6. Corazza di
cristallo
Nemmeno otto mesi prima c’era stato il funerale. Ci ero andato con
una strana sensazione addosso, un’incredulità mista a una tristezza che non riuscivo a
provare. Era proprio il funerale di Oliver, ma non potevo credere che stessi onorando la memoria di quello che,
appena due giorni prima, era stato il mio ragazzo.
Sua madre era vestita in nero
e sfogava il suo dolore sulla spalla di un’amica che le massaggiava la schiena,
nel tentativo di farla calmare. Gli altri avevano lo sguardo basso e molti
fissavano ora la terra, ora gli ulteriori presenti, come per assicurarsi di star seguendo
l’etichetta.
Mi sono sentito decisamente
fuori posto, quel giorno. Non riuscivo a provare dolore, non riuscivo a credere
che quella davanti a me fosse la realtà. Quello nella bara non era Oliver,
perché Oliver era a casa, probabilmente a studiare, aspettando che io facessi ritorno.
E non me ne capacitavo, non capivo cosa facesse lì tutta quella gente, il
perché di quei pianti, di quelle grida soffocate, di quella bara dove dentro
c’era Oliver – ma che ci faceva lì?
Mi ero pentito di ciò che
avevo provato. O meglio, di ciò che non avevo provato. Mentre la bara
veniva calata giù, il prete mi offrì una rosa, da gettare sottoterra con lui. Perché
dovrei lanciargli addosso una rosa?, mi domandai. Ma lo feci. La buttai.
Alzai gli occhi al cielo e cercai di seguire il volo di un uccello che non
riuscii a identificare, a causa degli occhi un po’ troppo lucidi. Poi li
abbassai.
Oliver, ormai, era già sotto
un cumulo di terra. Realizzai solo in quel momento che non l’avrei visto più.
Avrebbe continuato a vivere nella mia memoria, certo, ma non sarebbe più stato
accanto a me; semplicemente, non c’era più. Dovevo lasciarlo indietro, dovevo
riuscirci.
Ma era troppo per me.
Erano passati appena otto
mesi, otto mesi di vuoto, di inerzia, di niente. Mi avevano detto tutti
le solite frasi fatte: che mi sarei rifatto una vita, che mi sarei innamorato
ancora. Ma non riuscivo a togliermi dalla testa quell’aria da secchione tipica
di Oliver, quella testa piegata sui libri, quella dolcezza che non ti
aspetteresti mai da un cervellone troppo preso dai suoi studi. Avevo sempre
pensato che, se mi fossi innamorato di nuovo – ipotesi remota –, sarebbe stato di qualcuno simile a Oliver, ma che, per
ovvie ragioni, sarebbe stato diverso da lui. In altre parole, mi sarei
innamorato di una brutta copia.
Piena di difetti e
imperfezioni rispetto all’originale, come tutte le brutte copie.
Avevo quindi decretato
l’inutilità di innamorarmi di nuovo e chiuso definitivamente quel capitolo
della mia vita, anche perché non ero proprio dell’umore adatto.
Tutto era ancora troppo
vivido, troppo fresco. Come potevo anche solo concepire l’idea di innamorarmi
ancora? Un altro carattere, un altro sorriso, un altro corpo. Era fuori
da ogni possibile concezione.
Riempivo le mie giornate con
il lavoro e spesso funzionava, ma quando mi ritrovavo solo, a letto, mi sentivo
sprofondare in un baratro di disperazione. Proprio
in quei momenti, cominciavano quegli stessi pianti,
quelle stesse urla soffocate, quello stesso dolore che non avevo provato otto
mesi fa e che ora mi ritrovavo a scontare tutto insieme.
Rientrai
dalla pausa pranzo in solitudine, la stessa con cui avevo lasciato che il cibo
mi riempisse solo per soddisfare un bisogno primario. Mi trascinai verso l’ufficio
con fare lento, ma Ashton mi si parò davanti con un’esuberanza che non gli
avevo mai visto addosso.
«Tu ora vieni con me.»
«Che succede?»
Ashton mi fece cenno di seguirlo. Era
riuscito a ottenere i filmati della banca relativi al giorno della rapina, più
qualche filmato di esercenti sulla stessa strada, e non vedeva l’ora di farmeli
vedere. Varcammo la soglia della sala multimediale e vidi riflesso nei suoi
occhi un guizzo di eccitazione per ciò che stava per mostrarmi.
Fece partire il primo video, quello che
conteneva le immagini interne ed esterne della banca.
Le telecamere avevano inquadrato
perfettamente sia il momento della rapina, sia quello della fuga: come
riportato nelle testimonianze, i rapinatori erano due uomini, abbastanza
massicci. Nel filmato si vedeva il momento in cui McCain aveva lanciato il
fermacarte e anche l’attimo in cui era partito il colpo. La telecamera esterna,
invece, mostrava il momento in cui Nathan stava per entrare dentro l’edificio e
il successivo scontro con uno dei due rapinatori. I due si erano guardati per
un attimo, forse smarriti, dopodiché i malviventi erano montati in sella a quel
motorino per fuggire alla velocità della luce. Purtroppo, a causa delle
inquadrature sfavorevoli, la targa non era facilmente leggibile. Chissà se
qualche testimone ricordava qualcosa?
«Lo hai notato?», mi chiese Ashton, alla
fine della visione.
«A cosa ti riferisci?»
Ashton sembrava impaziente e in parte lo
capivo: quando sei l’ultimo arrivato e hai un’intuizione geniale, hai tutte le
ragioni per crederti il migliore.
Rimandò indietro i fotogrammi fino al
momento in cui il primo rapinatore usciva dall’edificio e si scontrava con
Nathan. Io osservai bene la scena e, in un attimo, capii a cosa faceva
riferimento.
«L’altro rapinatore non ha nemmeno fatto
caso a Nathan, ma il primo sì», suggerii per tastare il terreno.
«Ottima osservazione, agente Scottfield»,
mi canzonò lui.
«Forse il rapinatore dagli occhi di
ghiaccio non si aspettava di scontrarsi con una persona.»
Ashton rimandò ancora indietro e guardò
nuovamente.
«Ha esitato troppo. Si sono guardati negli
occhi.»
Pensai un attimo a quello che voleva
sottintendere il mio collega.
«Dove vorresti arrivare?»
«Be’, mi pare ovvio: Nathan e il primo
rapinatore si conoscono.»
Mi scappò una risatina. Non era per la
conclusione in sé, quanto la sicurezza con cui l’aveva pronunciata. Io avevo
già imparato a diffidare dell’ovvio.
«Potrebbe essere un’idea. Che cosa
proponi, Stoner?»
«Be’,» rispose lui, fissando lo schermo.
«Le piste che abbiamo a disposizione non sono poi così tante. Io direi che
potrebbe essere una buona idea cominciare a cercare tra la cerchia di Nathan.
Che ne pensi?»
Non aveva tutti i torti. Ripensai però al
fatto che Nathan era venuto il giorno dopo a riferirci il particolare degli
occhi del rapinatore. Se davvero fosse stato un amico e lo avesse riconosciuto,
sicuramente avrebbe aspettato prima di metterlo in mezzo in quel modo.
A ogni modo, non avevamo molte altre
piste. Avevo fatto una ricerca anche sui simboli lasciati sulla macchina di
Michael, senza successo.
Così risposi ad Ashton che la sua teoria
poteva essere un buon punto di partenza. Come finii di parlare, i suoi occhi si
illuminarono e le labbra si aprirono in un sorriso.
«Sai che solo il due percento della
popolazione mondiale ha gli occhi verdi?»
Ashton era in preda all’euforia. Sentiva
di aver avuto una buona idea e il merito era praticamente solo suo. A me era
successo solo un paio di altre volte e invidiai un po’ la sensazione che stava
provando in quel momento. Ci si sente fieri e imbattibili, almeno finché
qualcuno non ti smonta.
«Questo è un dettaglio interessante,
sempre che sia vero. Direi che potremmo escludere il fatto che portasse delle
lenti a contatto colorate e provare a ipotizzare che il verde sia il colore
reale dei suoi occhi. Oltre a questo, potremmo partire dal presupposto che
Nathan abbia detto la verità, riguardo agli occhi del rapinatore. L’esitazione
c’è stata, si vede chiaramente. Direi che la tua è una buona idea, Ashton.»
«Perfetto! Direi che potremmo cominciare a
suddividere le sue conoscenze. Famiglia, università, lavoro. Che ne dici?»
Capii che chiedeva la mia conferma solo
per non osare troppo e che nella sua mente aveva già organizzato le prossime
mosse. Io lo assecondai e approvai la sua idea, che si tradusse in una
suddivisione dei compiti. La famiglia fu lasciata per ultima, sia perché non
vivevano più insieme e avevano quindi contatti sporadici, sia perché il cerchio
era molto più stretto e improbabile – suo fratello aveva solo cinque anni.
Lavoro e università furono le cerchie su cui riflettemmo maggiormente. Se
l’ipotesi di Ashton era giusta, l’uomo con cui si era scontrato era qualcuno
con cui aveva più di un’amicizia superficiale e presumibilmente era qualcuno
che non vedeva da molto tempo o che non si aspettava di trovare lì.
Cominciammo a stilare un elenco delle cose
da fare: recuperare i nomi dei colleghi, dei compagni di corso, delle amicizie
più strette.
Avevamo una pista e anche io cominciai a
sentire l’euforia che avanzava.
L’eccitazione
scemò dopo qualche ora, quando ormai erano subentrati tutta una serie di
pensieri ansiosi sulla possibilità di farcela o meno.
Il mio turno era praticamente finito, ma
mi ricordai di ciò che era accaduto la sera prima e il magone mi fece crollare
in uno stato di depressione improvvisa.
L’unico ricordo che mi era
rimasto di Oliver erano i suoi messaggi. L’unica traccia della sua dolcezza,
del suo amore per me, del desiderio di condividere una vita insieme.
Ma ora
quell’unico ricordo era in mano a Nathan. Che
sarebbe dovuto arrivare a breve, o almeno lo speravo.
Toc toc toc.
Era una bussata informale, non
troppo decisa, quasi come qualcuno che bussa al bagno per sentire quando si
libera.
Era lui, ne ero certo.
«Avanti.»
Quel ciuffo di capelli biondi
si fece largo tra lo stipite e la porta, mentre il mio cuore prese a martellare
a un ritmo inconsulto.
All’improvviso mi resi conto
di quanto mi fosse mancato Oliver, del rischio che avevo corso lasciando il mio
telefono in mano a uno sconosciuto che avrebbe potuto farne qualunque cosa. Osservai il volto di Nathan e mi sembrò troppo teso per qualcuno che non aveva sbirciato – aveva
scoperto di Oliver? –, per qualcuno che –
dannazione! – non si era fatto gli affari suoi.
Sapeva.
Non volevo intrusi tra me e
Oliver, tra me e il suo ricordo;
invece ora qualcuno sapeva. Qualcuno che mi avrebbe fatto domande, che
si sarebbe introdotto nella mia vita senza permesso, che avrebbe preso a
curiosare con arroganza e sfacciataggine.
Io dovevo averlo guardato con
una punta d’astio, perché non mi diede nemmeno il buongiorno. Si limitò ad
aspettare che io dicessi qualcosa, le mani intrecciate e lo sguardo basso.
Poi, come vide che io non
riuscivo a proferire parola, sciolse l’intreccio e si infilò una mano in tasca.
Impugnò subito il mio tesoro più prezioso e, come lo posò sulla scrivania, io
mi ci fiondai senza nemmeno degnare quel ragazzo di uno sguardo grato.
Accesi lo schermo e sbloccai
il telefono in una voglia frenetica di controllare, ma lui mi
precedette.
«Non ho toccato niente,
tranquillo. Ti è arrivato solo un messaggio da Ash
e poi qualcos’altro, ma non c’era più spazio.»
Aveva studiato le mie reazioni
dopo ogni frase, con quella voce che somigliava più a un bisbiglio, con
l’eterno terrore di fare un passo falso, di dire qualcosa di sbagliato.
Effettivamente aveva ragione.
Avevo controllato davanti a lui e mi sentii in colpa un attimo dopo averlo
fatto, quasi a significare che non mi fidavo.
Alzai lo sguardo su di lui.
«Grazie.»
Calò il silenzio.
Lui era ritornato a incrociare
le dita e, anche se non lo fissavo direttamente, sapevo che stava spostando lo
sguardo in ogni angolo della stanza.
Non sorrideva, non
ridacchiava, né diceva qualcuna delle sue solite sciocchezze. Semplicemente se
ne stava lì, ritto in piedi, muto come un pesce.
Se aveva voglia di dire
qualcosa, che lo dicesse! Il non sapere se avesse
letto o meno i miei messaggi, se avesse scoperto il
mio segreto mi faceva impazzire. Era quanto di più riservato avessi mai avuto,
perché avevo imparato presto a detestare le frasi di circostanza e a leccarmi
da solo quella ferita.
Mi alzai dalla sedia e lui
sembrò irrigidirsi, tanto che in quel momento somigliava più a un bambino
spaventato, con quello sguardo così insicuro e le spalle ricurve a mo’ di
protezione.
«C’è qualcos’altro che vuoi
dirmi?»
Mi accorsi subito che ero
stato uno stupido: avrei potuto semplicemente congedarlo con la prima scusa banale. E invece gli avevo rivolto quella domanda che, per certi
aspetti, sembrava quasi un invito.
Qualcosa tipo: “So che vuoi
parlare di Oliver e forse voglio farlo anch’io”.
No, non era vero!
Non volevo parlare di Oliver.
Mai, e di certo non con lui.
Eppure gli avevo fatto quella
domanda.
Eppure…
«Sì. Ti vorrei dire una cosa.»
Fluttuazioni nello stomaco.
Cuore martellante.
Testa impantanata.
Ancora, bisbigliava.
«Ecco… lo so. Ho letto i
messaggi.»
«Non mi va di parlarne.» … O mi andava?
A nessuno avevo mai raccontato
ciò che facevo da quando Oliver era morto. A nessuno avevo mai confidato che
apparecchiavo ancora per due, che la sera raccontavo la mia giornata alla sua
foto – com’ero patetico –,
che talvolta parlavo da solo, mentre le mie parole si perdevano nel vuoto di
quelle stanze.
Quant’ero patetico nel
ripetere quelle frasi nella mia testa?
Che cosa avrebbero pensato di
me, se lo avessi detto ad alta voce?
Pazzo, mi avrebbero preso per
pazzo.
Ero così dannatamente
patetico!
«È una cosa che voglio dirti
lo stesso.»
Il mio respiro era troppo
grosso per qualcuno che voleva illudersi di non piangere. Per qualcuno che
pensava che non l’avrebbe mai fatto – avrei resistito in quel momento, non
poteva prendersi anche quella soddisfazione.
Soddisfazione?
Davvero credevo che gongolasse
nel vedermi così?
E quanto gli stavo rivelando
di me in quel momento? Stava vedendo tutta la mia fragilità, eppure non dicevo
niente, non l’avevo reso partecipe di nessuno dei miei pensieri.
Tuttavia mi fissava,
mi attraversava con quei suoi occhi verdi carichi d’innocenza, occhi che
cercavano di entrare nei miei, di capirmi.
Sembrava che mi stesse
sfilando i vestiti uno ad uno, ma mai gli avrei permesso di vedere la mia
nudità. Non l’avrei permesso a nessuno.
Lui riprese a
parlare, senza che io glielo avessi chiesto, ma non ne ero più così sicuro.
«Non sei l’unico a cui è
successa una cosa del genere. Cioè», si riprese subito, quasi avesse fretta di
chiarire. «Non come quella che è successa a te. Ma anche io ho perso qualcuno
di importante.» La sua voce tornò a distendersi, come quando aveva iniziato.
«Il risultato è lo stesso.» Esitò un momento. «Mi manca.»
Dio, se mi mancava Oliver.
I sentimenti che avevo sopito
mi ritornarono su per la gola, bloccandomi il fiato e soffocandomi,
annebbiandomi ancora la mente, e Oliver era lì, davanti a me, con quel suo
sorriso che – Dio! quanto mi mancava – non avrei più rivisto, ma quanto faceva male? Quanto?
Sentii la terra sgretolarsi
sotto i miei piedi e il mio corpo sprofondare in un dolore che non riuscivo più
a sopportare, che aveva sedimentato dentro di me e che ora era pronto a cibarsi
della mia fragilità, e io che non riuscivo a oppormi, e mi trascinava giù, giù,
in un nero che non conoscevo…
Eppure lui mi tenne in piedi,
cinse il mio corpo con le sue braccia esili e lo strinse, per non lasciarmi
cadere. Oliver mi aveva salvato, mi aveva aiutato a non cadere nell’oblio, mi
aveva tirato su, fatto sedere sulla scrivania, invocava il mio nome.
Eppure Oliver non era biondo
così, perché non era stato lui a salvarmi, non era stato lui a risvegliarmi da
quello che speravo fosse solo un incubo. Non c’era Oliver davanti a me – non ci
sarebbe stato più.
E quanta disperazione doveva
aver letto nei miei occhi quel ragazzino in piedi davanti a me, che ora mi
carezzava la schiena, mi toccava. Quelle dita a contatto col mio corpo
mi fecero rabbrividire, perché si era stabilito un contatto, un legame,
qualcosa che andava al di là delle parole, al di là dei gesti – solo sguardi.
Lui non diceva niente, tentava
sorrisi strozzati dalla paura di essere inopportuno,
mentre io a poco a poco tornai nel mio mondo, al mio
ufficio, alla mia scrivania, alla mia realtà.
Feci un respiro profondo e
ogni cosa tornò al suo posto, recuperai la mia corazza e la indossai – ma mi
sembrò meno pesante di prima.
Nathan non disse niente.
Attese qualche minuto per assicurarsi che fossi tornato in me, che non avessi
bisogno di niente; poi tossicchiò, visibilmente imbarazzato da quel silenzio
che si stava protraendo a oltranza. Mi accorsi che aveva le guance arrossate,
probabilmente perché senza la sua sfacciataggine non era per niente capace di
cavarsi d’impaccio da certe situazioni.
La cosa mi fece quasi
tenerezza.
«Allora, io…», e prese a
traccheggiare con le dita delle mani, indicando poi l’uscita, «vado, se non hai
più bisogno. Cioè,» ancora quel tono di voce che voleva chiarire tutto e
subito, «se non hai altro da dirmi.»
Inizialmente pensai che no,
non avevo altro da dirgli. Forse non qualcosa che avrei voluto esprimere a
parole. La sua sola presenza, lì di fronte a me, sembrava regalarmi una sorta
di conforto.
Ma poi mi venne in mente
qualcosa.
Qualcosa di buffo.
«In realtà sì, c’è
qualcos’altro di cui vorrei parlarti. Magari mi puoi accompagnare a prendere
qualcosa, così ne discutiamo.»
Aggrottò la fronte, sembrava
quasi spaventato. Ancora, un bambino con la coda di paglia.
Era quasi divertente.
«Allora? Che cosa volevi dirmi?»
Molleggiava il piede destro
con rinnovata agitazione, e io non potei fare a meno di tenerlo un po’ sulle
spine. Sì, non era carino nei suoi confronti, ma mi regalava un’ilarità che non
provavo da troppi mesi. E perse anche un po’ quel sapore di tenera vendetta che
aveva animato le mie prime chiacchierate con lui, lasciando solo quell’intesa
tipica di due amici di vecchia data, che però certamente non eravamo – né
amici, né di vecchia data.
Ripensai
all’episodio di quella notte, che era riuscito a farmi accantonare, per un
momento, la disperazione per l’avvenuto scambio di telefoni.
«Mi ha scritto – o meglio – ti
ha scritto un certo ‘SteveMerda’.»
Lui spalancò la bocca e si
portò le mani al viso. Dentro di me pensai che faceva proprio bene a disperarsi
così.
«Dimmi che non è vero.»
«È vero, è vero. Vuoi
qualcosa?»
Eravamo davanti alla
macchinetta. Optai per un tè al limone.
«Sotterrarmi?»
Mi fece ridere.
Ridere.
Mi ritrovai in imbarazzo. Io,
che per tutto quel tempo avevo ormai imparato a essere quello ombroso, schivo e
scontroso, ora stavo ridendo. Ero fuori dal mio personaggio. Che avrebbe
pensato Ash, se mi avesse visto? Lui che mi conosceva solo da sei mesi, che non
sapeva niente di ciò che mi aveva colpito due mesi prima che mi incontrasse? Mi avrebbe subissato di domande, avrebbe insinuato che ci
fosse qualcosa tra me e Nathan – oddio.
D’istinto mi guardai intorno,
come per assicurarmi che lui
non ci fosse.
«Cerchi un posto per la mia
tomba?», ridacchiò, ma divenne subito serio. «Cioè. Scusa. Era una battuta
infelice.»
La macchinetta sputò fuori il
mio tè.
«Non ci stavo nemmeno
pensando.»
Sì, non avevo più dubbi: Ash
avrebbe cominciato a ricamare sopra questa storia, a fare cornici di rose con i
nostri nomi scritti dentro e a disegnare cuori trafitti dalla freccia di
Cupido.
«Meno male!»
Girai la palettina dentro il
bicchiere. Perché lo zucchero andava sempre tutto in fondo?
«Sai una cosa? Quella faccia
seriosa non ti si addice. Sei meglio così.»
«Cioè stupido?», assottigliò
gli occhi, quasi offeso.
«Chiamalo come vuoi.»
Nonostante tutto, riassunse di
nuovo quell’espressione seriosa. Forse avevo detto qualcosa di sbagliato – cosa
si agitasse in quella sua testolina era ancora un mistero, per me.
«Ah! Ma tu stavi cercando di
sviare il discorso!»
«Io?», chiesi.
Sembrava essersi risvegliato
tutto insieme. Pareva tornato
quello di sempre.
«Sì, tu! Che ha combinato
Steve?»
Mi spuntò un sorriso.
«Dovrei essere arrabbiato con
te, ma non lo sono.» Mi divertii a osservarlo impallidire. «Ha parlato di una
certa festa.»
Si coprì ancora il viso con le
mani ed emise un gemito sconsolato.
«Alla quale andrai con un
certo fidanzato.»
Sgranò gli occhi e continuai a
pensare a quanto fosse divertente stuzzicarlo in quel modo, anche solo per le
smorfie che faceva.
«Credo proprio di avere un
impegno…!»
Come mosse i piedi, lo
afferrai per un braccio. Un altro contatto, ancora. Non mi dava fastidio. Non
c’era reale malizia in quello che faceva, né il desiderio di prendersi gioco di
qualcuno. Quindi, forse
per questo, accettavo di buon grado un qualunque contatto tra di noi. Perché
non pensava che potessi provarci, non pensava
a cercare significati nascosti in gesti innocenti, e questo perché sapeva. Non mi giudicava, né cercava di farlo.
Era liberatorio.
«Dove scappi? Non ho mica
finito.»
«Ti prego, non uccidermi!»
E inscenò un pianto
melodrammatico.
«No, non ho intenzione di
ucciderti. Però potrei denunciarti per aver diffuso false informazioni sul mio
conto.»
Lo osservai assumere ogni
tonalità dal rosa al bianco. Era impietrito.
«No, ti prego, ritiro tutto!
Davvero, te lo giuro!»
Mi fece scappare un’altra
risata. Una risata viva, di gusto.
Lontano, dentro di me,
qualcosa cominciò a preoccuparmi.
Misi a tacere quella voce,
così distante; perché i
sentimenti negativi, anche se confusi, era meglio spezzarli sul nascere,
nonostante i contorni sfumati.
«Nathan. Stavo scherzando.»
Tornò rapidamente a una
colorazione normale.
«Oh. Ok. Dov’eravamo rimasti?»
«Ah, sì. Scordatelo.»
Gettai il bicchierino di tè
finito da un pezzo e osservai l’ora: il mio turno era
terminato da almeno trenta minuti. Iniziai a
incamminarmi verso l’uscita e feci mente locale: portafogli e chiavi nella
tasca interna della giacca, cellulare nel taschino dei pantaloni e la testa
sulle spalle per riportare la mente all’indagine. L’ultima si rivelò poco più
che un’intenzione, perché Nathan si aggrappò alla mia
camicia e cominciò a strepitare.
«Non puoi abbandonarmi così,
dai! È solo per una sera! Così me lo leverò di torno per sempre!»
Mi fermai e mi girai di
scatto, tanto che per poco non mi finì addosso.
«Ma come ti è saltato in mente
di dirgli che sono il tuo ragazzo? Tu sei matto e di certo non mi presterò a
questa stupida finzione.»
Nathan si aggrappò di nuovo.
«È stata la prima cosa che mi
è venuta in mente! Dai, ti prego, è solo una festa!»
Qualcuno si intromise tra noi.
«Festa?»
Era Ashton. Come arrivò tra
noi, sentii il legame tra me e Nathan spezzarsi all’improvviso.
Quell’incredibile complicità venne soppiantata dalla presenza di Ashton, che
subito si scambiò un’occhiata con Nathan. In
quell’istante, capii di essere distante anni luce dal
rapporto di quei due, che certamente erano più sconosciuti di quanto lo fossimo
io e Nathan. Mi sentii escluso, di nuovo; e se la prima volta avevo trovato
quel fatto semplicemente maleducato, ora sentii un pizzicore allo stomaco, un
fastidio che non trovò altro modo di manifestarsi.
Ero stato messo da parte,
dimenticato in una frazione di secondo; e tutto ciò che avevamo condiviso in
quei pochi attimi nel mio ufficio mi sembrò già svanito, volato via, un istante
di qualcosa che somigliava alla felicità, che avevo
afferrato per un momento e che già non tenevo più tra le dita.
«Sì, festa! Alan non vuole
accompagnarmi.»
In quelle parole, nel modo in
cui aveva strutturato la frase e nel tono in cui l’aveva pronunciata avvertii
tutto il peso del legame che si era formato tra loro quasi a pelle, un legame
che io non avrei mai raggiunto, forse con nessuno su questa Terra. E, infatti,
non appena avevo avuto l’impressione di esserci quantomeno non troppo lontano,
ecco che qualcuno si era immischiato e aveva fatto svanire ogni mia speranza.
«Perché non vuoi andarci? Ti
farebbe bene.»
Nathan mi guardò con un
sorrisetto divertito, lo stesso che forse gli avevo rivolto qualche minuto
prima. Ma in quel momento mi infastidì, perché sembrò quasi che si fosse scordato
ogni cosa di ciò che aveva scoperto. Era così ovvio il motivo per cui non
volevo andarci!
Sarebbe stata una finzione, un
teatrino, ma non me la sentivo. Non dopo che, oltretutto, mi sentivo tradito
così. Nella mia illusione forse avrebbe funzionato. Non mi sarei comunque
comportato da finto ragazzo, ma da amico, eppure sentivo che avrei potuto
sopportare Nathan e quel suo modo di capirmi senza parlare. Invece, in quel
momento, mi sembrava di non riuscire più a scorgere quella parte di lui. Forse
non era mai esistita. Forse mi ero sognato tutto.
«Dai, per favore!»
«Su, Alan, non fare sempre
così.»
«Non costringermi a farti gli
occhioni dolci, dai!»
«E accetta, per una buona
volta!»
Scoppiai.
«Basta! Ho detto ‘scordatelo’
e mi sembrava di essere stato abbastanza chiaro. Quale parte di ‘scor-da-te-lo’
non capisci? Eh?»
Entrambi mi fissavano
impietriti. Ashton, forse, anche con un po’ di durezza.
«Scusa, eh. Lo facevamo per
te.»
Ashton non sapeva. Il suo
sguardo era fermo: mi stava
condannando e a me andava bene così. Non poteva capire e non mi interessava che
lo facesse. Ma Nathan…
Nathan sapeva.
E il suo sguardo mi fece
capire che, ancora una volta, aveva intuito ciò a cui stavo pensando.
«Non mi sembra proprio.»
Feci dietro-front e lasciai
quei due a parlarsi di chissà cosa, forse anche solo a guardarsi, perché sì,
loro potevano comunicare anche così.
Ma che me ne importava?
Angolo
autrice
Salve
a tutti!
Finalmente
trovo il tempo per scrivere due righe sotto al capitolo. Ne approfitto intanto
per ringraziare tutte le persone che hanno letto e recensito, mi avete resa
felicissima! E mi complimento con voi per esservi sciroppati tutti questi
capitoli lunghissimi, siete fantastici! XD
Questa
storia è importante per me perché forse sarà quella con cui tenterò la
pubblicazione (self o CE, vedremo) una volta che l’avrò terminata e pubblicata
per intero qui su EFP, quindi ogni feedback è molto prezioso… e se ho in testa
questo pensiero è solo grazie alle belle parole che avete speso per questa
storia.
Quindi
che dire, se non un immenso “grazie”? Col vostro sostegno mi è tornata la
voglia di scrivere, pubblicare e anche interagire con gli altri autori. Sono
davvero contenta! Tra l’altro i prossimi capitoli mi piacciono molto, non vedo
l’ora di farveli leggere.
A
giovedì!
holls