Epilogo
Fuoriuscirono
lingue di fuoco dalle finestre mentre i vetri esplodevano per il
calore.
La
Villa che bruciava nel cuore della notte illuminava Isola Cannella
come una fiaccola sotto un cielo tinto di arancione. Echeggiavano
sirene lungo le strade, la gente si accalcava intorno
all’edificio
incendiato: la polizia aveva creato un cordone per trattenere la
gente a una distanza di sicurezza dal rogo mentre i pompieri
lavoravano per domare le fiamme; che si espandessero al resto
dell’abitato era improbabile, dato l’isolamento
della casa, ma
non impossibile se si fosse levato il vento.
I
primi a dare l’allarme erano stati gli abitanti delle case
vicine,
ed erano stati anche i primi a intervenire, coraggiosamente, con
quello che potevano: sacchi di sabbia e di terra, secchi
d’acqua e
sassi nudi, tutto quello che si poteva per frenare anche solo un poco
l’avanzata delle fiamme. Poi erano arrivati i pompieri, che
li
avevano ricacciati via a forza ed erano intervenuti con le camionette
e i Pokémon d’Acqua addestrati appositamente. Un
paio di vicini
però si erano aggrappati ai pompieri prima di obbedire e
allontanarsi: avevano gridato che il portone principale della Villa
era aperto, ma che il dottor Fuji nessuno
l’aveva visto uscire… I
pompieri si erano guardati in faccia senza bisogno di dir nulla. Le
stanze più esterne della Villa, quelle che davano sulla
strada,
ancora non sembravano lambite dalle fiamme, ma sarebbe stata
questione di minuti, e nessuno poteva garantire che il dottor Fuji si
trovasse proprio lì. Se fosse stato nelle stanze interne,
invece…
Dalle finestre della Villa non proveniva voce.
Nessuno
si aspettava che il dottor Lestournelle fosse il primo, degli ex
colleghi di lavoro del dottor Fuji, a precipitarsi attorno ai cordoni
della polizia, cercando invano di richiamare l’attenzione di
chiunque fosse in grado di intervenire. Gridava qualcosa su Mew: a
distanza di anni, era l’unico in tutta l’Isola
ancora convinto
che il dottor Fuji avrebbe vissuto di risparmi e carità come
un
eremita, se avesse rubato il Pokémon più prezioso
del mondo. Un
agente che tratteneva la folla lo ascoltò per un
po’, poi lo
invitò a indietreggiare per non ostacolare le operazioni.
Si
sentì un terrificante rumore a un certo punto, come una
trave enorme
che si spezzava: qualcuno gridò che dovevano essere crollati
i
solai, altri dissero invece di aver visto come un bagliore azzurro
fendere le fiamme e levarsi verso l’alto. L’idea fu
spaventosa,
perché qualcuno cominciò a gridare che
chissà quali diavolerie
elettroniche e bombole del gas e quant’altro doveva tenersi
in casa
il dottor Fuji; che poteva scoppiare tutto… ma nessuno si
allontanò, forse anche perché qualcuno sosteneva
di non aver visto
niente, e questo tranquillizzò tutti gli altri.
A
un certo punto risuonò una sirena diversa: era quella di
un’autoambulanza. Il dottor Lestournelle trasalì e
fendette la
folla con violenza, a spintoni e a spallate, perché da
qualche parte
avevano cominciato a dire che i pompieri avevano tirato fuori un
uomo, che era vivo, respirava ancora, attraverso una vetrata. Quelli
che lo riconobbero si fecero indietro per lasciarlo passare: in fondo
lo sapevano tutti che era stato amico del dottor Fuji, prima che
succedesse quello che era successo, ed era ovvio che volesse
accertarsi che stesse bene…
Il
dottor Lestournelle raggiunse correndo l’ambulanza proprio
mentre
stavano caricando la barella. Un paramedico lo respinse con
decisione, allora Lestournelle alzò la voce,
gridò qualcosa in
direzione della barella; il paramedico gli posò una mano
sulla
spalla per attirare la sua attenzione e gli parlò con voce
bassa e
ragionevole.
«Guardi
che quello non è il dottor Fuji» gli disse
gentilmente. «Però so
che è un suo dipendente. Non so come si pronuncia, ma
è lo
scienziato tedesco.»
Si
succedettero momenti di luce e buio. Il dolore gli strappava grida,
risalendo fino al suo cervello gli intricati per corsi dei nervi;
talora gli pareva quasi di affiorare
dall’oscurità, di poter
aprire gli occhi, da un momento all’altro, e poter sapere
dov’era;
poi quella sensazione passava, l’oscurità tornava
a spalancarsi
attorno a lui e a sprofondarlo dentro di sé, inghiottendolo
come in
un grembo e nel vuoto. Nel vuoto Rotwang si sentiva precipitare,
cercando invano di aggrapparsi ai margini della propria coscienza
come al bordo di un pozzo; ma alle sue mani e alla sua mente le forze
venivano meno, ed egli non riusciva a restar sveglio. Un fuoco gli
divampava in gola; avrebbe voluto sollevarsi a sedere o almeno
muoversi, girare gli occhi intorno a sé per vedere dove si
trovasse
e sapere almeno di possedere ancora con sé il proprio corpo;
ma le
sue gambe non gli rispondevano e le sue braccia bruciavano come
fuoco, avviluppate ai suoi fianchi da legami invincibili; poi il buio
lo sprofondava di nuovo nelle sue viscere buie.
Vennero
le voci, dopo un po’. All’inizio non erano neppure
distinguibili,
e forse, chissà, non esistevano altrove che nella sua mente.
Era
come udir mormorii in un’altra stanza, anche se talora si
facevano
più vicini, come qualcuno che mormorasse al suo orecchio, e
quasi
gli sembrava di riuscire a percepire le parole; ma lo sforzo di
comprenderle lo prostrava, allora egli ricadeva nel buio della sua
mente, ancora una volta; la sua coscienza si dileguava. Sentiva il
respiro rantolargli nel petto che bruciava, poi lo sorprendeva di
nuovo il conforto rassicurante del nulla e del buio; per qualche
istante il dolore abbandonava la sua gola e le sue mani; ma
quell’oscurità lo raggelava, allora Rotwang
ricordava vagamente
che c’erano cose che doveva fare, posti in cui avrebbe dovuto
essere; ma la sua volontà si dimenava invano, inudita,
prigioniera
della sua mente assopita, e la caligine lo velava di nuovo.
A
poco a poco il buio si fece meno denso, l’oblio meno benigno.
L’aria attraversava la sua gola come lame arroventate,
perforava i
suoi polmoni a ogni suo respiro; sprazzi di lucidità
s’inseguivano
nella sua mente come comete lontane che s’inseguivano. Tutto
gli
tornava in mente in frammenti con dolorosa lucidità, ma la
sua mente
rifiutava di soffermarvisi a lungo: la sua mente si colmava di
fiamme; poi il dolore sopravanzava i suoi pensieri, le sue mani
pulsavano come braci alle estremità delle sue braccia, e il
dolore
era tale che la sua mente veniva meno per un po’.
«Acqua»
disse a un tratto, in un punto a metà tra la coscienza e
l’incoscienza che non era veglia né oblio. Non fu
nemmeno una
parola; fu un rantolo, eppure l’acqua arrivò da
qualche parte
ch’egli non vedeva. Sentì sulle labbra la
gentilezza di una spugna
umida, mentre una voce ch’egli sapeva di amare ma che in quel
momento non riconosceva mormorava contro il suo orecchio:
«Hai una
flebo di liquidi, tra poco la sete passerà…
aspettiamo che il
dottore dica che puoi bere, va bene?»
Il
conforto di quella voce fu tale che Rotwang sprofondò di
nuovo nel
sonno senza lottare oltre: avrebbe voluto aver forze a sufficienza da
dire grazie, ma la sua gola pulsava orrendamente e l’aria gli
mancava. Non si sforzò neppure di aprire gli occhi: non
aveva
bisogno di vedere a chi appartenesse quella voce. Si lasciò
sprofondare nel buio.
Tornò
a riemergerne come se fuoriuscisse dall’acqua per trarre
grandi
boccate d’aria che gli perforavano i polmoni. Ancora non
aveva
forza a sufficiente per aprire gli occhi: quando si svegliava si
trovava a galleggiare nel buio, senza sapere dove fosse né
perché.
Provava a chiamare per sentire di nuovo la voce, ma ancora non
riusciva a formulare parole: per fortuna la voce di Portia lo
raggiungeva attraverso l’oscurità che lo
circondava, e le sue mani
gentili gli bagnavano le labbra e gli pettinavano i capelli sulle
tempie. Sotto la carezza delle sue mani e della sua voce Rotwang si
addormentava senza più ricordare per che cos’era
che avrebbe
dovuto restare sveglio: se c’era Portia, andava tutto bene.
La sua
presenza era calma e ragionevole, infinitamente rassicurante, e a
essa a poco a poco Rotwang si sentì di potersi aggrappare
per
rimanere sveglio e non sprofondare per l’ennesima volta nel
buio.
«Emir»
provò a dire, lasciando a Portia l’onere di
ricomporre la domanda.
«Sht»
mormorò Portia da qualche parte al di fuori di lui; le sue
dita gli
passarono tra i capelli più volte. «Va tutto bene,
Richard, tutto
bene…»
«Emir»
biascicò Rotwang di nuovo. Cercò di aprire gli
occhi, ma sollevare
le palpebre gli costò uno sforzo sovrumano e attraverso di
esse la
luce gli bruciava gli occhi, e subito Portia sussurrò:
«Tesoro,
riposati. Non importa che… l’hanno portato ad
Azzurropoli, al
reparto Grandi Ustionati. In elicottero. È tutto a posto, ma
tu ora
riposati, va bene? Ho avvertito io i tuoi fratelli.»
Mettere
insieme il senso di tutte quelle parole richiese un tempo
assurdamente lungo ai suoi sensi rallentati. La realtà che
filtrava
attraverso le parole di Portia proiettava nella sua mente scintille
del mondo esterno, come lampi che vi penetravano; ma quella
realtà
era assurdamente dolorosa, e mentre la sua mente si soffermava a
osservarla Rotwang si sentì il petto pieno di
un’angoscia di cui
non riusciva a individuare l’origine. Aprì gli
occhi in una stanza
bianca d’ospedale. Tutto era avvolto da una nebbia, Portia
era
sfocata e indistinta al suo fianco; le sue braccia posavano sul
letto, sopra le lenzuola, terminando in grandi masse fasciate che non
riusciva a muovere.
Ripeté
senza capirle l’ultima parola che aveva udito, nella speranza
che
acquistasse un senso. «Fratelli…?»
«Va
tutto bene, tutto bene» ripeté Portia.
«Ho parlato con Günther,
ha detto che avrebbe avvertito lui i tuoi genitori. Rudolf sta
cercando un aereo dall’America, ha detto che
chiamerà non appena…»
Il
panico penetrò attraverso le sue fibre come una corrente,
senza che
egli neppure sapesse da che cosa originava.
«Non
voglio che mi vedano così» singhiozzò.
Portia
si chinò su di lui nella frenesia di capire.
«Tesoro, è tutto a
posto. Si sono offerti loro di venire non appena hanno saputo, non
devi…»
«Non
voglio che mi vedano così» ansimò
Rotwang. Lacrime gelate gli
scendevano dagli angoli degli occhi senza che neppure lui sapesse
perché: sapeva solo che l’angoscia gli montava in
petto più
feroce e implacabile del fumo e del fuoco, che qualcosa nel suo corpo
gli faceva paura e non andava bene sebbene non riuscisse a capire che
cosa. «Non farli venire, non voglio che mi vedano
così!»
«Richard»
balbettò Portia. Le sue mani si aggrapparono da qualche
parte
intorno ai suoi gomiti nel tentativo di tenerlo fermo.
«Così come?
Ti prego, ti prego, non ti agitare...!»
Finalmente
la sua paura oscura prese forma e corpo nella sua mente, ed egli
seppe, come se quella paura fosse sempre stata di fronte ai suoi
occhi ma solo ora egli riuscisse a vederla in piena luce, che
cos’era
che i suoi fratelli non avrebbero mai dovuto vedere…
«Non
ho più le mani, vero?» gridò con la
testa che gli martellava e il
cuore che pompava troppo rapido e gli pulsava fino in gola.
«Richard,
non è come pensi» gridò Portia tentando
di sovrastare la sua voce;
poi ci fu rumor di passi, ci furono voci che si sovrapponevano alla
sua, la puntura fredda di un ago perforò l’incavo
del suo gomito,
e la nebbia e il buio tornarono a inghiottirlo come se non se ne
fossero mai andate. Rotwang si abbandonò alla beatitudine
dell’incoscienza come a un atto di pietà che lo
accoglieva.
Si
svegliò che era giorno pieno: la luce entrava dalla finestra
della
stanza spoglia in grandi fiotti dorati che si riverberavano sulle
pareti, ma senza più ferire i suoi occhi. Rotwang
scrutò la luce
con disappunto, senza neppure levare il capo per guardarsi attorno:
non ce n’era bisogno. Sapeva già quello che gli
occorreva sapere:
che era una camera d’ospedale, e che Portia non
c’era più.
Rimase immobile, cercando di non guardare in direzione dei grandi
bendaggi che vedeva campeggiare alle estremità delle sue
braccia,
sulle lenzuola.
«Ah,
è sveglio» disse un infermiere facendo capolino
sulla soglia della
stanza. Rimase a osservarlo per un momento dall’uscio.
«Sente male
quando respira? Come
si sente?»
«Di
merda» rispose Rotwang distogliendo gli occhi da lui. Solo
pronunciare quella parola gli scatenò una fitta acuta di
dolore in
gola, perciò cercò di formulare la richiesta
successiva consumando
la minor quantità d’aria possibile:
«Medico.»
Quando
tornò a gettare un’occhiata in direzione della
porta, l’infermiere
era sparito.
Doveva
aver fatto quel che gli aveva chiesto, però: una decina di
minuti
dopo si affacciò sulla soglia un giovane medico che aveva
tutta
l’aria d’essersi appena laureato e
d’esser stato mandato a
Isola Cannella contro ogni sua volontà. Sembrava desiderare
di
finire quel turno il prima possibile.
«Ben
svegliato, dottore. Come si sente?» Aveva il tono disinvolto
e
sbrigativo di una consueta giornata di lavoro; non lo stava neppure
guardando, sfogliava la sua cartella clinica senza degnarlo di uno
sguardo. «Mi hanno detto che è un
collega.»
«No»
rispose Rowtang asciuttamente. «Medico per
Pokémon.»
La
sua risposta parve destare un lampo d’interesse negli occhi
del
dottore. Si affrettò a chiudere la cartella sorridendo,
guardandolo
per la prima volta da quando era entrato. «Al contrario,
dottore. A
dire il vero, siete solo voi medici per Pokémon che reputate
di non
essere nostri colleghi, sa. Studiate esattamente lo stesso numero di
anni, perciò non c’è motivo per
cui…»
Tanta
superbia, da parte sua, valeva in fondo ben la pena di un po’
di
sofferenza. «Ho detto che non siamo colleghi. Non che voi
siete
superiori. Ora possiamo parlare di me?»
Il
dottore rimase interdetto per un momento, eppure il suo sorriso non
svanì. Si fece solo più amaro. «Ora ho
capito come ha fatto a
spaventarmi l’infermiere» commentò
solamente. Tornò a sfogliare
la cartella clinica. «Allora, dottore… presumo che
la gola stia
benone, se ha la forza di ironizzare. Giusto?»
A
questo non valeva neppure la pena di rispondere, e non solamente
perché aveva la gola secca, dolorante, come dilaniata da
piaghe
aperte. Rotwang si limitò ad aggrottare la fronte, e il
dottore
scosse la testa e tirò fuori dal taschino una torcia e un
abbassalingua. «Forza. Ora facciamo gli adulti e mi faccia
vedere
come andiamo.»
Tutto
sommato il dottorino sapeva il fatto suo. Rotwang obbedì;
chino su
di lui mentre gli esaminava la gola, il dottore proseguì con
noncuranza. «Bene. Mi hanno detto i colleghi che stanotte ha
avuto
un po’ di crisi, quando si è svegliato. A volte
è normale essere
confusi dopo l’anestesia, specie dopo quello che…
beh. Ora è più
tranquillo?»
Spense
la torcia e si allontanò per dargli modo di rispondere.
Rotwang si
limitò ad annuire, ma il dottore parve reputarla una
risposta
soddisfacente. «Bene. Mi hanno detto anche che aveva paura di
aver
perso le mani nell’incendio. Posso garantirle che prima di
amputare
le mani a un chirurgo del suo livello ci pensiamo due volte, e che
non si amputa per qualche ustione, perciò non si preoccupi.
Se vuole
posso dire agli infermieri che le facciano vedere quando verranno a
medicarla…»
«Non
voglio vedere» disse Rotwang. Quelle parole gli costarono un
enorme
sforzo, la sua gola pulsava dolorosamente a ogni emissione
d’aria,
ma egli aveva un disperato bisogno di pronunciarle.
Il
dottore esitò per un momento. «Cioè non
vuole vedere le sue mani?
Ma prima o poi bisognerà bene che…»
«Basta»
disse Rotwang.
«Mi
crede, però? Non crede che io stia mentendo.»
Rotwang
annuì malvolentieri; si vergognava d’aver avuto
quella crisi la
notte precedente, ma più ancora non voleva soffermarsi oltre
su
quell’argomento. Parlare delle sue mani avrebbe comportato,
prima o
poi, che qualcuno gli avrebbe chiesto perché aveva fatto
quel che
aveva fatto; e di questo, se possibile, si vergognava ancora di
più.
Il
dottorino si ricompose. «Come vuole, allora. Posso
parlargliene,
però. Va bene?» Rotwang non rispose,
perciò egli proseguì
sfogliando la cartella clinica. «Sulle mani ha riportato
ustioni di
secondo e di terzo grado. I pompieri dicono che ha cercato di aprire
una porta all’interno della Villa in fiamme. Può
essere? Forse ha
toccato una maniglia, oppure…»
Rotwang
scrollò le spalle guardando altrove. Il dottore
tamburellò per
qualche secondo sulla cartella clinica con la penna, aspettò
per un
po’, poi mormorò: «Beh, facciamo finta
che sia andata così.
Comunque, se glielo verranno a chiedere lo spiegherà a loro:
a me
proprio non interessa.» Girò un foglio.
«Ha inalato molto fumo, ma
per fortuna non ha riportato ustioni ai polmoni. Abbiamo proceduto
alle analisi del sangue per valutare i livelli di monossido di
carbonio nel sangue, ma per fortuna non sono preoccupanti. Vedremo se
procedere anche a una laringoscopia nelle prossime ore per accertarci
delle condizioni della trachea, ma il fatto che lei riesca
già a
parlare mi tranquillizza molto. Vuole vedere le analisi lei stesso
per darci il suo parere?»
Rotwang
scosse il capo e mormorò, più muovendo le labbra
che emettendo vera
voce: «Mi fido.»
«Beh,
lo considererò un grande complimento da parte
sua.» Il dottorino
diede un ultimo colpetto di commiato sulla cartelletta di plastica.
«Molto bene. Se non ha altre domande la lascio per proseguire
il
giro dei pazienti. Vedrà che entro qualche giorno la
rimetteremo in
piedi, va bene?»
«Ha
notizie del dottor Fuji?»
La
sua gola mandò lampi di dolore che risalirono i suoi nervi
fino al
cervello, ma Rotwang si sforzò di mantenersi impassibile. Il
dottorino sbatté le palpebre un paio di volte. «Di
chi?»
«Il
direttore… il proprietario della Villa.»
Il
dottore si passò le dita sulla fronte. «Non
saprei, in realtà. Non
ero in reparto stanotte, ma non mi risulta che lo abbiano portato
qui.»
Quello
che doveva dire adesso richiedeva un enorme sforzo e sarebbe stato
molto doloroso. Rotwang deglutì a lungo. «So che
lo hanno portato
al Grandi Ustionati ad Azzurropoli. Mi domandavo
se…»
Finalmente
il dottore parve ricevere una tardiva illuminazione. «Ah!
Può
essere. Però non ho contatti in quell’ospedale.
Anche volendo non
saprei a chi chiedere informazioni, sa. Mi dispiace. Mi sono laureato
a Johto» aggiunse a mo’ di scusa. «Non
conosco ancora molti
colleghi in Kanto.»
«Va
bene così» mormorò Rotwang.
«Grazie lo stesso.»
Trascorse
il resto della mattinata, o di quel che era, a letto a guardare il
soffitto. Entrarono un paio di infermiere a cambiargli la flebo dei
liquidi e a misurargli la pressione; Rotwang le lasciò fare
senza
opporsi. Fu grato del fatto che nessuna di loro si aspettava che
parlasse; l’infermiere che aveva spaventato, stando al
dottore, non
si fece rivedere. Forse era solo cambiato il turno.
Portia
si affacciò sulla porta dopo qualche ora. Aveva
l’aria estenuata e
stanca, gli occhi gonfi di pianto e di sonno; era struccata, e i suoi
capelli le ricadevano sulle spalle in una treccia spettinata e un
po’
sfatta che aveva l’aria d’esser stata fatta varie
ore prima.
Rimase a guardarlo per un po’.
«Ehi»
disse a mo’ di saluto. «Mi dispiace di averti fatto
agitare, ieri
sera.»
Che
Portia si scusasse per qualcosa che aveva fatto lui era piuttosto
inusuale, ma Rotwang non aveva neppure intenzione di scusarsi per
aver perso la calma in quella situazione, perciò ritenne che
fossero
pari e non fece commenti.
«Come
stai, tesoro?» domandò Portia chiudendosi la porta
alle spalle.
Andò a posare un paio di buste della spesa ai piedi del
letto.
«Così»
mormorò Rotwang. Aveva scoperto che, parlando molto piano,
quasi
senza muovere le corde vocali, la sua gola veniva risparmiata almeno
in parte dalle fitte che la dilaniavano. «A quanto pare non
ho perso
le mani, comunque.»
«Ti
fidi più di un dottorino che di me, dunque»
constatò Portia
sorridendo appena, e Rotwang sorrise a sua volta. A quanto pareva
anche a lei aveva suscitato la medesima impressione che a lui.
«Ah,
sei un medico? Non lo sapevo.»
Portia
sedette al suo fianco sulla sedia predisposta per i visitatori.
Indossava un’orrenda tuta fuori moda che Rotwang non credeva
di
averle visto addosso neppure nei giorni più bui della
Guyana. Doveva
essere propria sconvolta. «Scusami se non c’ero,
prima. Ho
approfittato del fatto che ti avevano sedato per andare a dormire un
po’ anch’io.»
Di
questo Rotwang proprio non vedeva motivo di scusarsi.
«Credevo fossi
al lavoro.»
Portia
strinse le labbra. S’infilò le mani nelle tasche
della felpa e
incassò il capo tra le spalle, come se si trovasse a disagio
a
guardarlo. «Giusto. A questo proposito, senti… se
ti dico qualcosa
sul lavoro, mi prometti che non dai di matto, vero? Non voglio che le
infermiere mi sgridino di nuovo.»
Rotwang
si sarebbe altrove profondamente risentito per la sua scarsa fiducia,
ma doveva ammettere che non aveva tutti i torti, dopo la sua crisi di
nervi. Le fece cenno di parlare. Portia temporeggiò per un
po’
come se dovesse cercare le parole per quello che aveva da dire.
«Ascolta…
il Laboratorio resterà chiuso per un po’. Ho
già parlato con
Dale, non si può fare altrimenti. Tu sei fuori gioco, e io e
Ami da
sole…»
«Sole?»
«Valérien
si è licenziato stamani» disse Portia tutto
d’un fiato. «Ha dato
le dimissioni con effetto immediato, senza preavviso. Assumo io la
direzione, ma dobbiamo assumere almeno un nuovo biologo. Tu sei in
malattia, io e Ami ne approfittiamo per smaltire un po’ di
ferie
arretrate.»
C’era
un bel po’ di informazioni da processare tutte in una volta.
«Lestournelle… dimesso?»
C’era
un sincero dolore negli occhi di Portia: nonostante tutto non era mai
riuscita a odiarlo del tutto, forse perché di lei
Lestournelle aveva
sempre avuto troppo rispetto e assieme troppa venerazione, o forse
perché nella follia rabbiosa che lo aveva posseduto dopo la
perdita
di M2 ella aveva sempre riconosciuto le tracce di un dolore atroce
per il quale era riuscita a provar compassione.
«Credo
che questa sia stata l’ultima goccia per lui, Richard. Lo sai
che
era da anni sull’orlo di una crisi di nervi… beh,
mi sa che è
arrivata. Credo che, dopo tutti questi anni… fosse ancora
convinto
che M2 fosse nascosta nella Villa. Che l’aveste rubata voi
due.»
«Già»
mormorò Rotwang distogliendo gli occhi da lei, con una fitta
acuta
di dolore che con la sua gola non aveva niente a che fare.
Portia
rimase in silenzio per un po’, girando gli occhi ovunque
nella
stanza per avere una scusa per non guardare direttamente verso di
lui. Doveva fargli una domanda cui non osava dar voce, Rotwang glielo
leggeva nella rigidità del suo collo e nel modo in cui
esitava. Se
le avesse chiesto che cosa avesse da chiedergli, egli le avrebbe
risparmiato tutto quell’imbarazzo, ma non provava alcun
desiderio
di sentire quella domanda.
«Stanotte
sono andata in ufficio. Mi servivano i tuoi contatti
d’emergenza
per poter avvertire i tuoi fratelli.» Portia fece una pausa
nell’attesa, o forse nella speranza, ch’egli
parlasse per
toglierla dall’imbarazzo, ma Rotwang non aveva la minima
intenzione
di andarle incontro. «Richard, non ho potuto fare a meno di
notare…
che c’era ancora Emir.»
«Non
li aggiorno da anni» rispose Rotwang con sufficienza.
«È questo
che ti angustia tanto?» Si pentì
all’istante d’aver parlato
così tanto, fitte di dolore si allargarono come crepe nella
sua
gola.
«Richard»
insisté Portia. Aveva gli occhi pieni di lacrime.
«Abel si è
trasferito a Monaco quest’estate. Me l’ha detto
Günther. Il suo
indirizzo era aggiornato.»
Quegli
stupidi dei suoi fratelli, a quanto pareva, erano ancora incapaci di
farsi i fatti propri esattamente come quando erano bambini.
«Che
cosa vuoi sentirmi dire?» chiese Rotwang rabbiosamente.
S’era
dimenticato di dover parlare piano, lame incandescenti perforarono la
sua gola irritata; il dolore fu tale ch’ebbe un fiotto di
nausea e
un accesso di tosse più doloroso ancora delle parole.
Portia
balzò in piedi. «Niente, Richard, niente.
È solo che ti sei sempre
rifiutato di parlare di…»
«Allora
perché fai insinuazioni stupide?»
«Perché
ti sei buttato nel fuoco per lui!»
La
veemenza della sua voce fu tale che Rotwang ammutolì di
colpo.
Portia stessa sembrava non riuscire a credere a quello che aveva
detto. Rimasero entrambi a osservarsi in silenzio per un po’
mentre
l’eco delle sue parole, e la portata del loro significato, si
spegneva tra di loro.
«Non
c’era ancora fuoco al piano terra quando sono
entrato» disse
Rotwang finalmente. La voce gli raspò in gola.
«Quantomeno, questo
era quello che credevo. Nemmeno io sono così
stupido.»
«Io
non penso affatto che tu sia stupido» mormorò
Portia. Tornò ad
avvicinarsi a lui, cautamente, come a voler sperimentare, con la sola
distanza dei loro corpi, se la loro amicizia fosse sopravvissuta a
quello che gli aveva detto, e gli passò le dita fresche tra
i
capelli annodati. Rotwang non si ritrasse. «Lo sai che cosa
penso.
Che lo ami ancora.»
«E
io penso che tu debba farti i cazzi tuoi.»
Portia
soffocò una risata. Aveva gli occhi pieni di lacrime.
«Sì… può
darsi.»
Rotwang
si sforzò di emettere quanta meno aria gli era possibile.
Per fare
ciò, e per farsi contemporaneamente comprendere, era
costretto a
parlare molto lentamente, guardandola fisso negli occhi,
così che
Portia potesse aiutarsi leggendo le sue labbra. «Nemmeno lui
si
sarebbe meritato di morire così come un topo in trappola.
Notizie da
Azzurropoli?»
«Azzurropoli?»
ripeté Portia, tutta intenta a pettinargli teneramente i
capelli con
le dita.
Rotwang
odiava ripetersi anche quando questo non gli costava dolore. In quel
particolare momento, tuttavia, lo odiava con tutte le sue viscere
bruciate dal fumo. «Il Grandi Ustionati! Me l’hai
detto tu.»
«Oh!
Che stupida» esclamò Portia alzandosi di scatto.
Andò a recuperare
le buste della spesa che aveva portato con sé e prese a
frugarci
dentro. «Scusami, ero sovrappensiero. Comunque… mi
dispiace,
Richard, ma danno informazioni solo ai parenti. Lo sai come funziona,
no?»
Era
stato sciocco anche solo chiedere: era ovvio che la risposta sarebbe
stata quella, in fin dei conti. Portia prese ad aggirarsi per la
stanza sistemando ovunque bottigliette d’acqua, pacchetti di
fazzoletti e confezioni di salviettine umidificate. Rotwang la
osservò in silenzio per un po’.
«Meno
male che sei arrivata tu. Non mi avrebbero dato da bere,
altrimenti.»
«Non
ti fa più male la gola?» lo rimbeccò
Portia aprendo l’armadio
nell’angolo della stanza. «Li hanno messi qui i
tuoi vestiti? Ah,
eccoli… prendo le chiavi del tuo appartamento per portarti
qualcosa, va bene? La biancheria, un pigiama… il medico ha
detto
che forse da domani puoi iniziare a bere liquidi tiepidi. Ti viene in
mente altro che potrebbe servirti da casa tua?»
«Una
Rauchbier»
rispose Rotwang.
«Fai
meno lo spiritoso. Guarda che al corso per la sicurezza sul lavoro ce
lo avevano detto di non toccare le maniglie di un edificio in fiamme.
Pensi d’esser tanto furbo?»
«Grazie,
Portia» la interruppe Rotwang a voce alta, incurante della
fitta
acuta di dolore che gli perforò la gola quando
parlò. Per dirle
quello che doveva, per farsi perdonare della preoccupazione che le
aveva dato, poteva bene sopportare un po’ di dolore. Portia
s’immobilizzò alle sue parole. «Non sei
tenuta a fare tutto
questo per me.»
Quando
si voltò verso di lui, Portia aveva il naso arrossato e gli
occhi di
nuovo pieni di lacrime.
«Oh,
smettila» disse. La sua voce suonava nasale e spezzata,
stranamente
commossa. Attraversò la stanza per chinarsi su di lui.
Posò la
fronte contro la sua, con tanta irruenza che per un attimo egli ebbe
timore che volesse tirargli una testata; invece lo abbracciò
soltanto, ma goffamente e quasi con violenza. Respirò
lentamente
contro la sua fronte, e Rotwang si sentì le guance umide di
lacrime
che non erano le sue. Avrebbe voluto abbracciarla a sua volta, ma
ancora non osava muovere le braccia con quelle grosse appendici
gonfie e doloranti ch’erano le sue mani, e rimase immobile
sotto il
suo abbraccio.
«Ehi…»
«Se
avessi avuto un fratello, avrei voluto che fossi tu» disse
Portia
senza ascoltarlo. Rotwang tacque senza più alcuna pretesa di
comprenderla. «Non farlo mai più. Ho avuto troppa
paura di
perderti. Ti prego, promettimi che non farai mai più una
cosa del
genere. Che starai molto, molto calmo, qualsiasi cosa accada, e che
non cercherai di fare sciocchezze per nessun motivo al mondo.»
«Dubito
che ci saranno altre ville in fiamme…»
provò a dire Rotwang, ma
Portia premette più forte la fronte contro la sua,
guardandolo negli
occhi, e ripeté: «Promettimelo.»
«Prometto»
concesse Rotwang, e solo in quel momento Portia si decise ad
allontanarsi da lui e a lasciarlo andare. Si asciugò gli
occhi con
le maniche della felpa. Non era mai stata emozionale così:
Rotwang
non l’aveva mai vista in quelle condizioni, ma non gli veniva
in
mente niente da dire per consolarla, forse perché non
comprendeva la
ragione di tanta commozione. Si era spaventata, d’accordo; ma
in
fin dei conti non era successo poi niente di grave. Dal pronto
soccorso dovevano averle detto molto presto, quella notte, che lui
non era in pericolo di vita. Neppure il giorno della morte di M1
l’aveva vista piangere.
«Se
non ti serve altro, allora, vado a casa tua a prendere un po’
di
roba e te la porto domani» riprese Portia, con
l’evidente intento
di mascherare quell’attimo di commozione e di tornare a
parlare
delle cose di tutti i giorni. «Stanotte verrà mio
marito a farti
compagnia, va bene?»
Rotwang
scosse il capo con decisione. «Non voglio la veglia notturna.
Non
sono morto.»
«Richard…»
Rotwang
non intendeva sprecare più voce di quanta fosse necessaria
per
respingere quell’orrenda idea. Si limitò ad
aggrottare la fronte,
scuotendo la testa, e Portia rimase a soppesarlo con lo sguardo per
un po’, palesemente divisa tra due opposti partiti.
«Sei sicuro?»
«Vai»
insisté Rotwang.
«Allora,
vado» concluse Portia poco convinta. «Ti
farò sapere domani a che
ora arrivano i tuoi fratelli. Andiamo a prenderli io e Chris, ma
arriveranno tutti a orari diversi, perciò può
darsi che ci toccherà
passare il pomeriggio in aeroporto per aspettarli tutti… Per
qualsiasi cosa tu puoi farmi chiamare, va bene? Ho lasciato il mio
numero per le emergenze al personale.»
Rotwang
annuì soltanto. Quella conversazione l’aveva
estenuato, ma cercò
ugualmente qualcosa di leggero da dire per allentare la tensione.
«Portami da leggere, magari.»
Portia
gli gettò un bacio sulla punta delle dita a mo’ di
saluto. Solo
mentre apriva la porta Rotwang si ricordò di qualcosa che
non le
aveva ancora detto: cercò il modo più breve e
meno doloroso
possibile per dirlo ora. «Ah. Congratulazioni,
direttrice.»
Portia
non si voltò verso di lui stavolta. La sua mano
esitò sulla
maniglia, un po’ più rigida dell’istante
precedente. «Già…
grazie, Richard. Non avrei voluto che andasse così,
però.»
«È
quello che abbiamo» mormorò Rotwang. «Te
lo meriti.»
«Grazie,
Richard» disse Portia. «Ora riposati,
però. Scusami per tutto. Ti
voglio tanto bene.»
Le
ore si fecero lunghe come ombre col progredire del pomeriggio. Ora
che l’anestesia era stata del tutto smaltita, dormire era
impossibile: le sue mani lo tormentavano più ancora della
gola. Non
poteva neppure chiamar qualcuno, perché per suonare il
campanello
avrebbe bisogno delle sue dita, ma le sue mani erano ridotte a masse
goffe e inamovibili che non potevano servirgli a nulla. Dovette
aspettare che un’infermiera si affacciasse spontaneamente,
verso il
tardo pomeriggio, a cambiargli la sacca del catetere. Avrebbe voluto
aggredirla, invece si sforzò di restare calmo e ricordare a
se
stesso che non era colpa sua.
«Mi
hanno prescritto niente per il dolore?»
s’informò senza mezzi
termini.
«Morfina
al bisogno» rispose spiccia l’infermiera
soppesandolo con sguardo
esperto. «Vuole favorire?»
Per
fortuna, a quanto pareva, almeno per il turno di notte non gli era
toccata una di quelle infermiere moderne che avevano paura a
somministrare qualche antidolorifico come si deve.
«Dio,
grazie» rispose Rotwang gettandosi indietro sui cuscini.
Si
svegliò da un sonno impiastricciato e un po’
confuso ch’era
ancora notte: la sola luce nella stanza era quella che filtrava dal
corridoio.
Si
era svegliato con un senso d’angoscia e la sensazione
persistente
che nell’oscurità ci fosse qualcuno che
l’osservava. Eppure
paranoico non era mai stato, si disse; forse erano gli effetti della
morfina; quando appuntò gli occhi nel buio, percorrendo con
lo
sguardo la camera, non gli riuscì d’individuare
nessuno.
«Chris»
chiamò incerto; la gola gli doleva molto meno, ora, di certo
per la
morfina, e si sbilanciò a parlare ancora. «Avevo
detto a Portia che
non…»
Nel
cono d’ombra della porta emerse una figura, si
delineò contro la
luce del corridoio, e una voce nota, che però sulle prime
egli non
riuscì a distinguere, fu: «Non sono
Chris.»
Il
suo primo pensiero, per la verità piuttosto stupido, fu: Come
hanno fatto i miei fratelli a essere già qui?
Ma quasi simultaneamente la sua mente formulò anche una
spaventosa
realizzazione opposta, ed egli, improvvisamente sveglio e lucido nel
buio, pensò: Nessuno dei
miei fratelli può essere già qui.
Il
terzo pensiero, che in qualche modo fu più che altro una
razionalizzazione dei precedenti, fu che aveva pensato che potesse
essere uno dei suoi fratelli perché la voce che aveva
sentito non
aveva un accento giapponese; ma quell’accento non era neppure
tedesco, si rese conto all’improvviso. Era francese.
Cercò
di tirarsi a sedere sul letto, affannosamente, con la limitata
mobilità che gli consentivano i suoi gomiti, ed
esclamò: «Che
cazzo ci fai qui?»
Nello
spicchio di luce che filtrava attraverso la porta, ora che i suoi
occhi si erano abituati alla semioscurità, Lestournelle
appariva
pallido come non l’aveva visto mai. I suoi occhi
s’erano fatti
enormi, cerchiati da orbite scure, ceree; sembrava fuori di
sé, e
forse lo era, chissà.
Lestournelle
si chinò sul suo letto di scatto. Rotwang si ritrasse da lui
quanto
più gli era possibile, ritraendosi verso la finestra;
avrebbe voluto
gridare, ma la sua gola irritata non aveva voce a sufficienza; e, in
ogni caso, in qualche modo, egli sapeva che Lestournelle non gli
avrebbe mai fatto del male. Era troppo debole e meschino per farlo,
persino impazzito com’era.
«Sei
entrato nella Villa per cercare Mew?»
Il
suo nome gli aprì una piaga in mezzo al petto. Fu grato di
non poter
gridare, grato che fosse troppo buio perché Lestournelle
vedesse i
suoi occhi arrossati di pianto, perché il suo dolore era
tale che
nessuno doveva sentirlo né vederlo. Non pensava mai a lei se
poteva
evitarlo, perché il suo ricordo gli faceva troppo male e la
sua
propria debolezza lo faceva infuriare: Mew era un ricordo sepolto in
mezzo ai suoi ricordi, ch’egli reprimeva con forza ogni volta
che
minacciava di affiorare, perché non poteva permettere a se
stesso di
tollerare la propria sofferenza e il ricordo della propria debolezza,
perché il suo rimorso era tale da dilacerargli quasi il
petto. Ma
tutto questo a Lestournelle non si poteva dire, egli neppure poteva
permettersi di lasciarglielo intuire, e ritraendosi di più
da lui
sul letto Rotwang ringhiò: «Ancora questa
storia…? Ti brucia
proprio tanto che Fuji me lo scopassi io anziché tu,
eh?»
La
sua provocazione non giunse a segno. Lestournelle neppure
cambiò
espressione: spingendosi ulteriormente contro di lui, cogli occhi
spalancati e infissi nei suoi, Lestournelle proseguì come se
non
l’avesse udito affatto: «L’hai vista la
luce azzurra?»
Rotwang
avrebbe voluto poterlo spingere via da sé, ma per far
ciò gli
sarebbero occorse mani che non fossero ustionate e avvolte in strati
di bende. Così non era, e mormorò:
«Allucinazioni, Lestournelle?»
«La
luce azzurra!» esclamò Lestournelle
spasmodicamente. I suoi occhi
erano come spiritati. «Ne parla tutta l’Isola!
Hanno visto un
lampo di luce azzurra fuoriuscire dalla Villa…»
«Beh,
sorpresa, Lestournelle» commentò Rotwang
sorridendo appena. «Non è
che tutta l’Isola sia venuta a parlarne proprio qui nella mia
camera d’ospedale, eh?»
Qualcosa
vacillò negli occhi di Lestournelle, che non si
distoglievano dai
suoi. «Tu non l’hai vista?»
«Non
so di cosa tu stia parlando» ribadì Rotwang.
«Ora ti spiacerebbe
toglierti dal mio letto prima che ti faccia arrestare,
sì?»
Lestournelle
parve rendersi conto solo in quel momento d’essere
praticamente
seduto sul suo letto, contro il suo petto. Si ritrasse da lui di
scatto, allontanandosi dal letto, e prese grandi boccate
d’aria
angosciata, in piedi, immobile di fronte a lui.
«Non
l’hanno ancora trovata» disse.
Rotwang
scosse il capo, stavolta quasi con pietà. «Che
cosa?»
«Lei»
sussurrò Lestournelle. «I pompieri hanno contenuto
l’incendio,
ora stanno cercando di salvare la struttura… la stanno
cercando,
Rotwang. Se c’è, la troveranno. Dimmi la
verità, Rotwang, ti
prego. È morta bruciata?»
Rivide
Mew come l’aveva vista per l’ultima volta, riversa
sul letto
pieno di sangue, cogli occhi spalancati e fissi, immoti, e il
cucciolo immobile e livido senz’aria di fianco a lei. Il
ricordo fu
tanto intenso e violento che per un attimo temette che avrebbe
vomitato; la bocca gli si riempì di un sapore acre.
Non
avrebbe voluto rispondere, ma per la prima volta in vita sua
Lestournelle suscitò in lui una pietà reale: non
voleva riaverla.
Voleva solo sapere se era morta di una morte orribile, e a quella
parte di Lestournelle che aveva amato M2 di un amore reale, almeno
una volta, Rotwang sentì di dovere almeno una risposta,
nell’unica
forma in cui poteva dargliela.
«Certo
che non è morta bruciata, Lestournelle. Solo tu in tutto il
mondo
sei ancora convinto che ce l’avessimo noi due al posto di
qualche
signore della guerra centrafricano.»
Le
labbra di Lestournelle tremarono. Stava sorridendo, ma di un sorriso
assente che non si estendeva ai suoi occhi. Si morse le labbra.
«Lo
proteggi ancora» disse. Anche la sua voce tremava.
«Persino ora
che… persino dopo che vi siete lasciati, che hai lasciato la
Villa
con le valigie in mano, tu l’hai sempre protetto. Ne
è valsa la
pena?»
«No»
rispose Rotwang, con in petto una fitta acuta che avrebbe voluto non
provare. «Ma questo non è un tuo problema.
Giusto?»
Lestournelle
rimase immobile nel buio a occhi sgranati. Sembrava posseduto da uno
spirito. Le sue labbra si muovevano incessantemente, mormoravano
senza posa nel buio parole senza scopo né senso; per quanto
si
sforzasse, Rotwang non riuscì a distinguerne nessuna. Suo
malgrado,
si sentì preoccupato.
«Lestournelle…»
Lentamente,
senza distogliere neppure per un istante gli occhi dai suoi,
Lestournelle si ritrasse da lui e lasciò la stanza
camminando
all’indietro, con una mano sulla fronte, mormorando ancora le
sue
domande senza risposta. Rotwang rimase da solo.
Tornò
a distendersi sui cuscini senza distogliere gli occhi dalla porta,
con la convinzione inspiegabile eppure incrollabile che Lestournelle
non sarebbe tornato, di certo per quella notte e forse mai; che la
sua mente già fragile era ormai sperduta in un luogo remoto,
irraggiungibile, e che nessuna parola sarebbe più stata in
grado di
raggiungerlo. Avrebbe quasi potuto credere d’esserselo
immaginato,
che fosse stato tutto uno strano sogno inutile indotto dalla morfina;
chissà cos’era quella luce azzurra,
però. Per un attimo solo
concesse alla propria mente di soffermarsi su quel pensiero,
perché
l’azzurro, per lui, non era che il colore degli occhi di Mew;
ma la
tentazione d’illudersi passò, o forse fu lui a
cacciarla,
rabbiosamente, reprimendo il desiderio di crederla viva così
come
aveva represso la sua rabbia e la sua disperazione per tutto quel
tempo. Mew era morta insieme al cucciolo osceno che avrebbe dovuto
partorire, li aveva visti lui: non c’era altro da dire. Ma
poi,
proprio quand’era quasi sul punto di iniziare a credere che
davvero
Lestournelle non fosse stato che un’allucinazione prodotta
dal
dolore e dalla morfina, un’infermiera fece capolino e venne
di
nuovo a controllargli il catetere.
«Ha
visto suo fratello, dottore?» gli chiese in confidenza mentre
si
affaccendava intorno al letto. Rotwang la guardò interdetto.
«Ma
come… ha dormito per tutto il tempo che è stato
qui? Il
caporeparto aveva dato il permesso di far entrare per lei anche di
notte, sapendo che i suoi parenti vengono tutti dall’estero.
L’abbiamo riconosciuto dall’accento, sa»
spiegò con un certo
orgoglio. Il che, in effetti, spiegava davvero molte cose: per quegli
isolani, qualunque accento poco più occidentale
dell’Altopiano Blu
era tutto indifferentemente straniero.
Rotwang
la scrutò per un po’, profondamente divertito
dall’ironia della
situazione, indeciso se dirle la verità oppure no.
Quantomeno ora
era certo che non si fosse trattato di un sogno.
«Non
si preoccupi, ero sveglio» disse infine. «Siete
stati molto
gentili. Grazie.»
Quando
si svegliò, la mattina seguente – e che fosse
mattina glielo
diceva la rinnovata pienezza della luce – di fianco al suo
letto
c’era un signore anziano che leggeva il giornale.
Per
un po’ Rotwang non fece niente. Non aprì neppure
gli occhi del
tutto. A quanto pareva la sua stanza era divenuta un luogo di svago e
di ritrovo comune per tutta l’Isola, e gli infermieri,
evidentemente, erano palesemente in accordo con quella politica.
Dal
momento che, altrettanto evidentemente, non c’era niente che
potesse fare per opporsi a quella tendenza, e che quantomeno
così
gli veniva risparmiata un bel po’ di noia, Rotwang
aprì
ostentatamente gli occhi e disse: «Un volontario
dell’ospedale,
immagino.» Conservava il vago ricordo di una delle figlie di
Portia
– non ricordava mai quale – che gli raccontava di
un’associazione
di volontari che teneva compagnia ai degenti presso
l’ospedale;
erano perlopiù studenti, ma era certo che ci fosse, tra
loro, anche
qualche anziano pensionato che occupava così il proprio
tempo. Gli
pareva la spiegazione più plausibile.
Il
vecchio fu colto alla sprovvista. Si affrettò a ripiegare il
giornale, schiarendosi la gola con un colpo di tosse, e si
alzò
brevemente in piedi in segno di rispetto. Aveva un volto composto e
dignitoso ma stanco, provato, e si sforzò di riprendersi.
«Gran
Dio, mi scusi… mi ero distratto un momento. Lei è
il dottor
Rotwang, presumo? Il dottore del Laboratorio.»
«Immagino
che lei questo lo sappia già» rispose Rotwang
soppesandolo con lo
sguardo. c’era qualcosa di quel volontario che non lo
convinceva
del tutto, eppure non riusciva a decidere di che cosa si trattasse:
si sforzò di ricordare dove lo avesse già visto,
mentre cercava
qualcosa da chiedergli per indagare chi fosse. Per fortuna quel
giorno, forse per la morfina o perché ormai erano passate
più di
ventiquattr’ore, la gola gli faceva molto meno male.
«A cosa devo
il piacere?»
«Mi
dispiace disturbarla. È solo che avevo piacere di conoscerla
e
scambiare qualche parola con lei.» Il vecchio
lisciò le pagine del
giornale con gesti un po’ meccanici, nervosi. Era stranamente
agitato, troppo coinvolto per essere un volontario
dell’ospedale, e
Rotwang lo osservò con preoccupazione. «Sul
giornale c’è scritto
che è entrato nella Villa in fiamme. Si è
comportato da eroe.»
Non
aveva mai pensato che quella storia sarebbe finita sul giornale. Non
che avesse pensato affatto. Rotwang si tirò su un
po’ a fatica sul
letto, issandosi contro i cuscini a forza di gomiti, e
accennò col
capo al giornale. L’altro glielo porse obbedientemente: la
foto
della Villa che bruciava campeggiava sulla prima pagina del giornale
locale. Non volle neppure leggere il titolo: lo spinse via con le
mani bendate. «I giornalisti non sanno mai che cosa scrivere.
Bisogna perdonarli, comunque. Bisogna pure che mangino anche
loro.»
«Sì,
ma è vero» insisté l’uomo.
Rotwang
gli scoccò un’occhiata seccata. «Diciamo
che non mi sono bruciato
cucinando. È contento?»
L’uomo
rimase in silenzio a considerare le sue parole per un po’.
«Mi
scusi» disse infine. «Lei è il dottore
tedesco che abitava con mio
figlio, no? Lo dicono tutti…»
D’un
tratto fu come assistere al dilacerarsi di un velo. Rotwang
levò gli
occhi su di lui come se lo vedesse per la prima volta: ecco
dov’era
che l’aveva già visto, ed ecco perché
non riusciva a ricordarlo.
Aveva pensato di averlo visto da qualche parte sull’Isola
Cannella,
ma la sua era la faccia che campeggiava sul giornale,
perlopiù in
foto di repertorio, di fianco a ogni articolo che menzionasse il
signor Fuji del Centro Pokémon Volontario di Lavandonia; era
negli
occhi di Emir…
Esser
colto di sorpresa era una sensazione che non gli piaceva per nulla.
Rotwang si raddrizzò maggiormente sul letto, scrutando fisso
quell’uomo di cui aveva fino ad allora solo sentito parlare,
e
disse lentamente, con più stizza di quanta ne occorresse in
realtà:
«Presumo che sia venuto a farmi la morale perché
mi scopavo suo
figlio.»
Il
signor Fuji ebbe un sorriso piuttosto simile a una smorfia.
«Le
infermiere mi avevano detto che è piuttosto aggressivo.
Però devo
deluderla: io non mi sconvolgo per così poco. La prego,
continui
pure.»
«Quindi
immagino che non sia venuto a farmi la morale» riprese
Rotwang con
circospezione. «Posso sapere allora a cosa devo
l’onore?»
Il
signor Fuji lo scrutava interamente come se cercasse di far
combaciare la sua immagine con quella che di lui si era costruita
nella propria mente nel corso del tempo: Rotwang non vedeva quali
somiglianze potesse trovare con quell’immagine, ora che lo
vedeva
in un letto d’ospedale con le mani bendate e la gola
ustionata dal
fumo. «È stato Emir a darle quest’idea
di me, non è vero? Quella
di un vecchio che passa i suoi ultimi giorni a far la morale a voi
giovani.»
«Oh,
mi perdoni» rispose Rotwang. Ricordava ancora troppo bene il
dolore
di Emir quel giorno in cui era tornato a casa da Lavandonia, dopo che
la polizia aveva perquisito la casa di suo padre, e ogni volta che
sui giornali compariva qualche lettera di protesta, contro o a favore
di questa o quella ideologia. «Devo essermi perso la sua
lettera sui
giornali in cui si sforzava di dar di sé
un’immagine diversa.»
Questa
volta il signor Fuji rimase interdetto e non seppe che dire.
Neppure
Rotwang era così perfido da infierire su un povero vecchio.
Dopo
quelle schermaglie iniziali, e aver affermato la propria
superiorità,
poteva ritenersi soddisfatto, e decise di lasciar perdere. Si
sforzò
di mostrarsi ragionevole.
«Ascolti…
non è che non apprezzi la sua compagnia, ma dubito che lei
possa
apprezzare la mia. Se non ha nulla di particolare da dirmi, sta
sprecando il suo tempo. In ogni caso, se è questo che voleva
sapere,
io non mi vedo con suo figlio da due anni. Non avrebbe fatto meglio a
restare ad Azzurropoli?»
Il
signor Fuji sbatté le palpebre un paio di volte.
«Azzurropoli?»
«Voglio
dire» specificò Rotwang gentilmente. «Al
Grandi Ustionati.»
«Mi
scusi» disse il signor Fuji, piuttosto imbarazzato.
«Temo di non
seguirla.»
Rotwang
aggrottò la fronte. «È lì
che hanno ricoverato Emir, no?»
«Ma…
dottore» sussurrò il signor Fuji.
D’improvviso le sue labbra
tremavano. «Emir è al piano di sotto. È
qui. All’obitorio.»
Si
rese conto d’aver gridato solo quando le braccia del signor
Fuji lo
abbrancarono per le spalle e lo trattennero contro i cuscini e la sua
voce supplicante, rotta dall’emozione, ripeté
contro il suo
orecchio parole che solo dopo un po’ egli fu in grado di
distinguere. «… mi dispiace, la prego, non
gridi… non sapevo che
lei non sapesse, ma ora la prego, la prego, si
calmi…»
Aveva
guardato ovunque gli indicassero, cieco e fiducioso come un bambino
troppo stupido per capire, ostinatamente chiudendo gli occhi per non
vedere la realtà che lo circondava da ogni parte. Non aveva
visto
perché non aveva voluto vedere; e ora gli indizi e i segnali
che lo
avevano attorniato da ogni parte gli balzavano agli occhi e gli
tornavano alla memoria deridendolo per la sua cecità
– Portia gli
aveva detto che Emir era ad Azzurropoli ed egli le aveva creduto
senza chiedere perché non
voleva sapere.
Aveva
ignorato ogni sua stranezza dopo quel momento, aveva finto di non
vedere le sue lacrime, le sue contraddizioni, la sua inspiegabile
agitazione, perché se le avesse notate avrebbe dovuto
chiedergliene
il motivo; e lui non aveva voluto conoscere quel motivo. Promettimi
che starai molto, molto calmo, qualunque cosa accada,
gli aveva chiesto Portia piangendo, e lui aveva promesso tutto quello
che lei voleva senza chiedere, perché in fondo sapeva che
lei stava
mentendo…
«La
prego, non mi faccia cacciare.» Il signor Fuji lo stava
ancora
supplicando, ma Rotwang lo udiva a malapena. «Ho ancora delle
cose
da chiederle…»
Rotwang
si abbandonò sul cuscino senza lottare più. Si
sentiva bruciare le
lacrime agli angoli degli occhi, ma non aveva modo di asciugarle con
le mani, e forse neppure gli importava. Portia gli aveva mentito;
Emir era morto, forse era già morto quando lui stupidamente
era
entrato nella Villa, e di salvarlo egli non aveva avuto speranza mai;
Portia gli aveva mentito, eppure egli non riusciva a sentir montare,
dentro di sé, la rabbia che avrebbe dovuto provare verso di
lei. Gli
aveva mentito al momento del suo primo risveglio, quando ancora era
confuso e spaventato in preda all’anestesia e al dolore, e
lei
ancora in preda al terrore di perderlo; e poi era rimasta prigioniera
della sua stessa bugia e non aveva saputo come tirarsene fuori senza
farlo agitare.
Girò
il capo sui cuscini per asciugarsi gli occhi contro la spalla e non
dover più guardare il vecchio che lo scrutava fissamente,
come
aspettandosi da un momento all’altro ch’egli si
rimettesse a
gridare.
«Non…
non glielo avevano detto?»
La
domanda era talmente stupida che Rotwang non rispose. Rimase
ostinatamente immobile sui cuscini, dandogli le spalle, e chiese:
«Perché è venuto da me?»
«Volevo
parlare con lei» disse il signor Fuji.
«Suo
figlio è morto» disse Rotwang duramente. La
brutalità delle sue
parole fu tale che Fuji sobbalzò. «Che cosa ci fa
lei qui?»
«Volevo
parlare con lei» ripeté per l’ennesima
volta il signor Fuji. «Lei
ha vissuto con mio figlio, per un po’.»
«Questo
lo abbiamo già appurato» mormorò
Rotwang. «Gliel’ho già detto.
Non ci vivevo più.»
«Lei
ha cercato di salvare mio figlio. Si è gettato nel fuoco per
lui.»
Gli
scappò una risata amara. «Non mi sono gettato
proprio da nessuna
parte. Sono entrato dalla porta come tutti.»
«Dottore»
insisté il signor Fuji. «Perché ha
rischiato così tanto per
cercare di salvare mio figlio?»
Rotwang
si strinse nelle spalle senza saper che dire. Qualsiasi risposta gli
venisse in mente suonava troppo melodrammatica da pronunciare. Disse
la stessa cosa che aveva detto a Portia: «Perché
neppure lui
meritava di morire bruciato.»
Il
signor Fuji parve non trovare nulla da replicare a
quell’osservazione. Riprese il giornale e lo
spiegò sul letto,
Rotwang lo sentì dal rumore delle pagine che frusciavano.
«Sono
stato in banca, ieri pomeriggio.»
«Interessante»
commentò Rotwang, che non vedeva
l’utilità di quell’affermazione.
Fuji
proseguì come se non l’avesse sentito.
«A cercare di sistemare un
po’ i suoi conti, sa. Emir a queste cose non sapeva star
dietro.»
«Non
era così incapace» obiettò Rotwang, ma
Fuji non lo sentì.
«Sono
stati gentili in banca, sa? Mi hanno dato gli ultimi estratti conto e
tutto il resto.»
Interessante,
avrebbe
voluto ripetere
Rotwang, ma non ritenne necessario sprecare voce per dire qualcosa
che il signor Fuji probabilmente non avrebbe comunque ascoltato:
sembrava parlare per se stesso piuttosto che per lui, ed egli decise
di lasciarlo fare. S’ingegnò a mettersi seduto di
nuovo,
puntellandosi sui gomiti, e tornò a guardare verso di lui,
aspettando di capire dov’era che l’altro intendeva
andare a
parare.
«Ho
notato che ha effettuato un bonifico sul conto di mio figlio quasi
ogni mese negli ultimi due anni.» La sua voce
suonò quasi timida.
«Come mai, se vi eravate lasciati?»
L’uomo
che sedeva di fianco al suo letto, con le pagine del giornale
nervosamente strette tra le mani, era un povero vecchio che aveva
appena perduto suo figlio e che non aveva più avuto sue
notizie
negli ultimi quattro anni. Durante quegli anni, Emir era stato per
quell’uomo un estraneo molto più di quanto lo
fosse stato per lui.
«Non
si meritava neanche di morire di fame» rispose Rotwang.
«Pensava
che suo figlio potesse vivere senza stipendio per più di
quattro
anni, senza di me?»
Gli
occhi del signor Fuji tornarono a posarsi sul giornale aperto che
Rotwang si ostinava a non guardare. Sembrava cercarvi qualcosa che
forse quell’articolo non poteva dirgli.
«Perché
ha continuato a prendersi cura di lui?»
Chissà
perché non gli venne in mente alcuna vera risposta a quella
domanda,
forse perché la domanda era troppo sciocca per rispondere
seriamente. Gli veniva quasi da ridere. Gli tornò in mente
soltanto
una delle citazioni preferite di suo fratello, che gli ripeteva ogni
volta che gli chiedeva soldi in prestito ai tempi
dell’Università.
«Jeder
gebe, wie er es
sich in seinem Herzen vorgenommen hat, nicht verdrossen und nicht
unter Zwang*…»
Fuji
lo guardò con preoccupazione come se delirasse.
«Si sente bene?»
Rotwang
scrollò le spalle. «Niente, niente. Mio fratello
è filologo
neotestamentario a… ah, lasci stare. Ma non sta bene
rinfacciare a
un uomo le sue debolezze, sa.»
«Lei
questa la chiama una debolezza?» protestò Fuji a
mezza voce.
Gli
salivano alla mente ricordi che affioravano alla superficie della sua
coscienza come bolle nell’acqua. Rotwang sbatté le
palpebre più
volte, furiosamente, per non vederli né sentirli. Emir
era morto,
disse la sua
coscienza,
ed
egli la mise a tacere con rabbia parlando con voce più alta
della
sua. «Certo che lo è.»
Il
signor Fuji accolse la sua risposta con la dignità composta,
dignitosa, con la quale avrebbe incassato un colpo. Tornò a
tormentare il giornale, pensierosamente, e stavolta neppure
alzò gli
occhi su di lui per parlare di nuovo.
«L’ha
fatto anche per Mew?»
L’aveva
detto a voce bassissima; Rotwang non avrebbe neppure udito la sua
voce se non fosse stato così vicino, se solo il nome di Mew
non
fosse stato nella sua mente in ogni momento ed egli non lo avesse
sentito in ogni parola che altri pronunciavano, non avesse percepito
il suo ricordo persino nell’aria. La mancanza di Mew era tale
che
ogni volta gli mancava il respiro; il suo ricordo gli bruciava in
petto più del fumo, più delle ustioni. Ma alla
sua perdita che
ancora tormentava i suoi sonni Rotwang non poteva reagire che
nell’unico modo che conosceva: con la rabbia.
«Se
evita di dirlo ad alta voce mi fa un favore, sa» disse
guardando
ostinatamente lo spicchio di corridoio attraverso la porta aperta.
Nessuno badava a loro, ovviamente, ma Rotwang proseguì allo
stesso
modo. «Suo figlio non può più essere
arrestato, forse, ma io sì.»
Il
signor Fuji non l’aveva affatto detto ad alta voce. Aveva
bisbigliato il suo nome a malapena, in punta di labbra, piano tanto
che appena fosse udibile; ma era evidente che non aveva la minima
intenzione di contraddirlo, e non fece niente per obiettare o
difendersi.
«Mi
dispiace.» La sua voce suonava genuinamente mortificata.
«È solo
che avevo bisogno di sapere se lei fosse a conoscenza di… di
lei.»
Rotwang
continuò a guardare ostinatamente al di fuori della stanza.
Avrebbe
dovuto provare pietà per quel vecchio seduto al suo fianco,
disperatamente alla ricerca di qualsiasi cosa gli parlasse di suo
figlio, ma, forse perché gli ricordava certe scene omeriche,
strappalacrime, di quando studiava al ginnasio, non ne provava
nessuna.
«Che
vuol dire che lo sapevo?» chiese senza troppa buona grazia.
«Pensa
che sarei mai andato a vivere con suo figlio, che sarebbe successo
tutto quello che è successo, se non fosse stato per
lei?»
Non
era stato sempre solo per lei, in realtà. M2 era stata quasi
tutto,
ma non era stata ogni cosa, e non tutti i suoi pensieri erano sempre
stati per lei. Ma questo apparteneva solo a lui, e non era tenuto a
raccontarlo a nessuno.
«Lei
era là dentro?» chiese Fuji a bassa voce.
«Dentro la Villa,
intendo. Durante l’incendio.»
Gli
tornò in mente d’improvviso il lampo di luce
azzurra che quella
notte aveva nominato Lestournelle, ma allontanò quel
pensiero da sé,
ancora una volta. L’aveva vista morire. M2 si era assommata a
M1
nei suoi rimpianti, e ogni notte egli si ripeteva che avrebbe dovuto
salvarli entrambi. La cosa peggiore era che sapeva di aver ragione su
entrambi, anche se in modi diversi.
«No»
rispose. «È morta due anni fa.»
«Due
anni fa» ripeté Fuji. La coincidenza nella data
parve risuonare
nella sua mente. «È per questo che vi siete
lasciati?»
Rotwang
non rispose. Gli pareva che fosse già abbastanza evidente
così: il
signor Fuji attese la sua risposta per un po’, poi dovette
sembrare
evidente anche a lui. Assunse l’aria impacciata, fuori luogo,
di
chi deve fare una domanda scomoda e non sa che parole usare.
«Posso
chiederle com’è morta?»
Per
un attimo Rotwang considerò quasi di dirglielo. Dire la
verità però
avrebbe richiesto di risalire all’indietro lungo tutta la
linea di
eventi che lui stesso non conosceva nella loro interezza,
all’indietro per più di quattro anni fino alla
notte nella
giungla, fino all’unico grido di M1 sotto le sue mani prima
di
morire, e ai grandi occhi azzurri di Mew. Avrebbe dovuto dire anche
qualcosa che non aveva mai saputo: che cosa avesse attraversato la
profonda mente di Emir in quei due mesi che aveva trascorso recluso
da solo nel ventre della Villa, al termine dei quali tutto era
successo come in un incubo. Avrebbe dovuto ammettere ad alta voce la
propria cecità, e soprattutto avrebbe dovuto confessare che
quello
che Emir aveva fatto andava molto al di là, in modi
inimmaginabili,
del rapimento di un Pokémon e di un esperimento genetico.
Quell’uomo
non avrebbe mai più potuto pensare a suo figlio come aveva
fatto
fino ad allora; e Rotwang sapeva quanto doloroso fosse quello che lui
conosceva.
Dire
tutto ciò sarebbe stato troppo intenso e troppo complicato,
e
Rotwang non solo non se ne sentiva le forze, ma neppure si sentiva in
diritto di cancellare tutto ciò che quell’uomo
sapeva di suo
figlio. Cercò le parole con accortezza.
«Negli
ultimi tempi, da solo nella Villa, Emir non era più tanto in
sé»
disse lentamente, indagando sul suo volto, a misura che parlava, gli
effetti che le sue parole scaturivano; ma il signor Fuji si limitava
ad ascoltarlo in silenzio, con occhi attenti, come se bevesse le sue
parole a una a una dalle sue labbra. Nelle sue parole egli
disperatamente cercava suo figlio. «Emir ha fatto delle
scelte
sbagliate, a volte… ma quello che è successo a
Mew è stato un
incidente.»
Non
aveva più rivisto Emir da quando aveva lasciato la Villa, ma
non
importava vederlo per aver sue notizie. Ne parlava tutta
l’Isola,
di tanto in tanto. Portia aveva cercato di telefonargli tante volte,
ma alle sue telefonate nessuno aveva mai risposto, e Rotwang
s’immaginava gli squilli echeggiare senza scopo nelle stanze
vuote.
Gli aveva persino chiesto di tornare a parlargli, e dopo averglielo
chiesto lo aveva supplicato: Rotwang l’aveva spinta fuori dal
proprio ufficio senza ascoltare le sue proteste. Qualunque
cosa ti abbia fatto, dobbiamo almeno accertarci che sia vivo,
gli aveva gridato Portia sbattendo i pugni contro la sua porta, e
Rotwang s’era appoggiato a quella porta ignorando le sue
suppliche.
Portia era inutilmente melodrammatica: che fosse vivo lo sapeva tutta
l’Isola, perché ogni tanto lo avvistavano fuori
dalla Villa. La
segretaria del Laboratorio era riuscita a parlargli, una volta:
Rotwang l’aveva sentita mentre raccontava a Portia nel suo
ufficio,
profondamente commossa e turbata, perché a Emir aveva voluto
bene
davvero, che l’aveva incontrato nella spiaggia e che lui non
l’aveva riconosciuta; che le aveva parlato con voce strana,
totalmente assente, e che aveva dovuto pensare a lungo dopo ogni sua
domanda… Credo che
fosse drogato, aveva
confidato a Portia piangendo, e Rotwang s’era risentito
profondamente della banalità della conclusione a cui era
giunta. Non
era drogato, era pazzo; ma questo era bene che continuasse a saperlo
solo lui.
Il
signor Fuji chinò il mento sul petto sorridendo tra
sé. Tentennò
il capo per un po’.
«È
la verità?»
No,
non lo è, avrebbe
dovuto dire Rotwang. Invece, guardandolo negli occhi, disse ad alta
voce: «Mi sta dando del bugiardo?»
Se
Emir non fosse morto, il signor Fuji non gli avrebbe creduto: Rotwang
glielo lesse negli occhi con la stessa chiarezza con la quale aveva
letto tutto il letto. Ma Emir era
morto,
la sua vita si
era spenta, era svanita da quel mondo come la fiamma di una candela,
proprio come se non fosse mai esistita sulla terra, e quel padre che
lo cercava affannosamente nel solo luogo al mondo dove sperava di
trovarlo, nelle sue parole, aveva un tale bisogno di saper qualcosa
di lui che si sarebbe aggrappato a tutto. Anche alle sue menzogne, se
la verità era troppo terribile perché la si
potesse ascoltare.
«Non
mi permetterei mai!» protestò Fuji spalancando gli
occhi. «Glielo
chiedevo solo perché…»
Sapendo
d’avergli mentito, Rotwang rispose: «Lasci stare.
La prendevo solo
in giro.»
La
conversazione era finita, o meglio ci sarebbero state tante cose da
dire, forse infinite; ma l’unico a conoscerle era lui, ed era
anche
l’unico a non aver forze a sufficienza per parlarne. A quel
vecchio
che Emir aveva odiato con tutte le sue forze ora Rotwang non sapeva
più che dire, ma uno strano pudore lo tratteneva dal
cacciarlo
direttamente. Il signor Fuji, a ogni modo, parve condividere il suo
imbarazzo, o quantomeno comprenderlo, perché si risolse a
piegare
definitivamente il giornale, con aria di commiato, e fece per
alzarsi.
«La
ringrazio, dottore. La pazienza che ha avuto con me le fa davvero
onore. L’ho già disturbata più che a
sufficienza, direi…»
«Non
se ne vada» disse Rotwang d’impulso.
Il
signor Fuji chinò gli occhi su di lui in un moto di stupore.
«Come
dice?»
Rotwang
si pose quasi la stessa domanda: perché l’aveva
detto? Era stato
un rimasuglio di civiltà, forse: un’eco della sua
educazione
classica, borghese, Achille che piangeva con Priamo eccetera, e di
sicuro quei ricordi che affioravano dalla sua giovinezza lo
condizionavano più di quanto fosse disposto ad ammettere. Ma
poi
c’era stato anche qualcos’altro che era ancora
più oscuro e
inconfessabile, e che Rotwang non avrebbe ammesso mai, neppure di
fronte a se stesso: che quell’uomo era l’unico con
cui potesse
parlare di Emir. Che quando fosse rimasto solo, la consapevolezza che
Emir era morto, che il suo pensiero non poteva più
raggiungerlo in
nessun luogo del creato, come onde radio destinate a vagare sempre e
a non essere recepite mai, l’avrebbe assalito con una forza
ch’egli
non era in grado di reggere e che preferiva procrastinare. Ad alta
voce però bisognava pur dire qualcosa per giustificare la
sua
stranezza improvvisa, e Rotwang, colto alla sprovvista, disse:
«I
miei fratelli non arriveranno prima di stasera. Potrebbe tenermi
compagnia fino ad allora.»
«Oh.»
Il signor Fuji parve cercare qualcosa di educato da dire per prendere
tempo. «Più di un fratello, quindi. Sono una bella
cosa, le
famiglie numerose. Abitano qui in Kanto anche loro?»
«Siamo
sparsi per il mondo. Uno è in America, mentre altri due sono
rimasti
in Germania.» Non s’accorse neppure di aver sorriso
un po’. «Il
più piccolo ha finito da poco il dottorato in ingegneria
aerospaziale.»
«Tutti
figli di successo, quindi» commentò Fuji
gentilmente. «I vostri
genitori devono essere molto fieri di voi.»
Prima
di mostrare una parte troppo vulnerabile di sé, Rotwang
cambiò
decisamente argomento. «Quindi, rimane?»
Fuji
si tormentò il giornale tra le mani per un po’.
«So
che lei non mi vuole davvero qui, dottor Rotwang» disse
finalmente,
con un sorriso esitante. «Lei prova solo pietà per
un povero
vecchio. La sua gentilezza le fa troppo onore.»
«Senta»
lo interruppe Rotwang. «Io non sono molto educato, ma sono
molto
onesto. Era Emir l’ipocrita tra noi due, non io. Se
gliel’ho
chiesto è perché…»
Nella
pausa che fece, senza saper che dire, Fuji avrebbe dovuto fargli la
cortesia di parlare per riempire l’imbarazzo del silenzio;
invece
Fuji rimase in silenzio ad aspettare di sentire da lui perché
gli
avesse chiesto di
restare; ma Rotwang non lo sapeva, o forse soltanto non lo sapeva
dire, e nessuno dei due disse niente per un momento. Poi
l’impasse
passò, e il signor Fuji, riponendo il giornale, sedette di
nuovo
sulla sedia, quasi sul bordo, come se temesse di approfittare troppo
della sua cortesia.
«La
ringrazio, dottore. Lei è…» La sua voce
vibrava di una
gratitudine ch’egli non avrebbe saputo dire a parole.
«Non osavo
chiederglielo, ma… lei è il solo con cui possa
parlare di mio
figlio.»
«Sì»
disse Rotwang schiarendosi la gola, sperando che dall’esterno
non
si sentisse che la sua voce tremava. «Anche per me lei
è l’unico
con cui possa parlare di Emir.»
Fine.
*
Seconda
lettera ai
Corinzi 9, 7: “Ciascuno dia secondo quanto ha deciso nel suo
cuore,
non con tristezza né per forza.”
Finire
questa storia è la sensazione più strana che io
abbia mai provato.
Credevo che sarei stata felicissima di dare finalmente una fine a
questi personaggi, per quanto dolorosa, e in un certo senso lo sono;
ma questa storia era anche rimasta l’unica cosa costante
della mia
vita negli ultimi sette anni, e averla finita mi lascia uno strano
senso di smarrimento.
A
un certo punto però mi sono sentita in grado di lasciar
andare
questa storia e mi sono decisa a scrivere questo epilogo, cercando di
dare a ciascuno il finale che avevo progettato fin
dall’inizio.
Non
posso che ringraziare, arrivata a questo punto, tutti coloro che
hanno sostenuto questa storia in ogni modo. Grazie perciò a
carachiel, Luminja, Mad_Dragon, NicoRobs, Persej Combe, e Wings44 per
aver aggiunto la storia alle seguite; a BlazePower, Peppe_97_Rinaldi,
PoisonRain, RedLinus e Wings44 per averla aggiunta alle preferite; e
infine grazie a cristal_93, KomadoriZ71, Peppe_97_Rinaldi, Persej
Combe, Mad_Dragon, NicoRobs, BlazePower, IndianaJones25, PoisonRain,
Gaia Bessie, Wings44 e Bankotsu90 per le loro meravigliose
recensioni. Non so come ringraziarvi, se non infinitamente, per aver
provato a conoscere questi personaggi e le loro vicissitudini, e per
aver sostenuto me. Siete stati meravigliosi. Grazie.
A
parte, non posso che ringraziare di cuore Fiulopis per le sue
continue correzioni a questa storia, a prezzo della sua
serenità, e
per il suo sostegno immancabile.
Non
mi rimane che augurarmi che questa storia non vi abbia delusi troppo,
e augurare a voi un anno ricco di tutto quello che potete desiderare.
A
presto!
Afaneia
|