17.
Terra bruciata
I
materiali polimerici hanno una modesta resistenza meccanica a temperature
elevate, tant’è che solo alcuni possono essere impiegati a temperature maggiori
di 250°. Sono scarsamente solubili e hanno una densità modesta…
Stronzo.
…
Sono scarsamente solubili e hanno una densità modesta, generalmente inferiore a
1,5 g/cm3, raramente sotto 1 g/cm3; solo il
politetrafluoroetilene, comunemente detto teflon, ha una densità superiore ai 2
g/cm3.
Avevo
fatto la cosa giusta.
…
poli-tetra-fluoro…
Chiusi
le dispense e sbuffai. Non era possibile studiare con la coscienza che ti fa la
morale.
Sapevo
di aver fatto la cosa giusta a mandare quel messaggio. Quello di Alan era stato
l’ennesimo colpo basso ed era giusto che finisse così. E per quanto la mia
mente continuasse a dirmi che era tutto una gran cazzata - grazie, mente -,
io sapevo che avevo seguito l’unica scelta possibile.
Mi
sventolai con la mano per scacciare il gran caldo, ma era impossibile: qualche
pazzo aveva lasciato la finestra dell’aula aperta, tanto per allietare lo
studio con afa e smog. C’era una puzza di discarica da far uscire di cervello e
le imprecazioni che si sentivano dalla strada non aiutavano a concentrarmi. Ero
costretto a rileggere più volte gli stessi paragrafi e spesso le solite righe -
colpa del casino là fuori, mica di quello dentro la mia testa.
La
mia era stata una decisione saggia, di quelle che avrebbe preso una qualunque
persona con un po’ di sale in zucca.
Ma
forse, in fondo, avrei fatto più bella figura a sparire direttamente. Nel
momento in cui mi ero arrabbiato con lui, gli avevo fatto capire che ero
interessato a quell’amicizia, morta ancora prima di cominciare davvero; e
questo era o non era un colpo basso?
Per
non parlare del fatto che ci avevo fatto la figura dello stizzito che se l’era
presa e che stava ancora lì a rimuginarci su.
…
Be’, sì, in effetti era così: rimuginavo nella speranza di trovare un modo per
non farlo più.
Il
problema era che più ci pensavo, più mi sentivo ferito nell’orgoglio, perché
ancora una volta non riuscivo a fregarmene di quello che era successo e della
sua reazione, non riuscivo a togliermi dalla testa che forse lo avevo ferito.
Non la smettevo di preoccuparmi di quello che poteva provare e maledizione
quanto mi odiavo!
Quanto!
Riaprii
le dispense, pronto a ricominciare da capo.
Stappai
l’evidenziatore e mi impegnai a sottolineare solo le frasi che leggevo davvero.
I
materiali polimerici hanno una modesta resistenza meccanica a -- temperature
maggiori di 250°. Sono scarsamente solubili e hanno una densità --
politetrafluoroetilene, comunemente detto teflon, ha una densità superiore ai 2
g/cm3.
Senza
senso.
Cosa
stavo leggendo?
Mollai
l’evidenziatore e mi passai le mani sul viso, come se potesse aiutarmi a
trovare la concentrazione che continuavo a perdere. Mancavano tre settimane a
quella cavolo di prova e io ero indietrissimo, consapevole che lo sarei rimasto
forse fino alla scadenza.
Osservai
sconsolato i grafici sulla resistenza alla rottura dei materiali polimerici -
una linea sinuosa che andava su e giù.
Sospirai
di nuovo. Alzai gli occhi verso gli altri ragazzi presenti in quella stanza e
desiderai essere uno di loro, uno qualunque, uno che non avesse tutta quella
merda a cui pensare.
Perché
non c’era solo Alan; c’era pure Harvey.
E
io lì, da solo, a domandarmi dove fosse e in quale giro schifoso si fosse
cacciato. Quella notte mi ero pure sognato il bigliettino; sognavo che la
polizia entrava in casa e trovava un pacco, dove dentro c’era qualcosa di
pericoloso - e il poliziotto non era Alan, ne ero certo. La sua faccia era più
simile a una chiazza di melma scura che a un volto, ma non era lui. Nel mio sogno
avevo tante di quelle tipiche certezze che non puoi considerare tali, ma che
sai che sono vere perché le senti.
E
poi c’era Ryan. Il cazzotto in piena faccia più doloroso di tutta la mia
esistenza. Ripensavo all’amico ingrato che ero stato, perché forse definirmi
“amico” era pure troppo.
Ryan
non aveva mai fatto parte della mia vita, se non quando eravamo due ragazzini
innocenti, quando io lo accompagnavo a guardare le partite di pallavolo delle
ragazze. A fine partita si faceva notare da loro con una limonata ghiacciata e
un paio di battute spiritose piazzate qua e là, ma era già su un altro mondo
rispetto a me, che di quelle faccende non ci capivo nulla. Ogni tanto giocavamo
a pallone, quando mio padre - altra vagonata di merda di cui facevo volentieri
a meno - non mi portava a vedere le partite di baseball.
Ma
cosa c’era mai stato più di quello? Cos’è che ci aveva tenuti uniti, in quegli
anni?
Forse
era il ricordo di qualcosa che era stato e che non sarebbe tornato più. Forse
era il ricordo degli anni spensierati, che pensavamo di poter far tornare
indietro solo stando insieme; e invece non ci eravamo accorti che l’orologio
aveva continuato a ticchettare sopra le nostre teste, che eravamo stati messi
di fronte a scelte che ci avevano portato su binari diversi. E io che spesso lo
guardavo da lontano, nella speranza che i nostri treni tornassero a essere uno
solo, ma non era possibile, perché ci saremmo scontrati e ci saremmo distrutti.
Ecco,
indietro non potevo tornare.
Non
potevo farlo con Ryan, né con mio padre, tantomeno con Alan.
Era
una lezione difficile da digerire, ogni volta. Dovevo imparare a capire che le
cazzate hanno un costo e che io sceglievo sempre quelle col prezzo più alto.
Avevo trovato talmente tanti ragazzi disposti a perdonarmi tutto, come zerbini,
che forse ci avevo preso un po’ la mano.
E
poi arrivavano tipi come Alan e col cavolo che erano disposti a stare dietro ai
miei cambi d’umore. Col cavolo che si sarebbero portati un po’ del mio peso.
Col
cavolo, a dispetto di tante promesse.
Tanto
era sempre così: arrivati al momento clou, scappavano tutti, e col cavolo che
tornavano indietro.
La
sedia accanto a me divenne occupata. Lanciai un’occhiata fugace e mi accorsi
che era Steve Griffiths, altrimenti detto SteveMerda. L’ameba era
tornata all’attacco, ma dovetti ammettere che quella mattina non aveva la
solita aria da maniaco. Si sedette accanto a me, mentre io ormai sventolavo bandiera
bianca, visto che studiare era impossibile, tantomeno con quella ciliegina
sulla torta.
Lui
si voltò verso di me e io mi sentii invaso da un senso di repulsione.
«Sei
ancora arrabbiato con me, Nate?»
«Non
chiamarmi in quel modo, lo odio.»
«Mi
sembri un po’ agitato, o sbaglio?»
Presi
un bel respiro e buttai fuori. Non gli risposi.
«Sei
ancora arrabbiato per quella storia di Alan, scommetto. Che cattivo è stato, a
dirmi che la vostra relazione era solo una farsa.»
Stetti
zitto. Tra una chiacchiera e l’altra, Steve mi aveva detto che sapeva che Alan
non era davvero il mio ragazzo e quindi, incuriosito, gli avevo domandato cosa
glielo facesse pensare. Con sconvolgente tranquillità, mi aveva rivelato che
era stato Alan stesso a dirglielo, la sera della festa.
E
così mi ero arrabbiato.
No,
macché: ero andato su tutte le furie.
Perché
quando trovi una persona che fa della moralità il suo cavallo di battaglia, non
ti aspetti che faccia il gioco sporco in quella maniera. Subito dopo avevo
pensato che cose del genere potevano anche capitare, per poi ricordarmi
l’attimo successivo del Webster Hall e di come si fosse finto interessato alla
“questione Ryan” solo per portare avanti delle indagini.
Probabilmente,
era stato lo stesso per la festa. Aveva accettato all’improvviso e dopo una
telefonata, forse da qualche suo superiore. Io avevo creduto che ci fosse
venuto volentieri almeno un po’, e invece era stata l’ennesima farsa; me lo
aveva dimostrato spiattellando a Steve tutto il mio piano, mentre io cominciavo
a considerarlo un amico e qualcuno di cui fidarmi.
Ci
ero rimasto molto male.
Tutte
le volte che lo avevo beccato a guardarmi stava sicuramente pensando quanto
fossi stupido a credere a quella messinscena.
«Sì,
sono arrabbiato con Alan, ma tanto è una cosa che non mi riguarda più.»
«Oh!
Sono felice di sentirtelo dire.»
«Perché
così ho qualche speranza di interessarmi a te?»
Steve
ridacchiò.
«No,
carino, stavolta non c’entri. Anzi, a esser sincero, non mi importa più di te.»
Sono
sicuro che, in quel momento, il mio cuore perse un battito.
Finalmente
mi sarei sbarazzato di Steve, era vero, ma…
«Come
sarebbe?»
«Il
mondo mica ruota intorno a te, sai? Voglio provarci con Alan.»
Mi
scappò una risata con pernacchia.
Quella
cosa non aveva alcun senso, figurarsi se Alan avrebbe accettato di frequentare
uno come Steve! Già me lo immaginavo, mentre l’ameba cercava di palpargli il
fondoschiena o gli sussurrava frasi sconce da vero camionista.
«Sei
fuori, Steve. Alan non accetterà nemmeno tra un milione di anni.»
«Ne
sei sicuro?»
Sì
che lo ero - Alan era troppo preso da Oliver per pensare a qualunque altro
uomo. E poi, Steve non era proprio il suo tipo.
«Abbastanza.»
«Strano,
perché gli ho mandato un messaggio e ho pure ricevuto una risposta.»
Per
un attimo mi allarmai anche, la mia mente fu un guazzabuglio di pensieri.
Alan
e Steve? Ma fatemi il piacere.
Che
risposta gli aveva dato?
Mi
aveva fatto due scatole così con la storia di Oliver e ora accettava di uscire
col primo che capitava?
…
In effetti, però, io non glielo avevo mai chiesto.
Avrebbe
accettato?
«Frena,
Steve, non fare il furbetto con me. Chi ti avrebbe dato il suo numero?»
Mi
si avvicinò un po’ e mi guardò con uno sguardo che non mi piaceva. Aveva una
risposta e non era inventata sul momento.
«Fai
male a lasciare il cellulare incustodito, carissimo Nate.»
Mi
sentii su un ring, steso a terra per il colpo finale. L’arbitro aveva
cominciato a contare: dieci, nove, otto… Sarebbe arrivato presto allo zero.
Mi
mancavano le parole.
Io
ero stato a mandare messaggini con tono di guerra per una stronzata - grazie,
mente -, e lui aveva approfittato di quell’attimo per infilarsi tra di noi.
«Non
ci credo. Fammi vedere.»
Lui
rise ancora e somigliò molto al cattivo di turno dei film, che sa di avere il
coltello dalla parte del manico e ti deride per il tentativo di portarglielo
via.
Immaginai
che avrebbe inventato qualche scusa per ritardare il momento in cui mi avrebbe
mostrato il messaggio, e invece mi passò il telefono con un sorriso beffardo
sul viso.
«Ecco
qua.»
Il
messaggio c’era. Diceva: “Mercoledì alle 17:30 va benissimo. Alan.”
Non
era suo, non poteva essere. Sì, in fondo c’era la sua firma e quello era un suo
tratto distintivo, ma non poteva essere suo.
Non
poteva e non doveva.
Allora
mi venne in mente di controllare il numero e corsi frettolosamente tra quei
menù per poter vedere i dettagli. Scorrevo le cifre e speravo sempre che la
successiva fosse sbagliata, diversa da quella che ricordavo e che era salvata
sul mio telefono.
E
invece no.
Il
numero era quello, il messaggio esisteva e chiedeva a Steve di incontrarsi.
Gli
resi il telefono senza dire niente; non alzai nemmeno lo sguardo.
«Quindi
uscite insieme?»
La
voce mi aveva tremato ed ero quasi certo di aver balbettato.
L’avevo
sentita - cavolo! - e avevo balbettato come a gennaio quando hai la mascella
congelata che batte da sola.
«Chi
lo sa. Sei curioso?»
Steve
si avvicinò a me, con una rivincita negli occhi che non gli avevo mai visto.
«Come
ci si sente a essere messi da parte, Nathan? Come ci si sente ad essere dalla
parte degli sfigati?»
Ero
sul palcoscenico vuoto, di nuovo. C’era silenzio, come sempre. Ora non c’erano
più neanche i pop-corn per terra, segno che nessuno passava di lì da molto,
molto tempo. Però, se stavo in silenzio, qualcosa sentivo: erano le battute del
teatro accanto, erano gli applausi dei genitori fieri dei loro figli, erano le
acclamazioni di successo di quelli che ti stanno intorno.
Tutto
quel rumore era un’eco. E il mio teatro era talmente vuoto che la solitudine
faceva da cassa di risonanza.
«Tanto,
figuriamoci se durate.»
«La
ruota gira sempre, vero? E come sarebbe divertente se qualcuno venisse a
scoprire il tuo piccolo segreto?»
Uno,
due, forse anche cinque battiti andarono persi.
Il
mio segreto - panico.
Panico-panico-panico.
«Non
lo faresti mai.»
E
la voce mi tremava ancora - cavolo!
«No,
non lo farò. Ma non osare intrometterti, hai capito? Tu non sei nessuno,
Nathan, e non mi pare che ad Alan importi così tanto di un bambino viziato come
te.»
«Sei
venuto qui solo per dirmi questo?»
«Sì.
Volevo darti la bella notizia di persona. Bye-bye, Nate.»
Steve
se ne andò, così come era arrivato, lasciando che il treno della sua notizia mi
passasse sopra senza troppi complimenti.
Rimasi
imbambolato per almeno dieci minuti a fissare il vuoto e a domandarmi com’era
potuta succedere una cosa del genere.
Avevo
creduto di essere io il fiore raro, il treno da non perdere e invece era Alan
che era partito senza nemmeno il fischio del capotreno.
Non
me ne ero neanche accorto.
Alan
e Steve.
E
io che a lui non ci avevo neanche pensato in quel senso, visto tutte le cose
che mi aveva raccontato! Avevo lasciato da parte tutto il suo fascino per
lasciare che si riprendesse dal suo lutto.
Quanto
mi si era capovolto il mondo?
Nemmeno
una settimana prima avevo come l’impressione che tra noi due ci fosse
un’affinità impalpabile, un’intesa incredibile che potevi solo vivere, perché
non c’erano parole per descriverla.
Ora, però, c’era Steve.
Sarebbe
diventata la sua nuova distrazione - per quanto a lungo non era dato saperlo; e
chi si sarebbe mai ricordato di Nathan, quel ragazzino stupido che fa solo
battute stupide, che scrive solo messaggi stupidi, perché - cazzo!
È
STUPIDO
!
Avrei
dovuto essere sincero fin dall’inizio, un po’ meno orgoglioso e provare a
risolvere la questione civilmente.
Ma
poi, quale questione? Quella stupidata della festa?
Seriamente?
Avevo
raggiunto una nuova vetta di pateticità.
Mi
meritavo la solitudine. Mi meritavo di essere invidioso delle vite degli altri.
Mi meritavo di guardare da lontano qualcuno che non avevo saputo tenermi
stretto e che si stava rifacendo una vita.
Il
capotreno aveva fischiato, in verità; ma io ero stato troppo preso da me stesso
per poterlo sentire.
Avrei
condotto la mia indagine da solo. Alan mi serviva per il suo occhio clinico, se
così lo si poteva definire, ma ero abbastanza certo di essere altrettanto
dotato di un cervello e che il suo aiuto non fosse così essenziale.
Uscii
dall’università in fretta e furia e, non appena fui abbastanza vicino a un fast
food, qualcosa mi fece attorcigliare le budella. Gettai un’occhiata rapida
all’interno e per un attimo immaginai di vederli lì. Alan e Steve, a
chiacchierare amabilmente, o, più probabile, a sparlare di me. Avrebbero riso
della mia ingenuità, di come erano stati bravi a farmela sotto il naso.
Stronzi,
tutti e due.
Tirai
di lungo e mi ripromisi di non allungare gli occhi su locali dov’era possibile
conversare e decisi di concentrarmi solo sul mio obiettivo.
La
metro mi portò rapidamente sulla trentaquattresima. Camminavo sul marciapiede
con gli occhi bassi, forse perché temevo che qualcuno mi riconoscesse. Sapevo
che in quel locale non girava niente di buono, ma c’erano troppe cose che
volevo capire, e la cattiva fama non mi avrebbe scoraggiato.
Non
appena misi piede all'interno, rimasi sorpreso dall'arredamento. La volta che
ero venuto con Harvey non ci avevo fatto caso, o forse non mi sembrava così
strano che un McDonald avesse sgabelli da bar colorati e tavoli di plastica
lucida così ben tenuti; eppure, nonostante la clientela che circolava lì
dentro, l'ambiente era accogliente e pulito. Non c'erano cartacce per terra o
chiazze appiccicose da scansare con slalom atletici, ma, al contrario, il
pavimento era ben lucido, i tavolini lindi e non c'era una lampadina bruciata.
L'ambiente colorato del fast-food aveva la stessa lucentezza di un qualunque
locale di quel tipo nelle zone più ricche.
Al
bancone c'era sempre lui, il vecchio burbero della scorsa volta. Di lui mi
ricordavo bene visto il modo in cui mi aveva trattato. Avevo ancora stampato
nella mente lo sguardo truce che mi aveva rivolto, e mi resi conto che era lo
stesso che mi aveva incollato addosso da quando avevo messo piede nel suo
locale. Mi bastava muovere un passo perché le sue sopracciglia si aggrottassero
e i suoi occhi diventassero molto più simili a una minaccia. Alla fine, decisi
di non guardarlo più e di farmi gli affari miei.
La
clientela era sempre la stessa, con quello sguardo perso di chi ha in testa
solo la dose successiva, come se non sapesse guardare più in là. Seduto a un
tavolino, da solo e col giornale sportivo in mano, ogni tanto era possibile
scovare qualche signore in giacca e cravatta che, con ogni probabilità,
lavorava in uno dei grattacieli nei dintorni.
Quel
giorno ce n'era uno solo, che mordeva l'hamburger mentre leggeva le ultime
imprese dei New York Mets. Non si era neanche accorto che gli era rimasta un
po' di insalata incollata sulla faccia.
Io
avevo voglia di uscire fuori da quel posto il più velocemente possibile. Mi
feci largo tra i tavolini colorati, occupati da quelli che potevo considerare
zombie, e indirizzai i miei passi verso il bagno. Come poggiai la mano sulla
maniglia, notai tracce di polvere bianca.
Come
già avevo sospettato, lì dentro non si vendevano solo patatine. La domanda,
però, rimaneva la stessa: chi vendeva loro la cocaina? E il bigliettino che
avevo trovato c'entrava qualcosa?
Non
appena fui lontano da occhi indiscreti - non che quegli occhi ciechi fossero
pericolosi -, estrassi il foglietto dalla tasca dei pantaloni. Provai a
rileggere quanto c'era scritto, ma quelle parole non mi dicevano niente,
tantomeno le cifre. Alan aveva ipotizzato una lettura per righe, ma centoventi
dollari per una lattina di soda mi parevano un po' eccessivi, a meno che la
soda non fosse qualcos'altro.
Ficcai
nuovamente il bigliettino in tasca e aspettai che uno degli occupanti uscisse
dal bagno. Come avevo già avuto modo di appurare, non aveva tirato lo
sciacquone prima di uscire, né si era lavato le mani.
Ero
curioso di dare un'occhiata, così mi infilai dentro al bagno. Non appena
entrai, cominciai a sospettare che la porta fosse in realtà un portale per
un'altra dimensione. La prima cosa che ti colpiva come un boomerang a tutta
velocità era la puzza incredibile. Non appena mi fui richiuso la porta alle
spalle, mi accorsi che la luce della lampadina andava e veniva; e, quando
illuminava l'ambiente, si poteva notare la seggetta piena di pedate, capelli
incrostati e residui non meglio identificati.
Per
avvicinarsi al gabinetto bisognava avere fegato o il naso turato. Quell'ultima
osservazione mi fece capire che forse la mia affermazione non era tanto lontana
dalla realtà di coloro che circolavano in quei bagni.
Mi
guardai intorno e non notai niente di strano, se si escludeva la porta piena di
scritte, talmente fitte che ormai non si riusciva più a vedere lo strato di
vernice originale. Decisi di uscire e di tornare in quel luogo che, al
confronto, sembravano quelli di una reggia.
Io
però avevo bisogno di informazioni. Quello era il posto dove mi aveva portato
Harvey, e io sapevo che sniffava cocaina, per quanto avessi voluto negarlo. Lo
avevo sempre saputo, dovevo solo ripeterlo ad alta voce nella mia testa e
imparare ad accettare il presente per come era.
Harvey
sniffa cocaina.
In
quel momento ebbi come una rivelazione, che arrivò così fulminea da
paralizzarmi per un attimo. Anche se ormai mi appariva come un’ovvia verità, mi
resi conto che il ragazzo con cui uscivo non mi avrebbe portato niente di buono
e che grazie all’impulso di un momento avevo perso l'unico amico che credevo di
avere. Nonostante questo, però, sentivo ancora il desiderio di capire le
motivazioni che avevano portato Harvey e Ryan in quel giro, nonché di scoprire
cosa avrei potuto fare per loro.
Mi
piazzai quindi nell'antibagno e, non appena sentii la serratura scattare, mi
misi sull'attenti. Dalla porta uscì un ragazzo sui trent'anni, con la barba a
chiazze e gli occhi iniettati di sangue. Non sembrava molto reattivo, ma provai
comunque a fermarlo.
«Ehi,
scusa.»
Non
parve aver sentito, così lo afferrai appena per un braccio.
«...
Eh?»
Il
tipo mi guardava, ma poi distolse subito gli occhi, forse attratto da qualcosa
che vedeva solo lui.
«È
buona questa roba?»
Gli
uscì qualcosa di simile a una risata e notai i suoi denti, anneriti forse dal
catrame.
«È
buona sì, fratello. La migliore in circolazione.»
Un
altro scoppiato entrò in bagno e lo osservai mentre si chiudeva in uno di quei
cunicoli dell'altra dimensione. Non lo sentii sbottonarsi i pantaloni e tirare
giù la zip.
«Dove
la posso comprare?»
Lui
mi fece un mezzo sorriso, mosse gli occhi verso qualcosa che non riuscii ad
afferrare, poi mi rispose.
«Tra
la decima e l’undicesima. C’è un tizio, un messicano, pantaloni larghi e
cappellino… Un tipo.»
Tirò
su col naso e se lo grattò, mentre gli occhi continuavano a inseguire una preda
invisibile.
«Lui
la fa meno di tutti», continuò. «Quello sulla tredici è un bastardo. Se ne
approfitta perché è una zona migliore. Ci vanno i fighetti, lì...»
Il
suo capo oscillò appena, come se il collo non fosse più in grado di sostenerlo
per bene. Poi si riprese.
«…
I fighetti, sì. Quelli in giacca e cravatta, con la puzza sotto al naso. Però
pagano bene e quel ciccione se ne approfitta.»
Ridacchiò
di nuovo per conto suo. Farfugliò qualcosa, ma non fui in grado di capire le
sue parole.
«Be’,
ti ringrazio.»
Non
appena fui certo che non avrebbe detto altro, tirai giù la maniglia del bagno e
spinsi la porta.
Davanti
a me, Ryan.
Il
mondo colorato del McDonald divenne di un grigio pastello e il sottofondo di All
Star lasciò spazio ai battiti del mio cuore, non appena posai lo sguardo
sul marcantonio che era in piedi accanto a lui. Gli lanciai una rapida occhiata
e mi ricordai che era lo stesso tipo che avevo visto al Webster Hall; mi mise
paura come la prima volta.
Immaginai
che parlare fosse pericoloso. Una parola sbagliata e quel tizio mi avrebbe
fatto sentire la potenza dei suoi bicipiti, ne ero certo. Ma poi, anche se
avessi voluto, non avrei spiccicato parola. Avevo la gola completamente secca e
la mano ancora appoggiata alla maniglia del bagno. Allentai piano la presa,
aspettando una loro reazione, ma non arrivò; così la lasciai del tutto e
richiusi la porta.
Nessuno
sembrava aver fatto caso al nostro terzetto, ma non me ne stupii più di tanto.
«Nathan,
mi pareva di essere stato abbastanza chiaro.»
Lo
guardavo, eppure non provavo più nostalgia, sulla scia di quella consapevolezza
che mi aveva colpito pochi minuti prima. Non lo rivolevo indietro, né
rimpiangevo la nostra amicizia ormai sbiadita. Vedevo solo un ragazzo
distrutto, preso dal suo mondo e da se stesso, perché ormai era la sola cosa
che gli era rimasta. Osservavo il suo naso screpolato e provavo solo tanta
pena.
«Ti
avevo detto di non ficcare il naso in questa faccenda.»
«Che
c’è, non posso nemmeno più venire al McDonald?»
Lui
mi si avvicinò e per un attimo ebbi paura.
«Non
in questo.»
Lui
era lo spettro di ciò che sarei diventato anch’io, se in più di un’occasione
avessi ceduto. A volte mi avevano offerto roba pesante. Si parlava di LSD, ma
anche di cocaina, che però costava di più. Era troppo per le mie tasche e non
volevo infilarmi in qualche casino, probabilmente quello in cui si era cacciato
Ryan.
E
in quel momento, mentre lo guardavo, vedevo nei suoi occhi l’unica cosa di cui
gli importava davvero e fui grato alle mie tasche per essere sempre state
vuote. Quello era ciò che sarei diventato, e mi sentii, per la prima volta,
fiero di ciò che ero.
«Chi
ti vende la roba, eh? Il messicano tra la decima e l’undicesima? Oppure il
ciccione sulla tredici?»
«Smettila,
non sono affari tuoi.»
Stavolta
fui io ad avvicinarmi a lui.
«E
invece un po’ lo sono, sai? Perché anche Harvey è finito in questa merda e
voglio sapere chi cazzo vi vende questo schifo.»
Come
sentì il nome di Harvey, si irrigidì. Forse non si aspettava che sapessi. Ma io
sapevo tante cose, e mai come in quel momento mi fu chiaro.
«Vattene.
È meglio. Ci sono cose che non vorresti sapere.»
«Ah
sì? E cos’è che non vorrei sapere? Che tirate su la coca da mattina a sera? Non
è certo un segreto!»
Ryan
si voltò verso l’armadio. Lui scrocchiò le dita e fece qualche passo verso di
me.
«Ah,
adesso si fa così? Mandi avanti il tuo amico spaccaossa perché sei troppo
debole per affrontarmi tu stesso?»
Il
tipo venne avanti davvero. Cominciò a sciogliere una spalla, poi l’altra, e non
riuscivo a capire se fosse per figura o se perché aveva davvero intenzione di
mollarmi un gancio piazzato bene.
Cercai
una soluzione sensata. Li guardai entrambi e sorrisi.
«Va
bene, come preferite. Ma sappi che non finisce qui.»
Non
gli dissi nient’altro. Rivolsi loro un’ultima occhiata, poi mi avviai a grandi
passi verso l’uscita.
Il
tempo passato in quel locale mi aveva quasi fatto sentire un diverso, come se
quello sbagliato fossi stato io. Lì, in mezzo a lavoratori, studenti e bambini,
capii che quella era la società a cui volevo appartenere. Io, a differenza di
Ryan, ero capace di vedere oltre le quattro mura di quel McDonald, riuscivo a
vedere lontano e, per la prima volta, al futuro.
Poi,
mi fermai. In mezzo agli spintoni della gente, troppo frenetica per accorgersi
della mia presenza, mi resi conto che c’erano diverse cose, nella mia vita, che
avevano bisogno di essere sistemate.
Per
primo mi venne in mente Alan. Ero stato uno stupido con lui, che invece si era
dimostrato tanto paziente nei miei confronti. Scusarmi era il minimo che
potessi fare. Poi mi tornò in mente l’appuntamento con Steve e sentii un
macigno piombarmi addosso tutto insieme. Mi piaceva il modo in cui Alan mi
trattava, le attenzioni che aveva per me, la sua continua preoccupazione nei
miei confronti. Non avevo mai conosciuto nessuno così.
La
verità era che forse volevo più di un’amicizia, ma sapevo che per lui non era
il momento e che non mi avrebbe mai guardato con quegli occhi. Essere amici in
fondo mi bastava e forse avrei dovuto farmelo bastare per sempre.
Perché
si sa che, una volta entrati, da quella zona lì non c’è più scampo.
Decisi
di fare due passi a piedi. Per strada non c’era quasi nessuno, se si
escludevano le persone vicine alle fermate della metro; bastava però
allontanarsi un attimo da quei punti per svoltare in qualche vicolo solitario,
dove l’unico sottofondo era il tintinnio delle lattine calciate per sbaglio,
che rotolavano sull’asfalto finché non sbattevano contro i cestini
dell’immondizia.
Mi
infilai tra i grattacieli e lasciai che quelle chiazze gialle che erano i taxi
mi sfrecciassero accanto. Osservai un paio di turisti orientali con una cartina
in mano, mentre indicavano il MoMA, e intanto giravano la cartina per esser
sicuri di non sbagliare strada.
Scansai
un cane e il suo padrone, poi mi passò accanto una mora con occhiali scuri e
caffè di Starbucks in mano. Mi fermai e alzai gli occhi al cielo, così azzurro
e crepato da una manciata di nuvole.
«Nathan!»
Spostai
lo sguardo in direzione della voce e notai che sulla soglia di una libreria,
con un volume in mano, c’era Nelly. Capelli legati in una piccola coda e tuta
da ginnastica che le dava comunque un tocco di eleganza. Mi avvicinai a lei e
la salutai.
«Che
ci fai da queste parti?»
«Niente,
facevo due passi.»
Un
passeggino mi passò dietro e Nelly mi fece cenno di salire sul gradino che
portava all’interno della libreria, lo stesso su cui era lei. Adesso che ero
salito anch’io, avevamo smesso di essere alti uguali.
«Allora,
che mi racconti? Oggi sono passata dal mini-market, ma Molly mi ha detto che ti
eri preso il pomeriggio libero.»
Abbassai
lo sguardo e notai un mozzicone di sigaretta sul gradino; lo scacciai col
piede.
«Sì,
diciamo che avevo delle faccende da sistemare.»
Nelly
sorrise.
«Che
tipo di faccende?»
Il
suono di un clacson ci fece girare all’improvviso. Evidentemente, qualcuno non
aveva rispettato la distanza di sicurezza e stava per fare un bell’incidente.
«Guarda,
è meglio non parlarne.»
«Perché? Non mi dire che hai avuto di
nuovo problemi con tuo padre!»
In
un pomeriggio di aprile, Nelly aveva avuto la sfortuna di assistere a una delle
sfuriate di mio padre. Era venuto in negozio con Jimmy, perché lui aveva
insistito, e al momento di salutare mio fratello mi aveva minacciato di non
“infettarlo”. Non ricordo nemmeno più cosa gli risposi; so solo che, una volta
che se ne fu andato, mi infilai nel retrobottega e ne uscii solo dopo mezz’ora.
«Mah,
sì e no. Diciamo che ovunque mi giro ci sono dei problemi. La mia famiglia,
l’università, un paio di cazzate che ho combinato...» Ripensai
all’annuncio di lavoro che avevo trovato una decina di giorni prima. «A
volte vorrei solo fare le valigie e andarmene da qua.»
Nelly
emise un mugolio pensieroso. Una voce all’interno
della libreria chiamò il suo nome, ma lei non la degnò di considerazione.
«Be’,
e cosa ti frena?»
«Non
so, mi sembrerebbe di lasciare le cose in sospeso, di scappare. Non voglio
andarmene da perdente.»
«Ma
è della tua felicità che stiamo parlando. Devi fare ciò che ti fa stare meglio,
e se mollare questa città rientra tra le cose da fare… perché no?»
La
voce la chiamò ancora. Forse la sua pausa era finita da un bel pezzo.
«Vai,
Nelly, non preoccuparti.»
«Purtroppo
devo. Però pensaci, va bene? Secondo me non è una cattiva idea. E non saresti
affatto un perdente, capito?»
Feci
di sì con la testa e la salutai, poi la osservai sparire dentro alla libreria.
Mi
presi un attimo per ripensare alle faccende che avevo definito in sospeso
e inevitabilmente pensai alla mia famiglia. Mi chiesi come avrebbe reagito mia
madre alla notizia di una mia eventuale partenza e la immaginai a supplicarmi
di non andarmene per il bene della famiglia. Poi mi domandai come avrebbe
reagito mio padre e mi chiesi se la mia partenza non potesse essere una buona
carta da giocare. Avrebbe perso il suo giocattolino su cui sfogare ogni frustrazione,
l’essere umano da schiacciare per sentirsi migliore.
Nella
mente cominciai a pregustare lo spettacolo… ma mi sentii ancora meglio quando
mi resi conto che in fondo niente mi impediva di renderlo realtà.
Mi
ero quindi trascinato fino al 437 della novantaquattresima, nel quartiere di
Queens. Avevo visto la macchina parcheggiata e sapevo che lui era in casa, ma
in quel momento non me ne importava niente. Anzi, l’idea di fargliela pagare
alimentò un piacere che non provavo da troppo tempo.
Suonai
il campanello senza tentennare. Non mi importava di cosa avrebbe potuto dire o
fare, perché il suo sbraitare e le sue parole come lame, per quanto fossero una
pugnalata ogni volta, erano il segno che qualcosa, per me, lo provava. Io ero
il figlio che lo aveva deluso, che era diventato qualcun altro, ma era una
faccenda che lo faceva soffrire. Quantomeno, lo faceva arrabbiare.
Fu
mia madre ad aprirmi la porta. I suoi occhi si spalancarono quando capì che ero
piombato lì senza preavviso, senza lasciarle il tempo di mandare via mio padre
con qualche scusa. Quando fece per richiudere la porta con sguardo
rassicurante, io la fermai con un cenno della mano.
Non
c’era bisogno di nascondermi, non volevo più farlo.
Sentii
la sua voce in lontananza.
«Chi
è, Elizabeth?»
Da
quanto tempo non la chiamava più “Liz”? Quante cose avevo rovinato nelle vite
degli altri? Quanti equilibri avevo rotto e quante persone facevo soffrire?
Come
mi intravide, si fece severo, come ogni volta che mi fissava, ma io non
ricambiai. C’era solo una cosa che volevo, e non era litigare.
Mia
madre aveva il viso stanco; chissà da quant’è che passava notti insonni, forse
a rassicurare mio fratello.
«Mamma.»
Fu
l’unica cosa che riuscii a dire. Mi accarezzò una guancia, come se cercasse di
capire.
«Tesoro,
che c’è? Che cos’hai?»
Deglutii,
ma all’improvviso divenne tutto più difficile. Era tutto bloccato. Avevo
qualcosa in gola.
«Posso
entrare?»
Mio
padre aggrottò le sopracciglia per un attimo, il tempo di studiare le
conseguenze di quella domanda. Mia madre si voltò verso di lui, smarrita, poi
mi fece di sì con la testa.
Guardai
i loro volti. Mio padre, col mio stesso taglio degli occhi, ma con una
sensibilità che non mi apparteneva - sempre che ne avesse mai avuta una; mia
madre e quel perenne fantasma di preoccupazione sul viso, che la faceva
sembrare più vecchia di quanto non fosse in realtà.
Lei
mi accarezzò ancora, ma io mi scostai in modo repentino. Mio padre non se
l’aspettava e cominciò a fissarmi. Incrociò le braccia come se si fosse messo
sulla difensiva.
Osservai
la foto sul mobiletto accanto alla porta: ritraeva mio padre, mia madre e,
ovviamente, Jimmy. Io non c’ero.
«Sono
venuto a dirvi che sparirò per sempre dalle vostre vite.»
Passarono
alcuni secondi di silenzio. Studiai la reazione di mio padre, ma non mi stupì
non notarne neanche una.
«Tesoro,
ma che ti prende?»
«Per
favore, mamma, non chiamarmi “tesoro”!»
Mia
madre si avvicinò a me; lui, invece, rimase piantato lì dov’era, continuando a
osservarmi. Mi ritrovai ad ascoltare il mio stesso respiro e mi accorsi che
facevo fatica a espirare senza fare rumore.
Lei
non rispose. Il suo viso si fece più duro.
«Va
bene, Nathan, dimmi cosa sta succedendo.»
«Te
l’ho detto: me ne vado per sempre. Potrete finalmente far finta di non
conoscermi ed evitare quelle odiose formalità come gli auguri di compleanno.
Per voi, sarà come se non fossi mai esistito.»
Mio
padre ancora non tradì alcuna emozione. Continuava a starsene lì, con le
braccia incrociate sul petto, le labbra strette e gli occhi piantati su di me.
«È
uno scherzo? James, digli qualcosa!»
Si
era voltata verso mio padre, ma lui ovviamente non rispose. Fece scorrere il
suo sguardo da lei a me, e io, forse per la prima volta, non mi lasciai
intimidire. Lui sembrava rilassato, probabilmente perché di tutta la faccenda
non gliene importava niente; anzi, vedeva il suo sogno finalmente realizzato.
La sua reazione mi provocò una fitta di calore in tutto il corpo. Strinsi i
pugni senza accorgermene.
Mia
madre tornò a guardarmi. Ogni tanto aggrottava le sopracciglia per attimi
impercettibili, come se stesse cercando di capire.
«Nathan,
che storia è questa? Spiegami, per favore.»
«Non
c’è niente da spiegare. Non verrò più qui, non ci vedremo più. Potrete vivere
la vostra vita cancellandomi per sempre. È questo che volevate, no?»
Mio
padre sembrava una statua di sale, impassibile a ogni parola che dicevo. Mi
fissava con le braccia conserte e gli occhi fermi, mentre io sostenevo il suo
sguardo, come mai ero riuscito a fare. Non faceva nulla per zittirmi; lì, muto,
osservava la situazione. Quell’ondata di calore che mi aveva travolto si
incanalò in una stizza crescente. Il mio respiro crebbe. Sentii le unghie
ficcarsi nei palmi delle mani.
Mia
madre invece cercava di dire altro, ma non ci riusciva, il respiro sempre più
affannoso.
«Come
puoi dire una cosa del genere?»
Notai
che le sue labbra tremavano, nel tentativo forse di trattenere le lacrime.
Alzai
gli occhi verso quello che un tempo era stato mio padre.
«A
lui non hai mai fatto questa domanda, eh?»
Quelle
parole erano uscite da sole, ma mia madre sapeva di non poter ribattere. Aveva
sempre finto di non vedere, aveva sempre lasciato che mio padre mi ricoprisse
di insulti e, qualche volte, di schiaffi.
La
verità era che non contavo niente per lei, esattamente come per mio padre.
«Tu
sei un’ipocrita, mamma. Ti comporti come se ti importasse qualcosa di me--»
«Mi
importa, di te!»
Ero
stufo dell’ennesima bugia.
«Non
hai mai fatto niente per me! Non mi hai mai difeso, non hai mai preso le mie
parti!»
«Che
ne sai tu di cosa ho fatto per te?!»
Le
sue labbra smisero di tremare, e, un attimo dopo, alcune lacrime cominciarono a
rigarle il viso.
Lo
stesso fecero le mie parole, che continuarono a uscire senza che potessi
fermarle.
«Vedi?
Ti nascondi dietro a queste frasi, solo per tenerti pulita la coscienza. Ma sai
cosa ti dico, mamma? Che almeno lui è stato sincero nel dirmi in faccia quello
che pensava, a differenza tua!»
«Sei
mio figlio almeno quanto Jimmy, Nathan. Tu lo sai che ti voglio bene e sai
anche che non potrei vivere senza di te.»
L’istinto
mi portò a scuotere la testa e a stamparmi un sorriso amaro in faccia.
Mia
madre mi aveva cercato in tutti quegli anni solo perché ero suo figlio, non
perché ero Nathan. A lei di me non importava niente. Forse non sapeva nemmeno
cosa studiavo o dove vivevo, né cosa mangiavo per cena.
«Tu
credi che volermi bene significhi vederci di nascosto? Dirmi quando lui non
c’è, pensando di farmi un favore? Sono stufo di tutto questo, sono stufo di te,
di lui e della vostra falsità!»
«Avresti
preferito se ti avessi abbandonato?»
«L’hai
fatto!»
La
sua espressione, da contratta che era, si fece seria. Per un attimo non lessi
più nei suoi occhi l’affetto che tanto andava sbandierando. C’era una luce
diversa, in quel momento, forse la stessa che infiammava mio padre quando mi
insultava.
Repulsione.
La
crocchia, che aveva fatto per liberarsi dall’impiccio dei capelli, ora si era
sfatta tutta. Nei suoi occhi c’era il caos. La sua bocca, da schiusa che era,
divenne serrata. Le lacrime smisero di rigarle il viso.
Fece
un paio di passi verso di me e sostenne il mio sguardo senza tentennamenti.
«Sai
una cosa, Nathan? Per tutti questi anni ti ho voluto bene, ma forse ora è il
caso di darci un taglio.»
Lei
e mio padre, per anni così distinti, ora erano uguali.
Lui
mi fissava accigliato, nella stessa posizione assunta pochi minuti prima. Lei
aveva il suo stesso sguardo, anche se non poteva vederlo.
Pensai
ai momenti che avevo trascorso con lei e con Jimmy, momenti che mi aveva
concesso. Anni che aveva passato a nascondermi da mio padre, per poi farsi
sputare solo veleno in faccia. Era stata debole contro di lui, ma aveva
lottato, anche se non capivo bene come. E io le avevo detto che era
un’ipocrita, che di me non le importava niente. Allentai i pugni e lasciai che
il mio corpo si liberasse dalle briciole di rabbia rimasta. Capii solo in quel
momento che per me non c’era davvero più spazio.
Se
in quel momento avessi tentato di abbracciarla, mi avrebbe mandato via. Se
l’avessi chiamata “mamma”, mi avrebbe risposto di non chiamarla in quel modo.
Ero
orfano.
«Sei
ancora qui, Nathan?»
Il
distacco con cui sottolineò il mio nome fece più male di qualunque dolore
fisico.
«Vattene.
Non sei più il benvenuto in questa casa. In fondo, non era questo che volevi?»
Alzai
lo sguardo verso mio padre, ma non c’era tono di sfida.
Lo
stavo supplicando.
Gli
stavo chiedendo di dire qualcosa, ma lo avevo rimproverato di aver parlato fin
troppo in tutto quel tempo. Se ne stava ancora ritto in piedi, le braccia
conserte. Forse pensava che me lo meritassi.
Non
ci fu nessun intervento da parte di mio padre.
Non
ci fu più amore, per quella sera, da parte di mia madre.
Rimasi
solo io, vagabondo, l’ombra dei miei sbagli.
Non
ricordo bene come tornai a casa. Forse avevo preso la metro, forse avevo fatto
una lunga camminata. Sapevo solo che ero seduto sul divano di casa mia, lo
sguardo fisso sui bordi della TV che osservavo sfalzarsi per poi perdere forma
e diventare un grumo indefinito. C’era qualcosa tra me e la TV che prima era a
fuoco e poi fuori fuoco, a fuoco e fuori fuoco, fino a che gli occhi stanchi
non lasciarono spazio ai pensieri.
Cos’era
successo con mia madre? Non capivo.
Lo
stomaco gorgogliò.
D’istinto
sbattei le palpebre e trovai gli occhi secchi. Ripetei l’azione un paio di
altre volte per umettarli meglio, ma erano rimasti aperti troppo a lungo perché
non mi provocasse dolore.
La
TV tornò a essere una chiazza nera. Poi i bordi si sfilacciarono ancora e
tornarono presto a essere un grumo senza contorno. Di nuovo, l’eco dei miei
pensieri si infilò tra me e la televisione.
Volevo
solo sfidare mio padre, provocare una sua reazione, e invece non era accaduto
niente di tutto ciò. Niente.
Un’altra
morsa allo stomaco. Per la fame, forse, o magari solo per la solitudine che
provavo. Alzai lo sguardo verso l’intonaco screziato del soffitto e mi ricordai
perché vivevo lì, in quel bilocale che cadeva a pezzi. Non ero riuscito a
tenermi nessuno accanto - né la mia famiglia, né gli amici -, e quale
sistemazione poteva descrivere meglio ciò che ero? Solo quella mattina mi
sentivo migliore degli altri, degno della parte più pulita della società,
volevo fare il paladino della giustizia per togliere Ryan e Harvey dal fango,
ma la verità era che non potevo fuggire da me stesso e dalla nullità che ero.
Mi venne quasi da chiedermi quanto, in realtà, fossi davvero migliore di loro,
quanto meritassi davvero più di loro.
Ripensai
alle ultime volte in cui mi ero trovato in difficoltà. Avevo preso il telefono
e avevo composto sempre il solito numero, solo che questa volta non avrebbe
risposto nessuno. Non per darmi conforto, almeno. Non meritavo Alan e non
meritavo la sua amicizia, tantomeno la sua disponibilità nei momenti difficili
come quello.
Come
avrei potuto affrontare un’altra giornata e un’altra ancora, senza la mia
famiglia, senza Alan e senza l’illusione di sentirmi dalla parte giusta?
Forse
l’unica soluzione era sparire. Una parola che mi sembrava così melodiosa e così
facile. Due cose in un borsone e un biglietto di sola andata.
Sparire…
Spa-ri-re.
Qualcuno
se ne sarebbe accorto? E dopo quanto?
Poi
avrei dovuto anche guadagnarmi da vivere, ma come? Ero solo un commesso
annoiato o un architetto mancato, a seconda dei punti di vista. Non avevo
ancora risposto all’annuncio per la California e non avevo molti soldi da
parte.
Mi
resi conto che nell’ultimo periodo, anche se me ne accorgevo solo in quel
momento, ogni volta che ero in difficoltà era sempre arrivato un principe sul
cavallo bianco a salvarmi. Solo che poi avevo avuto la grande idea di scoccare
un paio di frecce al principe e di far scappare il cavallo - bella mossa, sì.
Spostai
lo sguardo verso la porta d’ingresso, insieme a quella piccola, flebile
speranza che il principe avesse comunque ritrovato la via a piedi e che venisse
a salvarmi.
Niente,
ovviamente. Ma poi udii dei passi. Qualcuno stava salendo le scale. Un gradino,
due, tre, sempre più vicino. Spalancai gli occhi quando quei passi si fermarono
proprio davanti al mio portone. E spalancai anche la bocca quando sentii
bussare con insistenza.
Mi
alzai di volata dal divano e in poche falcate fui davanti alla porta. Non
guardai nemmeno dall’occhiello, feci scorrere il chiavistello e aprii la porta,
sicuro di trovare…
«Ciao,
Nate. Ti va di guardare un film insieme?»
…
Harvey. Con due videocassette in mano.
«…
Cosa?»
Lui
sorrise. Io non sapevo bene l’espressione che avevo in quel momento. Mi
sventolò le cassette davanti al viso e l’unica cosa a cui riuscii a pensare era
che forse avrei potuto scoprire qualcosa di più sul giro in cui lui e Ryan si
erano infilati. Se solo ne avessi avuto le forze...
«Nathan?
Sveglia? Mi fai entrare?»
Il
pilota automatico che si era impossessato del mio corpo decise di scuotere la
testa.
«No.
Cioè, non so. Che ci fai qui?»
«Volevo
farti una sorpresa e guardare qualcosa insieme. Aspettavi qualcuno?»
Non
riuscivo a guardarlo negli occhi. Mi sembrava quasi una mosca fastidiosa che ti
ronza intorno mentre cerchi di concentrarti.
«No»,
risposi, e il volto di Alan attraversò per un attimo la mia mente. «Non
proprio.»
Harvey
avvicinò il suo viso al mio. Pensai che volesse baciarmi e d’istinto feci mezzo
passo indietro.
«Ehi,
stai bene?»
Ma
quante domande faceva? Volevo liberarmi di lui. Poi l’occhio mi cadde sui film
che aveva preso e mi venne un’idea su come terminare in fretta quella giornata
infinita.
«Sì,
sto bene. Dai, entra.»
Harvey aveva portato
“Scary movie” e “Ti presento i miei”; scelsi il secondo. Tirai fuori dalla
dispensa un pacco di popcorn e ne versai un po’ in una ciotolina, poi raggiunsi
Harvey sul divano proprio al momento dei titoli di testa.
Porsi la
ciotola con i popcorn ad Harvey, mentre io presi posto sul divano, semi-disteso
su di lui. La sua spalla non era un granché come cuscino, ma avrebbe servito lo
scopo.
«L’hai
già visto questo?», mi domandò.
«No,
ma sembra carino.»
In
effetti era divertente. Ben Stiller era simpatico e le gag mi facevano ridere.
Ma ogni tanto la tv tornava a essere un grumo e le voci del film solo un rumore
di fondo. Provai a chiudere le palpebre e trovai presto conforto in
quell’oscurità.
«Stai
già dormendo? Lo sento da come respiri, sai.»
Riaprii
gli occhi e subito dopo ridacchiai. Il pensiero che mi conoscesse così bene da
riconoscere i miei respiri mi fece venire un tuffo al cuore. Poi pensai a come
lo avevo sentito respirare io le ultime volte. Cosa provava Harvey dopo aver
sniffato? Mangiai un altro paio di popcorn per placare quella morsa allo
stomaco.
Guardai
qualche altro minuto di film e continuai a trovarlo simpatico. E di nuovo
comparvero il grumo e i rumori di fondo. Chiusi ancora gli occhi.
C’era la
conversazione con mia madre. C’era l’indifferenza di mio padre. C’era l’addio
che non avevo dato a Jimmy. C’ero io incapace di reagire. O forse incapace e
basta.
Un
movimento brusco mi fece spalancare gli occhi. Sbattei le palpebre un paio di
volte e vidi che era solo Harvey che si risistemava sul divano.
«Ehi,
che cos’hai?»
Harvey
afferrò il telecomando e abbassò un po’ il volume della tv. Io non risposi.
«Lo
vedo che sei strano. Casini con tuo padre?»
Sospirai.
Forse un po’ troppo forte, a giudicare dall’espressione sul volto di Harvey,
quella del lo sapevo!. Già, lui sapeva tutto. Forse gli era bastato
osservare le smorfie sul mio viso per capire quello che mi frullava nella
testa.
«Non
mi va di parlarne.»
Harvey
sbuffò, poi riprese il telecomando e mise in pausa il film. Quel gesto mi
innervosì, visto che l’unico motivo per cui l’avevo fatto entrare era solo per
potermi addormentare, non certo per parlargli.
«Hai
di nuovo perso tempo con tuo padre, non c’è bisogno che tu me lo dica. Ma cosa
ti avevo detto anche l’altra volta? Lascialo perdere, non ne vale la pena.»
«Mi
stai facendo la paternale?»
Harvey
si prese una manciata di popcorn dalla ciotolina che gli avevo dato e li
sistemò sul palmo della mano.
«Ti
sto solo dicendo cosa è meglio per te.»
Ci
volle una frazione di secondo perché la mia insofferenza nei suoi confronti
schizzasse oltre il punto di non ritorno.
«Vaffanculo.»
Lui
di tutta risposta alzò le spalle e cominciò a ficcarsi in bocca i popcorn.
Presi il telecomando e feci ripartire il film, anche se non riuscivo a
concentrarmi. Per la verità non riuscivo a fare niente, neanche pensare; sapevo
solo che dentro avevo una morsa che mi stava consumando e facendo a pezzi come
un tritacarne. E sapevo anche che non volevo tornare a dormicchiare su Harvey.
Sistemai
quindi il capo sul poggiatesta, incrociai le braccia e sperai che il sonno
giungesse presto. La stizza nei confronti di Harvey rese l’impresa più
complicata, ma non impossibile. Lasciai che le palpebre si chiudessero e che il
sottofondo di voci e musica mi cullasse.
Un
silenzio improvviso mi fece aprire gli occhi. Mi voltai e vidi Harvey spegnere
la TV. Quanto tempo era passato? Forse il film era finito. Lui si avvicinò a me
con un sorrisetto che non mi andava proprio a genio.
«Allora,
che si fa?»
Mi
strusciai gli occhi, che cominciavo a sentire sempre più pesti.
«In
che senso?»
Ridacchiò.
«Be’,
siamo qui io e te da soli, e dato che non vuoi parlare, forse potremmo...»
Non
potevo crederci.
«Ma
fai sul serio? Davvero? Ma hai visto come sto?»
«L’ho
visto. E pensavo ti servisse un diversivo.»
Emisi
un gemito di stupore e cominciai a scuotere la testa con la bocca spalancata.
Non potevo davvero crederci.
«Vaffanculo,
Harvey. Sul serio. Non ti è venuto in mente che forse volevo solo essere
consolato?»
Lui
di tutta risposta tirò un sorriso. Poi fece qualcosa che non mi sarei mai
aspettato: mi avvicinò a sé e mi strinse in un abbraccio. Cominciò ad
accarezzarmi la schiena e io mi aggrappai alla sua maglietta senza pensare.
Tutta la stizza che avevo provato per lui fino a quel momento sparì e lasciò
spazio a un antico sentimento di gratitudine, forse di necessità, che sentivo
nei suoi confronti. Ogni volta riusciva a sorprendermi, ogni volta riusciva a
dimostrare a modo suo che a me ci teneva. Il suo affetto riuscì a rompere la
diga che aveva retto le mie emozioni fino a quel momento, e fui travolto da un
rigurgito di pensieri confusi e dolorosi.
«Sono
così stanco di questa situazione. Vorrei solo che tutto questo sparisse.»
Una
lacrima cominciò a rigarmi il viso e nascosi la testa nell’incavo che Harvey mi
aveva offerto. Fu seguita da molte altre. Mi sentii vulnerabile tra le braccia
di Harvey, che continuava a massaggiarmi la schiena, e al contempo si fece
strada in me il calore del suo conforto, che mi ricordò tanto quello dei miei
diciotto anni.
Per
il resto, ero vuoto dentro. Ma non mi sentivo più come un guscio di noce, no;
ora ero direttamente una noce marcia, piena di vermi, così repellente da far
schifo anche a me stesso. L’unica cosa che riuscivo a fare era piangere e
scuotere il mio corpo con un singhiozzo dietro l’altro.
«Vorrei
tanto non essere mai nato. O magari far sparire Nathan Hayworth dalla
faccia della Terra. Lo stupido, inutile Nathan.»
Le
mie parole erano spezzate solo dai miei singhiozzi. Harvey allora mi accarezzò
la testa e cominciò a lasciarmi una scia di baci sulla tempia. Quel gesto in
parte mi calmò, ma mi sentivo ancora uno schifo. Ero uno schifo.
Mi
staccai dall’abbraccio e lasciai che gli ultimi singhiozzi mi scuotessero
appena. Poi lo guardai in viso, perché volevo vedere con che occhi di disgusto
mi fissava. Lui però aveva un sorriso rassicurante e uno sguardo benevolo. Mi
asciugò le lacrime e mi diede un buffetto. Io sorrisi a mia volta e lui
avvicinò il suo volto al mio, fino a quando la distanza tra noi non divenne
minima.
Cominciò
a lasciarmi dei baci umidi sul lato del viso, a partire dalla tempia e poi giù
fino alla guancia, per poi arrivare all’altezza delle labbra; fu in quel
momento allora che mi voltai e lasciai che mi infilasse la lingua in bocca,
mentre con una mano dietro la nuca mi teneva ben saldo a sé.
Continuò
a baciarmi con voracità e io ricambiavo con altrettanta foga; poi fece scorrere
la sua mano libera dallo sterno fino al basso ventre, quasi tracciando un
percorso, che si concluse nel momento in cui raggiunse il bottone dei
pantaloni. Mi staccai da lui e lo aiutai a sbottonarlo, per lasciare che si
intrufolasse sotto le mie mutande. Provai imbarazzo quando fu chiaro che mi era
venuto duro, e ben da prima che mi toccasse.
Liberò
la mia erezione e cominciò a masturbarmi. I miei gemiti iniziarono a riempire
l’aria e mi avvicinai alle sue labbra per mordicchiarle, ma lui si scostò. Sul
suo viso comparve quel sorriso compiaciuto che gli avevo visto un milione di
volte, perché io ero la sua creatura, quella che avrebbe plasmato a sua
immagine e somiglianza, quella con cui avrebbe potuto giocare quanto voleva. E
se il più delle volte quel pensiero mi aveva fatto incazzare, in quel momento
mi eccitava. Mi stava offrendo, a modo suo, un supporto per liberarmi di tutta
quella merda… e io mi sentii protetto.
All’improvviso,
Harvey interruppe ciò che stava facendo. Già immaginavo l’ennesima scusa con
cui se ne sarebbe andato, invece si alzò in piedi e si posizionò davanti a me.
Sul suo volto comparve un sorriso malizioso, poi afferrò pantaloni e mutande e
me li sfilò. Vederlo lì in piedi, vestito e quasi tranquillo, davanti a me che
invece ero semi-nudo ed eccitato mi provocò ulteriore piacere e un rinnovato
desiderio di essere suo.
Sapevo
di essere il suo giocattolo, ma lui era un perfetto burattinaio e io avevo
bisogno di una guida. Era il meglio che potessi desiderare in quel momento e in
fondo non era così male: almeno mi avrebbe fatto dimenticare tutta la merda di
quella giornata e dopo il sesso sarei stato così stanco da addormentarmi
subito. Si sarebbe preso cura di me, in un certo senso.
Cominciai
a pregustare la sua prossima mossa, a immaginare le sue dita su di me e quelle
labbra su qualche parte del mio corpo, ma non avvenne. Infilò invece una mano
nel taschino della camicia, afferrò qualcosa e lo tirò fuori. Un sacchettino
trasparente. Con della roba bianca dentro.
«Cos’è?»
Mi
sventolò il sacchettino sotto gli occhi. Capii l’attimo dopo.
«Neve,
Nate. Voglio che la nostra serata sia speciale.»
Non
disse nient’altro. Faceva scorrere quella bustina di plastica trasparente da
destra a sinistra e io mi accorsi che la seguivo con gli occhi a ogni
movimento. Sentii un fremito di eccitazione scorrermi in corpo e anche un filo
di paura. Cocaina.
Scossi
la testa.
«Non
mi interessa quella roba.»
«Sicuro?
Ci hai pensato tanto prima di rispondere. E comunque non è per te.»
Lui
aspettò una risposta di qualche tipo che non arrivò, mentre io ancora fissavo
quel sacchettino. Mi provocò di nuovo eccitazione e non sapevo se fosse per via
di quello che mi aveva fatto Harvey poco prima o per ciò a cui stavo per
assistere.
Alzai
gli occhi verso Harvey e notai che mi fissava, mentre un sorrisetto cominciò a
crescergli in viso. Sapeva cosa stavo provando e sapeva quanta eccitazione mi
stava mettendo in circolo.
Non
avevo mai visto Harvey sniffare e quella bustina nelle sue mani rendeva ancora
più reale la consapevolezza che avevo avuto quella mattina.
Harvey
sniffa cocaina.
Si
allontanò da me sventolando la bustina e si inginocchiò davanti al tavolino
poco più avanti. Picchiettò appena il sacchettino e la coca cominciò a uscire
sul ripiano. Come la vidi provai qualcosa che non era eccitazione. Forse era
paura… la stessa che avevo provato quando mi aveva messo la mia prima sigaretta
in bocca. E forse anche quando mi aveva messo in bocca qualcos’altro.
Nel
frattempo Harvey aveva preparato quella che sarebbe stata la sua striscia, lì,
stesa in mezzo al tavolino. Io la guardavo imbambolato e provai a immaginarmi
cosa avrebbe sentito. Euforia? Leggerezza?
(Schifo?)
«Forza,
vieni qui.»
Il
modo in cui mi diede quell’ordine mi eccitò ancora e stavolta non era possibile
nascondere ciò che provavo. Mi liberai anche della maglietta e mi misi
completamente nudo inginocchiato sul tappeto, davanti al tavolino, con
un’erezione da paura che lui osservava con fierezza.
«Ti
ho già detto che non mi interessa quella roba.»
Harvey
tirò fuori dalla tasca una banconota stropicciata, che arrotolò con un gesto
esperto.
«E
io ti ho già detto che non è per te. Anche se sarebbe un po’ come con le
sigarette, no? Una cosa nostra. Cazzo, ma ci pensi? Mi sono preso la tua
verginità, il tuo bel culetto, le sigarette e ora questo. Voglio farti mio
anche con la coca, Nate.»
Quell’ultima
frase mi fece scorrere un brivido in tutto il corpo. Voleva che fossi suo, completamente
suo. Non volevo farmi, non ne avevo mai sentito la necessità… ma se mi fossi
fatto, mi avrebbe amato di più?
«Non
mi interessa la coca» ribadii, anche se ogni volta che buttavo un’occhiata a
quella striscia sentivo l’erezione ingrossarsi ancora, «ma puoi avermi in altri
modi, se vuoi.»
Poggiai
i gomiti sul tavolo finché la mia testa non fu all’altezza della striscia. La
mano di Harvey schiaffeggiò appena le mie natiche e d’istinto rizzai il bacino,
per facilitargli qualunque cosa volesse fare col mio corpo.
All’improvviso
sentii qualcosa di umido sulla mia apertura. Qualcosa che me la stava
massaggiando… le dita di Harvey. Gemetti e cominciai a toccarmi, poi mi voltai
verso di lui in cerca di approvazione e mi bastò un suo cenno del capo per
capire che stavo andando bene. Intanto la pressione delle sue dita si fece più
insistente, finché una non entrò appena dentro di me. Poco dopo il suo dito
scese più in profondità e gemetti di piacere.
Lo
osservai avvicinarsi al tavolo con la banconota arrotolata poco prima, che posò
proprio all’inizio della striscia. Poi cominciò a tirare su facendo scorrere la
banconota e la cocaina sparì a poco a poco con sniffate secche e decise. Sul
tavolo rimasero solo delle briciole, perché ormai il resto era dentro di lui.
Chiusi gli occhi con quel pensiero mentre il cuore mi batteva a mille, e
cominciai a muovere il bacino perché lui si facesse strada dentro di me.
(Fermati)
«Bravo,
così.»
Sentii
un altro dito avvicinarsi ed entrare di getto fino in fondo. Mi bruciò e
gemetti di nuovo, stavolta di dolore. Rizzai il mento mentre Harvey muoveva le
dita su e giù in un movimento lento e mi ci volle qualche istante per
abituarmi. Pensai che di lì a poco mi sarei dovuto abituare a qualcosa di molto
più grosso e quel pensiero mi provocò una scarica di piacere.
Buttai
un’occhiata ad Harvey e lo trovai in estasi, il viso rivolto verso l’alto, un
sorriso da parte a parte senza nessuna ragione apparente. Sembrava libero da
ogni preoccupazione, quasi felice, e con la coda dell’occhio diedi una
sbirciata alle briciole che erano rimaste sul tavolino.
Lui
mi prese il mento e mi costrinse a guardarlo.
«Ah-ha,
quella non è roba per te, piccolo Nathan.»
Mi
aveva beccato e mi sentii avvampare.
«Ma
forse, se fai il bravo...»
Il
terzo dito si avvicinò alla mia apertura e d’istinto provai ad allontanarmi, ma
le dita di Harvey erano diventate così secche che fu più saggio stare fermo.
Lui sembrò ignorare il mio segnale, e continuò a massaggiarmi col terzo dito
per trovare un punto di ingresso, mentre con l’altra mano mi teneva ancora il
mento, per godere di ogni mia smorfia per il lavoretto che stava facendo.
Sentii
la stretta sul mento allentarsi appena, poi un paio di dita mi picchiettarono
le labbra. Io le aprii e lasciai che le dita mi entrassero dentro, poi richiusi
la bocca e cominciai a succhiare e leccare. Lui mi fissava compiaciuto e mi
stringeva il mento ogni volta che il mio sguardo si spostava dal suo.
«Sei
proprio una gran puttanella, lo sai?»
Harvey
tolse le dita dalla mia bocca, con un rivolo di saliva che continuò a seguirle
e per un attimo mi vergognai di avergliele leccate in quella maniera. Poi
un’immagine mi sfrecciò nella mente, una realtà parallela dove Alan spalancava
la porta di casa e mi trovava in quel modo, con Harvey a godere delle mie
espressioni e due dita in culo. Fui travolto da una vampata di vergogna. E non
perché i suoi occhi mi avrebbero visto in una situazione intima o in qualcosa
di trasgressivo, no.
Quante
volte ero finito in una situazione del genere, durante i miei diciotto anni?
Quante volte avevo permesso ad Harvey di fare di me ciò che voleva? E quante
volte mi ero ripromesso di mandarlo a fanculo perché valevo molto più di così?
E
quindi che stavo facendo in quel momento?
Cosa
cazzo stavo facendo?
Sentii
il terzo dito che voleva decisamente troppo da me, qualcosa che non ero più
disposto a dare. L’eccitazione mi era sparita in un battito di ciglia e
rilassare i muscoli stava diventando complicato. Tornai alla realtà e la
presenza di Harvey dentro di me mi provocò improvviso disgusto. Con uno scatto
mi liberai dalla sua presa sul mio volto.
«Esci.
Togli le dita.»
«Che
ti prende? Dai, ci stavamo divertendo.»
«Ti
ho detto di uscire.»
Lui
mi fissò per un attimo, durante il quale non distolsi mai lo sguardo.
«Uhm.
Come desideri, principessa.»
Mi
allargò le natiche, tirò via le dita in un colpo secco e mi fece molto male… ma
pensai che era niente di fronte al male che stavo per fare a me stesso.
Mi
vergognai di essere nudo. Guardai la striscia e mi vergognai pure di aver
pensato, anche solo per un attimo, che quella fosse la soluzione. Facevo pena,
ma non quanta ne faceva Harvey.
Mi
alzai in piedi, raccolsi mutande e pantaloni per coprimi alla meno peggio,
scavalcai Harvey e mi avviai verso la camera.
«Nathan--»
«Niente
“Nathan”. Vattene. Per favore.»
Lui
mi fissò incredulo. Rimase zitto, ma solo per un attimo.
«Ti
posso chiamare domani?»
La
testa mi scoppiava. Uno, due, tre - booom! - sarebbe esplosa.
«No.
Non mi chiamare più. E intendo mai più.»
Harvey
schioccò la lingua e si alzò lentamente, con circospezione, come se avesse
avuto in mano una bomba pronta a esplodere. Io volevo solo che la giornata
finisse.
All’improvviso
mi salì su qualcosa. Avevo finito di vomitare parole e ora volevo solo vomitare
nuovamente lacrime. Ma non davanti a lui, no.
Proseguii
verso la camera, nella speranza che non mi seguisse e che non cercasse di
trattenermi, e per una volta i miei desideri furono esauditi. Mi buttai sul
letto, faccia in giù, senza preoccuparmi di mettere la testa sul cuscino.
Passò
qualche istante di silenzio, poi lo sentii solo sistemare il divano, ripulire
il tavolino con una sniffata e tirare fuori la cassetta dal videoregistratore
per rimetterla nella custodia. Poco dopo aprì la porta e uscì, lasciandomi solo
con me stesso.
Schifo.
Harvey
aveva solo giocato con me, come faceva ogni volta, come aveva sempre fatto. Non
mi aveva abbracciato per consolarmi, ma solo per rendermi più docile a ubbidire
ai suoi ordini. La cocaina era stato solo l’ennesimo tentativo di sentirsi più
potente di me, e per di più si era divertito a ficcarmi due dita dentro solo
per godere della mia sottomissione. Come ci ero potuto ricascare in quel modo?
Perché gli avevo permesso di giocare con me e con il mio corpo in quella
maniera?
Un
singulto mi scosse il petto. Poi un altro, e un altro ancora. Ma non era
tristezza, né vergogna: era rabbia. Rabbia perché il solo fatto che pensasse di
potermi manovrare mi faceva andare fuori di testa. E il modo in cui aveva
cercato di farlo era disgustoso, perché sapeva che ero vulnerabile.
Meritavo
di più di uno come Harvey. Meritavo di più in generale.
La
sua cocaina poteva tenersela e ficcarsela su per il culo… più o meno
letteralmente.
Angolo
autrice
Ehm, salve a tutti!
XD Innanzitutto mi scuso per la durata infinita di questo capitolo, vi
consolerà sapere che nella stesura originale era pure più lungo, poi con un po’
di taglia&cuci e di pietà per voi lettori l’ho sfoltito!
Devo dire che
questo capitolo mi impensieriva un po’, le scene erotiche non sono mai facili
da scrivere perché scivolare nella volgarità è un attimo. Spero di non esserci
cascata pure io, l’ho letto e riletto fino allo sfinimento e l’ultima scena mi
è sembrata ok, ma… ai lettori l’ardua sentenza!
Detto ciò, qui si
nota che quando Nathan rimane emotivamente solo è capace anche di fare del male
a sé stesso… per fortuna che, anche se in forma incorporea, il nostro Alan è
arrivato ancora una volta a dargli una sonora svegliata. Però a me piace
pensare che sia stato anche l’amor proprio di Nathan a fargli da salvagente 😊
Come al solito
ringrazio infinitamente tutti voi che siete arrivati fin qui e ringrazio dal
profondo del cuore anche coloro che hanno lasciato una piccola recensione, conoscere
la vostra opinione mi rende strafelice ç__ç
A giovedì allora!
holls