12 ottobre 3019,
Terza Era
Palazzo
del Cigno d’Argento, Dol Amroth, Gondor
173 miglia a sud
La
fronte
aggrottata di Erchion riemerse da dietro il resoconto su cui aveva
invano cercato di concentrarsi negli ultimi minuti. Poggiò
la schiena contro la sedia e lasciò che il suo sguardo
vagasse per il soffitto del salottino della colazione. Nel primo
mattino, l’ala residenziale del Palazzo era ancora avvolta in
un morbido torpore, interrotto unicamente dal ritmico scricchiolio di
gusci di noce.
«Mi
chiedo…», alla voce del figlio,
Imrahil, seduto di fronte a lui, sospese la sua metodica –
per quanto elegante – carneficina di frutta secca, «Per un gioiello del
Sud… Per. Quel
per. Per come ‘indirizzato a’ o come
‘in cambio di’? Da che parte iniziare ad
interpretare quel messaggio?».
Il
padre mugugnò un mezzo sospiro e riportò la sua
attenzione alle noci che giacevano sparse davanti a lui.
«Credi sia
un’usanza di Rohan quella di inviare doni propiziatori? Hai
mai sentito parlare di qualcosa del genere, padre?».
«Ti prego…
Erchion…». Una dopo
l’altro, i gusci continuavano a soccombere rumorosamente tra
le mani del Principe.
«Potrebbe esserci
sfuggito qualcosa», il Secondogenito
seguitò a ragionare ad alta voce, deliberatamente noncurante
degli occasionali brontolii di insofferenza provenienti
dall’altra parte del tavolo, «Era apparente che non
fosse uomo da confidenze, ma arrivare a non fare cenno di voler
corteggiare Iriel… Certo, Re Éomer è
celibe. E giovane. E da poco sul trono. Potrebbe forse essere questa la
chiave? È in cerca di una regina e il suo sguardo
è arrivato fino a Gondor?».
Un
frammento legnoso sfuggì come una scheggia volante allo
schiaccianoci del padre. Erchion lo scansò con un
sopracciglio alzato.
«Padre, ci sono modi più ortodossi per farmi
tacere».
Imrahil
poggiò lo strumento incriminato sul tavolo. «Erchion»,
inspirò profondamente, «Non
dormo da due notti. Tua sorella non l’ho più vista
se non in sella a quel cavallo i-i-indecorosamente…
sfacciatamente… grande. Ti ho già detto che
il suo scalpitio mi suona nelle orecchie ognora?».
«Credo di avertelo
sentito dire».
«Notte e giorno, giorno
e notte. Come un monito», Erchion
seguì con gli occhi la mano del padre stringersi attorno lo
schiaccianoci, «Dai
prova di avere un po’ di compassione di tuo padre, te ne
prego», lo implorò Imrahil
riprendendo a far scoppiettare i gusci sotto le dita.
«Credevo avessi in
stima il Re di Rohan».
«È
così, è così. Questo non è
messo in dubbio. È un giovane pregevole, di una rara tempra.
Nondimeno», il Principe diede enfasi alle sue
parole fendendo l’aria con il suo luccicante strumento di
morte, «tua
sorella è già promessa. Ogni ulteriore
corteggiamento è fuori discussione».
«Chiaro,
chiaro». Erchion riportò di nuovo la
sua attenzione sul resoconto. Inutilmente. Era forse passato un minuto
prima che tornasse alla carica,
«Non
sarebbe il primo fidanzamento nella storia del principato a venire
interrotto. Le nozze non sono nemmeno state annunc-».
«Perché
questa mattina hai deciso di non darmi tregua, figliolo?».
Puntuali, altre due schegge esplosero in direzione del Secondogenito,
il quale le schivò fulmineo, «Ti senti forse in
dovere di compensare l’assenza di Amrothos? A tal proposito,
dove sono i tuoi fratelli?», la voce di Imrahil
si stava ingrossando di pari passo con la vena sulla sua nobile fronte,
«E di grazia,
perché oggi le noci non sono state sgusciate?».
Si lasciò andare a un sospiro esasperato e prese a
stropicciarsi gli occhi, affaticato.
Il
giovane Principe ne approfittò per allungare un braccio e
allontanare lo schiaccianoci dal padre. «Elphir sta badando i
Consiglieri. Amrothos sta badando Iriel. Iriel è con ogni
probabilità in sella a un cavallo indecorosamente e
sfacciatamente grande».
Imrahil
sospirò.
«Dentro o fuori le mu-».
«Non chiedere, padre.
Non chiedere», Erchion lo anticipò,
mal celando il suo divertimento.
«Il responsabile delle tue noci non sgusciate è
invece la mano ferita di Madegar. Ho risposto a tutte le tue domande,
quindi perché non tornare sulle ripercussioni del messaggio
di Re Éo-».
«Madegar si
è fatta male? Quanto male? Ricordati di essere generoso con
il suo salario, non vogliamo che non sia soddisfatta».
«Sappiamo entrambi,
padre, che se alzassi ulteriormente il salario della cuoca, Elphir
pretenderebbe in cambio il mio primogenito».
«Non possiamo perdere
Madegar, figliolo. Tu sai che non possiamo. Nessuno a Gondor mangia
come alla nostra tavola».
«Corretto. Ma hai
sentito la parte relativa al mio primogenito?»,
Erchion assottigliò lo sguardo, «Che sarebbe anche tuo
nipote…?».
«Posso iniziare a
valutare le tue candidate spose?».
«Negativo»,
un sorrisetto impenitente sulle labbra del giovane.
«Allora rischiare di
perdere la cuoca è una questione più stringente
di un nipote che non mi hai ancora dato».
«A proposito di
questioni stringenti e di pretendenti, discutiamo di quelli di mia
sorella?», il giovane lo incalzò
senza perdere un colpo.
«La mia testa»,
Imrahil si passò una mano sulla fronte. «Non ho mai desiderato
che un Consiglio iniziasse come questa mattina.
Erchion…».
«Dico soltanto, padre,
che non genererebbe poi grande scandalo».
«Scandalo? Quale
scandalo?».
«La rottura del
fidanzamento».
«Erchion, no. Vecchio.
Tuo padre è vecchio. E non sono ancora le otto del
mat-».
«La famiglia della
sposa può permettersi di avere un ripensamento e favorire un
nuovo pretendente. Ne sentiamo parlare di continuo».
Il Secondogenito prese un veloce sorso del suo tè, valutando
come pungolare il fianco esposto. I suoi occhi studiarono i lineamenti
stanchi del padre, o quello che del suo volto non era nascosto
dall’ampia mano. Aveva da tempo imparato che senza applicare
alcuna pressione non era possibile conoscere
l’entità di una lesione. «Un re non
è esattamente un pretendente che si può scartare
così, in maniera avventata. Se questo… Questo dono si rivelasse
essere l’avvio di un corteggiamento, non vedo
perché non vagliare la possibilità a
fondo».
Imrahil
scosse la testa, come a voler scacciare quell’idea,
«Erchion, tu… Tu sai bene che è
più complicato di così. Trascurando il fatto che
ho dato la mia parola al Comandante, devo comunque tenere in
considerazione la posizione di Elphir in Consiglio. Scandalo o meno,
togliere l’appoggio al Comandante significherebbe perdere il
suo. Se io- Se questo finisse per danneggiare
Elphir…».
Il
giovane Principe unì le sopracciglia, «Padre»,
cominciò piano, «Non
può ridursi tutto a questo. Al tuo debito – o in
qualsiasi altro modo tu voglia definirlo – con Elphir.
Quantomeno non il matrimonio di-».
«Credo di essere stato
generoso questa mattina, Erchion», lo interruppe
il padre, «Ho
assecondato le tue congetture, ma non approfondirò
ulteriormente la questione. Arriverà il giorno in cui
sarà tuo fratello a dover reggere il principato, appoggiarlo
oggi in ciò che potrà garantirgli
stabilità in futuro non è che il mio
dovere». Il Principe aveva parlato con
autorevolezza, nonostante non avesse sollevato gli occhi in quelli del
figlio nemmeno una volta. L’atmosfera nella saletta era
mutata all’improvviso. C’erano corde che non
andavano toccate, faccende che non andavano discusse ad alta voce.
Equilibri troppo fragili per essere portati alla luce.
Erchion
si fece indietro, figurativamente e letteralmente. Si
appoggiò di nuovo allo schienale, «Capisco…»,
tamburellò sui braccioli di legno. «Dimmi che postura
tenere nei confronti di Re Éomer e io seguirò le
tue indicazioni. Poco più di una settimana e saremo compagni
d’armi».
«Qualsiasi cosa abbia
voluto dirci con quel cavallo, l’onere della chiarezza grava
ancora su di lui. Non agiamo in base alle nostre speculazioni. Sono
certo che avremo occasione di dissipare ogni dubbio nel nostro tempo
all’accampamento».
«Inteso».
Un
rumore di passi in avvicinamento li raggiunse dall’esterno
del salotto. Chiunque avesse calcato con sufficiente frequenza le sale
del Palazzo, avrebbe saputo riconoscere quell’andatura.
Misurata, controllata. Propria di qualcuno a cui non si poteva mettere
fretta. Qualcuno che, del resto, non tardava mai ai suoi doveri. Elphir
comparve sulla soglia. Si avvicinò al loro tavolo,
arrestandosi a due passi di distanza; lentamente, si chinò a
raccogliere qualcosa dal pavimento: frammenti di guscio. Non li
commentò, non fu necessario.
«Padre. Fratello. Il
Consiglio è riunito, l’ultima seduta sta per avere
inizio».
Imrahil
ed Erchion si scambiarono un’occhiata.
«L’ultima»,
l’anziano Principe sospirò mentre annuiva con il
capo, «Non
sembra vero. La partenza è davvero già alle
porte».
«Così
pare», il Secondogenito raccattò i
resoconti che avevano steso attorno – e sopra – le
loro colazioni.
«Facci strada, Elphir,
grazie. Mettiamoci anche questo alle spalle».
Imrahil abbozzò un sorriso, mentre i suoi occhi passavano
affezionatamente sui volti dei due figli che l’avrebbero
accompagnato in guerra.
Le
ginocchia la
tradirono non appena i suoi stivali avevano toccato terra. Non ne
volevano sapere di rimanere salde.
«Woh, woh»,
Amrothos sostenne la sorella per un gomito, «Al primo ginocchio
sbucciato nostro padre infiocchetta Gléodis e la rispedisce
al mittente, tienilo a mente».
«Non
ricordarmelo», esalò la ragazza con
il fiato corto. Il suo corpo non si era ancora del tutto adattato alle
lunghe, concitate cavalcate di quei giorni.
«Riproviamo? Ti lascio
andare?», si accertò il fratello.
«S-sì.
Grazie».
«Ho mandato a chiamare
Thïria, aspettala qui e tornate a Palazzo insieme».
«Tu non
rientri?».
«Ho da fare alla
Guarnigione. Salterò il pranzo per oggi».
L’uomo affidò le redini dei loro destrieri allo
scudiero che era venuto loro incontro. Lothíriel fece per
allungare una mano, ma il fratello la intercettò,
stritolandogliela giocosamente. «E
no. Non puoi riaccompagnare Gléodis alla stalla. Saresti di
nuovo in sella girato il primo angolo», fece per
mordere la mano che lei sfilò appena in tempo dalla sua
presa.
La
ragazza boccheggiò. «Questo
non è… Non è
affatto…», avrebbe voluto potersi
fingere offesa, «Questo
è piuttosto vero», ammise.
«Se faccio in tempo
usciamo oggi pomeriggio. Ho una rivincita da prendermi e puoi stare
certa che me la prenderò con molta soddisfazione. E il
sentiero toccherà a me sceglierlo».
Il fratello l’aveva guidata spintonandola leggermente per le
spalle fino l’ingresso laterale della Guarnigione; i soldati
di guardia li salutarono con un inchino. La fece sedere lì
di fronte, sul muretto di pietra che costeggiava il canale del porto.
«Non
c’è terreno su cui tu possa superare
Gléodis. Non credi sia il momento di ammetterlo,
fratello?», lo stuzzicò lei, di buon
umore.
«Iriel, mettiamo bene
in chiaro una cosa: hai vinto solo perché io ho perso.
Intesi?».
«Tu sai che non
c’è un altro modo di vincere se non quello che hai
appena descritto, vero?».
«La prossima volta ci
spingeremo fino al vecchio frantoio e vedremo chi torna prima
indietro».
«Il vecchio frantoio?
Credi sia ancora in piedi?».
«Il suo ponte di
pietra, quello no di certo. Nostro padre lo ha fatto distruggere da
almeno un decennio. Credo sia andato ad abbatterlo di persona; leggenda
vuole, a mani nude. Per via del tuo ultimo ginocchio sbucciato, se non
vado errato», la prese in giro con uno sbuffo
piccato, «Ma
il frantoio è ancora lì, in disuso. Lo useremo
noi, come punto di partenza e ti dimostrerò che i cavalli
della Baia non sono da sottovalutare».
«Mio
signore…», un soldato si era
avvicinato a loro.
Amrothos
gli fece un cenno con il capo.
«Iriel», tornò a rivolgersi
a lei, concentrando tutte le sue raccomandazioni in uno sguardo
minaccioso, le sopracciglia unite. La sorella gli rispose con un
sorriso.
Non
appena il Terzogenito era sparito all’interno
dell’edificio, la Principessa iniziò a guardarsi
attorno, proteggendosi con una mano dall’alto sole del
mezzogiorno, risalendo con gli occhi la via che fiancheggiava il canale
del porto. Le botteghe erano aperte, le merci esposte; la cittadina
bassa era spumeggiante a quell’ora del giorno, vivace e
chiassosa. Lothíriel si ritrovò in piedi prima
ancora di rendersene conto. Era già in mezzo al torrente di
passanti quando sentì la voce del fratello alle sue spalle.
«Non abbiamo appena avuto una conversazione a
riguardo? Tu, che aspetti Thïria. Qui. Ferma.
Ricordi?». Le aveva gridato da sotto il
porticato della Guarnigione, le braccia conserte. In una mano teneva
una fiasca che non le fu difficile immaginare fosse venuto a offrirle.
«Alla tintoria. Vado
solo fino la tintoria», tentò di
farsi udire, «Dai
bambini».
Era
ancora sufficientemente vicina da non perdersi il bianco degli occhi
che le stava mostrando il fratello. Agitò una mano in aria
per salutarlo insolentemente.
Arrivata
a
metà strada, si rese conto di aver largamente sovrastimato
le proprie condizioni fisiche. Sentiva il suo passo farsi
più incerto e il pizzicore dei suoi muscoli indolenziti
più vivo. Mantenere l’equilibrio
sull’acciottolato di quella via che aveva percorso
innumerevoli volte non le era mai sembrato così arduo. E
dover dissimulare il proprio disagio per prodursi in inchini e
ricambiare i saluti dei passanti – tutti, i passanti, ogni
singolo cortese, zelante, amabile passante che l’aveva
riconosciuta – non fece che aggiungere fatica alla
stanchezza. Gli ampi lenzuoli e teli che le segnalavano la presenza
della tintoria apparivano ancora in lontananza, coriandoli colorati che
oscillavano al vento.
Dopo
qualche altro passo, si costrinse a fermarsi a riprendere fiato,
appoggiandosi contro il muretto in pietra che separava la via dal molo
sottostante. Inspirò a pieni polmoni, asciugandosi le tempie
imperlate di sudore. Quando si voltò, lo scontro contro
qualcosa di solido la fermò sul posto. Alzò lo
sguardo e incontrò due occhi cerulei e un sopracciglio
alzato. Prima ancora che registrasse contro chi fosse andata a
sbattere, ritirò le mani che aveva istintivamente appoggiato
contro il petto dell’uomo. Cercò di farsi
indietro, ma vacillò quando i suoi talloni avevano
inevitabilmente incontrato la base del muretto. Uno strano verso di
stupore le sfuggì dalle labbra.
«Avete
appena… Squittito, Principessa?», il
Comandante l’aveva attirata a sé afferrandola per
la vita. La testa piegata di lato, una punta di divertimento nello
sguardo.
«No…»,
la voce le uscì in un sussurro. «No-no»,
si schiarì la gola, cercando di dissimulare
l’imbarazzo. I suoi occhi evadevano disperati quelli
dell’uomo che stava torreggiando su di lei.
«Come dite
voi». Sîrfalas ritrasse la mano dopo
averla rimessa in piedi. Non l’abbandonò
però con lo sguardo. Lothíriel
deglutì, sapeva di avere un aspetto a dir poco inadeguato,
poteva sentire i capelli appiccicarsi alla fronte ad ogni movimento
della testa. Non era di certo preparata a sottoporsi di nuovo a quegli
occhi vigili. Troppo
presto, una voce nella sua testa continuava a ricordarle,
l’aveva rincontrato troppo presto.
La
sensazione di un pezzo di stoffa che veniva tamponato contro la sua
fronte la riscosse dagli affannosi pensieri. Il Comandante le stava
asciugando il sudore con il suo fazzoletto, un’espressione
neutra in volto. Quando terminò, le sollevò il
mento tenendolo tra due dita, studiandola qualche istante con un
accenno di sorriso nascosto in un angolo della bocca. La Principessa si
costrinse ad alzare lo sguardo. Non lo aveva mai guardato
così da vicino prima di allora. La mandibola decisa, la
rasatura impeccabile, la pelle ambrata. E gli occhi taglienti e chiari
resi ancora più intensi dalle folte ciglia. Lo aveva notato
anche durante il loro pranzo, ma il Comandante era innegabilmente un
bell’uomo.
«Vi-vi-…»,
sentiva la gola stretta e tesa, «Vi
ringrazio, Comandante». Distolse gli occhi,
incapace di sostenere oltre lo sguardo dell’uomo.
«Verso dove stavate
barcollando, se mi è dato saperlo?».
«Alla tintoria, io- Io
volevo solo arrivare alla tintoria. Laggiù. La-la mia dama
di compagnia sa di… di trovarmi lì. Sta
arrivando, comunque. E sono stata accompagnata fino a poco fa».
La Principessa smise di parlare, in imbarazzo. Rivolse a se stessa
molte parole e tutte poco gentili.
«Non dovete
giustificarvi con me, Principessa. Come vedete, non ho
séguito nemmeno io. Siamo in due ad essere in fallo.
L’onore di entrambi è in serio pericolo»,
le rivolse un sorriso impudente. Per qualche motivo, il suo
cervello registrò soltanto quanto fossero decisi i canini
dell’uomo. Gli davano un aspetto felino. Lo
assecondò ricambiandolo a sua volta con un esitante sorriso,
nonostante le loro condizioni non fossero certo comparabili.
C’era differenza tra come un uomo e una donna non sposati
potessero muoversi.
«Voi cosa fate qui,
alla cittadina bassa, Comandante?».
«Dubitate forse della
casualità del nostro incontro?».
«No, io-»,
la ragazza scosse la testa,
«Non intendevo-».
Di
fronte al suo farfugliare, il sorriso dell’uomo si era
allargato. «Mi
stavo solo prendendo gioco di voi», la
fermò, «Sono
qui per affari. Sapete, gli armatori sono una razza particolare di
uomini. Sembrano non essere in grado di stipulare un accordo se non
hanno sott’occhio le loro navi. Se vi foste mai chiesta
perché la Casa delle Corporazioni è stata eretta
sul porto…». Le porse un braccio, «Ma ho stretto mani e
firmato carte a sufficienza, vi accompagno alla tintoria».
L’espressione
della Principessa non dovette essere di difficile lettura, «Siamo in pubblico.
Non ci saranno problemi», la
rassicurò, quasi ammiccante.
Lothíriel
si guardò attorno aspettandosi che Thïria e la sua
divisa azzurra sbucassero provvidenziali da in mezzo la folla. Di
fronte a quella mancata apparizione, non poté che accettare
il braccio che le veniva offerto. Ad ogni passo, un nuovo paio di occhi
curiosi andava a sommarsi ai precedenti. I passanti rallentavano o si
fermavano a guardarli, scambiandosi bisbigli e sguardi loquaci,
facendosi da parte con profondi inchini. Era quanto di più
simile ad un incubo la Principessa avrebbe potuto immaginare. Il colpo
di coda le fu inflitto a tradimento dalla sua stessa caviglia; un piede
appoggiato male e l’unico ostacolo tra la sua fronte e il
selciato fu il suo accompagnatore.
Il
braccio di Sîrfalas la mantenne in piedi, di nuovo. «Apparite piuttosto
sottovento, Principessa. Non vi starete affaticando troppo con le
vostre cavalcate?».
La
ragazza sollevò gli occhi nei suoi. Il cavallo. Il dono di
Re Éomer. L’argomento di cui avrebbe volentieri
fatto a meno di parlare con il Comandante, che ora la stava guardando
con l’abituale espressione neutra in volto. Nei suoi occhi,
latente, un'astuzia vigile e sottile.
«Non ho intenzione di
chiedervelo. Non temete», il Comandate
riportò lo sguardo davanti a sé.
«Già
s-sapete?».
«Principessa, siete a
conoscenza di quali faccende mi occupo?».
Eccolo,
riaffiorava – se n’era quasi riuscita a dimenticare
– il familiare senso di disorientamento che provava nel
parlare con un uomo come lui, che sollevava argini, deviava la
conversazione a piacimento, per farla poi convogliare esattamente dove
gli era utile. «Siete…
Siete Ammiraglio Comandante delle flotte di mio padre».
La sua risposta era quantomeno riduttiva, ne era consapevole. I suoi
incarichi militari spaziavano dall’Accademia al consiglio
disciplinare. Ed era certa che l’uomo amministrasse le
proprietà della sua famiglia, i terreni, le
attività commerciali; aveva colto conversazioni sparse a
riguardo.
«Certo, ma delle mie
mansioni, di ciò che faccio giorno per giorno, avete formato
un’idea?».
«Se mi state chiedendo
della vostra posizione in Consiglio, io non… io non sono
m-molto versata-».
«No di certo»,
poteva sentire quanto fosse intrattenuto a quell’idea, «So che quelle
politiche sono questioni che esulano dal vostro reame di interesse. Vi
stavo domandando se sapeste cosa faccio per vostro fratello. Fuori da
Palazzo, intendo».
«N-no…».
«Valuto. Gli affari, i
rischi, ciò che muove le persone. E avanzo previsioni.
È un incarico ancora meno accattivante di quanto non suoni.
Ma di certo allena lo sguardo di un uomo, per non dire il suo intuito,
non concordate? Anche se trovo che parlare di
intuito…», l’uomo fece
schioccare la lingua,
«Sia inaccurato. Volgare, quasi. Le mie sono inferenze.
Quando dico inferenza, sapete a cosa mi riferisco?».
«Sì».
La risposte le uscì più asciutta di quanto avesse
inteso fare. Qualcosa nel tono paternalistico del Comandante le stava
mandando piccole, mordenti scariche elettriche lungo la spina dorsale.
L’uomo
le rivolse un sorriso che a lei sembrò ancora più
condiscendente della sua voce. «E
in questo caso qual è la vostra, di inferenza? Qual
è la vostra conclusione logica?».
«Perciò ora
me lo state domandando?».
«Divertente»,
il Comandante fermò il suo passo per guardarla. «Siete una persona
divertente, sapete? Sembrerebbe così, ve lo sto domandando.
Voi cosa farete? Eluderete oltre?».
Lothíriel
ispirò profondamente, imponendosi di fare uscire le parole
senza tentennamenti. «Credo
si tratti di un equivoco, non potrebbe essere altrimenti. E uno di
quelli fortunati, se penso esclusivamente a ciò che ho
acquisito. Immagino fosse un dono rivolto più a mio padre,
che a me».
«Mmh…»,
il Comandante continuava ad osservarla, immobile, la testa piegata di
lato. «Siamo
giunti a conclusioni simili, allora»,
riprese finalmente a passeggiare. «Nel
mio incarico
ciò che è ancora più importante,
è il regime da adottare dopo aver avanzato delle
inferenze. Ebbene, per quale strategia credete io abbia
optato?».
«Voi fate progredire
sempre le vostre conversazioni per domande?».
Era riuscita a parlare senza farfugliare, ma la sua voce era stata
elusiva quanto il suo sguardo. Continuava a contare con gli occhi le
navi attraccate al porto come se la sua vita fosse dipesa da questo.
Un
altro sbuffo divertito.
«Vi infastidisce forse, questo mio modo di fare?».
«N-no. Mi perdonerete
però se vi confesso che mi mette a disagio non sapere se
state solo adeguando le vostre risposte alle mie».
«Solo uno sciocco non
lo farebbe, non trovate?», questa volta
l’uomo rise apertamente. «Affascinante…»,
fermò nuovamente il passo e strinse il braccio al corpo,
ottenendo tutta l’attenzione della giovane.
Avvicinò il volto al suo, «Se continuate
così, Principessa, rischiate seriamente di far nascere dei
sentimenti nel vostro pretendente». Fece una
pausa, che lei non riempì. «Torniamo alla domanda
che avete aggirato».
«Non mi è
dato sapere co-come abbiate deciso di comportarvi in… in
merito».
«Lasciate che ve lo
dica io, dunque. Ritengo che non sia un rischio tale da dovermene
preoccupare. Siete stata a me promessa e un regalo, sconveniente per
giunta, non è sintomo di altro se non delle cattive maniere
del suo mittente. Come vi fa sentire questo?».
Formulare
una risposta adeguata in quel momento le sembrò quanto di
più irrealizzabile. Non c’era altro che pulsasse
nelle sue tempie eccetto il martellante desiderio di sottrarsi a quella
conversazione. E a quello sguardo indagatore che la faceva sentire
piccola, impotente. Non riuscì a fare a meno di lanciare
un’occhiata verso la tintoria, che non avevano ancora
raggiunto.
«Vi ho messa a
disagio?».
«No»,
rispose velocemente, riportando gli occhi a lui. Colse distrattamente
uno spostamento tra i passanti, qualcosa color fiordaliso si stava
muovendo ai margini del suo campo visivo. «Comandante, n-non sono
accompagnata, come potete vedere. Credo abbiamo passeggiato insieme
più a lungo di quanto fosse opportuno. Se-se me lo
permettete, ora…». Fu lieta di
sfilare il braccio da quello dell’uomo, mentre salutava
Thïria con un cenno. Riservò un inchino anche al
Comandante.
«So che siete avida di
informazioni». La voce pacata
dell’uomo la fermò ad appena due passi di
distanza. Era sicura che i suoi occhi confusi fossero stati
sufficientemente loquaci, perché continuò, «La vostra dama di
compagnia… Thïria, così si chiama,
giusto? Vi è molto fedele. Ha solo peccato di troppo zelo
nel raccogliere certe notizie per voi, null’altro.
Un’innocua domanda rivolta alla persona sbagliata, e io ne
sono venuto a conoscenza. A vostro fratello è sfuggito, se
questo può esservi di conforto».
Lentamente, Sîrfalas aveva compensato la distanza tra di
loro. Sul suo viso non era difficile scorgere il compiacimento
nell’avere in pugno il suo interlocutore. «Di informazioni, io,
ne ho. Anche per voi, Principessa. Vorreste sentirle o sarebbe troppo inopportuno
continuare a parlare con me?».
Mentre
era lì, immobile, affannandosi in silenzio a formulare una
risposta, Lothíriel avrebbe soltanto voluto avere la
prontezza di spirito per riuscire a reagire, controbattere con qualcosa
di altrettanto sagace o pungente. O, perlomeno, riuscire a mascherare
meglio la sua curiosità. Fu il Comandante a mettere fine
alla sua muta agonia.
«Due giorni. Due giorni
e tre notti, per essere precisi. Questo il tempo prima della partenza
di vostro padre e dei vostri fratelli».
Oh. Il cuore prese
a martellarle contro lo sterno. Non aveva idea che la partenza fosse
così imminente. Nessuno l’aveva informata.
«Perché me
lo state dicendo?».
«Fiducia per fiducia,
Principessa. Fiducia per fiducia. D’altra parte non vi
nascondo che preferirei di gran lunga vedervi struggere per i vostri
cari che in sella a quel cavallo del Nord. Lo avete testato a
sufficienza negli scorsi giorni, non trovate? Ora potrebbe essere il
momento di concedergli un po’ di riposo».
«Principessa, dobbiamo
rientrare per il pranzo», Thïria si era
fatta avanti con esitazione.
«Gra-grazie»,
Lothíriel ringraziò l’uomo.
«Dovere»,
le rispose con tutta l’aria che fosse invece stato un piacere.
15 ottobre 3019,
Terza Era
Cancelli della città, Dol Amroth, Gondor
108 miglia a sud-ovest
Le
ombre ai piedi
delle mura cittadine si allungavano sotto la cintura di ulivi giganti
che circondavano Dol Amroth. Il sole non era ancora visibile sopra la
linea dell’orizzonte e il cielo era insolitamente fumoso per
essere un’alba battuta dal vento. C’era una coltre
di silenzio che pesava sopra i soldati dispiegati ai due lati della via
principale e che rendeva tutto innaturalmente immobile.
Sotto
ai grandi Cancelli, la Principessa si strinse nel mantello. In quel
silenzio stava faticando a respirare. «Stanno
tardando», sussurrò.
«Il passaggio di
consegne a Palazzo. Dev’essere per quello»,
Amrothos, accanto a lei, le rispose senza guardarla. I suoi occhi
vagavano nervosamente davanti a sé, saltellando tra le fila
di uomini di fronte a loro.
«Tu non avresti dovuto
presenziare?».
«E tu?»,
chiese premendo una spalla contro quella della sorella. Si scambiarono
un’occhiata e tornarono entrambi a guardare la via. «Allora siamo
d’accordo».
Sopra
le loro teste, il guardiano dei Cancelli suonò il corno,
allertando i presenti dell’arrivo del Principe. Il petto di
Lothíriel tremò e si caricò di tutta
l’angoscia fino ad allora subdolamente latente.
Inspirò, espirò ed inspirò di nuovo,
come meglio riusciva, lasciando che l’aria fresca le
pizzicasse la gola. Inesorabile, lo scalpitio di zoccoli si stava
avvicinando a loro. Vide finalmente comparire il padre e i due fratelli
maggiori, in sella a cavalli splendidamente bardati, alla guida del
loro séguito di ufficiali. Gli stendardi del principato
ancora non dispiegati. Smontarono appena fuori dalle mura.
Erchion
andò ad afferrare Amrothos per le spalle, che
intrecciò le braccia alle sue. Due larghi sorrisi goliardici
sui loro volti. «Ma
guardati», il Secondogenito esaminava con
sfacciata incredulità la divisa formale dell’altro.
«Guardati tu».
Il minore fece un cerimonioso inchino con la testa, «Capo della
cavalleria», lo salutò.
«Capo della
guarnigione», Erchion ricambiò con la
stessa energia.
La
Principessa si era avvicinata al padre, che stava allungando il collo
alla ricerca di qualcuno. «Elphir»,
si rivolse al figlio maggiore da loro poco distante, «Tua moglie e tuo
figlio, non li vedo. Dove sono?».
«Ho preso commiato da
loro alla Residenza».
«Io non ho avuto modo
di salutarli», un velo di delusione nella sua
voce, «Credevo
sarebbero stati qui. Se lo avessi saputo prima…».
Il
Primogenito attraversò il padre con lo sguardo, come se non
fosse stato a un passo di distanza.
«Qui fa freddo», fu tutto
ciò che disse, incolore. Poi rivolse la sua attenzione
altrove.
Il
padre guardò allora la figlia, che si fece avanti. Prese le
mani di lei nelle sue.
«Iriel cara, è giunto il momento di
salutarci».
Gli
occhi della ragazza elusero quelli dell’uomo. «Questi
adii, non mi piacciono...».
«Ma non ti
dirò addio, come non te lo dissi prima di partire per Minas
Tirith». Chinò la testa per
incontrare il suo sguardo, «È
mai successo che non fossi tornato da te?».
Lei
si limitò a scuotere la testa.
«Figlia
mia…», Imrahil iniziò a
congedarsi.
Prima
che potesse dire altro, gli circondò il petto con le
braccia. Era più facile così. «Porterò io
i tuoi saluti ad Alphros*¹», gli
sussurrò con la guancia premuta contro l’armatura,
«Ti
manderò anche i suoi disegni, con le mie lettere. E tu
dovrai conservarli tutti, senza eccezioni. Anche quelli con le barche
piccoline e la matassa di onde per il resto della carta. E…
E dovrai rispondere. Sempre. Dovunque ti troverai, do-dovrai
rispondere».
Sentì
il padre appoggiarle il mento sulla testa.
«Ricevuto»,
le bisbigliò.
Quando
sciolsero l’abbraccio, Lothíriel gli rivolse un
ultimo, incerto sorriso. Meno convincente e più tremolante
di quanto avesse sperato. Premette le labbra in una linea. Si
guardò attorno ed Amrothos ed Erchion sembrava si stessero
ancora scambiando smancerie, burlandosi a turno della divisa da
cerimonia dell’altro. Erano ora passati agli stivali.
Spostò gli occhi sul fratello maggiore. «Elphir…»,
cercò la sua attenzione.
Il
Primogenito spostò gli occhi su di lei. Tentò un
timido sorriso in sua direzione, ma non venne ricambiata se non con un
sopracciglio inarcato. «Sono…
Sono certa che tu non abbia bisogno delle mie raccomandazioni,
fratello. M-ma stai attento sul… sul campo. E- e fuori.
Riguardati».
La
differenza d’altezza tra i due non era d’aiuto nel
non farla sentire guardata dall’alto verso il basso. Se il
viso del fratello fosse stato capace di assumere espressioni, ne era
sicura, ce ne sarebbe stata una di disprezzo.
«Sì»,
fu l’unica risposta.
«Tocca a me chiudere le
danze, prima che il sole ci sorprenda tutti ancora qui».
Erchion era accanto a loro, «Iri»,
aprì le braccia per accogliere la sorella. «Qualsiasi cosa ti
abbia detto Elphir, ti do ufficialmente il permesso di fare il
contrario», le parlò contro
l’orecchio, «È
sufficiente – non trascurare questa parte che è la
più importante – che tu faccia ricadere la colpa
su Amrothos». Si separarono, ma il fratello
continuò a guardarla tenendola per le spalle. Era chiaro che
stesse assorbendo il suo viso. «Non
fateci preoccupare, intesi? Sia tu che testa calda,
laggiù».
«Ehi»,
un lamento proveniente dalle loro spalle.
«Voi ricambierete la
cortesia?», gli domandò lei.
Il
Secondogenito espirò rumorosamente dal naso. «Dubiti di me solo
perché non mi hai mai visto sul campo, sorella.
L’ultima volta te l’ho riportato, nostro padre, non
è forse così?», aggiunse
con un mezzo sorriso.
Lothíriel
guardò i fratelli e il padre rimontare in sella e portarsi
alla guida dell’avanguardia. Con la città non
ancora del tutto sveglia, l’esercito del Dor-en-Ernil si mise
in viaggio. La Principessa e il Terzogenito rimasero fermi davanti ai
Cancelli fino a quando non riuscirono ad udire altro che il fruscio del
vento tra le chiome degli ulivi.
«Se la
caveranno», Amrothos sospirò, «E anche noi, gambe di
gelatina, ce la caveremo».
Note
dell’autrice
•
Potrei essere stata convinta di aver pubblicato questo capitolo
più di 10 giorni fa. Senza però averne
finalizzato il caricamento. Accoglierò tutti i pomodori a me
riservati con umiltà e gratitudine.
*¹ Alphros,
dal Sindarin alph
(cigno) + ross
(schiuma). Personaggio dei libri, nato a Dol Amroth nel 3017 della
Terza Era, figlio del Principe Elphir.
•
Dopo due capitoli interamente ambientati a Dol Amroth, Re
Éomer dovrebbe avere finalmente coperto 430 (noiosissime)
miglia a cavallo. Ora che le forze alleate si ricongiungeranno nel
Lebennin, sarà più facile portare avanti la
narrazione a due piani.
•
Volevo ringraziare le coraggiose recensitrici che affrontano ogni mese
il mio fiume di parole. Grazie! Non per ultimo, per la vostra pazienza.
Razaghena
Riassunto
Capitolo 5 Il Principe
Erchion e il padre, perplessi, discutono di come interpretare il regalo
inviato da Rohan. Interrompere il fidanzamento di Lothíriel
con il Comandante Sîrfalas è fuori discussione,
tanto più che quest’ultimo è un
importante alleato politico del Principe Elphir.
Dall’altra
parte della città, Lothíriel, di ritorno da una
cavalcata, s’imbatte nel Comandante. Passeggiano insieme;
l’uomo ostenta il suo disinteresse rispetto la faccenda del
cavallo e la informa della data di partenza prevista per la guerra. La
Principessa ne era stata tenuta fino ad allora all’oscuro.
Pochi
giorni dopo, Lothíriel e Amrothos si congedano sotto le mura
della città dal padre e dai due fratelli maggiori. Le truppe
di Dol Amroth partono alla volta dell’accampamento nel
Lebennin.
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