Brividi mi percorrono il corpo facendo largo a una strana sensazione di
benessere, potrei aver dormito per ore. Impegno ancora qualche minuto
per svegliarmi del tutto, così finalmente riesco a guardarmi intorno.
L’arredamento è semplice: vi sono solo un armadio e una scrivania
dall’aspetto piuttosto trasandato, le pareti a loro volta sono
contornate a uno spesso alone di muffa soprattutto lungo i bordi del
soffitto. Deve avermi portata qui quella strana donna quando mi sono
sentita male – penso tra me e me – e solo adesso mi rendo davvero conto
di dove mi trovo.
“Oh, merda!” esclamo, ma nessuno può realmente sentirmi.
Da quanto tempo sono qui? Non vi è neanche l’ombra di un orologio e
ovviamente i cellulari non sono un lusso che possiamo più permetterci.
La confusione e il caldo all’interno della locanda mi hanno sicuramente
dato alla testa e in più non ho neanche un motivo valido per trovarmi
qui, se non la mia implacabile curiosità.
Decido che è meglio alzarmi e dare un’occhiata in giro, devo capire se
posso permettermi di uscire o se è già troppo tardi. Nonostante
l’aspetto trasandato questo posto sembra di gran lunga più accogliente
dei luoghi austeri e asettici in cui ho trascorso tutte le mie ultime
notti. La maniglia della porta si abbassa subito e – stranamente – tiro
un sospiro di sollievo... l’idea di poter essere prigioniera mi era già
passata per la mente. Mi ritrovo subito su di un lungo corridoio
piuttosto angusto, oltre la ringhiera alla mia sinistra arrivano le
voci provenienti dal piano di sotto; se i miei calcoli non sono errati
c’è ancora troppa confusione per essere già notte poiché dubito che
così tante persone abbiano la possibilità di fermarsi qui nelle ore
successive al suono delle sirene. Alla mia destra, invece, vi sono una
serie di porte tutte uguali sulle quali al posto dei numeri si vedono
ormai poco in evidenza i disegni di alcuni animali. Uno strano modo per
contrassegnare le camere.
Mi dirigo a passo svelto verso la rampa di scale alla fine del
corridoio convinta che uscire di qui sia la soluzione più pratica e
veloce all’ennesimo disastro degli ultimi giorni, quando qualcosa
cattura improvvisamente la mia attenzione. Da una delle porte
semi-aperte si intravede l’interno di una camera dove un uomo girato di
spalle è intento a rimettersi la camicia. Qualcosa in quel volto mi è
familiare e ricordo di aver incrociato il suo sguardo giusto poco prima
di perdere conoscenza. Il tatuaggio che porta impresso sul volto non lo
fa di certo passare inosservato e devo sostare per qualche attimo
davanti la soglia della porta per capire bene di cosa si tratta: un
assurdo camaleonte dalle sfumature nere e violacee che parte dallo
zigomo e termina all’angolo della bocca. Chissà che anche questo non
sia l’ennesimo esperimento di qualche folle scienziato, d’altronde
perché qualcuno dovrebbe scegliere di farsi qualcosa del genere di
propria volontà.
“Non ti hanno mai detto che esiste una cosa chiamata privacy?”, lo
sento pronunciare senza neanche bisogno che si giri a guardarmi.
“Di solito la gente chiude le porte” ribatto, tremendamente imbarazzata
per essere stata colta sul fatto.
“Questo non ti dà il diritto di curiosarci dentro”, ribadisce.
“Non stavo curiosando” rispondo di scatto, senza neanche pensarci su.
“A me sembrava proprio tutto il contrario” dice, girandosi e lasciando
intravedere ogni particolare del volto.
Di tutta risposta giro lo sguardo dall’altro lato, ancora appoggiata
allo stipite della porta. Il rumore di passi su per le scale mi salva
da quella strana situazione quando la donna di poco prima imbocca il
corridoio, il suo sguardo si posa su di me e in men che non si dica me
la ritrovo subito accanto. Questa volta mi basta solo, più astutamente,
guardarla per sapere ogni cosa di lei.
“Come ti senti tesoro? Va meglio? Ci hai fatti preoccupare”, mi chiede.
Abbasso la testa in segno affermativo, ancora intontita.
“Sì, grazie”, è l’unica cosa che riesco a dire.
“Coraggio vieni a prendere qualcosa da bere, ti farà bene” dice,
trascinandomi con sé al piano di sotto.
L’atmosfera è pressoché identica a quella precedente, ma questa volta
scansiamo la folla per arrivare direttamente al bancone. Mi accomodo su
di uno degli sgabelli stranamente non in pelle ma in velluto. Non ero
mai stata in una vera locanda prima d’ora.
“Sidro di mele?” mi chiede, come se sapessi di cosa si tratta.
Acconsento, d’altronde non può davvero andare peggio di così. Il
bicchiere che mi piazza davanti ha la forma di uno stivale e mi ci
vuole tutta la buona volontà che posseggo per non scoppiare a ridere,
eppure contro tutte le mie aspettative il contenuto al suo interno è
davvero buono; il retrogusto è proprio quello di mele, ma con un tocco
frizzante e molto dolce. Mi chiedo dove sono stata tutti questi anni
senza scoprire mai certe cose. D'altronde, nella mia vecchia vita, una
bevanda del genere sarebbe proprio considerata cosa per poveri.
“Vedo che ti piace”, dice Roxy.
“È davvero buono” le rispondo, con un’espressione soddisfatta sul
volto.
“Ne sono contenta” dice, mentre continua indaffarata a servire tutti
gli altri clienti.
A guardarla così dimostra appena una ventina d’anni e gli abiti che
indossa le donerebbero di più se non fosse per la polvere che li
ricopre, chissà se è lei la proprietaria o quali sacrifici deve fare
per mantenersi quel posto... nella sua cartella non vi è nulla a
riguardo.
“Posso chiederti che ore sono?” le chiedo, ricordandomi improvvisamente
della cosa più importante.
Menomale, è passata solo mezza giornata e ho ancora diverse ore a
disposizione.
“Ora devo andare in magazzino, ma tu resta pure. Se vuoi puoi farti
leggere le carte, costa solo un dollaro e Talia non ne sbaglia mai
una”, mi dice.
Resto un’altra buona mezz’ora a sorseggiare l’ultimo quarto del mio
bicchiere, non credo di potermene permettere un altro e non sono ancora
del tutto convinta di andare via. Quando il bicchiere è ormai finito mi
pervade una sensazione di sconforto, forse è per questo che posti del
genere sono sempre pieni... entrare è facile e uscirne troppo
difficile. A tutti gli effetti anche l’idea di farmi leggere le carte
non sembra poi così male, nonostante io non abbia mai creduto a questo
genere di cose. Così mi ritrovo davanti l’ingresso di uno stanzino dove
un buttafuori dal completo verde rappezzato scambia il mio dollaro con
un gettone color bronzo, più una formalità che una vera necessità.
Probabilmente la necessità di un gettone rende il tutto ancora più
interessante anche se sappiano bene che a fine giornata l’unico valore
effettivo sarà quello dei dollari guadagnati, compreso il mio che ne
varrà del pranzo e della cena di oggi.
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