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Autore: Razaghena    29/05/2022    3 recensioni
Settembre 3019, a un mese dall'incoronazione di Re Éomer, notizie di incursioni da parte dei Sudroni raggiungono il Mark. A 288 miglia di distanza da Edoras, a Dol Amroth, l'introversa principessa Lothíriel apprende che la sua mano è stata concessa a uno dei nobili della città, un uomo che è poco più di uno sconosciuto per lei. Sarà proprio la spedizione militare congiunta tra Gondor e Rohan a mettere in pausa i progetti di matrimonio e a stravolgere le vite della Principessa e del Re.
Genere: Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Eomer, Lothirìel
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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12 ottobre 3019, Terza Era
Palazzo del Cigno d’Argento, Dol Amroth, Gondor

173 miglia a sud


                                         La fronte aggrottata di Erchion riemerse da dietro il resoconto su cui aveva invano cercato di concentrarsi negli ultimi minuti. Poggiò la schiena contro la sedia e lasciò che il suo sguardo vagasse per il soffitto del salottino della colazione. Nel primo mattino, l’ala residenziale del Palazzo era ancora avvolta in un morbido torpore, interrotto unicamente dal ritmico scricchiolio di gusci di noce.

«Mi chiedo…», alla voce del figlio, Imrahil, seduto di fronte a lui, sospese la sua metodica – per quanto elegante – carneficina di frutta secca, «Per un gioiello del Sud… Per. Quel per. Per come ‘indirizzato a’ o come ‘in cambio di’? Da che parte iniziare ad interpretare quel messaggio?».

Il padre mugugnò un mezzo sospiro e riportò la sua attenzione alle noci che giacevano sparse davanti a lui.

«Credi sia un’usanza di Rohan quella di inviare doni propiziatori? Hai mai sentito parlare di qualcosa del genere, padre?».

«Ti prego… Erchion…». Una dopo l’altro, i gusci continuavano a soccombere rumorosamente tra le mani del Principe.

«Potrebbe esserci sfuggito qualcosa», il Secondogenito seguitò a ragionare ad alta voce, deliberatamente noncurante degli occasionali brontolii di insofferenza provenienti dall’altra parte del tavolo, «Era apparente che non fosse uomo da confidenze, ma arrivare a non fare cenno di voler corteggiare Iriel… Certo, Re Éomer è celibe. E giovane. E da poco sul trono. Potrebbe forse essere questa la chiave? È in cerca di una regina e il suo sguardo è arrivato fino a Gondor?».

Un frammento legnoso sfuggì come una scheggia volante allo schiaccianoci del padre. Erchion lo scansò con un sopracciglio alzato. «Padre, ci sono modi più ortodossi per farmi tacere».

Imrahil poggiò lo strumento incriminato sul tavolo. «Erchion», inspirò profondamente, «Non dormo da due notti. Tua sorella non l’ho più vista se non in sella a quel cavallo i-i-indecorosamente… sfacciatamente… grande. Ti ho già detto che il suo scalpitio mi suona nelle orecchie ognora?».

«Credo di avertelo sentito dire».

«Notte e giorno, giorno e notte. Come un monito», Erchion seguì con gli occhi la mano del padre stringersi attorno lo schiaccianoci, «Dai prova di avere un po’ di compassione di tuo padre, te ne prego», lo implorò Imrahil riprendendo a far scoppiettare i gusci sotto le dita.

«Credevo avessi in stima il Re di Rohan».

«È così, è così. Questo non è messo in dubbio. È un giovane pregevole, di una rara tempra. Nondimeno», il Principe diede enfasi alle sue parole fendendo l’aria con il suo luccicante strumento di morte, «tua sorella è già promessa. Ogni ulteriore corteggiamento è fuori discussione».

«Chiaro, chiaro». Erchion riportò di nuovo la sua attenzione sul resoconto. Inutilmente. Era forse passato un minuto prima che tornasse alla carica, «Non sarebbe il primo fidanzamento nella storia del principato a venire interrotto. Le nozze non sono nemmeno state annunc-».

«Perché questa mattina hai deciso di non darmi tregua, figliolo?». Puntuali, altre due schegge esplosero in direzione del Secondogenito, il quale le schivò fulmineo, «Ti senti forse in dovere di compensare l’assenza di Amrothos? A tal proposito, dove sono i tuoi fratelli?», la voce di Imrahil si stava ingrossando di pari passo con la vena sulla sua nobile fronte, «E di grazia, perché oggi le noci non sono state sgusciate?». Si lasciò andare a un sospiro esasperato e prese a stropicciarsi gli occhi, affaticato.

Il giovane Principe ne approfittò per allungare un braccio e allontanare lo schiaccianoci dal padre. «Elphir sta badando i Consiglieri. Amrothos sta badando Iriel. Iriel è con ogni probabilità in sella a un cavallo indecorosamente e sfacciatamente grande».

Imrahil sospirò. «Dentro o fuori le mu-».

«Non chiedere, padre. Non chiedere», Erchion lo anticipò, mal celando il suo divertimento. «Il responsabile delle tue noci non sgusciate è invece la mano ferita di Madegar. Ho risposto a tutte le tue domande, quindi perché non tornare sulle ripercussioni del messaggio di Re Éo-».

«Madegar si è fatta male? Quanto male? Ricordati di essere generoso con il suo salario, non vogliamo che non sia soddisfatta».

«Sappiamo entrambi, padre, che se alzassi ulteriormente il salario della cuoca, Elphir pretenderebbe in cambio il mio primogenito».

«Non possiamo perdere Madegar, figliolo. Tu sai che non possiamo. Nessuno a Gondor mangia come alla nostra tavola».

«Corretto. Ma hai sentito la parte relativa al mio primogenito?», Erchion assottigliò lo sguardo, «Che sarebbe anche tuo nipote…?».

«Posso iniziare a valutare le tue candidate spose?».

«Negativo», un sorrisetto impenitente sulle labbra del giovane.

«Allora rischiare di perdere la cuoca è una questione più stringente di un nipote che non mi hai ancora dato».

«A proposito di questioni stringenti e di pretendenti, discutiamo di quelli di mia sorella?», il giovane lo incalzò senza perdere un colpo.

«La mia testa», Imrahil si passò una mano sulla fronte. «Non ho mai desiderato che un Consiglio iniziasse come questa mattina. Erchion…».

«Dico soltanto, padre, che non genererebbe poi grande scandalo».

«Scandalo? Quale scandalo?».

«La rottura del fidanzamento».

«Erchion, no. Vecchio. Tuo padre è vecchio. E non sono ancora le otto del mat-».

«La famiglia della sposa può permettersi di avere un ripensamento e favorire un nuovo pretendente. Ne sentiamo parlare di continuo». Il Secondogenito prese un veloce sorso del suo tè, valutando come pungolare il fianco esposto. I suoi occhi studiarono i lineamenti stanchi del padre, o quello che del suo volto non era nascosto dall’ampia mano. Aveva da tempo imparato che senza applicare alcuna pressione non era possibile conoscere l’entità di una lesione. «Un re non è esattamente un pretendente che si può scartare così, in maniera avventata. Se questo… Questo dono si rivelasse essere l’avvio di un corteggiamento, non vedo perché non vagliare la possibilità a fondo».

Imrahil scosse la testa, come a voler scacciare quell’idea, «Erchion, tu… Tu sai bene che è più complicato di così. Trascurando il fatto che ho dato la mia parola al Comandante, devo comunque tenere in considerazione la posizione di Elphir in Consiglio. Scandalo o meno, togliere l’appoggio al Comandante significherebbe perdere il suo. Se io- Se questo finisse per danneggiare Elphir…».

Il giovane Principe unì le sopracciglia, «Padre», cominciò piano, «Non può ridursi tutto a questo. Al tuo debito – o in qualsiasi altro modo tu voglia definirlo – con Elphir. Quantomeno non il matrimonio di-».

«Credo di essere stato generoso questa mattina, Erchion», lo interruppe il padre, «Ho assecondato le tue congetture, ma non approfondirò ulteriormente la questione. Arriverà il giorno in cui sarà tuo fratello a dover reggere il principato, appoggiarlo oggi in ciò che potrà garantirgli stabilità in futuro non è che il mio dovere». Il Principe aveva parlato con autorevolezza, nonostante non avesse sollevato gli occhi in quelli del figlio nemmeno una volta. L’atmosfera nella saletta era mutata all’improvviso. C’erano corde che non andavano toccate, faccende che non andavano discusse ad alta voce. Equilibri troppo fragili per essere portati alla luce.

Erchion si fece indietro, figurativamente e letteralmente. Si appoggiò di nuovo allo schienale, «Capisco…», tamburellò sui braccioli di legno. «Dimmi che postura tenere nei confronti di Re Éomer e io seguirò le tue indicazioni. Poco più di una settimana e saremo compagni d’armi».

«Qualsiasi cosa abbia voluto dirci con quel cavallo, l’onere della chiarezza grava ancora su di lui. Non agiamo in base alle nostre speculazioni. Sono certo che avremo occasione di dissipare ogni dubbio nel nostro tempo all’accampamento».

«Inteso».

Un rumore di passi in avvicinamento li raggiunse dall’esterno del salotto. Chiunque avesse calcato con sufficiente frequenza le sale del Palazzo, avrebbe saputo riconoscere quell’andatura. Misurata, controllata. Propria di qualcuno a cui non si poteva mettere fretta. Qualcuno che, del resto, non tardava mai ai suoi doveri. Elphir comparve sulla soglia. Si avvicinò al loro tavolo, arrestandosi a due passi di distanza; lentamente, si chinò a raccogliere qualcosa dal pavimento: frammenti di guscio. Non li commentò, non fu necessario.

«Padre. Fratello. Il Consiglio è riunito, l’ultima seduta sta per avere inizio».

Imrahil ed Erchion si scambiarono un’occhiata. «L’ultima», l’anziano Principe sospirò mentre annuiva con il capo, «Non sembra vero. La partenza è davvero già alle porte».

«Così pare», il Secondogenito raccattò i resoconti che avevano steso attorno – e sopra – le loro colazioni.

«Facci strada, Elphir, grazie. Mettiamoci anche questo alle spalle». Imrahil abbozzò un sorriso, mentre i suoi occhi passavano affezionatamente sui volti dei due figli che l’avrebbero accompagnato in guerra.



                                         Le ginocchia la tradirono non appena i suoi stivali avevano toccato terra. Non ne volevano sapere di rimanere salde.

«Woh, woh», Amrothos sostenne la sorella per un gomito, «Al primo ginocchio sbucciato nostro padre infiocchetta Gléodis e la rispedisce al mittente, tienilo a mente».

«Non ricordarmelo», esalò la ragazza con il fiato corto. Il suo corpo non si era ancora del tutto adattato alle lunghe, concitate cavalcate di quei giorni.

«Riproviamo? Ti lascio andare?», si accertò il fratello.

«S-sì. Grazie».

«Ho mandato a chiamare Thïria, aspettala qui e tornate a Palazzo insieme».

«Tu non rientri?».

«Ho da fare alla Guarnigione. Salterò il pranzo per oggi». L’uomo affidò le redini dei loro destrieri allo scudiero che era venuto loro incontro. Lothíriel fece per allungare una mano, ma il fratello la intercettò, stritolandogliela giocosamente. «E no. Non puoi riaccompagnare Gléodis alla stalla. Saresti di nuovo in sella girato il primo angolo», fece per mordere la mano che lei sfilò appena in tempo dalla sua presa.

La ragazza boccheggiò. «Questo non è… Non è affatto…», avrebbe voluto potersi fingere offesa, «Questo è piuttosto vero», ammise.

«Se faccio in tempo usciamo oggi pomeriggio. Ho una rivincita da prendermi e puoi stare certa che me la prenderò con molta soddisfazione. E il sentiero toccherà a me sceglierlo». Il fratello l’aveva guidata spintonandola leggermente per le spalle fino l’ingresso laterale della Guarnigione; i soldati di guardia li salutarono con un inchino. La fece sedere lì di fronte, sul muretto di pietra che costeggiava il canale del porto.

«Non c’è terreno su cui tu possa superare Gléodis. Non credi sia il momento di ammetterlo, fratello?», lo stuzzicò lei, di buon umore.

«Iriel, mettiamo bene in chiaro una cosa: hai vinto solo perché io ho perso. Intesi?».

«Tu sai che non c’è un altro modo di vincere se non quello che hai appena descritto, vero?».

«La prossima volta ci spingeremo fino al vecchio frantoio e vedremo chi torna prima indietro».

«Il vecchio frantoio? Credi sia ancora in piedi?».

«Il suo ponte di pietra, quello no di certo. Nostro padre lo ha fatto distruggere da almeno un decennio. Credo sia andato ad abbatterlo di persona; leggenda vuole, a mani nude. Per via del tuo ultimo ginocchio sbucciato, se non vado errato», la prese in giro con uno sbuffo piccato, «Ma il frantoio è ancora lì, in disuso. Lo useremo noi, come punto di partenza e ti dimostrerò che i cavalli della Baia non sono da sottovalutare».

«Mio signore…», un soldato si era avvicinato a loro.

Amrothos gli fece un cenno con il capo. «Iriel», tornò a rivolgersi a lei, concentrando tutte le sue raccomandazioni in uno sguardo minaccioso, le sopracciglia unite. La sorella gli rispose con un sorriso.

Non appena il Terzogenito era sparito all’interno dell’edificio, la Principessa iniziò a guardarsi attorno, proteggendosi con una mano dall’alto sole del mezzogiorno, risalendo con gli occhi la via che fiancheggiava il canale del porto. Le botteghe erano aperte, le merci esposte; la cittadina bassa era spumeggiante a quell’ora del giorno, vivace e chiassosa. Lothíriel si ritrovò in piedi prima ancora di rendersene conto. Era già in mezzo al torrente di passanti quando sentì la voce del fratello alle sue spalle.

«Non abbiamo appena avuto una conversazione a riguardo? Tu, che aspetti Thïria. Qui. Ferma. Ricordi?». Le aveva gridato da sotto il porticato della Guarnigione, le braccia conserte. In una mano teneva una fiasca che non le fu difficile immaginare fosse venuto a offrirle.

«Alla tintoria. Vado solo fino la tintoria», tentò di farsi udire, «Dai bambini».

Era ancora sufficientemente vicina da non perdersi il bianco degli occhi che le stava mostrando il fratello. Agitò una mano in aria per salutarlo insolentemente.



                                         Arrivata a metà strada, si rese conto di aver largamente sovrastimato le proprie condizioni fisiche. Sentiva il suo passo farsi più incerto e il pizzicore dei suoi muscoli indolenziti più vivo. Mantenere l’equilibrio sull’acciottolato di quella via che aveva percorso innumerevoli volte non le era mai sembrato così arduo. E dover dissimulare il proprio disagio per prodursi in inchini e ricambiare i saluti dei passanti – tutti, i passanti, ogni singolo cortese, zelante, amabile passante che l’aveva riconosciuta – non fece che aggiungere fatica alla stanchezza. Gli ampi lenzuoli e teli che le segnalavano la presenza della tintoria apparivano ancora in lontananza, coriandoli colorati che oscillavano al vento.

Dopo qualche altro passo, si costrinse a fermarsi a riprendere fiato, appoggiandosi contro il muretto in pietra che separava la via dal molo sottostante. Inspirò a pieni polmoni, asciugandosi le tempie imperlate di sudore. Quando si voltò, lo scontro contro qualcosa di solido la fermò sul posto. Alzò lo sguardo e incontrò due occhi cerulei e un sopracciglio alzato. Prima ancora che registrasse contro chi fosse andata a sbattere, ritirò le mani che aveva istintivamente appoggiato contro il petto dell’uomo. Cercò di farsi indietro, ma vacillò quando i suoi talloni avevano inevitabilmente incontrato la base del muretto. Uno strano verso di stupore le sfuggì dalle labbra.

«Avete appena… Squittito, Principessa?», il Comandante l’aveva attirata a sé afferrandola per la vita. La testa piegata di lato, una punta di divertimento nello sguardo.

«No…», la voce le uscì in un sussurro. «No-no», si schiarì la gola, cercando di dissimulare l’imbarazzo. I suoi occhi evadevano disperati quelli dell’uomo che stava torreggiando su di lei.

«Come dite voi». Sîrfalas ritrasse la mano dopo averla rimessa in piedi. Non l’abbandonò però con lo sguardo. Lothíriel deglutì, sapeva di avere un aspetto a dir poco inadeguato, poteva sentire i capelli appiccicarsi alla fronte ad ogni movimento della testa. Non era di certo preparata a sottoporsi di nuovo a quegli occhi vigili. Troppo presto, una voce nella sua testa continuava a ricordarle, l’aveva rincontrato troppo presto.

La sensazione di un pezzo di stoffa che veniva tamponato contro la sua fronte la riscosse dagli affannosi pensieri. Il Comandante le stava asciugando il sudore con il suo fazzoletto, un’espressione neutra in volto. Quando terminò, le sollevò il mento tenendolo tra due dita, studiandola qualche istante con un accenno di sorriso nascosto in un angolo della bocca. La Principessa si costrinse ad alzare lo sguardo. Non lo aveva mai guardato così da vicino prima di allora. La mandibola decisa, la rasatura impeccabile, la pelle ambrata. E gli occhi taglienti e chiari resi ancora più intensi dalle folte ciglia. Lo aveva notato anche durante il loro pranzo, ma il Comandante era innegabilmente un bell’uomo.

«Vi-vi-…», sentiva la gola stretta e tesa, «Vi ringrazio, Comandante». Distolse gli occhi, incapace di sostenere oltre lo sguardo dell’uomo.

«Verso dove stavate barcollando, se mi è dato saperlo?».

«Alla tintoria, io- Io volevo solo arrivare alla tintoria. Laggiù. La-la mia dama di compagnia sa di… di trovarmi lì. Sta arrivando, comunque. E sono stata accompagnata fino a poco fa». La Principessa smise di parlare, in imbarazzo. Rivolse a se stessa molte parole e tutte poco gentili.

«Non dovete giustificarvi con me, Principessa. Come vedete, non ho séguito nemmeno io. Siamo in due ad essere in fallo. L’onore di entrambi è in serio pericolo», le rivolse un sorriso impudente. Per qualche motivo, il suo cervello registrò soltanto quanto fossero decisi i canini dell’uomo. Gli davano un aspetto felino. Lo assecondò ricambiandolo a sua volta con un esitante sorriso, nonostante le loro condizioni non fossero certo comparabili. C’era differenza tra come un uomo e una donna non sposati potessero muoversi.

«Voi cosa fate qui, alla cittadina bassa, Comandante?».

«Dubitate forse della casualità del nostro incontro?».

«No, io-», la ragazza scosse la testa, «Non intendevo-».

Di fronte al suo farfugliare, il sorriso dell’uomo si era allargato. «Mi stavo solo prendendo gioco di voi», la fermò, «Sono qui per affari. Sapete, gli armatori sono una razza particolare di uomini. Sembrano non essere in grado di stipulare un accordo se non hanno sott’occhio le loro navi. Se vi foste mai chiesta perché la Casa delle Corporazioni è stata eretta sul porto…». Le porse un braccio, «Ma ho stretto mani e firmato carte a sufficienza, vi accompagno alla tintoria».

L’espressione della Principessa non dovette essere di difficile lettura, «Siamo in pubblico. Non ci saranno problemi», la rassicurò, quasi ammiccante.

Lothíriel si guardò attorno aspettandosi che Thïria e la sua divisa azzurra sbucassero provvidenziali da in mezzo la folla. Di fronte a quella mancata apparizione, non poté che accettare il braccio che le veniva offerto. Ad ogni passo, un nuovo paio di occhi curiosi andava a sommarsi ai precedenti. I passanti rallentavano o si fermavano a guardarli, scambiandosi bisbigli e sguardi loquaci, facendosi da parte con profondi inchini. Era quanto di più simile ad un incubo la Principessa avrebbe potuto immaginare. Il colpo di coda le fu inflitto a tradimento dalla sua stessa caviglia; un piede appoggiato male e l’unico ostacolo tra la sua fronte e il selciato fu il suo accompagnatore.

Il braccio di Sîrfalas la mantenne in piedi, di nuovo. «Apparite piuttosto sottovento, Principessa. Non vi starete affaticando troppo con le vostre cavalcate?».

La ragazza sollevò gli occhi nei suoi. Il cavallo. Il dono di Re Éomer. L’argomento di cui avrebbe volentieri fatto a meno di parlare con il Comandante, che ora la stava guardando con l’abituale espressione neutra in volto. Nei suoi occhi, latente, un'astuzia vigile e sottile.

«Non ho intenzione di chiedervelo. Non temete», il Comandate riportò lo sguardo davanti a sé.

«Già s-sapete?».

«Principessa, siete a conoscenza di quali faccende mi occupo?».

Eccolo, riaffiorava – se n’era quasi riuscita a dimenticare – il familiare senso di disorientamento che provava nel parlare con un uomo come lui, che sollevava argini, deviava la conversazione a piacimento, per farla poi convogliare esattamente dove gli era utile. «Siete… Siete Ammiraglio Comandante delle flotte di mio padre». La sua risposta era quantomeno riduttiva, ne era consapevole. I suoi incarichi militari spaziavano dall’Accademia al consiglio disciplinare. Ed era certa che l’uomo amministrasse le proprietà della sua famiglia, i terreni, le attività commerciali; aveva colto conversazioni sparse a riguardo.

«Certo, ma delle mie mansioni, di ciò che faccio giorno per giorno, avete formato un’idea?».

«Se mi state chiedendo della vostra posizione in Consiglio, io non… io non sono m-molto versata-».

«No di certo», poteva sentire quanto fosse intrattenuto a quell’idea, «So che quelle politiche sono questioni che esulano dal vostro reame di interesse. Vi stavo domandando se sapeste cosa faccio per vostro fratello. Fuori da Palazzo, intendo».

«N-no…».

«Valuto. Gli affari, i rischi, ciò che muove le persone. E avanzo previsioni. È un incarico ancora meno accattivante di quanto non suoni. Ma di certo allena lo sguardo di un uomo, per non dire il suo intuito, non concordate? Anche se trovo che parlare di intuito…», l’uomo fece schioccare la lingua, «Sia inaccurato. Volgare, quasi. Le mie sono inferenze. Quando dico inferenza, sapete a cosa mi riferisco?».

«Sì». La risposte le uscì più asciutta di quanto avesse inteso fare. Qualcosa nel tono paternalistico del Comandante le stava mandando piccole, mordenti scariche elettriche lungo la spina dorsale.
 

L’uomo le rivolse un sorriso che a lei sembrò ancora più condiscendente della sua voce. «E in questo caso qual è la vostra, di inferenza? Qual è la vostra conclusione logica?».

«Perciò ora me lo state domandando?».

«Divertente», il Comandante fermò il suo passo per guardarla. «Siete una persona divertente, sapete? Sembrerebbe così, ve lo sto domandando. Voi cosa farete? Eluderete oltre?».

Lothíriel ispirò profondamente, imponendosi di fare uscire le parole senza tentennamenti. «Credo si tratti di un equivoco, non potrebbe essere altrimenti. E uno di quelli fortunati, se penso esclusivamente a ciò che ho acquisito. Immagino fosse un dono rivolto più a mio padre, che a me».

«Mmh…», il Comandante continuava ad osservarla, immobile, la testa piegata di lato. «Siamo giunti a conclusioni simili, allora», riprese finalmente a passeggiare. «Nel mio incarico ciò che è ancora più importante, è il regime da adottare dopo aver avanzato delle inferenze. Ebbene, per quale strategia credete io abbia optato?».

«Voi fate progredire sempre le vostre conversazioni per domande?». Era riuscita a parlare senza farfugliare, ma la sua voce era stata elusiva quanto il suo sguardo. Continuava a contare con gli occhi le navi attraccate al porto come se la sua vita fosse dipesa da questo.

Un altro sbuffo divertito. «Vi infastidisce forse, questo mio modo di fare?».

«N-no. Mi perdonerete però se vi confesso che mi mette a disagio non sapere se state solo adeguando le vostre risposte alle mie».

«Solo uno sciocco non lo farebbe, non trovate?», questa volta l’uomo rise apertamente. «Affascinante…», fermò nuovamente il passo e strinse il braccio al corpo, ottenendo tutta l’attenzione della giovane. Avvicinò il volto al suo, «Se continuate così, Principessa, rischiate seriamente di far nascere dei sentimenti nel vostro pretendente». Fece una pausa, che lei non riempì. «Torniamo alla domanda che avete aggirato».

«Non mi è dato sapere co-come abbiate deciso di comportarvi in… in merito».

«Lasciate che ve lo dica io, dunque. Ritengo che non sia un rischio tale da dovermene preoccupare. Siete stata a me promessa e un regalo, sconveniente per giunta, non è sintomo di altro se non delle cattive maniere del suo mittente. Come vi fa sentire questo?».

Formulare una risposta adeguata in quel momento le sembrò quanto di più irrealizzabile. Non c’era altro che pulsasse nelle sue tempie eccetto il martellante desiderio di sottrarsi a quella conversazione. E a quello sguardo indagatore che la faceva sentire piccola, impotente. Non riuscì a fare a meno di lanciare un’occhiata verso la tintoria, che non avevano ancora raggiunto.

«Vi ho messa a disagio?».

«No», rispose velocemente, riportando gli occhi a lui. Colse distrattamente uno spostamento tra i passanti, qualcosa color fiordaliso si stava muovendo ai margini del suo campo visivo. «Comandante, n-non sono accompagnata, come potete vedere. Credo abbiamo passeggiato insieme più a lungo di quanto fosse opportuno. Se-se me lo permettete, ora…». Fu lieta di sfilare il braccio da quello dell’uomo, mentre salutava Thïria con un cenno. Riservò un inchino anche al Comandante.

«So che siete avida di informazioni». La voce pacata dell’uomo la fermò ad appena due passi di distanza. Era sicura che i suoi occhi confusi fossero stati sufficientemente loquaci, perché continuò, «La vostra dama di compagnia… Thïria, così si chiama, giusto? Vi è molto fedele. Ha solo peccato di troppo zelo nel raccogliere certe notizie per voi, null’altro. Un’innocua domanda rivolta alla persona sbagliata, e io ne sono venuto a conoscenza. A vostro fratello è sfuggito, se questo può esservi di conforto». Lentamente, Sîrfalas aveva compensato la distanza tra di loro. Sul suo viso non era difficile scorgere il compiacimento nell’avere in pugno il suo interlocutore. «Di informazioni, io, ne ho. Anche per voi, Principessa. Vorreste sentirle o sarebbe troppo inopportuno continuare a parlare con me?».

Mentre era lì, immobile, affannandosi in silenzio a formulare una risposta, Lothíriel avrebbe soltanto voluto avere la prontezza di spirito per riuscire a reagire, controbattere con qualcosa di altrettanto sagace o pungente. O, perlomeno, riuscire a mascherare meglio la sua curiosità. Fu il Comandante a mettere fine alla sua muta agonia.

«Due giorni. Due giorni e tre notti, per essere precisi. Questo il tempo prima della partenza di vostro padre e dei vostri fratelli».

Oh. Il cuore prese a martellarle contro lo sterno. Non aveva idea che la partenza fosse così imminente. Nessuno l’aveva informata.

«Perché me lo state dicendo?».

«Fiducia per fiducia, Principessa. Fiducia per fiducia. D’altra parte non vi nascondo che preferirei di gran lunga vedervi struggere per i vostri cari che in sella a quel cavallo del Nord. Lo avete testato a sufficienza negli scorsi giorni, non trovate? Ora potrebbe essere il momento di concedergli un po’ di riposo».

«Principessa, dobbiamo rientrare per il pranzo», Thïria si era fatta avanti con esitazione.

«Gra-grazie», Lothíriel ringraziò l’uomo.

«Dovere», le rispose con tutta l’aria che fosse invece stato un piacere.



15 ottobre 3019, Terza Era
Cancelli della città, Dol Amroth, Gondor

108 miglia a sud-ovest


                                         Le ombre ai piedi delle mura cittadine si allungavano sotto la cintura di ulivi giganti che circondavano Dol Amroth. Il sole non era ancora visibile sopra la linea dell’orizzonte e il cielo era insolitamente fumoso per essere un’alba battuta dal vento. C’era una coltre di silenzio che pesava sopra i soldati dispiegati ai due lati della via principale e che rendeva tutto innaturalmente immobile.

Sotto ai grandi Cancelli, la Principessa si strinse nel mantello. In quel silenzio stava faticando a respirare. «Stanno tardando», sussurrò.

«Il passaggio di consegne a Palazzo. Dev’essere per quello», Amrothos, accanto a lei, le rispose senza guardarla. I suoi occhi vagavano nervosamente davanti a sé, saltellando tra le fila di uomini di fronte a loro.

«Tu non avresti dovuto presenziare?».

«E tu?», chiese premendo una spalla contro quella della sorella. Si scambiarono un’occhiata e tornarono entrambi a guardare la via. «Allora siamo d’accordo».

Sopra le loro teste, il guardiano dei Cancelli suonò il corno, allertando i presenti dell’arrivo del Principe. Il petto di Lothíriel tremò e si caricò di tutta l’angoscia fino ad allora subdolamente latente. Inspirò, espirò ed inspirò di nuovo, come meglio riusciva, lasciando che l’aria fresca le pizzicasse la gola. Inesorabile, lo scalpitio di zoccoli si stava avvicinando a loro. Vide finalmente comparire il padre e i due fratelli maggiori, in sella a cavalli splendidamente bardati, alla guida del loro séguito di ufficiali. Gli stendardi del principato ancora non dispiegati. Smontarono appena fuori dalle mura.

Erchion andò ad afferrare Amrothos per le spalle, che intrecciò le braccia alle sue. Due larghi sorrisi goliardici sui loro volti. «Ma guardati», il Secondogenito esaminava con sfacciata incredulità la divisa formale dell’altro.

«Guardati tu». Il minore fece un cerimonioso inchino con la testa, «Capo della cavalleria», lo salutò.

«Capo della guarnigione», Erchion ricambiò con la stessa energia.

La Principessa si era avvicinata al padre, che stava allungando il collo alla ricerca di qualcuno. «Elphir», si rivolse al figlio maggiore da loro poco distante, «Tua moglie e tuo figlio, non li vedo. Dove sono?».

«Ho preso commiato da loro alla Residenza».

«Io non ho avuto modo di salutarli», un velo di delusione nella sua voce, «Credevo sarebbero stati qui. Se lo avessi saputo prima…».

Il Primogenito attraversò il padre con lo sguardo, come se non fosse stato a un passo di distanza. «Qui fa freddo», fu tutto ciò che disse, incolore. Poi rivolse la sua attenzione altrove.

Il padre guardò allora la figlia, che si fece avanti. Prese le mani di lei nelle sue. «Iriel cara, è giunto il momento di salutarci».

Gli occhi della ragazza elusero quelli dell’uomo. «Questi adii, non mi piacciono...».

«Ma non ti dirò addio, come non te lo dissi prima di partire per Minas Tirith». Chinò la testa per incontrare il suo sguardo, «È mai successo che non fossi tornato da te?».

Lei si limitò a scuotere la testa.

«Figlia mia…», Imrahil iniziò a congedarsi.

Prima che potesse dire altro, gli circondò il petto con le braccia. Era più facile così. «Porterò io i tuoi saluti ad Alphros*¹», gli sussurrò con la guancia premuta contro l’armatura, «Ti manderò anche i suoi disegni, con le mie lettere. E tu dovrai conservarli tutti, senza eccezioni. Anche quelli con le barche piccoline e la matassa di onde per il resto della carta. E… E dovrai rispondere. Sempre. Dovunque ti troverai, do-dovrai rispondere».

Sentì il padre appoggiarle il mento sulla testa. «Ricevuto», le bisbigliò.

Quando sciolsero l’abbraccio, Lothíriel gli rivolse un ultimo, incerto sorriso. Meno convincente e più tremolante di quanto avesse sperato. Premette le labbra in una linea. Si guardò attorno ed Amrothos ed Erchion sembrava si stessero ancora scambiando smancerie, burlandosi a turno della divisa da cerimonia dell’altro. Erano ora passati agli stivali. Spostò gli occhi sul fratello maggiore. «Elphir…», cercò la sua attenzione.

Il Primogenito spostò gli occhi su di lei. Tentò un timido sorriso in sua direzione, ma non venne ricambiata se non con un sopracciglio inarcato. «Sono… Sono certa che tu non abbia bisogno delle mie raccomandazioni, fratello. M-ma stai attento sul… sul campo. E- e fuori. Riguardati».

La differenza d’altezza tra i due non era d’aiuto nel non farla sentire guardata dall’alto verso il basso. Se il viso del fratello fosse stato capace di assumere espressioni, ne era sicura, ce ne sarebbe stata una di disprezzo.

«Sì», fu l’unica risposta.

«Tocca a me chiudere le danze, prima che il sole ci sorprenda tutti ancora qui». Erchion era accanto a loro, «Iri», aprì le braccia per accogliere la sorella. «Qualsiasi cosa ti abbia detto Elphir, ti do ufficialmente il permesso di fare il contrario», le parlò contro l’orecchio, «È sufficiente – non trascurare questa parte che è la più importante – che tu faccia ricadere la colpa su Amrothos». Si separarono, ma il fratello continuò a guardarla tenendola per le spalle. Era chiaro che stesse assorbendo il suo viso. «Non fateci preoccupare, intesi? Sia tu che testa calda, laggiù».

«Ehi», un lamento proveniente dalle loro spalle.

«Voi ricambierete la cortesia?», gli domandò lei.

Il Secondogenito espirò rumorosamente dal naso. «Dubiti di me solo perché non mi hai mai visto sul campo, sorella. L’ultima volta te l’ho riportato, nostro padre, non è forse così?», aggiunse con un mezzo sorriso.

Lothíriel guardò i fratelli e il padre rimontare in sella e portarsi alla guida dell’avanguardia. Con la città non ancora del tutto sveglia, l’esercito del Dor-en-Ernil si mise in viaggio. La Principessa e il Terzogenito rimasero fermi davanti ai Cancelli fino a quando non riuscirono ad udire altro che il fruscio del vento tra le chiome degli ulivi.

«Se la caveranno», Amrothos sospirò, «E anche noi, gambe di gelatina, ce la caveremo».

 


Note dell’autrice
• Potrei essere stata convinta di aver pubblicato questo capitolo più di 10 giorni fa. Senza però averne finalizzato il caricamento. Accoglierò tutti i pomodori a me riservati con umiltà e gratitudine.

            *¹ Alphros, dal Sindarin alph (cigno) + ross (schiuma). Personaggio dei libri, nato a Dol Amroth nel 3017 della Terza Era, figlio del Principe Elphir.

• Dopo due capitoli interamente ambientati a Dol Amroth, Re Éomer dovrebbe avere finalmente coperto 430 (noiosissime) miglia a cavallo. Ora che le forze alleate si ricongiungeranno nel Lebennin, sarà più facile portare avanti la narrazione a due piani.

• Volevo ringraziare le coraggiose recensitrici che affrontano ogni mese il mio fiume di parole. Grazie! Non per ultimo, per la vostra pazienza.
Razaghena
Riassunto Capitolo 5 Il Principe Erchion e il padre, perplessi, discutono di come interpretare il regalo inviato da Rohan. Interrompere il fidanzamento di Lothíriel con il Comandante Sîrfalas è fuori discussione, tanto più che quest’ultimo è un importante alleato politico del Principe Elphir.
Dall’altra parte della città, Lothíriel, di ritorno da una cavalcata, s’imbatte nel Comandante. Passeggiano insieme; l’uomo ostenta il suo disinteresse rispetto la faccenda del cavallo e la informa della data di partenza prevista per la guerra. La Principessa ne era stata tenuta fino ad allora all’oscuro.
Pochi giorni dopo, Lothíriel e Amrothos si congedano sotto le mura della città dal padre e dai due fratelli maggiori. Le truppe di Dol Amroth partono alla volta dell’accampamento nel Lebennin.
  
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