4 ottobre 3019,
Terza Era
Baia del
Principe, Dol Amroth, Gondor
288
miglia a sud
L
a
corrente calda che ogni autunno scivolava morbida lungo le coste
gondoriane fino ad insenarsi nella Baia di Belfalas si stava quel
giorno ribellando. Gorgogliava insolitamente bellicosa, facendo cozzare
tra di loro le imbarcazioni attraccate nel pontile poco distante da
dove Lothíriel stava nuotando. Aveva da poco iniziato a
sentire le spalle intorpidirsi, stanche di lottare contro quel mare
imbizzarrito. Si riempì d’aria i polmoni e
sparì sotto la superficie dell’acqua. Riemerse
quando percepì il familiare innalzamento del fondale sotto
di sé; aveva raggiunto la colonna che giaceva stesa nella
Baia del Principe, ultima reduce di chissà quale disastro
commerciale. Arenata in un banco di sabbia, si trovava alla
profondità ideale per permette a chi vi si appoggiava di
mantenere il busto sopra il pelo dell’acqua. E
così fece Lothíriel, mentre, con un sospiro,
lasciava vagare lo sguardo verso l’orizzonte, intenta a
placare quel senso di oppressione che da giorni la stava tormentando.
Il ritorno di suo
padre, tanto agognato e tanto sofferto, non le aveva restituito
l’auspicata pace. Poche erano state le occasioni che avevano
avuto per stare insieme. Il Palazzo si era trasformato in un quartier
generale, crocevia di alti ufficiali, consiglieri, signori provenienti
dalle più disparate città del Dor-en-Ernil. Suo
padre e i suoi fratelli passavo gran parte delle loro giornate chiusi
nella Sala del Consiglio, intenti a discutere di questioni delle quali
a lei non era dato sapere. Malgrado avesse imparato sin da quando era
piccola di non torturarsi per faccende in cui non aveva voce, le
risultava ancora difficile scrollarsi di dosso l’angoscia che
si era annidata nel suo stomaco. Passò forse una manciata di
minuti prima che giungesse a lei il suono di irregolari bracciate. Si
voltò e vide la sua dama di compagnia annasparle incontro.
«Immergervi
e sparire sotto le onde», Thïria
iniziò a
rimproverarla non appena fu a portata di orecchio, brontolando e
sputacchiando acqua salata ad ogni frase, «Come se non
sapeste che non posso perdervi di vista, specialmente qui, in
mare». Lothíriel tese le mani per
aiutarla a
salire sul fusto della colonna. «Non
pensate alla mia testa,
Principessa? Al mio collo? Se la risacca vi dovesse cogliere di
sorpresa…».
«Io
penso sempre al tuo collo, Thïria. Guarda le creste bianche
delle onde, non c’è risacca qui. Non
c’era bisogno che mi
raggiungessi». La Principessa rivolse un sorriso
rassicurante
alla sua dama e ricevette una smorfia in risposta. Le loro braccia si
intrecciavano sott’acqua alla ricerca di maggiore
stabilità contro le onde.
«Ugh…»,
Thïria rabbrividì visibilmente. Il vento mordeva
impietoso i loro visi. «Mi
vedo costretta a dover protestare,
Principessa, e insistere che questo sia la vostra ultima nuotata. Il
tempo non è più sufficientemente
clemente».
«Hai
ragione, Thïria. Ti chiedo scusa».
«Il
riscaldamento delle vasche della Residenza è stato attivato,
Principessa. Perché non nuotare a Palazzo?».
«Io-»,
Lothíriel esitò. Sapeva che quello che la stava
opprimendo non era alleviabile semplicemente confidandosi.
«Un’ultima
nuotata prima dell’arrivo
dell’inverno. Tutto qui. Ma ora suona… Piuttosto
sciocco, non è così?»,
strofinò energicamente le spalle della sua dama di
compagnia, cercando di riscaldarla. «Prima
che il vento e
l’acqua abbiano la meglio su di noi, potresti parlarmi di
ciò che si dice in città?
Thïria… Ti prego?».
Informazioni.
L’avere informazioni l’avrebbe alleviata.
«Torniamo
a riva, Principessa. Vi racconterò tutto ciò che
ho appreso in questi giorni».
«N-no.
Restiamo…». Il modo in cui le parole
avevano
lasciato la bocca della ragazza ricordava molto una supplica.
Lo sguardo di
Thïria mutò. «Principessa…
So
che alcuni dei servitori a corte rispondono al Principe Erede, ma
questa cautela è… È eccessiva, non
credete?».
«Considerando
coloro che riferiscono a mio fratello, a mio padre e con ogni
probabilità persino al Comandante…».
«Oh,
quello sciocco garzone deve essere allontanato»,
Thïria intervenne con poco velata disapprovazione.
«Ci sono
troppe orecchie orientate su chi si muove a Palazzo»,
continuò Lothíriel, «Thïria,
io vorrei solo-… Vorrei poter avere qualche conversazione
che non mi venisse restituita la sera a cena. E non voglio allarmare
nessuno con le mie domande».
«Che
cosa vorreste sapere?».
La Principessa si
aprì in un sorriso riconoscente, prima di schiarirsi la
gola. «Si sta
parlando di nuovo di guerra, non è
così?».
«Nondimeno,
Principessa, nondimeno. Ci sono voci che circolano nelle botteghe e nei
porti. Si parla di una minaccia proveniente da Sud. Si parla di
ritrovamenti…», abbassò
sensibilmente
la voce, «Cadaveri…»,
esalò
la parola senza quasi emettere suono,
«Trasportati
dall’Anduin. E l’urgenza con cui vostro padre, il
Principe, ha inviato messaggeri per tutto il Dor-en-Ernil non ha che
confermato molti dei sospetti della gente».
«Difficile
non notare che il Consiglio è stato convocato. Tuttavia
avevo sperato che fosse per tirare le somme della guerra passata, non
per prepararne una ventura».
«Il
Terzogenito non vi ha davvero confidato nulla?»,
azzardò cautamente Thïria.
La Principessa
scosse la testa. «No.
Ho chiesto, certo che ho chiesto. Ma
Amrothos segue l’esempio di mio padre. Sembra che potrei
sgretolarmi in un cumulo di polvere e ossa se mi venisse riferita una
brutta notizia».
«Principessa…».
«Non
dirmelo, Thïria, ne sono consapevole»,
la ragazza sospirò appena, «È per
tutelarmi. È per il mio bene». Gli
occhi azzurri
della Principessa rifuggirono quelli della sua dama e andarono a
riposare sulle bianche mura che si elevavano al di sopra delle navi che
ondeggiavano nel porto.
«D’altronde…
Perché dovrebbero dirmelo? Che ci sia un’altra
guerra o meno, il mio compito è rimanere qui, dentro le
nostre mura, ad aspettare. Soltanto… Soltanto…
Cielo, sono appena tornati…». Fu
grata che
l’incessante sciabordio delle onde avesse coperto
l’incrinatura che aveva preso la sua voce. Si
schiarì la gola. «Hai
idea di quando
partiranno?».
«No,
Principessa. Ma non lontano da qui, alla Locanda delle Corporazioni che
si affaccia sulla Baia», Thïria fece un
cenno in
direzione della città, «Giungono
notizie dalla
Capitale. Non so se lo sapete, ma lì stazionano i mercanti
in arrivo da Minas Tirith. E parlano, parlano, chiacchierano. Sembra
che il nuovo Re stia chiamando a raccolta i suoi uomini con
straordinaria rapidità. Temo che questa non sarà
una guerra di primavera*¹».
«Oh».
Lothíriel rimase in silenzio, sovrappensiero. «Chi
partirà?», riportò gli
occhi su
Thïria,
«Lo sai?».
«Non ne
sono sicura, Principessa».
«Chi?»,
ripeté appena udibile, «A
me-…
Thïria, a me sai che non lo diranno».
«A detta
del garzone del fabbro», Thïria
iniziò
piano, «Sono
in riparazione le armature di vostro padre e del
Secondogenito. Ma i rifornimenti in arrivo alle Scuderie raccontano
un’altra storia. Sembra che anche il cavallo del Principe
Erede stia ricevendo la sua bardatura da guerra».
«El-
Elphir? Chi reggerà il principato se dovesse partire anche
Elphir?». La mente di Lothíriel
correva. Amrothos
era da poco stato riconfermato Capo della Guarnigione cittadina e il
suo disinteresse per la politica lo aveva palesato sin dalla
gioventù. Era sicura che suo padre fosse sceso a patti con
quella decisione da tempo. Questa decisione le sembrava così
discordante.
«Non lo
immaginate, Principessa?».
Lothíriel
guardò Thïria confusa. «Elphir ha guidato
il principato in assenza di mio padre da quando- Non so, da quando
aveva la mia età, credo. Dieci anni? Dodici, persino? Ha le
sue alleanze in Consiglio, i suoi sostenitori, una fazione. Ha leggi a
suo nome. Non c’è nessuno altro in Consiglio,
oltre mio padre, inteso, di cui si possa dire lo stesso. Se
non-». Lothíriel si
bloccò.
L’espressione di Thïria le suggerì che
era approdata alla giusta conclusione. «No».
«Temo di
sì».
«No».
«Temo
proprio di sì».
«No…»,
pigolò sconsolata mentre si lasciava andare
all’indietro nell’acqua. Il Comandante. Il
Comandante Sîrfalas*² era l’unico nobile
che vantava un adeguato peso politico in città. E suo padre
stava consegnando nelle sue mani ulteriore potere e prestigio che
sarebbero i gran lunga sopravvissuti alla provvisorietà del
suo incarico da Governatore.
«Ora
rientriamo, Principessa, vi prego. Questo vento… Uff- Ugh,
questo vento non è affatto gentile con noi».
«Thïria,
precedimi. Io vorrei… Cre-credo che rimarrò qui
ancora per un po’. Solo per un
po’…».
Sentì
una mano chiudersi attorno la sua caviglia, Thïria la stava
afferrando. «Il
mio collo, Principessa!».
6 ottobre 3019,
Terza Era
Edoras,
Rohan
288 miglia a
nord
Il
suono della
birra versata
nel boccale era qualcosa che un uomo riusciva ad apprezzare in una
maniera del tutto diversa la sera, al termine di una giornata
penosamente lunga. Éomer distese le gambe sotto il tavolo e
si appoggiò allo schienale, gustandosi ogni sorso della
bevanda schiumosa. Il suo boccale aveva a malapena toccato il legno del
tavolo che Rowan si stava già alzando per riempirglielo di
nuovo.
«Ecco a
voi, sire. Bevete».
«Rowan».
Éomer si sforzò di
sorriderle di rimando.
«E tu
mangia più lentamente», la donna
rimproverò il marito, completamente chino sulla sua ciotola,
quasi a volerci entrare con tutta la faccia.
«Donna»,
la replica di Brandwine arrivò
biascicata tra un boccone e l’altro, «Hai idea di
quanto tempo passerà prima che io possa mangiare di nuovo
del capriolo in umido? Éomer! Éomer, devi
ascoltarmi», l’amico
sventolò il suo
tozzo di pane per aria, «Dovremmo
portarci dietro
Gárbald. Sì, sì. Portiamocelo dietro,
che ne dici?».
«No. Per
la quinta volta questa sera, no», gli
rispose con calma.
«Ma,
MMHPH~», emise il più sentito dei
rantoli di piacere. Qualche testa si girò verso il loro
tavolo, Rowan nascose il viso dietro una mano. «Non hai
notato come il suo stufato migliori di anno in anno? Quando penso che
non riuscirà più a stupirmi, bam! Mette qualche
erbetta, o qualcosa nel suo sughetto, o… O… O,
non saprei, mette una grattata di qualcosa sopra… E
io… Ah! Aaah~! Insomma, io non credo di poter rinunciare a
Gárbald, Éomer. Non credo di riuscirci».
«Brandwine.
Il taverniere rimarrà qui, alla sua
taverna».
«E non
pensi al morale dei tuoi uomini? Al mio di morale? Sei
Re adesso, dovresti pensare al mio morale».
«Darò
istruzioni ai nostri cuochi di campo di
mettere qualche erbetta o qualcosa nel sugo o grattare qualcosa sopra
ai tuoi pasti. Non ti preoccupare, Brandwine. In qualche modo
sopravvivrai».
«Ma-».
Rowan
ficcò dritto nella bocca aperta del marito il pezzo di
pane che aveva fino ad allora agitato davanti alle loro facce,
soffocando l’arringa appassionata che, a giudicare dal
luccichio nei suoi occhi, si stava preparando a fare.
«Mangia, léofa*³. Mangia e
risparmiaci».
Éomer
sentì emergere l’impulso di
ridere, che però sembrò non riuscire a
concretizzare. Il suo pessimo umore gli pesava addosso. Lo sentiva
sulle spalle, nella punta delle dita, sul volto. Le notti prima di una
partenza lo rendevano cupo e irrequieto, più silenzioso di
quanto già non fosse incline ad essere di natura. Assorbito
dai suoi pensieri, si sentiva insolitamente emotivo, consapevole che
ogni istante della serata sarebbe diventato un nostalgico ricordo per i
mesi a venire.
In quel momento si
udì un brindisi in onore del Re provenire
da un tavolo occupato da un gruppo di soldati. La bassa saletta in cui
si trovavano Éomer e Brandwine non era del tutto isolata
dagli altri locali della taverna; gli fu facile individuare i boccali
che si elevavano alla sua salute. Si alzò in piedi a
ringraziare i presenti con cenni del capo. Quello era stato il settimo
brindisi della serata ed Éomer si lasciò cadere
pesantemente sulla panca, esausto di aspettare il sorgere del sole e la
partenza.
«Non
mangiate più? Sono sicura di aver visto una
torta al miele dietro al bancone, ve ne porto una fetta se non gradite
più lo stufato», lo
interrogò Rowan,
facendo già per alzarsi.
«Non ho
appetito, Rowan. Ma ti ringrazio».
Evocato da quelle
parole, Brandwine riemerse dal suo piatto.
«Quelle…»,
gli occhi puntati sulle sue
patate, «non
le mangi?». Éomer
avvicinò semplicemente il piatto a quello del compagno che
si tuffò sul cibo con eccessivo entusiasmo, finendo
inevitabilmente per strozzarsi con un boccone. Iniziò a
tossire convulsamente.
Rowan
sospirò. «Se
decidessi di
ignorarlo?», si rivolse al Re.
Éomer
si strinse nelle spalle.
«Non te ne farei
una colpa…», osservò come
le
sopracciglia di Brandwine andavano incontrandosi, mentre le vene sul
suo collo avevano preso a ingrossarsi ad ogni colpo di tosse,
«La mia offerta
di annullamento di matrimonio è
ancora sul tavolo, Rowan. Quando sarai pronta, firmo il decreto e torni
ad essere una donna libera. Lascia che io usi la mia corona per fare
del bene».
«Uhm»,
gli angoli della bocca della donna
fluttuarono nello sforzo di non curvarsi verso l’altro,
«La vostra
offerta si fa ogni giorno che passa più
allettante, mio signore». Nonostante le sue
parole,
iniziò ad impartire vigorose pacche alla schiena del marito
fino a quando quest’ultimo non riuscì a prendere
nuovamente respiro. «Per
adesso respingo la vostra offerta,
ma vi prego fortemente di continuare a ripropormela».
«Sarà
fatto».
«Tu»,
il volto di Brandwine aveva appena
riacquistato un colorito normale,
«Insolente», tirò
bruscamente la moglie a sé circondandole la vita con un
braccio. «Tuo
marito soffoca e tu tergiversi».
«Ti
avevo detto di mangiare più
lentamente».
«Questo-
Questo è del tutto irrilevante ora,
donna».
«Donna?»,
la voce di Rowan oscillava
pericolosamente tra l’irritazione e il divertimento,
«Brandwine,
continua a chiamarmi così e ci penso
io a stroz-».
«Ssh»,
l’uomo la zittì, il
sorriso evidente sulla sua bocca, «Silenzio,
do-
don-… Moglie?». Le impresse a raffica
una serie di
baci tra viso e collo a cui Rowan oppose giocosamente resistenza.
Éomer
distolse lo sguardo dalla coppia. Era abituato al loro
battibeccare, ma alle loro smancerie – specialmente quando si
consumavano a un braccio di distanza – si sarebbe volentieri
sottratto. Si stiracchiò e lasciò vagare lo
sguardo per la taverna. Incontrò sull’uscio un
paio di freddi occhi verdi che non si sarebbe aspettato di trovare. Si
studiarono inespressivi per qualche secondo, poi il contatto
terminò. Éomer tornò al suo boccale
mentre la donna si abbassò il cappuccio sulle spalle ed
attraversò il salone centrale, fermandosi al tavolo del Re.
Non porse i saluti. Al petto teneva stretto un fagottino che continuava
ad agitarsi; braccia paffutelle spuntavano e sparivano ripetutamente da
sotto la coperta di lana in cui era avvolto.
«Rowan,
il bimbo ha fame».
L’interessata
spinse via il marito e si affrettò
ad accogliere il neonato tra le braccia. «Ti ringrazio,
Heruwyn*⁴», strinse affettuosamente una mano
dell’amica, «Ti
ringrazio per questo tempo. Me ne
ricorderò».
«Il
piccolo ha dormito tutta la notte, non ci sono stati
problemi se non fino a poco fa».
«Sono
lieta di sentirlo. Brandwine…»,
assestò un colpo sulla nuca del marito che era tornato come
se nulla fosse a rivolgere l’attenzione al cibo,
«Alzati,
andiamo a casa a mettere a letto tuo
figlio».
L’uomo
si sollevò dedicando un’ultima,
torbida occhiata alla sua ciotola di stufato e andò a
sorridere al rumoroso fagotto che strepitava in braccio alla moglie.
Era comicamente alto rispetto alla donna e si dovette curvare di molto
per poter lasciare un bacio sulla guancia del figlio che, di rimando,
afferrò a due mani la sua barba ramata, urlando di gioia.
Éomer sorrise inconsapevolmente.
«Ecco
fatto! Ora ci vorrà un bel po' per
dividervi!». Rowan cercò inutilmente
di aprire la
morsa ferrea del neonato. Heruwyn approfittò della chiassosa
esibizione del bambino per defilarsi silenziosamente. Éomer
fu l’unico ad accorgersi della sua uscita e condivise con lei
un ultimo sguardo prima che prendesse la porta.
«Éomer
allora io- Ah… Argh-»,
un Brandwine leggermente dolorante tentò di sollevare la
testa verso l’amico senza portarsi dietro un intero neonato
gioiosamente scalcitante, «Io
aspetto la partenza a casa,
d’accordo? Il Piccolo Girasole chiama, e il fabbro non
dovrebbe finire prima dell'alba con le ultime spade».
«Va'
pure. Ti mando a chiamare quando dobbiamo
partire».
Brandwine lo
interrogò nuovamente con lo sguardo e
lasciò la taverna dopo aver ricevuto un secondo cenno di
conferma. Il grande tavolo divenne d’un tratto desolatamente
vuoto e per il resto della notte non si sentirono più
battibecchi, stoviglie che cozzavano o risate in quell'angolo del
locale. Éomer finì in silenzio un terzo boccale
di birra e decise di stendere le gambe sulla panca. Passare la notte
alla taverna era il suo antidoto all’angosciante attesa e il
rumore dei commensali non lo disturbava, al contrario, era esattamente
ciò di cui sentiva di avere bisogno. Non si accorse di
essersi addormentato fino a qualche ora più tardi, quando fu
svegliato da un ragazzino dal volto sporco di ditate di fuliggine.
«Mio-…
Mio Re. Vengo dalle fucine. Il Mastro
Fabbro vi comunica che l'ordine è stato portato a
termine». Il giovane garzone sembrava
terribilmente a disagio
per aver dovuto disturbare il suo sonno.
Éomer
si alzò in piedi, sgranchiendosi le gambe.
Mise una mano sulla testa del giovane, «Le spade sono
già state trasportate nelle armerie dei Cancelli?».
«Sono
stato mandato ad avvertirvi non appena la prima cassa
è stata chiusa. Il trasporto sta avvenendo in questo
momento».
«Molto
bene. Qual è il tuo nome,
ragazzo?».
«M-mi
chiamo Folca, mio signore»,
balbettò incerto il giovane, gli occhi puntati sui propri
stivali.
Éomer
lo afferrò per le spalle e
chiamò a sé l'attenzione dell'oste, intento a
spillare due boccali di birra dietro il bancone.
«Gárbald!
Da' da mangiare a questo ragazzo, Folca.
Ha lavorato tutta la notte. E quando avrà finito
rispediscilo alle fucine con cibo anche per il fabbro e gli altri
aiutanti».
Il locandiere
agitò vigorosamente la testa, pozzanghere di
birra andavano formandosi ai suoi piedi. «Già
fatto, sire. Lo consideri già fatto».
Qualche minuto
dopo Éomer era all'esterno a dare
disposizioni al suo scudiero. Si avvicinava il momento della partenza.
L’aria pungente dell’ora prima dell’alba
stava dissipando la tensione accumulata, mentre andava facendosi spazio
in lui l’eccitazione. Decise di andare di persona ad
avvertire Brandwine e s’incamminò cercando
voracemente di assorbire il proprio circondario con gli occhi. La via
principale, la piazza inferiore, i porticati, le familiari facciate
delle botteghe. Fissare ogni polveroso dettaglio di Edoras nella sua
memoria gli sembrò d’un tratto cruciale. Arrivato
a poche decine di passi dalla sua méta, notò una
figura avvolta nel mantello appoggiata a una delle colonne di legno di
un portico. Riconobbe all'istante la chioma dorata.
«Cosa
succede, Heruwyn?», la apostrofò
affiancandosi a lei.
La donna si
strinse verso la colonna, sottraendosi al contatto tra le
loro spalle. «Stavo
andando ad aiutare al forno quando li ho
visti».
Éomer
seguì il suo sguardo e vide che sotto la
finestra della casa antistante sedeva Brandwine con in braccio la
moglie, entrambi profondamente addormentati. La corporatura minuta di
Rowan la faceva apparire una bambina sulle ginocchia del marito. I
capelli ramati dell'uomo scendevano a mescolarsi a quelli biondi della
moglie, che riposava sotto al suo mento, avvolta dalle sue lunghe
braccia. Éomer non si accorse di stare nuovamente
sorridendo. «Dici
che sono riusciti a mettere al sicuro il
bambino o dovrei ripercorrere la strada verso la taverna?».
«È
dentro casa. Credo siano solo usciti
a-».
«A
litigare. Immagino sia così. Non mi
stupirebbe…». Il silenzio si
annidò tra
i due. Era già qualche anno che non vi erano più
molte parole che avrebbero potuto essere dette. In momenti come questi
ne erano entrambi penosamente consci.
«Le
partenze vi rendono ancora irrequieto, sire?».
La voce carezzevole di Heruwyn si insinuò tra i suoi
pensieri.
«Non
credo che questo cambierà mai»,
sollevò gli occhi in quelli di lei, «Ma non mi
piace essere così».
«Una
volta pensavate fossero premonizioni. Credevate non
avreste più fatto ritorno dalla battaglia».
Éomer
sospirò, reminiscente.
«Uhm,
è così… Quante notti sprecate a
pensare che fossero le ultime».
«Sprecate?»,
la risposta giunse in un sussurro,
«Io me le
ricordo tutte, quelle notti».
Sentì le dita di lei tracciargli esitanti il profilo delle
nocche. Rimase immobile, non ritrasse la mano nemmeno quando il
contatto si trasformò in una lenta carezza. Voleva mettere
alla prova l’effetto di quel tocco. «Sapevamo come
esorcizzare la vostra irrequietezza…»,
continuò lei. Gli sembrò che gli occhi di lei
tremassero nella penombra del portico, intanto che attorno a loro i
primi raggi del sole iniziavano gradualmente ad illuminare i tetti
delle case. Con la luce li raggiunse anche una folata di vento, che
mulinò per qualche istante tra i pilastri del portico.
Éomer
si riscosse,
«Heruwyn…»,
allontanò
lentamente la mano. C’era stato un tempo in cui aveva
desiderato ricambiare quegli occhi vulnerabili, quegli acerbi
sentimenti. Ma il mondo era cambiato da allora e lui era cambiato con
esso.
Guardò
la donna stringersi nuovamente verso la colonna.
«Lo
so», la voce bruscamente asciutta, la bocca
rigida, gli occhi altrove, «Lo
so».
«Se ti
stai aggrappando al pensiero che un giorno, o una
notte, io cambi idea... Questo non accadrà-».
«Lo
so», Heruwyn si voltò verso
l’uomo in un palese moto di irritazione. Gli occhi freddi e
vibranti. «Lo
so, mio re. Siete stato inequivocabile. La
maggior parte delle volte, quanto meno»,
sputò
fuori prima di allontanarsi giù per il portico. Mentre
guardava come i capelli color del grano le ondeggiavano sulla schiena,
Éomer si rese conto che la sofferenza di lei lo feriva meno
del previsto. Se ne vergognò.
I vagiti di un
neonato rimbombarono sulle facciate delle abitazioni di
quel vicolo di Edoras. Éomer si voltò verso la
casa di Brandwine e vide Rowan scattare in piedi, allarmata, e sparire
dietro la porta d’ingresso. Il marito si agitò
brevemente sulla panca per poi sistemarsi in una posizione
più comoda. Intanto che il pianto del bambino cessava,
Éomer attraversò il piazzale. Spintonò
con lo stivale il piede dell’amico, riscuotendolo dal sonno.
«È giunto il momento della partenza, Brandwine.
Va’, saluta Rowan e tuo figlio».
7 ottobre 3019,
Terza Era
Palazzo
del Cigno d’Argento, Dol Amroth, Gondor
253 miglia a sud
L’occasionale
tintinnio tra le posate e il bordo del piatto era l’unica
interruzione al silenzio che gravava sulla sala da pranzo. La cena a
Palazzo, specialmente quando circoscritta ai soli membri della
famiglia, non era mai stato un momento particolarmente concitato, ma
era l’unico pasto della giornata a cui tutti partecipavano
devotamente, sottraendosi indistintamente da riunioni di Consiglio,
colloqui o visite.
La cena di quella sera era in linea con quelle
recentemente svolte: il pasto veniva consumato quasi in silenzio e con
un certa fretta. Di tanto in tanto, quando aveva sollevato gli occhi
dal piatto, Lothíriel aveva incrociato lo sguardo di Erchion
o Amrothos, con i quali aveva scambiato un veloce sorriso.
L’atmosfera era troppo plumbea per iniziare una
conversazione, specialmente se frivola. E di ciò che non era
frivolo, a lei, non era dato sapere. Era evidente sul volto di suo padre e dei suoi fratelli che le loro menti fossero rivolte altrove,
verso incombenze che non potevano essere discusse a tavola. Non con lei
presente.
Quando Erchion si
schiarì la gola, Lothíriel
– assorbita nel risultare meno rumorosa possibile e
nell’occupare meno spazio possibile – quasi
trasalì sul posto. «Padre,
credi che siano
già partiti? I nostri amici di Rohan, intendo».
«È
quasi passato un mese, suppongo che sia
così. Sono un popolo affidabile, alleati affidabili.
Sì, dovrebbero già aver lasciato Edoras. Avranno
sicuramente stimato i tempi di spostamento dei loro uo-
delle-», Imrahil si interruppe e a
Lothíriel non
servì sollevare gli occhi dal piatto per immaginare lo
scambio di sguardi che gli uomini stavano avendo.
«I tempi
di viaggio», la voce fredda e controllata
di Elphir ovviò all’impiccio.
«I tempi
di viaggio, esatto».
L’ingresso
in sala di uno dei servitori riorientò
l’attenzione dei commensali. Si avvicinò al tavolo
e presentò con un inchino un vassoio con sopra una lettera
al Principe Imrahil, il quale la scorse velocemente con gli occhi. Gli
altri uomini rimasero in attesa, le posate a mezz’aria. Le
interruzioni erano ormai all’ordine del giorno, raramente i
Principi rimanevano a tavola da inizio a fine pasto.
«Oh»,
Lothíriel percepì su di
sé lo sguardo stupito del padre. «Iriel, sembra
che il Comandante Sîrfalas ti stia invitando a pranzo.
Domani, alla sua tenuta». I suoi fratelli
ripresero a
mangiare, le loro spalle si rilassarono. Eccezion fatta per quelle di
Amrothos.
«Per
quale occasione?», inquisì bieco il
Terzogenito, dando inconsapevolmente voce ai pensieri della sorella.
«Non lo
dice», Imrahil tornò a rileggere
l’invito, «Non
menziona alcun evento particolare.
Credo… Credo sia un semplice pranzo».
Il tono del
Principe mal celava la sua approvazione, la ruga tra le sue
sopracciglia risultava quasi scomparsa. «Mi è
stato riferito che è venuto spesso a cena, nei mesi passati.
Con ogni probabilità vorrà ricambiare la
cortesia».
Amrothos si mosse
sulla propria seduta, le labbra premute in una linea.
Stava indubbiamente fremendo per aggiungere qualcosa alla
conversazione. In termini puramente statistici, nulla di costruttivo.
«Allora avrebbe
dovuto invitare a pranzo Elphir. Fratello,
perché non accetti tu l’invito del
Comandante?». Amrothos aveva combattuto e aveva
perso, e,
soprattutto, aveva accettato la sua sconfitta con un sorrisetto
soddisfatto.
Lothíriel
sgranò appena gli occhi.
«Amrothos…»,
Erchion e Imrahil fecero
eco l’uno all’altro. Elphir proseguì a
mangiare, imperturbabile.
«Non ho
forse detto il vero? Non è di certo stata
lei a proporgli di trattenersi a cena tutte quelle volte. Iriel riesce
a malapena a rivolgergli la parola».
«Questo…
È…», la
Principessa aprì bocca per controbattere,
«È
piuttosto aderente alla
realtà».
«Mi era
stato detto che avevate approfondito la vostra
conoscenza», suo padre la scrutò con
aria
interrogativa.
«Ho inteso male?», la domanda era
rivolta al maggiore dei suoi figli.
«Il
Comandante ha presenziato a quindici cene negli ultimi
sei mesi. La conversazione è stata ricca durante ognuna di
esse».
Amrothos e la
sorella si scambiarono una rapida occhiata che Erchion
intercettò. «Ricca…?
È
così, Iriel? Definiresti come ricche le vostre
conversazioni?», le domandò
quest’ultimo, una nota spiccatamente scettica nella voce.
Elphir
poggiò il calice da cui aveva appena bevuto sulla
tavola, puntando gli occhi inespressivi in quelli della sorella.
L’avere l’attenzione del fratello su di
sé fu sufficiente per metterla in soggezione. «Da
parte sua, il Comandante è-… È
indubbiamente un ottimo conversatore. Questo io-… Io non lo
nego-».
«Le ha
dato in dono alcuni libri», con una
naturalezza derivabile solo dall’esercizio, Elphir si
sovrappose alle parole delle sorella, interrompendola.
«Oh. Dei
libri…», il viso del padre si
schiarì, «Vedo
che ha imparato a conoscere i tuoi
passatempi, Iriel. Questo mi rasserena. Il Comandante dispone di una
ricchissima biblioteca nella sua tenuta. Una raccolta sorprendentemente
varia e di pregio. Hai già avuto modo di
visitarla?».
Erchion si
portò il calice alle labbra, «Una ricca
biblioteca per fare ricche
conversazioni», mormorò
contro il cristallo. Amrothos, che lo aveva udito, sbuffò
dal naso.
«No,
padre. Se non in occasione del Ballo, non sono mai stata
alla sua tenuta».
«Ah
sì? Non sei davvero
stata…?». Imrahil aveva spostato gli
occhi sul
Primogenito. Per quanto vano, Lothíriel non
riuscì a fare meno di essere attraversata da un
impercettibile fremito di frustrazione. Soffriva di come le domande che
il padre rivolgeva a lei a parole, le indirizzasse al fratello maggiore
con lo sguardo.
«In tua
assenza, padre, il Comandante non ha ritenuto
opportuno incontrare Iriel all’esterno del Palazzo. Io ho
condiviso questa decisione», spiegò
Elphir. Alle
orecchie di Lothíriel quest’informazione
suonò del tutto nuova. Mentre si sforzava di metabolizzare
ancora un’altra conversazione che era avvenuta a porte
chiuse, sentì lo stomaco stringersi. Deglutì a
vuoto.
«Inappuntabile.
Ma non mi sarei aspettato di meno da
Sîrfalas», Imrahil tornò
alla figlia,
«Domani. Domani
devi necessariamente domandargli di mostrarti
la biblioteca. Io ne ero rimasto molto colpito. E sono passati anni
dall’ultima volta che sono stato alla Tenuta del Giglio.
Immagino che da allora il Comandante abbia ampliato la sua
raccolta».
«È
già deciso, dunque?». La
voce della Principessa suonò più risentita di
quanto avrebbe voluto. Dietro ai denti aveva trattenute troppe parole.
Suo padre la
guardò con le sopracciglia sollevate.
«Per rifiutare
un invito, Iriel cara, bisogna avere delle
valide motivazioni», precisò con
calma,
«O avere degli
impegni pregressi da far valere. Se
invece-… Se sei esitante a causa della tua timidezza,
naturalmente sai che non sarai sola. Verrai accompagnata».
Imrahil indicò in direzione del figlio minore che si
limitò a tirare le labbra in un sorriso poco entusiasta.
«Il consiglio che avanzo è di non respingere un
invito senza solide ragioni. In particolar modo non in questa fase.
Potrebbe aprire la via a fraintendimenti».
«Quale
fase, padre? In quale fase mi trovo?».
Imrahil
sembrò del tutto disorientato.
«Conoscitiva…
Sì, la chiamerei
così. Non che abbia un vero nome, inteso, ma tu e il
Comandante vi state conoscendo».
La ragazza sentiva
gli occhi dei presenti addosso. Curiosi, confusi,
alcuni ostili. Il bisogno di sottrarsi a quegli sguardi era
martellante, ma un’ulteriore contorsione dello stomaco la
spinse a continuare a parlare. «Padre,
il Comandante
è per me… Uno sconosciuto».
Come poteva
non capirlo, non vederlo?
«Iriel.
No. Il Comandante è il tuo promesso. Non
è uno sconosciuto». Il tono candido
di suo padre
la spiazzò. Iriel,
no. Si ripeté le parole nella
testa. Non è
uno sconosciuto. La pungente, per quanto
familiare, sensazione di non essere stata considerata le
pizzicò sotto le palpebre.
«Non ti sto
capendo». L’apprensione evidente sulla
fronte
dell’uomo.
Nemmeno io,
sussurrò una voce dentro la sua testa, tuttavia
le sue labbra non si mossero. Se lo avessero fatto, sarebbe scivolata
via da lei la già sfuggente presa che aveva sulle sue
lacrime. E non avrebbe mai più pianto di fronte ad Elphir.
Se lo era ripromesso.
Fu incidentalmente assistita
dall’arrivo di un secondo messaggio indirizzato al Principe.
Questa volta più gli occhi di suo padre scendevano sulla
carta, più il suo volto si induriva e fu chiaro che la
conversazione, unitamente alla cena, fosse conclusa. Erchion e Amrothos
si erano alzati dalle sedie ancora prima che il padre terminasse di
riferir loro il contenuto della lettera. «Elphir, Erchion,
Amrothos. Mi avvisano che siamo attesi alle Porte. Iriel, se ci vuoi
scusare. Dovrai terminare la cena senza di noi».
La ragazza li
salutò con inchini del capo, troppo insicura
della stabilità della sua voce per potervi fare affidamento.
Il Principe Erede era l’ultimo degli uomini ad essere ancora
seduto al tavolo, Erchion lo apostrofò dalla porta,
«Elphir, non
vieni?».
Il maggiore
sollevò semplicemente il suo calice, mezzo
pieno.
«Termino. Sarò dietro di voi».
Lothíriel
percepì l’esitazione del
Secondogenito. L’aria rarefatta della sala non doveva
essergli sfuggita.
«Ti aspetto».
«Sarò
dietro di voi». Questa volta
Elphir scandì maggiormente le sue parole. Le repliche non
erano in quel caso ammesse.
«Affrettati»,
così dicendo, e con un
ultimo sguardo alla sorella, anche Erchion lasciò la sala.
Lothíriel
smise di spostare da una parte all’altra
del piatto il boccone che aveva continuato a tormentare
nell’ultima mezz’ora. Era superfluo fingere che
avrebbe mangiato altro. Si portò le mani in grembo,
stringendole a pugno, trovando ogni secondo che passava più
soffocante del precedente. Le pesava addosso lo sguardo scrutatore
Elphir, che però si limitò a svuotare
placidamente il calice. Giunto all’ultimo sorso, fece roteare
il cristallo tra le dita. Sorrise appena. «Mi stavo
chiedendo, sorella, quanto arrogante
tu debba essere per pensare di
poter trascorrere i tuoi anni senza adempiere ai tuoi doveri. Come
principessa. Come figlia. Non c’è che dire, una
vita invidiabile».
Il rumore di lenti
passi che si allontanavano sul marmo
riempì gli istanti successivi.
Note
dell’autrice
• Grazie a chi mi da un prezioso
feedback e grazie anche a voi, lettori
silenziosi. I vostri Seguiti
e Preferiti
non passano inosservati. Ho
fiducia che se qualcosa dovesse colpire il vostro occhio,
favorevolmente o negativamente che sia, troverete il modo di
comunicarmelo. Ora vi saluto, ho un pranzo da organizzare e un cavallo
da far recapitare. A presto!
*¹ Guerra di primavera,
detto
medioevale riferito all’usanza dei feudatari di prediligere
la primavera alle stagioni fredde per intraprendere campagne militari,
al fine di scongiurare carestie.
*² Sîrfalas,
dall’Ovestron saer
(amaro) + phalas
(sguardo); origine
Sindarin. Personaggio originale, nobile di alto rango di Dol Amroth di
retaggio militare, promesso sposo di Lothíriel.
*³ Léofa,
dal
Rohirric léof
(amore) + a (desinenza
maschile che aggettiva
i sostantivi o i verbi a cui è unito). Léofa si
traduce con l’epiteto “amato”.
*⁴ Heruwyn, dal
Rohirric herû
(spada) + wyn
(desinenza femminile che significa
"gioia"). Personaggio originale, amica
d’infanzia di Rowan, Brandwine ed Éomer; con
quest’ultimo, in età post-adolescenziale, ha
condiviso più di un’amicizia.
Razaghena
Riassunto
Capitolo 3 Inizio ottobre 3019. Nel Palazzo di
Dol Amroth
sono in corso i preparativi per la campagna congiunta, di cui
Lothíriel è tenuta scrupolosamente
all’oscuro. La Principessa apprende dalla sua dama di
compagnia i dettagli della partenza: il padre, Elphir e Erchion saranno
alla guida dei cavalieri inviati dal principato. Amrothos
sarà l’unico dei fratelli a rimanere in
città, la cui guida verrà provvisoriamente
affidata al Comandante Sîrfalas, corteggiatore della
Principessa. Le iniziative del Comandante non tardano ad arrivare e
Lothíriel viene invitata a pranzare alla sua tenuta.
A Edoras i preparativi
per la guerra sono terminati. Éomer e
Brandwine trascorrono la notte prima della partenza nella taverna.
Quando l’amico è chiamato ad adempiere ai suoi
doveri di padre, Éomer condivide un momento di reminiscenza
con una donna del suo passato, Heruwyn, che culminerà con il
suo rifiuto di rivivere tali ricordi.
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