
guidarmi … io facevo l’opposto credendo voleste
intralciarmi … Non
volevo mai ammettere le mie colpe, preferendo attaccarmi a qualsiasi
scusa,
anche la più fantasiosa e improbabile, per scaricare altrove
i miei sbagli.
Smaniavo d’essere capito ed io per primo mi rifiutavo di
prestare ascolto, denigrando
e scartando qualsiasi cosa accadesse al di là della mia
sfera …”
Hironimo
parlava ormai a ruota
libera, abbandonando ogni costruzione logica del suo discorso, neanche
più lui
sicuro dove volesse arrivare: aggiungeva, chiosava, riprendeva un
concetto
espresso poco prima, si sforzava, tra sospiri via via più
tremuli e pesanti, di
descrivere quel pus virulento che per quindici anni gli aveva
imputridito
l’animo. Ad un certo punto le gambe stanche gli cedettero e
si ritrovò in
ginocchio per terra, nascondendosi il viso tra le mani, sotto lo
sguardo vuoto
di Marco, il quale aveva preso a fissare impassibile le mattonelle del
muro
davanti a sé.
“…
Se volete punirmi per le mie
malefatte e fallimenti, se mi volete sottoporre al giudizio dei X, sono
qui. Però
sappiate, che nessun castigo inflittomi da voi o dalla Signoria
potrà mai
eguagliare la pena e il rimorso che porto nel cuore. Nutrivate per me
un
affetto disinteressato ed io vi ho ripagati vituperandovi e
aggredendovi. Io …
non sono degno d’essere chiamato vostro fratello …
Ma ammetto il mio egoismo,
sicché vi domando scusa per il male dettovi, fattovi e
pensato nei vostri
confronti e … Perdonatemi, fradelo. Perdonatemi. Vi supplico
d’accordarmi il
vostro perdono. Mi dispiace, mi dispiace dal più profondo
del cuore per la mia
stupidità, invidia, rancore, disobbedienza. Mi dispiace, mi
dispiace tantissimo
…” e man mano che lo ripeteva, Hironimo
avvertì una dolce sensazione di
sollievo, non dissimile al suo primo risveglio senza catene.
Ora
poteva affrontare serenamente
la decisione del fratello, qualsiasi essa fosse stata. Anche se
sbrodolando
talora maldestramente, la sua parte di promessa alla Madonna
l’aveva mantenuta
e quel benessere interiore, tipico di chi è in pace con la
propria coscienza,
risultò assai gradito al giovane Miani. Tirò su
col naso, s’asciugò le guance
bagnate col dorso della mano e attese.
“Alzati”,
soffiò Marco a seguito
d’un lungo silenzio, il capo reclinato all’indietro
e gli occhi puntati al
cielo plumbeo, manco stesse invocando dall’alto consiglio.
“Su, in piedi!”,
spronò con filino d’impazienza il minore, rimasto
immobile al suo posto e
sbattendo perplesso le ciglia.
Titubante,
Hironimo tuttavia
obbedì, meditando di che cosa quella richiesta fosse un
preludio. “M-Marco …?”,
s’azzardò, preoccupato dalla statuaria
fissità del fratello. “Io … mi
… mi
dispiace, non … non ho altro d’aggiungere, se
… se v’ho molestato me ne vado
…”
All’improvviso,
il giovane si
ritrovò in un battibaleno contro il corsaletto di Marco, la
sua mano destra
alla nuca e l’altra sulla schiena. E anticipando ogni sua
esclamazione e
neanche concedendogli il lusso d’elaborare quanto stesse
accadendo, suo
fratello gli baciò freneticamente le gote, gli occhi, la
fronte, le labbra, le
tempie, stringendolo forte come se volesse impedirgli di prendere il
volo, di
scomparire di nuovo. D’istinto Hironimo ricambiò
l’abbraccio, nascondendo il
viso nell’incavo della spalla dell’altro e
inumidendolo delle ultime lacrime,
intanto che veniva ninnato e accarezzato dappertutto sul busto, volendo
sincerarsi Marco d’averlo veramente tra le sue braccia, di
non vivere
un’illusione. Il più anziano inalò
profondamente il profumo del fratellino,
meravigliandosi dell’essenza di rose in esso, strusciando poi
la guancia contro
la sua, mentre Hironimo gli circondava il collo con le braccia,
aggrappandosi a
lui.
“Fradelo”,
si staccò Marco
dopo un po’ dal minore, incorniciandogli con le mani il viso
stanco e provato
dalla prigionia. “V’erano giorni in cui dubitavo di
udire da te questa parola.
E non negli ultimi cinque mesi, no, troppo il mio orgoglio da volerti
anche
solo sentirti nominare, bensì in questo mese,
che mi ha
aiutato a riconsiderare quanto accaduto tra di noi da una prospettiva
diversa.
Mi ha fatto capire che ho già seppellito una sorella,
perché dunque scannarsi
tra noi fratelli rimasti? Perché ostinarci in tali
stupidaggini, quando invece
dovremmo godere di ogni istante insieme? Anch’io ho le mie
colpe, anch’io sono
stato duro e ingiusto con te, gridandoti crudeltà che
nessuno dovrebbe mai
udire dal proprio sangue. Ti ho mentito quando m’auguravo la
tua morte. Ti ho
mentito quando dicevo che di te non importava a nessuno. Tutti ti
vogliamo
bene, a tutti importi. Ti sei guardato attorno? Hai visto come si sono
rallegrati della tua fuga? Se veramente stessi sul gozzo alla gente,
perché
allora ti hanno accolto così festanti? Possiedi la tua buona
dose di difetti,
sicuro, come ogni uomo che cammina sulla terra. Non sei un mostro, un
demonio,
sei soltanto un uomo di carne e sangue, fallibile, ma non per questo
indegno
d’affetto. Perché tu sei amato, sai? Tu sei amato.
Sei sempre
stato amato, anche quando ci esasperavi, perché sappiamo che
tu contraccambi il
nostro amore con altrettanta forza. Ammetto d’aver perduto in
più occasioni la pazienza
con te, d’averti rimproverato talora anche quando non te lo
meritavi. Mi rendo
conto d’averti persuaso d’essere inutile, non
ascoltando le tue opinioni anche
quando erano sensate, credendoti quell’eterno decenne che mi
supplicava al
funerale di Padre di rammentargli il suo volto. T’ho indotto
a credere che tu
mi fossi invisibile, una zavorra da sopportare. Niente di tutto
ciò: tu mi sei
carissimo. No. Io ti amo, fratello mio. Ti ho amato da quando hai
aperto gli
occhi e ti amerò finché chiuderò i
miei; ti amo per i tuoi pregi e per i tuoi
difetti; ti amo per chi sei e per come sei, incondizionatamente. Ti amo
alla
stregua d’un figlio [3], perché ti considero parte
della mia stessa carne. Sei
il mio nome sacro [4]. A me importa il mondo di te, non dimenticartelo
mai:
ovunque andrai, qualsiasi scelta farai, non dimenticarti che il mio
cuore è
sempre con te e che ti amo fino all’ultimo mio pensiero. Ti
perdono, ti
perdono, ti perdono, purché tu ti ricordi che
t’amo, t’amo, t’amo, fratellino
mio.”
E
dopo tale appassionata arringa,
nella speranza che in quell’amatissima testaccia dura
entrasse ben bene il
concetto, Marco si concesse il piccolo sfizio di posare veloce un casto
bacio
sulla fronte del fratello. Ogni parola l’aveva pronunciata
sul serio, non per
piaggeria o per consolarlo al momento, dandogli un contentino. Mica si
tirava
indietro a cantargliele, se l’occasione lo richiedeva!
Hironimo non gli
appariva affatto orribile nelle sue colpe, nulla per la quale
condannarlo ad
una misera morte o per ostracizzarlo dalla famiglia; al contrario lo
amava di
più perché nonostante tutto dietro le sue
cattiverie ancora resisteva la
volontà sua di fare del bene. Un cuore generoso e sensibile
seppellito e
prigioniero da troppo tempo nell’oscurità della
disperazione, ch’è il peccato
più grande perché toglie fiducia nel prossimo,
nella vita, in Dio. Marco si
ripromise mille volte di far tesoro dell’esperienza vissuta,
d’estirpare ogni
futile tossicità dal loro legame: troppo breve e precaria la
vita per
avvelenarla di tali sciocchezze!
Hironimo,
dal canto suo, non
riuscì a trattenere un pudico sorrisino di compiacimento.
Né un adorabile
rossore. Era come se si stesse convincendo che forse sì, non
era esattamente
una creatura da disprezzare. L’opinione di suo fratello, dopo
quella di Madre,
valeva per lui il mondo e il suo rifiuto l’avrebbe spezzato
in via definitiva.
Amava ogni suo parente, però Marco era stato
l’unico veramente accanto nei suoi
periodi più bui, l’unico che si fosse mai fermato
ad ascoltarlo sul serio, a
cercare, pur fallendo, di capire tutto il malessere urlato da Hironimo
dal
fondo del suo pozzo di livido rancore e sofferenza. L’unico,
sin da quanto
erano bambini, che si fermava e si voltava per guardare indietro, onde
assicurarsi che fosse lì e che lo stesse seguendo, per
tendergli la mano
incoraggiante.
Come
gliel’aveva tesa quella
bellissima dama, aspettandolo sorridente e fiduciosa fuori il
padiglione del
condottiero … La sua pelle fresca e leggera come
l’acqua di fontana eppure la
stretta forte e sicura da condottiero, che gli impediva
d’inciampare e di
cadere, guidandolo nelle tenebre antecedenti l’alba
… quella compagna
silenziosa che però attraverso quegli occhi ricolmi di luce
gli dicevano tutto
ciò di cui necessitava: tu sei amato.
“Momolo?”
L’ultimogenito
Miani sbatté le
palpebre, stropicciandosele imbarazzato. “Scusate
…”
“Scusami,
ancora non sono
Missier il Doxe. Poi dopo, sì, mi darai del voi e
pure ti
toglierai il cappello, ogniqualvolta c’incontriamo per casa,
per strada e per
andare alla latrina!”
Il
venticinquenne patrizio
sputacchiò una risata, coinvolgendo il fratello, che
contraccambiò di pancia,
finché altro tipo di lacrime non spuntarono agli angoli dei
loro occhi.
“Scusami”, si corresse Hironimo, il petto
sconquassato dagli ultimi risolini.
“Mi sono incantato per un istante …”
Marco
aggrottò la fronte,
preoccupato. “L’ho notato”,
asserì cauto. “Sei forse stanco? Ti riporto a
letto. Anche perché” e la sua espressione
ritornò furbetta, mentre indicava in
direzione di una delle tante finestre affacciate sul cortile,
“non vorrei che
il tuo giannizzero venisse di notte per il mio scalpo.”
“Il
mio giannizzero? Oh!”,
esclamò Hironimo, accorgendosi di Thomà che li
scrutava attentamente dalla
finestra, spinto probabilmente dal desiderio di controllare che il suo
padrone
non venisse eccessivamente strapazzato. Un tenero sorriso si dipinse
sulle
labbra screpolate: levò in alto la mano e salutò
il fantolino, che si nascose
sotto la traversa inferiore del telaio fisso. Marco assistette alla
scena in
silenzio, studiando accorto i lineamenti dell’altro e
stupendosi di leggervi il
medesimo affetto riservato ai nipoti.
“Ti
vuole molto bene”, asserì il
trentenne patrizio, “poche volte ho assistito a tanta
devozione in un bambino
verso uno, che non sia un parente di sangue. Mi domando se per patron non
intenda pare.”
Hironimo
nicchiò, scostandosi una
ciocca dalla fronte. “Spero di riuscire a mantenerla e di non
deluderlo … E’ un
briccone, ma è il mio briccone … In un certo
qualmodo, mi ha salvato, aiutandomi
a capire molti aspetti del mondo che prima ignoravo
…” Quand’ecco che il
giovane cambiò tono e argomento, fissando serissimo il
fratello: “Non esageravo
prima. Dovrò affrontare la Signoria …
dovrò giustificare la perdita di Castel
Novo e …”
“…
ed io ti resterò accanto.
Affronteremo anche questa assieme, come facevamo da fanciulli. Sempre
uniti.
Non ti abbandonerò, neanche se il mondo intero dovesse
schierarsi contro di
te”, s’affrettò a rassicurarlo Marco e
lo prese sottobraccio, acciocché si
sostenesse a lui, essendo il suo passo ancora incerto.
“Sebbene non penso sia
il caso d’angustiarsi: se ti ricordi, i X non hanno
condannato Lucha e vedrai
che neanche tu verrai punito, perché non hai mai
dato voluntarie le
chiavi del castello.”
“Non
avrei ugualmente potuto”,
gli confidò imbarazzato Hironimo. “Nella
confusione della mischia, mi devono
essere cascate in acqua …”
I
due Miani si squadrarono per
qualche istante, per poi sganasciarsi in una grassa risata di pancia.
“Lo
dirò io ad Orsolina, ad
Eudokia e a Zanetta”, dichiarò di punto in bianco
Hironimo. “Forse già lo sanno
o lo hanno intuito, ma voglio raccontarle, faccia a faccia, quanto
eroicamente
siano morti i loro figli e di quanto io sia loro riconoscente per la
loro
fedeltà e abnegazione. In fin dei conti”,
contemplò pensoso le fasce ai polsi,
là dove fino al giorno prima lo feriva il
duro morso delle manette,
“io vivo grazie a loro sacrificio. E il mio modo di onorarlo,
sarà di vivere e
combattere questa guerra non soltanto per vincerla, ma soprattutto onde
evitare
che altre famiglie si spezzino e che altre madri piangano i propri
figli. Che
altre donne vengano vergognate come quelle poverette del Montello. Per
evitare
che aumenti il numero di altri Thomà, di bambini strappati
dalle braccia delle
madri, privati dei padri; bambini corrotti dall’odio, bambini
torturati e
violentati, bambini della cui sorte poi non importerà a
nessuno, dimenticando
che quella sorte gliel’abbiamo procurata noi
…”
“E’
un proposito molto nobile. Ti
fa onore”, convenne Marco, tradendo la sua espressione un
orgoglio pressoché
paterno. “Invero sei
maturato”, aggiunse.
“Spero
soltanto d’essere
all’altezza di questo compito”, si
schermì il minore, un poco titubante dinanzi
alla gravità del suo progetto, non trattandosi, infatti, di
un progetto di
facile realizzazione, considerate le insidie e le incognite della vita.
“Solo
tentando e ritentando lo
scoprirai, senza arrenderti dinanzi ai fallimenti e alle
avversità”, gli spiegò
incoraggiante Marco. “Niente a questo mondo ti viene concesso
presto e subito.
Ai tuoi obiettivi ci dovrai arrivare poco alla volta, un passo dietro
l’altro.
E tu sei nato per lottare.”
Hironimo
gli afferrò la mano,
portandosela al cuore. “Noi non siamo altro che un piccolo
tassello …
“…
nell’immenso mosaico ch’è il
progetto di Dio”, concluse Marco quella massima da loro
imparata da Padre.
Il
minore assentì, chinando il
capo socchiudendo gli occhi affinché essi evocassero la sua
misteriosa compagna
di fuga. Se all’inizio aveva considerato la sua sopravvivenza
un peso se non
proprio un castigo, adesso la percepiva come un secondo inizio.
Per
un motivo che neanche lui si
figurava, Dio lo aveva salvato dalla strage di Castelnuovo; lo aveva
protetto
durante la prigionia, sottraendolo a tormenti ben peggiori di quelli
subiti per
mano di Mercurio Bua. Pur ammalatosi, lo aveva tenuto in vita. Aveva
disposto
della sua fuga, inviandogli la dama dal mantello bianchissimo. Li aveva
guidati
lungo tutto il cammino, indisturbati fin sotto alle mura di Treviso.
Per
anni Hironimo aveva accusato
Dio d’indifferenza, quando invece mai lo aveva abbandonato,
poiché contro ogni
umana logica, la sua vita Egli aveva deciso che non dovesse finire tra
le
macerie insanguinate di Castelnuovo.
Tu, che hai l’anima di
Lazzaro … e se in passato aveva badato
più alle allettanti
promesse di gloria eterna, adesso era l’incipit della
profezia della zingara ad
interessarlo e a turbarlo. Lazzaro l’amico di Cristo, Lazzaro
ammalatosi e
morto; Lazzaro per quattro giorni rimasto nel sepolcro
finché non aveva
incominciato a puzzare, Lazzaro per la cui morte il Figlio di Dio
versò
lacrime; Lazzaro che tra lo sconcerto e
l’incredulità generale era stato
resuscitato acciocché tutti potessero credere. Tu,
che hai l’anima di
Lazzaro … Perché proprio a lui
l’aveva la gitana comparato? Cosa li
accumunava? Era stata forse la sua un’anima morta e putente?
O forse si
riferiva al suo spirito orgoglioso? Oppure ai suoi propositi di vita,
sterili e
fini a se stessi in passato ma ora abbastanza chiari e volti a far del
bene?
E
sarebbe stato questo paragone a
Lazzaro ad influire il tipo sentiero da intraprendere, onde raggiungere
il
successo profetatogli? Abbagliato dalla prospettiva della fama,
Hironimo s’era
illuso di raggiungerla attraverso qualsiasi mezzo disponibile, anche a
costo di
pavimentare la sua via di cadaveri. Ma egli, morto e risorto come
Lazzaro,
doveva seguire un percorso ben definito per compiere il suo destino. Ma
quale?
Il
giovane Miani aprì e chiuse la
mano, la medesima ch’aveva stretto le delicate dita della
signora durante
l’intera marcia notturna. In quel frangente non
s’era sentito né smarrito né
confuso, bensì guidato e protetto da
un’invincibile alleata.
“Indicami la strada
… indicami …
non so dove andare, non conosco la strada
…”
“Dove andare, ora lo sai. La
tua
strada, ora la conosci.”
Ma
a che si riferiva? Alla strada
verso Treviso o alla strada della sua esistenza?
Se
invero lui non era che un
tassello di mosaico nelle mani di Dio, dove lo voleva collocare e in
quale
progetto?
Hironimo
non negava la sua
riconoscenza d’esser sopravvissuto al massacro di
Castelnuovo, sebbene tale
sentimento non rispondeva all’annosa questione:
perché io sì e loro no?
Che
anche l’apparente follia del
caos fosse governata dalla volontà di Dio?
E
se era così, di nuovo, perché
io sì e loro no?
Cos’hai
in progetto per me, o
Signore?
Perché
hai fatto di me un
Lazzaro?
Continua
…
*********************************************************************************************************
E
così siamo ufficialmente
entrati nella terza e ultima parte di quest’avventura. Grazie
mille a chi mi
segue dal lontano 27 settembre 2019! Speriamo di finire la storia prima
del
terzo anniversario XD
Il
Nostro è ufficialmente libero,
urrà! Incominciano le prime reazioni alla sua fuga, non
tutti i nodi al pettine
sono stati affrontati (poverino, lasciamolo riprendere fiato!); nei
prossimi
capitoli vedremo anche le reazioni fuori Treviso, tra chi si
rallegrerà e chi
un po’ meno …
Spero
che questo capitolo vi sia
piaciuto!
Alla
prossima,
Un po’ di noticine:
[1a] Torrenuova= oggi Tornova; [1b]
Are = oggi
Adria
[2] “Malefizio”,
o “Melefico”, “Renghera”,
“Dei
Giustiziati” era una delle più piccole campane del
Campanile di San Marco. Essa
annunciava che si stava preparando una condanna a morte e suonava per
tutto il
tragitto del condannato dalla prigione al patibolo. Il
“Malefizio” suonava dopo
la “Nona” per mezzora.
I
Veneziani regolavano la loro
vita a seconda del suono delle campane di San Marco, di cui oggi, dopo
il
crollo del Campanile nel 1902, è rimasta solo la “Maragona”,
la quale
suonava al sorgere del sole dei giorni feriali e annunciava
l’inizio del giorno
lavorativo, in particolare degli Arsenalotti.
“Marangon” in veneto significa
“falegname”. Un’ora prima del levar del
sole, suonava il “Matutin”, la
prima campana della giornata. A quell’ora avveniva il cambio
della guardia alla
Basilica, a Piazza San Marco e a Palazzo Ducale.
La
“Mezzana” o
“Mezzaterza” suonava nove tocchi verso le due del
pomeriggio. Era anche detta
“Dei Pregadi” e indicava la convocazione dei
senatori a Palazzo Ducale. La “Trottiera”
l’inizio delle sedute del Maggior Consiglio.
La
“Nona” batteva a
mezzogiorno dai sedici ai diciotto rintocchi. La campana “De
Le Dò” o
“De Le Do Ore” suonava dopo il tramonto del sole e
a quell’ora montava la
guardia notturna alla Basilica, Piazza San Marco e Palazzo Ducale.
[3] citazione ripresa dal
medesimo testamento di Marco
Miani: “[…] mio
caro fratelo, che sempre lo abuto per fiol,
come lui sa”.
[4] Girolamo/Gerolamo/Geronimo
derivano dal greco e
significa “nome sacro”.
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