Anime & Manga > Pokemon
Segui la storia  |       
Autore: Afaneia    02/01/2024    1 recensioni
In una Kanto dominata dal colosso multinazionale della Silph SpA, che monopolizza il mercato con politiche aziendali inflessibili e alleanze poco trasparenti, il signor Fuji, fondatore del celebre Centro Pokémon Volontario di Lavandonia, si è sempre schierato contro la corruzione e a difesa della dignità dei Pokémon.
Suo figlio però ha scelto una strada diversa: disposto a qualsiasi accordo pur di allontanarsi dall'opprimente presenza di suo padre, il dottor Emir Fuji si è specializzato in ingegneria genetica e si è trasferito sull'Isola Cannella, dove dirige un Laboratorio Pokémon dedito a esperimenti d'avanguardia. Da quando ha lasciato Lavandonia non ha più voluto avere niente a che fare con suo padre.
Un giorno, il Laboratorio Pokémon organizza un viaggio di ricerca in Guyana...
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Mew, Mewtwo, Nuovo personaggio
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Videogioco
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Epilogo


Fuoriuscirono lingue di fuoco dalle finestre mentre i vetri esplodevano per il calore.

La Villa che bruciava nel cuore della notte illuminava Isola Cannella come una fiaccola sotto un cielo tinto di arancione. Echeggiavano sirene lungo le strade, la gente si accalcava intorno all’edificio incendiato: la polizia aveva creato un cordone per trattenere la gente a una distanza di sicurezza dal rogo mentre i pompieri lavoravano per domare le fiamme; che si espandessero al resto dell’abitato era improbabile, dato l’isolamento della casa, ma non impossibile se si fosse levato il vento.

I primi a dare l’allarme erano stati gli abitanti delle case vicine, ed erano stati anche i primi a intervenire, coraggiosamente, con quello che potevano: sacchi di sabbia e di terra, secchi d’acqua e sassi nudi, tutto quello che si poteva per frenare anche solo un poco l’avanzata delle fiamme. Poi erano arrivati i pompieri, che li avevano ricacciati via a forza ed erano intervenuti con le camionette e i Pokémon d’Acqua addestrati appositamente. Un paio di vicini però si erano aggrappati ai pompieri prima di obbedire e allontanarsi: avevano gridato che il portone principale della Villa era aperto, ma che il dottor Fuji nessuno l’aveva visto uscire… I pompieri si erano guardati in faccia senza bisogno di dir nulla. Le stanze più esterne della Villa, quelle che davano sulla strada, ancora non sembravano lambite dalle fiamme, ma sarebbe stata questione di minuti, e nessuno poteva garantire che il dottor Fuji si trovasse proprio lì. Se fosse stato nelle stanze interne, invece… Dalle finestre della Villa non proveniva voce.

Nessuno si aspettava che il dottor Lestournelle fosse il primo, degli ex colleghi di lavoro del dottor Fuji, a precipitarsi attorno ai cordoni della polizia, cercando invano di richiamare l’attenzione di chiunque fosse in grado di intervenire. Gridava qualcosa su Mew: a distanza di anni, era l’unico in tutta l’Isola ancora convinto che il dottor Fuji avrebbe vissuto di risparmi e carità come un eremita, se avesse rubato il Pokémon più prezioso del mondo. Un agente che tratteneva la folla lo ascoltò per un po’, poi lo invitò a indietreggiare per non ostacolare le operazioni.

Si sentì un terrificante rumore a un certo punto, come una trave enorme che si spezzava: qualcuno gridò che dovevano essere crollati i solai, altri dissero invece di aver visto come un bagliore azzurro fendere le fiamme e levarsi verso l’alto. L’idea fu spaventosa, perché qualcuno cominciò a gridare che chissà quali diavolerie elettroniche e bombole del gas e quant’altro doveva tenersi in casa il dottor Fuji; che poteva scoppiare tutto… ma nessuno si allontanò, forse anche perché qualcuno sosteneva di non aver visto niente, e questo tranquillizzò tutti gli altri.

A un certo punto risuonò una sirena diversa: era quella di un’autoambulanza. Il dottor Lestournelle trasalì e fendette la folla con violenza, a spintoni e a spallate, perché da qualche parte avevano cominciato a dire che i pompieri avevano tirato fuori un uomo, che era vivo, respirava ancora, attraverso una vetrata. Quelli che lo riconobbero si fecero indietro per lasciarlo passare: in fondo lo sapevano tutti che era stato amico del dottor Fuji, prima che succedesse quello che era successo, ed era ovvio che volesse accertarsi che stesse bene…

Il dottor Lestournelle raggiunse correndo l’ambulanza proprio mentre stavano caricando la barella. Un paramedico lo respinse con decisione, allora Lestournelle alzò la voce, gridò qualcosa in direzione della barella; il paramedico gli posò una mano sulla spalla per attirare la sua attenzione e gli parlò con voce bassa e ragionevole.

«Guardi che quello non è il dottor Fuji» gli disse gentilmente. «Però so che è un suo dipendente. Non so come si pronuncia, ma è lo scienziato tedesco.»


Si succedettero momenti di luce e buio. Il dolore gli strappava grida, risalendo fino al suo cervello gli intricati per corsi dei nervi; talora gli pareva quasi di affiorare dall’oscurità, di poter aprire gli occhi, da un momento all’altro, e poter sapere dov’era; poi quella sensazione passava, l’oscurità tornava a spalancarsi attorno a lui e a sprofondarlo dentro di sé, inghiottendolo come in un grembo e nel vuoto. Nel vuoto Rotwang si sentiva precipitare, cercando invano di aggrapparsi ai margini della propria coscienza come al bordo di un pozzo; ma alle sue mani e alla sua mente le forze venivano meno, ed egli non riusciva a restar sveglio. Un fuoco gli divampava in gola; avrebbe voluto sollevarsi a sedere o almeno muoversi, girare gli occhi intorno a sé per vedere dove si trovasse e sapere almeno di possedere ancora con sé il proprio corpo; ma le sue gambe non gli rispondevano e le sue braccia bruciavano come fuoco, avviluppate ai suoi fianchi da legami invincibili; poi il buio lo sprofondava di nuovo nelle sue viscere buie.

Vennero le voci, dopo un po’. All’inizio non erano neppure distinguibili, e forse, chissà, non esistevano altrove che nella sua mente. Era come udir mormorii in un’altra stanza, anche se talora si facevano più vicini, come qualcuno che mormorasse al suo orecchio, e quasi gli sembrava di riuscire a percepire le parole; ma lo sforzo di comprenderle lo prostrava, allora egli ricadeva nel buio della sua mente, ancora una volta; la sua coscienza si dileguava. Sentiva il respiro rantolargli nel petto che bruciava, poi lo sorprendeva di nuovo il conforto rassicurante del nulla e del buio; per qualche istante il dolore abbandonava la sua gola e le sue mani; ma quell’oscurità lo raggelava, allora Rotwang ricordava vagamente che c’erano cose che doveva fare, posti in cui avrebbe dovuto essere; ma la sua volontà si dimenava invano, inudita, prigioniera della sua mente assopita, e la caligine lo velava di nuovo.

A poco a poco il buio si fece meno denso, l’oblio meno benigno. L’aria attraversava la sua gola come lame arroventate, perforava i suoi polmoni a ogni suo respiro; sprazzi di lucidità s’inseguivano nella sua mente come comete lontane che s’inseguivano. Tutto gli tornava in mente in frammenti con dolorosa lucidità, ma la sua mente rifiutava di soffermarvisi a lungo: la sua mente si colmava di fiamme; poi il dolore sopravanzava i suoi pensieri, le sue mani pulsavano come braci alle estremità delle sue braccia, e il dolore era tale che la sua mente veniva meno per un po’.

«Acqua» disse a un tratto, in un punto a metà tra la coscienza e l’incoscienza che non era veglia né oblio. Non fu nemmeno una parola; fu un rantolo, eppure l’acqua arrivò da qualche parte ch’egli non vedeva. Sentì sulle labbra la gentilezza di una spugna umida, mentre una voce ch’egli sapeva di amare ma che in quel momento non riconosceva mormorava contro il suo orecchio: «Hai una flebo di liquidi, tra poco la sete passerà… aspettiamo che il dottore dica che puoi bere, va bene?»

Il conforto di quella voce fu tale che Rotwang sprofondò di nuovo nel sonno senza lottare oltre: avrebbe voluto aver forze a sufficienza da dire grazie, ma la sua gola pulsava orrendamente e l’aria gli mancava. Non si sforzò neppure di aprire gli occhi: non aveva bisogno di vedere a chi appartenesse quella voce. Si lasciò sprofondare nel buio.

Tornò a riemergerne come se fuoriuscisse dall’acqua per trarre grandi boccate d’aria che gli perforavano i polmoni. Ancora non aveva forza a sufficiente per aprire gli occhi: quando si svegliava si trovava a galleggiare nel buio, senza sapere dove fosse né perché. Provava a chiamare per sentire di nuovo la voce, ma ancora non riusciva a formulare parole: per fortuna la voce di Portia lo raggiungeva attraverso l’oscurità che lo circondava, e le sue mani gentili gli bagnavano le labbra e gli pettinavano i capelli sulle tempie. Sotto la carezza delle sue mani e della sua voce Rotwang si addormentava senza più ricordare per che cos’era che avrebbe dovuto restare sveglio: se c’era Portia, andava tutto bene. La sua presenza era calma e ragionevole, infinitamente rassicurante, e a essa a poco a poco Rotwang si sentì di potersi aggrappare per rimanere sveglio e non sprofondare per l’ennesima volta nel buio.

«Emir» provò a dire, lasciando a Portia l’onere di ricomporre la domanda.

«Sht» mormorò Portia da qualche parte al di fuori di lui; le sue dita gli passarono tra i capelli più volte. «Va tutto bene, Richard, tutto bene…»

«Emir» biascicò Rotwang di nuovo. Cercò di aprire gli occhi, ma sollevare le palpebre gli costò uno sforzo sovrumano e attraverso di esse la luce gli bruciava gli occhi, e subito Portia sussurrò: «Tesoro, riposati. Non importa che… l’hanno portato ad Azzurropoli, al reparto Grandi Ustionati. In elicottero. È tutto a posto, ma tu ora riposati, va bene? Ho avvertito io i tuoi fratelli.»

Mettere insieme il senso di tutte quelle parole richiese un tempo assurdamente lungo ai suoi sensi rallentati. La realtà che filtrava attraverso le parole di Portia proiettava nella sua mente scintille del mondo esterno, come lampi che vi penetravano; ma quella realtà era assurdamente dolorosa, e mentre la sua mente si soffermava a osservarla Rotwang si sentì il petto pieno di un’angoscia di cui non riusciva a individuare l’origine. Aprì gli occhi in una stanza bianca d’ospedale. Tutto era avvolto da una nebbia, Portia era sfocata e indistinta al suo fianco; le sue braccia posavano sul letto, sopra le lenzuola, terminando in grandi masse fasciate che non riusciva a muovere.

Ripeté senza capirle l’ultima parola che aveva udito, nella speranza che acquistasse un senso. «Fratelli…?»

«Va tutto bene, tutto bene» ripeté Portia. «Ho parlato con Günther, ha detto che avrebbe avvertito lui i tuoi genitori. Rudolf sta cercando un aereo dall’America, ha detto che chiamerà non appena…»

Il panico penetrò attraverso le sue fibre come una corrente, senza che egli neppure sapesse da che cosa originava.

«Non voglio che mi vedano così» singhiozzò.

Portia si chinò su di lui nella frenesia di capire. «Tesoro, è tutto a posto. Si sono offerti loro di venire non appena hanno saputo, non devi…»

«Non voglio che mi vedano così» ansimò Rotwang. Lacrime gelate gli scendevano dagli angoli degli occhi senza che neppure lui sapesse perché: sapeva solo che l’angoscia gli montava in petto più feroce e implacabile del fumo e del fuoco, che qualcosa nel suo corpo gli faceva paura e non andava bene sebbene non riuscisse a capire che cosa. «Non farli venire, non voglio che mi vedano così!»

«Richard» balbettò Portia. Le sue mani si aggrapparono da qualche parte intorno ai suoi gomiti nel tentativo di tenerlo fermo. «Così come? Ti prego, ti prego, non ti agitare...!»

Finalmente la sua paura oscura prese forma e corpo nella sua mente, ed egli seppe, come se quella paura fosse sempre stata di fronte ai suoi occhi ma solo ora egli riuscisse a vederla in piena luce, che cos’era che i suoi fratelli non avrebbero mai dovuto vedere…

«Non ho più le mani, vero?» gridò con la testa che gli martellava e il cuore che pompava troppo rapido e gli pulsava fino in gola.

«Richard, non è come pensi» gridò Portia tentando di sovrastare la sua voce; poi ci fu rumor di passi, ci furono voci che si sovrapponevano alla sua, la puntura fredda di un ago perforò l’incavo del suo gomito, e la nebbia e il buio tornarono a inghiottirlo come se non se ne fossero mai andate. Rotwang si abbandonò alla beatitudine dell’incoscienza come a un atto di pietà che lo accoglieva.


Si svegliò che era giorno pieno: la luce entrava dalla finestra della stanza spoglia in grandi fiotti dorati che si riverberavano sulle pareti, ma senza più ferire i suoi occhi. Rotwang scrutò la luce con disappunto, senza neppure levare il capo per guardarsi attorno: non ce n’era bisogno. Sapeva già quello che gli occorreva sapere: che era una camera d’ospedale, e che Portia non c’era più. Rimase immobile, cercando di non guardare in direzione dei grandi bendaggi che vedeva campeggiare alle estremità delle sue braccia, sulle lenzuola.

«Ah, è sveglio» disse un infermiere facendo capolino sulla soglia della stanza. Rimase a osservarlo per un momento dall’uscio. «Sente male quando respira? Come si sente?»

«Di merda» rispose Rotwang distogliendo gli occhi da lui. Solo pronunciare quella parola gli scatenò una fitta acuta di dolore in gola, perciò cercò di formulare la richiesta successiva consumando la minor quantità d’aria possibile: «Medico.»

Quando tornò a gettare un’occhiata in direzione della porta, l’infermiere era sparito.

Doveva aver fatto quel che gli aveva chiesto, però: una decina di minuti dopo si affacciò sulla soglia un giovane medico che aveva tutta l’aria d’essersi appena laureato e d’esser stato mandato a Isola Cannella contro ogni sua volontà. Sembrava desiderare di finire quel turno il prima possibile.

«Ben svegliato, dottore. Come si sente?» Aveva il tono disinvolto e sbrigativo di una consueta giornata di lavoro; non lo stava neppure guardando, sfogliava la sua cartella clinica senza degnarlo di uno sguardo. «Mi hanno detto che è un collega.»

«No» rispose Rowtang asciuttamente. «Medico per Pokémon.»

La sua risposta parve destare un lampo d’interesse negli occhi del dottore. Si affrettò a chiudere la cartella sorridendo, guardandolo per la prima volta da quando era entrato. «Al contrario, dottore. A dire il vero, siete solo voi medici per Pokémon che reputate di non essere nostri colleghi, sa. Studiate esattamente lo stesso numero di anni, perciò non c’è motivo per cui…»

Tanta superbia, da parte sua, valeva in fondo ben la pena di un po’ di sofferenza. «Ho detto che non siamo colleghi. Non che voi siete superiori. Ora possiamo parlare di me?»

Il dottore rimase interdetto per un momento, eppure il suo sorriso non svanì. Si fece solo più amaro. «Ora ho capito come ha fatto a spaventarmi l’infermiere» commentò solamente. Tornò a sfogliare la cartella clinica. «Allora, dottore… presumo che la gola stia benone, se ha la forza di ironizzare. Giusto?»

A questo non valeva neppure la pena di rispondere, e non solamente perché aveva la gola secca, dolorante, come dilaniata da piaghe aperte. Rotwang si limitò ad aggrottare la fronte, e il dottore scosse la testa e tirò fuori dal taschino una torcia e un abbassalingua. «Forza. Ora facciamo gli adulti e mi faccia vedere come andiamo.»

Tutto sommato il dottorino sapeva il fatto suo. Rotwang obbedì; chino su di lui mentre gli esaminava la gola, il dottore proseguì con noncuranza. «Bene. Mi hanno detto i colleghi che stanotte ha avuto un po’ di crisi, quando si è svegliato. A volte è normale essere confusi dopo l’anestesia, specie dopo quello che… beh. Ora è più tranquillo?»

Spense la torcia e si allontanò per dargli modo di rispondere. Rotwang si limitò ad annuire, ma il dottore parve reputarla una risposta soddisfacente. «Bene. Mi hanno detto anche che aveva paura di aver perso le mani nell’incendio. Posso garantirle che prima di amputare le mani a un chirurgo del suo livello ci pensiamo due volte, e che non si amputa per qualche ustione, perciò non si preoccupi. Se vuole posso dire agli infermieri che le facciano vedere quando verranno a medicarla…»

«Non voglio vedere» disse Rotwang. Quelle parole gli costarono un enorme sforzo, la sua gola pulsava dolorosamente a ogni emissione d’aria, ma egli aveva un disperato bisogno di pronunciarle.

Il dottore esitò per un momento. «Cioè non vuole vedere le sue mani? Ma prima o poi bisognerà bene che…»

«Basta» disse Rotwang.

«Mi crede, però? Non crede che io stia mentendo.»

Rotwang annuì malvolentieri; si vergognava d’aver avuto quella crisi la notte precedente, ma più ancora non voleva soffermarsi oltre su quell’argomento. Parlare delle sue mani avrebbe comportato, prima o poi, che qualcuno gli avrebbe chiesto perché aveva fatto quel che aveva fatto; e di questo, se possibile, si vergognava ancora di più.

Il dottorino si ricompose. «Come vuole, allora. Posso parlargliene, però. Va bene?» Rotwang non rispose, perciò egli proseguì sfogliando la cartella clinica. «Sulle mani ha riportato ustioni di secondo e di terzo grado. I pompieri dicono che ha cercato di aprire una porta all’interno della Villa in fiamme. Può essere? Forse ha toccato una maniglia, oppure…»

Rotwang scrollò le spalle guardando altrove. Il dottore tamburellò per qualche secondo sulla cartella clinica con la penna, aspettò per un po’, poi mormorò: «Beh, facciamo finta che sia andata così. Comunque, se glielo verranno a chiedere lo spiegherà a loro: a me proprio non interessa.» Girò un foglio. «Ha inalato molto fumo, ma per fortuna non ha riportato ustioni ai polmoni. Abbiamo proceduto alle analisi del sangue per valutare i livelli di monossido di carbonio nel sangue, ma per fortuna non sono preoccupanti. Vedremo se procedere anche a una laringoscopia nelle prossime ore per accertarci delle condizioni della trachea, ma il fatto che lei riesca già a parlare mi tranquillizza molto. Vuole vedere le analisi lei stesso per darci il suo parere?»

Rotwang scosse il capo e mormorò, più muovendo le labbra che emettendo vera voce: «Mi fido.»

«Beh, lo considererò un grande complimento da parte sua.» Il dottorino diede un ultimo colpetto di commiato sulla cartelletta di plastica. «Molto bene. Se non ha altre domande la lascio per proseguire il giro dei pazienti. Vedrà che entro qualche giorno la rimetteremo in piedi, va bene?»

«Ha notizie del dottor Fuji?»

La sua gola mandò lampi di dolore che risalirono i suoi nervi fino al cervello, ma Rotwang si sforzò di mantenersi impassibile. Il dottorino sbatté le palpebre un paio di volte. «Di chi?»

«Il direttore… il proprietario della Villa.»

Il dottore si passò le dita sulla fronte. «Non saprei, in realtà. Non ero in reparto stanotte, ma non mi risulta che lo abbiano portato qui.»

Quello che doveva dire adesso richiedeva un enorme sforzo e sarebbe stato molto doloroso. Rotwang deglutì a lungo. «So che lo hanno portato al Grandi Ustionati ad Azzurropoli. Mi domandavo se…»

Finalmente il dottore parve ricevere una tardiva illuminazione. «Ah! Può essere. Però non ho contatti in quell’ospedale. Anche volendo non saprei a chi chiedere informazioni, sa. Mi dispiace. Mi sono laureato a Johto» aggiunse a mo’ di scusa. «Non conosco ancora molti colleghi in Kanto.»

«Va bene così» mormorò Rotwang. «Grazie lo stesso.»

Trascorse il resto della mattinata, o di quel che era, a letto a guardare il soffitto. Entrarono un paio di infermiere a cambiargli la flebo dei liquidi e a misurargli la pressione; Rotwang le lasciò fare senza opporsi. Fu grato del fatto che nessuna di loro si aspettava che parlasse; l’infermiere che aveva spaventato, stando al dottore, non si fece rivedere. Forse era solo cambiato il turno.

Portia si affacciò sulla porta dopo qualche ora. Aveva l’aria estenuata e stanca, gli occhi gonfi di pianto e di sonno; era struccata, e i suoi capelli le ricadevano sulle spalle in una treccia spettinata e un po’ sfatta che aveva l’aria d’esser stata fatta varie ore prima. Rimase a guardarlo per un po’.

«Ehi» disse a mo’ di saluto. «Mi dispiace di averti fatto agitare, ieri sera.»

Che Portia si scusasse per qualcosa che aveva fatto lui era piuttosto inusuale, ma Rotwang non aveva neppure intenzione di scusarsi per aver perso la calma in quella situazione, perciò ritenne che fossero pari e non fece commenti.

«Come stai, tesoro?» domandò Portia chiudendosi la porta alle spalle. Andò a posare un paio di buste della spesa ai piedi del letto.

«Così» mormorò Rotwang. Aveva scoperto che, parlando molto piano, quasi senza muovere le corde vocali, la sua gola veniva risparmiata almeno in parte dalle fitte che la dilaniavano. «A quanto pare non ho perso le mani, comunque.»

«Ti fidi più di un dottorino che di me, dunque» constatò Portia sorridendo appena, e Rotwang sorrise a sua volta. A quanto pareva anche a lei aveva suscitato la medesima impressione che a lui.

«Ah, sei un medico? Non lo sapevo.»

Portia sedette al suo fianco sulla sedia predisposta per i visitatori. Indossava un’orrenda tuta fuori moda che Rotwang non credeva di averle visto addosso neppure nei giorni più bui della Guyana. Doveva essere propria sconvolta. «Scusami se non c’ero, prima. Ho approfittato del fatto che ti avevano sedato per andare a dormire un po’ anch’io.»

Di questo Rotwang proprio non vedeva motivo di scusarsi. «Credevo fossi al lavoro.»

Portia strinse le labbra. S’infilò le mani nelle tasche della felpa e incassò il capo tra le spalle, come se si trovasse a disagio a guardarlo. «Giusto. A questo proposito, senti… se ti dico qualcosa sul lavoro, mi prometti che non dai di matto, vero? Non voglio che le infermiere mi sgridino di nuovo.»

Rotwang si sarebbe altrove profondamente risentito per la sua scarsa fiducia, ma doveva ammettere che non aveva tutti i torti, dopo la sua crisi di nervi. Le fece cenno di parlare. Portia temporeggiò per un po’ come se dovesse cercare le parole per quello che aveva da dire.

«Ascolta… il Laboratorio resterà chiuso per un po’. Ho già parlato con Dale, non si può fare altrimenti. Tu sei fuori gioco, e io e Ami da sole…»

«Sole?»

«Valérien si è licenziato stamani» disse Portia tutto d’un fiato. «Ha dato le dimissioni con effetto immediato, senza preavviso. Assumo io la direzione, ma dobbiamo assumere almeno un nuovo biologo. Tu sei in malattia, io e Ami ne approfittiamo per smaltire un po’ di ferie arretrate.»

C’era un bel po’ di informazioni da processare tutte in una volta. «Lestournelle… dimesso?»

C’era un sincero dolore negli occhi di Portia: nonostante tutto non era mai riuscita a odiarlo del tutto, forse perché di lei Lestournelle aveva sempre avuto troppo rispetto e assieme troppa venerazione, o forse perché nella follia rabbiosa che lo aveva posseduto dopo la perdita di M2 ella aveva sempre riconosciuto le tracce di un dolore atroce per il quale era riuscita a provar compassione.

«Credo che questa sia stata l’ultima goccia per lui, Richard. Lo sai che era da anni sull’orlo di una crisi di nervi… beh, mi sa che è arrivata. Credo che, dopo tutti questi anni… fosse ancora convinto che M2 fosse nascosta nella Villa. Che l’aveste rubata voi due.»

«Già» mormorò Rotwang distogliendo gli occhi da lei, con una fitta acuta di dolore che con la sua gola non aveva niente a che fare.

Portia rimase in silenzio per un po’, girando gli occhi ovunque nella stanza per avere una scusa per non guardare direttamente verso di lui. Doveva fargli una domanda cui non osava dar voce, Rotwang glielo leggeva nella rigidità del suo collo e nel modo in cui esitava. Se le avesse chiesto che cosa avesse da chiedergli, egli le avrebbe risparmiato tutto quell’imbarazzo, ma non provava alcun desiderio di sentire quella domanda.

«Stanotte sono andata in ufficio. Mi servivano i tuoi contatti d’emergenza per poter avvertire i tuoi fratelli.» Portia fece una pausa nell’attesa, o forse nella speranza, ch’egli parlasse per toglierla dall’imbarazzo, ma Rotwang non aveva la minima intenzione di andarle incontro. «Richard, non ho potuto fare a meno di notare… che c’era ancora Emir.»

«Non li aggiorno da anni» rispose Rotwang con sufficienza. «È questo che ti angustia tanto?» Si pentì all’istante d’aver parlato così tanto, fitte di dolore si allargarono come crepe nella sua gola.

«Richard» insisté Portia. Aveva gli occhi pieni di lacrime. «Abel si è trasferito a Monaco quest’estate. Me l’ha detto Günther. Il suo indirizzo era aggiornato.»

Quegli stupidi dei suoi fratelli, a quanto pareva, erano ancora incapaci di farsi i fatti propri esattamente come quando erano bambini.

«Che cosa vuoi sentirmi dire?» chiese Rotwang rabbiosamente. S’era dimenticato di dover parlare piano, lame incandescenti perforarono la sua gola irritata; il dolore fu tale ch’ebbe un fiotto di nausea e un accesso di tosse più doloroso ancora delle parole.

Portia balzò in piedi. «Niente, Richard, niente. È solo che ti sei sempre rifiutato di parlare di…»

«Allora perché fai insinuazioni stupide?»

«Perché ti sei buttato nel fuoco per lui!»

La veemenza della sua voce fu tale che Rotwang ammutolì di colpo. Portia stessa sembrava non riuscire a credere a quello che aveva detto. Rimasero entrambi a osservarsi in silenzio per un po’ mentre l’eco delle sue parole, e la portata del loro significato, si spegneva tra di loro.

«Non c’era ancora fuoco al piano terra quando sono entrato» disse Rotwang finalmente. La voce gli raspò in gola. «Quantomeno, questo era quello che credevo. Nemmeno io sono così stupido.»

«Io non penso affatto che tu sia stupido» mormorò Portia. Tornò ad avvicinarsi a lui, cautamente, come a voler sperimentare, con la sola distanza dei loro corpi, se la loro amicizia fosse sopravvissuta a quello che gli aveva detto, e gli passò le dita fresche tra i capelli annodati. Rotwang non si ritrasse. «Lo sai che cosa penso. Che lo ami ancora.»

«E io penso che tu debba farti i cazzi tuoi.»

Portia soffocò una risata. Aveva gli occhi pieni di lacrime. «Sì… può darsi.»

Rotwang si sforzò di emettere quanta meno aria gli era possibile. Per fare ciò, e per farsi contemporaneamente comprendere, era costretto a parlare molto lentamente, guardandola fisso negli occhi, così che Portia potesse aiutarsi leggendo le sue labbra. «Nemmeno lui si sarebbe meritato di morire così come un topo in trappola. Notizie da Azzurropoli?»

«Azzurropoli?» ripeté Portia, tutta intenta a pettinargli teneramente i capelli con le dita.

Rotwang odiava ripetersi anche quando questo non gli costava dolore. In quel particolare momento, tuttavia, lo odiava con tutte le sue viscere bruciate dal fumo. «Il Grandi Ustionati! Me l’hai detto tu.»

«Oh! Che stupida» esclamò Portia alzandosi di scatto. Andò a recuperare le buste della spesa che aveva portato con sé e prese a frugarci dentro. «Scusami, ero sovrappensiero. Comunque… mi dispiace, Richard, ma danno informazioni solo ai parenti. Lo sai come funziona, no?»

Era stato sciocco anche solo chiedere: era ovvio che la risposta sarebbe stata quella, in fin dei conti. Portia prese ad aggirarsi per la stanza sistemando ovunque bottigliette d’acqua, pacchetti di fazzoletti e confezioni di salviettine umidificate. Rotwang la osservò in silenzio per un po’.

«Meno male che sei arrivata tu. Non mi avrebbero dato da bere, altrimenti.»

«Non ti fa più male la gola?» lo rimbeccò Portia aprendo l’armadio nell’angolo della stanza. «Li hanno messi qui i tuoi vestiti? Ah, eccoli… prendo le chiavi del tuo appartamento per portarti qualcosa, va bene? La biancheria, un pigiama… il medico ha detto che forse da domani puoi iniziare a bere liquidi tiepidi. Ti viene in mente altro che potrebbe servirti da casa tua?»

«Una Rauchbier» rispose Rotwang.

«Fai meno lo spiritoso. Guarda che al corso per la sicurezza sul lavoro ce lo avevano detto di non toccare le maniglie di un edificio in fiamme. Pensi d’esser tanto furbo?»

«Grazie, Portia» la interruppe Rotwang a voce alta, incurante della fitta acuta di dolore che gli perforò la gola quando parlò. Per dirle quello che doveva, per farsi perdonare della preoccupazione che le aveva dato, poteva bene sopportare un po’ di dolore. Portia s’immobilizzò alle sue parole. «Non sei tenuta a fare tutto questo per me.»

Quando si voltò verso di lui, Portia aveva il naso arrossato e gli occhi di nuovo pieni di lacrime.

«Oh, smettila» disse. La sua voce suonava nasale e spezzata, stranamente commossa. Attraversò la stanza per chinarsi su di lui. Posò la fronte contro la sua, con tanta irruenza che per un attimo egli ebbe timore che volesse tirargli una testata; invece lo abbracciò soltanto, ma goffamente e quasi con violenza. Respirò lentamente contro la sua fronte, e Rotwang si sentì le guance umide di lacrime che non erano le sue. Avrebbe voluto abbracciarla a sua volta, ma ancora non osava muovere le braccia con quelle grosse appendici gonfie e doloranti ch’erano le sue mani, e rimase immobile sotto il suo abbraccio.

«Ehi…»

«Se avessi avuto un fratello, avrei voluto che fossi tu» disse Portia senza ascoltarlo. Rotwang tacque senza più alcuna pretesa di comprenderla. «Non farlo mai più. Ho avuto troppa paura di perderti. Ti prego, promettimi che non farai mai più una cosa del genere. Che starai molto, molto calmo, qualsiasi cosa accada, e che non cercherai di fare sciocchezze per nessun motivo al mondo.»

«Dubito che ci saranno altre ville in fiamme…» provò a dire Rotwang, ma Portia premette più forte la fronte contro la sua, guardandolo negli occhi, e ripeté: «Promettimelo.»

«Prometto» concesse Rotwang, e solo in quel momento Portia si decise ad allontanarsi da lui e a lasciarlo andare. Si asciugò gli occhi con le maniche della felpa. Non era mai stata emozionale così: Rotwang non l’aveva mai vista in quelle condizioni, ma non gli veniva in mente niente da dire per consolarla, forse perché non comprendeva la ragione di tanta commozione. Si era spaventata, d’accordo; ma in fin dei conti non era successo poi niente di grave. Dal pronto soccorso dovevano averle detto molto presto, quella notte, che lui non era in pericolo di vita. Neppure il giorno della morte di M1 l’aveva vista piangere.

«Se non ti serve altro, allora, vado a casa tua a prendere un po’ di roba e te la porto domani» riprese Portia, con l’evidente intento di mascherare quell’attimo di commozione e di tornare a parlare delle cose di tutti i giorni. «Stanotte verrà mio marito a farti compagnia, va bene?»

Rotwang scosse il capo con decisione. «Non voglio la veglia notturna. Non sono morto.»

«Richard…»

Rotwang non intendeva sprecare più voce di quanta fosse necessaria per respingere quell’orrenda idea. Si limitò ad aggrottare la fronte, scuotendo la testa, e Portia rimase a soppesarlo con lo sguardo per un po’, palesemente divisa tra due opposti partiti. «Sei sicuro?»

«Vai» insisté Rotwang.

«Allora, vado» concluse Portia poco convinta. «Ti farò sapere domani a che ora arrivano i tuoi fratelli. Andiamo a prenderli io e Chris, ma arriveranno tutti a orari diversi, perciò può darsi che ci toccherà passare il pomeriggio in aeroporto per aspettarli tutti… Per qualsiasi cosa tu puoi farmi chiamare, va bene? Ho lasciato il mio numero per le emergenze al personale.»

Rotwang annuì soltanto. Quella conversazione l’aveva estenuato, ma cercò ugualmente qualcosa di leggero da dire per allentare la tensione. «Portami da leggere, magari.»

Portia gli gettò un bacio sulla punta delle dita a mo’ di saluto. Solo mentre apriva la porta Rotwang si ricordò di qualcosa che non le aveva ancora detto: cercò il modo più breve e meno doloroso possibile per dirlo ora. «Ah. Congratulazioni, direttrice.»

Portia non si voltò verso di lui stavolta. La sua mano esitò sulla maniglia, un po’ più rigida dell’istante precedente. «Già… grazie, Richard. Non avrei voluto che andasse così, però.»

«È quello che abbiamo» mormorò Rotwang. «Te lo meriti.»

«Grazie, Richard» disse Portia. «Ora riposati, però. Scusami per tutto. Ti voglio tanto bene.»

Le ore si fecero lunghe come ombre col progredire del pomeriggio. Ora che l’anestesia era stata del tutto smaltita, dormire era impossibile: le sue mani lo tormentavano più ancora della gola. Non poteva neppure chiamar qualcuno, perché per suonare il campanello avrebbe bisogno delle sue dita, ma le sue mani erano ridotte a masse goffe e inamovibili che non potevano servirgli a nulla. Dovette aspettare che un’infermiera si affacciasse spontaneamente, verso il tardo pomeriggio, a cambiargli la sacca del catetere. Avrebbe voluto aggredirla, invece si sforzò di restare calmo e ricordare a se stesso che non era colpa sua.

«Mi hanno prescritto niente per il dolore?» s’informò senza mezzi termini.

«Morfina al bisogno» rispose spiccia l’infermiera soppesandolo con sguardo esperto. «Vuole favorire?»

Per fortuna, a quanto pareva, almeno per il turno di notte non gli era toccata una di quelle infermiere moderne che avevano paura a somministrare qualche antidolorifico come si deve.

«Dio, grazie» rispose Rotwang gettandosi indietro sui cuscini.


Si svegliò da un sonno impiastricciato e un po’ confuso ch’era ancora notte: la sola luce nella stanza era quella che filtrava dal corridoio.

Si era svegliato con un senso d’angoscia e la sensazione persistente che nell’oscurità ci fosse qualcuno che l’osservava. Eppure paranoico non era mai stato, si disse; forse erano gli effetti della morfina; quando appuntò gli occhi nel buio, percorrendo con lo sguardo la camera, non gli riuscì d’individuare nessuno.

«Chris» chiamò incerto; la gola gli doleva molto meno, ora, di certo per la morfina, e si sbilanciò a parlare ancora. «Avevo detto a Portia che non…»

Nel cono d’ombra della porta emerse una figura, si delineò contro la luce del corridoio, e una voce nota, che però sulle prime egli non riuscì a distinguere, fu: «Non sono Chris.»

Il suo primo pensiero, per la verità piuttosto stupido, fu: Come hanno fatto i miei fratelli a essere già qui? Ma quasi simultaneamente la sua mente formulò anche una spaventosa realizzazione opposta, ed egli, improvvisamente sveglio e lucido nel buio, pensò: Nessuno dei miei fratelli può essere già qui.

Il terzo pensiero, che in qualche modo fu più che altro una razionalizzazione dei precedenti, fu che aveva pensato che potesse essere uno dei suoi fratelli perché la voce che aveva sentito non aveva un accento giapponese; ma quell’accento non era neppure tedesco, si rese conto all’improvviso. Era francese.

Cercò di tirarsi a sedere sul letto, affannosamente, con la limitata mobilità che gli consentivano i suoi gomiti, ed esclamò: «Che cazzo ci fai qui?»

Nello spicchio di luce che filtrava attraverso la porta, ora che i suoi occhi si erano abituati alla semioscurità, Lestournelle appariva pallido come non l’aveva visto mai. I suoi occhi s’erano fatti enormi, cerchiati da orbite scure, ceree; sembrava fuori di sé, e forse lo era, chissà.

Lestournelle si chinò sul suo letto di scatto. Rotwang si ritrasse da lui quanto più gli era possibile, ritraendosi verso la finestra; avrebbe voluto gridare, ma la sua gola irritata non aveva voce a sufficienza; e, in ogni caso, in qualche modo, egli sapeva che Lestournelle non gli avrebbe mai fatto del male. Era troppo debole e meschino per farlo, persino impazzito com’era.

«Sei entrato nella Villa per cercare Mew?»

Il suo nome gli aprì una piaga in mezzo al petto. Fu grato di non poter gridare, grato che fosse troppo buio perché Lestournelle vedesse i suoi occhi arrossati di pianto, perché il suo dolore era tale che nessuno doveva sentirlo né vederlo. Non pensava mai a lei se poteva evitarlo, perché il suo ricordo gli faceva troppo male e la sua propria debolezza lo faceva infuriare: Mew era un ricordo sepolto in mezzo ai suoi ricordi, ch’egli reprimeva con forza ogni volta che minacciava di affiorare, perché non poteva permettere a se stesso di tollerare la propria sofferenza e il ricordo della propria debolezza, perché il suo rimorso era tale da dilacerargli quasi il petto. Ma tutto questo a Lestournelle non si poteva dire, egli neppure poteva permettersi di lasciarglielo intuire, e ritraendosi di più da lui sul letto Rotwang ringhiò: «Ancora questa storia…? Ti brucia proprio tanto che Fuji me lo scopassi io anziché tu, eh?»

La sua provocazione non giunse a segno. Lestournelle neppure cambiò espressione: spingendosi ulteriormente contro di lui, cogli occhi spalancati e infissi nei suoi, Lestournelle proseguì come se non l’avesse udito affatto: «L’hai vista la luce azzurra?»

Rotwang avrebbe voluto poterlo spingere via da sé, ma per far ciò gli sarebbero occorse mani che non fossero ustionate e avvolte in strati di bende. Così non era, e mormorò: «Allucinazioni, Lestournelle?»

«La luce azzurra!» esclamò Lestournelle spasmodicamente. I suoi occhi erano come spiritati. «Ne parla tutta l’Isola! Hanno visto un lampo di luce azzurra fuoriuscire dalla Villa…»

«Beh, sorpresa, Lestournelle» commentò Rotwang sorridendo appena. «Non è che tutta l’Isola sia venuta a parlarne proprio qui nella mia camera d’ospedale, eh?»

Qualcosa vacillò negli occhi di Lestournelle, che non si distoglievano dai suoi. «Tu non l’hai vista?»

«Non so di cosa tu stia parlando» ribadì Rotwang. «Ora ti spiacerebbe toglierti dal mio letto prima che ti faccia arrestare, sì?»

Lestournelle parve rendersi conto solo in quel momento d’essere praticamente seduto sul suo letto, contro il suo petto. Si ritrasse da lui di scatto, allontanandosi dal letto, e prese grandi boccate d’aria angosciata, in piedi, immobile di fronte a lui.

«Non l’hanno ancora trovata» disse.

Rotwang scosse il capo, stavolta quasi con pietà. «Che cosa?»

«Lei» sussurrò Lestournelle. «I pompieri hanno contenuto l’incendio, ora stanno cercando di salvare la struttura… la stanno cercando, Rotwang. Se c’è, la troveranno. Dimmi la verità, Rotwang, ti prego. È morta bruciata?»

Rivide Mew come l’aveva vista per l’ultima volta, riversa sul letto pieno di sangue, cogli occhi spalancati e fissi, immoti, e il cucciolo immobile e livido senz’aria di fianco a lei. Il ricordo fu tanto intenso e violento che per un attimo temette che avrebbe vomitato; la bocca gli si riempì di un sapore acre.

Non avrebbe voluto rispondere, ma per la prima volta in vita sua Lestournelle suscitò in lui una pietà reale: non voleva riaverla. Voleva solo sapere se era morta di una morte orribile, e a quella parte di Lestournelle che aveva amato M2 di un amore reale, almeno una volta, Rotwang sentì di dovere almeno una risposta, nell’unica forma in cui poteva dargliela.

«Certo che non è morta bruciata, Lestournelle. Solo tu in tutto il mondo sei ancora convinto che ce l’avessimo noi due al posto di qualche signore della guerra centrafricano.»

Le labbra di Lestournelle tremarono. Stava sorridendo, ma di un sorriso assente che non si estendeva ai suoi occhi. Si morse le labbra.

«Lo proteggi ancora» disse. Anche la sua voce tremava. «Persino ora che… persino dopo che vi siete lasciati, che hai lasciato la Villa con le valigie in mano, tu l’hai sempre protetto. Ne è valsa la pena?»

«No» rispose Rotwang, con in petto una fitta acuta che avrebbe voluto non provare. «Ma questo non è un tuo problema. Giusto?»

Lestournelle rimase immobile nel buio a occhi sgranati. Sembrava posseduto da uno spirito. Le sue labbra si muovevano incessantemente, mormoravano senza posa nel buio parole senza scopo né senso; per quanto si sforzasse, Rotwang non riuscì a distinguerne nessuna. Suo malgrado, si sentì preoccupato.

«Lestournelle…»

Lentamente, senza distogliere neppure per un istante gli occhi dai suoi, Lestournelle si ritrasse da lui e lasciò la stanza camminando all’indietro, con una mano sulla fronte, mormorando ancora le sue domande senza risposta. Rotwang rimase da solo.

Tornò a distendersi sui cuscini senza distogliere gli occhi dalla porta, con la convinzione inspiegabile eppure incrollabile che Lestournelle non sarebbe tornato, di certo per quella notte e forse mai; che la sua mente già fragile era ormai sperduta in un luogo remoto, irraggiungibile, e che nessuna parola sarebbe più stata in grado di raggiungerlo. Avrebbe quasi potuto credere d’esserselo immaginato, che fosse stato tutto uno strano sogno inutile indotto dalla morfina; chissà cos’era quella luce azzurra, però. Per un attimo solo concesse alla propria mente di soffermarsi su quel pensiero, perché l’azzurro, per lui, non era che il colore degli occhi di Mew; ma la tentazione d’illudersi passò, o forse fu lui a cacciarla, rabbiosamente, reprimendo il desiderio di crederla viva così come aveva represso la sua rabbia e la sua disperazione per tutto quel tempo. Mew era morta insieme al cucciolo osceno che avrebbe dovuto partorire, li aveva visti lui: non c’era altro da dire. Ma poi, proprio quand’era quasi sul punto di iniziare a credere che davvero Lestournelle non fosse stato che un’allucinazione prodotta dal dolore e dalla morfina, un’infermiera fece capolino e venne di nuovo a controllargli il catetere.

«Ha visto suo fratello, dottore?» gli chiese in confidenza mentre si affaccendava intorno al letto. Rotwang la guardò interdetto. «Ma come… ha dormito per tutto il tempo che è stato qui? Il caporeparto aveva dato il permesso di far entrare per lei anche di notte, sapendo che i suoi parenti vengono tutti dall’estero. L’abbiamo riconosciuto dall’accento, sa» spiegò con un certo orgoglio. Il che, in effetti, spiegava davvero molte cose: per quegli isolani, qualunque accento poco più occidentale dell’Altopiano Blu era tutto indifferentemente straniero.

Rotwang la scrutò per un po’, profondamente divertito dall’ironia della situazione, indeciso se dirle la verità oppure no. Quantomeno ora era certo che non si fosse trattato di un sogno.

«Non si preoccupi, ero sveglio» disse infine. «Siete stati molto gentili. Grazie.»


Quando si svegliò, la mattina seguente – e che fosse mattina glielo diceva la rinnovata pienezza della luce – di fianco al suo letto c’era un signore anziano che leggeva il giornale.

Per un po’ Rotwang non fece niente. Non aprì neppure gli occhi del tutto. A quanto pareva la sua stanza era divenuta un luogo di svago e di ritrovo comune per tutta l’Isola, e gli infermieri, evidentemente, erano palesemente in accordo con quella politica.

Dal momento che, altrettanto evidentemente, non c’era niente che potesse fare per opporsi a quella tendenza, e che quantomeno così gli veniva risparmiata un bel po’ di noia, Rotwang aprì ostentatamente gli occhi e disse: «Un volontario dell’ospedale, immagino.» Conservava il vago ricordo di una delle figlie di Portia – non ricordava mai quale – che gli raccontava di un’associazione di volontari che teneva compagnia ai degenti presso l’ospedale; erano perlopiù studenti, ma era certo che ci fosse, tra loro, anche qualche anziano pensionato che occupava così il proprio tempo. Gli pareva la spiegazione più plausibile.

Il vecchio fu colto alla sprovvista. Si affrettò a ripiegare il giornale, schiarendosi la gola con un colpo di tosse, e si alzò brevemente in piedi in segno di rispetto. Aveva un volto composto e dignitoso ma stanco, provato, e si sforzò di riprendersi. «Gran Dio, mi scusi… mi ero distratto un momento. Lei è il dottor Rotwang, presumo? Il dottore del Laboratorio.»

«Immagino che lei questo lo sappia già» rispose Rotwang soppesandolo con lo sguardo. c’era qualcosa di quel volontario che non lo convinceva del tutto, eppure non riusciva a decidere di che cosa si trattasse: si sforzò di ricordare dove lo avesse già visto, mentre cercava qualcosa da chiedergli per indagare chi fosse. Per fortuna quel giorno, forse per la morfina o perché ormai erano passate più di ventiquattr’ore, la gola gli faceva molto meno male. «A cosa devo il piacere?»

«Mi dispiace disturbarla. È solo che avevo piacere di conoscerla e scambiare qualche parola con lei.» Il vecchio lisciò le pagine del giornale con gesti un po’ meccanici, nervosi. Era stranamente agitato, troppo coinvolto per essere un volontario dell’ospedale, e Rotwang lo osservò con preoccupazione. «Sul giornale c’è scritto che è entrato nella Villa in fiamme. Si è comportato da eroe.»

Non aveva mai pensato che quella storia sarebbe finita sul giornale. Non che avesse pensato affatto. Rotwang si tirò su un po’ a fatica sul letto, issandosi contro i cuscini a forza di gomiti, e accennò col capo al giornale. L’altro glielo porse obbedientemente: la foto della Villa che bruciava campeggiava sulla prima pagina del giornale locale. Non volle neppure leggere il titolo: lo spinse via con le mani bendate. «I giornalisti non sanno mai che cosa scrivere. Bisogna perdonarli, comunque. Bisogna pure che mangino anche loro.»

«Sì, ma è vero» insisté l’uomo.

Rotwang gli scoccò un’occhiata seccata. «Diciamo che non mi sono bruciato cucinando. È contento?»

L’uomo rimase in silenzio a considerare le sue parole per un po’.

«Mi scusi» disse infine. «Lei è il dottore tedesco che abitava con mio figlio, no? Lo dicono tutti…»

D’un tratto fu come assistere al dilacerarsi di un velo. Rotwang levò gli occhi su di lui come se lo vedesse per la prima volta: ecco dov’era che l’aveva già visto, ed ecco perché non riusciva a ricordarlo. Aveva pensato di averlo visto da qualche parte sull’Isola Cannella, ma la sua era la faccia che campeggiava sul giornale, perlopiù in foto di repertorio, di fianco a ogni articolo che menzionasse il signor Fuji del Centro Pokémon Volontario di Lavandonia; era negli occhi di Emir…

Esser colto di sorpresa era una sensazione che non gli piaceva per nulla. Rotwang si raddrizzò maggiormente sul letto, scrutando fisso quell’uomo di cui aveva fino ad allora solo sentito parlare, e disse lentamente, con più stizza di quanta ne occorresse in realtà: «Presumo che sia venuto a farmi la morale perché mi scopavo suo figlio.»

Il signor Fuji ebbe un sorriso piuttosto simile a una smorfia. «Le infermiere mi avevano detto che è piuttosto aggressivo. Però devo deluderla: io non mi sconvolgo per così poco. La prego, continui pure.»

«Quindi immagino che non sia venuto a farmi la morale» riprese Rotwang con circospezione. «Posso sapere allora a cosa devo l’onore?»

Il signor Fuji lo scrutava interamente come se cercasse di far combaciare la sua immagine con quella che di lui si era costruita nella propria mente nel corso del tempo: Rotwang non vedeva quali somiglianze potesse trovare con quell’immagine, ora che lo vedeva in un letto d’ospedale con le mani bendate e la gola ustionata dal fumo. «È stato Emir a darle quest’idea di me, non è vero? Quella di un vecchio che passa i suoi ultimi giorni a far la morale a voi giovani.»

«Oh, mi perdoni» rispose Rotwang. Ricordava ancora troppo bene il dolore di Emir quel giorno in cui era tornato a casa da Lavandonia, dopo che la polizia aveva perquisito la casa di suo padre, e ogni volta che sui giornali compariva qualche lettera di protesta, contro o a favore di questa o quella ideologia. «Devo essermi perso la sua lettera sui giornali in cui si sforzava di dar di sé un’immagine diversa.»

Questa volta il signor Fuji rimase interdetto e non seppe che dire.

Neppure Rotwang era così perfido da infierire su un povero vecchio. Dopo quelle schermaglie iniziali, e aver affermato la propria superiorità, poteva ritenersi soddisfatto, e decise di lasciar perdere. Si sforzò di mostrarsi ragionevole.

«Ascolti… non è che non apprezzi la sua compagnia, ma dubito che lei possa apprezzare la mia. Se non ha nulla di particolare da dirmi, sta sprecando il suo tempo. In ogni caso, se è questo che voleva sapere, io non mi vedo con suo figlio da due anni. Non avrebbe fatto meglio a restare ad Azzurropoli?»

Il signor Fuji sbatté le palpebre un paio di volte. «Azzurropoli?»

«Voglio dire» specificò Rotwang gentilmente. «Al Grandi Ustionati.»

«Mi scusi» disse il signor Fuji, piuttosto imbarazzato. «Temo di non seguirla.»

Rotwang aggrottò la fronte. «È lì che hanno ricoverato Emir, no?»

«Ma… dottore» sussurrò il signor Fuji. D’improvviso le sue labbra tremavano. «Emir è al piano di sotto. È qui. All’obitorio.»


Si rese conto d’aver gridato solo quando le braccia del signor Fuji lo abbrancarono per le spalle e lo trattennero contro i cuscini e la sua voce supplicante, rotta dall’emozione, ripeté contro il suo orecchio parole che solo dopo un po’ egli fu in grado di distinguere. «… mi dispiace, la prego, non gridi… non sapevo che lei non sapesse, ma ora la prego, la prego, si calmi…»

Aveva guardato ovunque gli indicassero, cieco e fiducioso come un bambino troppo stupido per capire, ostinatamente chiudendo gli occhi per non vedere la realtà che lo circondava da ogni parte. Non aveva visto perché non aveva voluto vedere; e ora gli indizi e i segnali che lo avevano attorniato da ogni parte gli balzavano agli occhi e gli tornavano alla memoria deridendolo per la sua cecità – Portia gli aveva detto che Emir era ad Azzurropoli ed egli le aveva creduto senza chiedere perché non voleva sapere. Aveva ignorato ogni sua stranezza dopo quel momento, aveva finto di non vedere le sue lacrime, le sue contraddizioni, la sua inspiegabile agitazione, perché se le avesse notate avrebbe dovuto chiedergliene il motivo; e lui non aveva voluto conoscere quel motivo. Promettimi che starai molto, molto calmo, qualunque cosa accada, gli aveva chiesto Portia piangendo, e lui aveva promesso tutto quello che lei voleva senza chiedere, perché in fondo sapeva che lei stava mentendo…

«La prego, non mi faccia cacciare.» Il signor Fuji lo stava ancora supplicando, ma Rotwang lo udiva a malapena. «Ho ancora delle cose da chiederle…»

Rotwang si abbandonò sul cuscino senza lottare più. Si sentiva bruciare le lacrime agli angoli degli occhi, ma non aveva modo di asciugarle con le mani, e forse neppure gli importava. Portia gli aveva mentito; Emir era morto, forse era già morto quando lui stupidamente era entrato nella Villa, e di salvarlo egli non aveva avuto speranza mai; Portia gli aveva mentito, eppure egli non riusciva a sentir montare, dentro di sé, la rabbia che avrebbe dovuto provare verso di lei. Gli aveva mentito al momento del suo primo risveglio, quando ancora era confuso e spaventato in preda all’anestesia e al dolore, e lei ancora in preda al terrore di perderlo; e poi era rimasta prigioniera della sua stessa bugia e non aveva saputo come tirarsene fuori senza farlo agitare.

Girò il capo sui cuscini per asciugarsi gli occhi contro la spalla e non dover più guardare il vecchio che lo scrutava fissamente, come aspettandosi da un momento all’altro ch’egli si rimettesse a gridare.

«Non… non glielo avevano detto?»

La domanda era talmente stupida che Rotwang non rispose. Rimase ostinatamente immobile sui cuscini, dandogli le spalle, e chiese: «Perché è venuto da me?»

«Volevo parlare con lei» disse il signor Fuji.

«Suo figlio è morto» disse Rotwang duramente. La brutalità delle sue parole fu tale che Fuji sobbalzò. «Che cosa ci fa lei qui?»

«Volevo parlare con lei» ripeté per l’ennesima volta il signor Fuji. «Lei ha vissuto con mio figlio, per un po’.»

«Questo lo abbiamo già appurato» mormorò Rotwang. «Gliel’ho già detto. Non ci vivevo più.»

«Lei ha cercato di salvare mio figlio. Si è gettato nel fuoco per lui.»

Gli scappò una risata amara. «Non mi sono gettato proprio da nessuna parte. Sono entrato dalla porta come tutti.»

«Dottore» insisté il signor Fuji. «Perché ha rischiato così tanto per cercare di salvare mio figlio?»

Rotwang si strinse nelle spalle senza saper che dire. Qualsiasi risposta gli venisse in mente suonava troppo melodrammatica da pronunciare. Disse la stessa cosa che aveva detto a Portia: «Perché neppure lui meritava di morire bruciato.»

Il signor Fuji parve non trovare nulla da replicare a quell’osservazione. Riprese il giornale e lo spiegò sul letto, Rotwang lo sentì dal rumore delle pagine che frusciavano. «Sono stato in banca, ieri pomeriggio.»

«Interessante» commentò Rotwang, che non vedeva l’utilità di quell’affermazione.

Fuji proseguì come se non l’avesse sentito. «A cercare di sistemare un po’ i suoi conti, sa. Emir a queste cose non sapeva star dietro.»

«Non era così incapace» obiettò Rotwang, ma Fuji non lo sentì.

«Sono stati gentili in banca, sa? Mi hanno dato gli ultimi estratti conto e tutto il resto.»

Interessante, avrebbe voluto ripetere Rotwang, ma non ritenne necessario sprecare voce per dire qualcosa che il signor Fuji probabilmente non avrebbe comunque ascoltato: sembrava parlare per se stesso piuttosto che per lui, ed egli decise di lasciarlo fare. S’ingegnò a mettersi seduto di nuovo, puntellandosi sui gomiti, e tornò a guardare verso di lui, aspettando di capire dov’era che l’altro intendeva andare a parare.

«Ho notato che ha effettuato un bonifico sul conto di mio figlio quasi ogni mese negli ultimi due anni.» La sua voce suonò quasi timida. «Come mai, se vi eravate lasciati?»

L’uomo che sedeva di fianco al suo letto, con le pagine del giornale nervosamente strette tra le mani, era un povero vecchio che aveva appena perduto suo figlio e che non aveva più avuto sue notizie negli ultimi quattro anni. Durante quegli anni, Emir era stato per quell’uomo un estraneo molto più di quanto lo fosse stato per lui.

«Non si meritava neanche di morire di fame» rispose Rotwang. «Pensava che suo figlio potesse vivere senza stipendio per più di quattro anni, senza di me?»

Gli occhi del signor Fuji tornarono a posarsi sul giornale aperto che Rotwang si ostinava a non guardare. Sembrava cercarvi qualcosa che forse quell’articolo non poteva dirgli.

«Perché ha continuato a prendersi cura di lui?»

Chissà perché non gli venne in mente alcuna vera risposta a quella domanda, forse perché la domanda era troppo sciocca per rispondere seriamente. Gli veniva quasi da ridere. Gli tornò in mente soltanto una delle citazioni preferite di suo fratello, che gli ripeteva ogni volta che gli chiedeva soldi in prestito ai tempi dell’Università. «Jeder gebe, wie er es sich in seinem Herzen vorgenommen hat, nicht verdrossen und nicht unter Zwang*…»

Fuji lo guardò con preoccupazione come se delirasse. «Si sente bene?»

Rotwang scrollò le spalle. «Niente, niente. Mio fratello è filologo neotestamentario a… ah, lasci stare. Ma non sta bene rinfacciare a un uomo le sue debolezze, sa.»

«Lei questa la chiama una debolezza?» protestò Fuji a mezza voce.

Gli salivano alla mente ricordi che affioravano alla superficie della sua coscienza come bolle nell’acqua. Rotwang sbatté le palpebre più volte, furiosamente, per non vederli né sentirli. Emir era morto, disse la sua coscienza, ed egli la mise a tacere con rabbia parlando con voce più alta della sua. «Certo che lo è.»

Il signor Fuji accolse la sua risposta con la dignità composta, dignitosa, con la quale avrebbe incassato un colpo. Tornò a tormentare il giornale, pensierosamente, e stavolta neppure alzò gli occhi su di lui per parlare di nuovo.

«L’ha fatto anche per Mew?»

L’aveva detto a voce bassissima; Rotwang non avrebbe neppure udito la sua voce se non fosse stato così vicino, se solo il nome di Mew non fosse stato nella sua mente in ogni momento ed egli non lo avesse sentito in ogni parola che altri pronunciavano, non avesse percepito il suo ricordo persino nell’aria. La mancanza di Mew era tale che ogni volta gli mancava il respiro; il suo ricordo gli bruciava in petto più del fumo, più delle ustioni. Ma alla sua perdita che ancora tormentava i suoi sonni Rotwang non poteva reagire che nell’unico modo che conosceva: con la rabbia.

«Se evita di dirlo ad alta voce mi fa un favore, sa» disse guardando ostinatamente lo spicchio di corridoio attraverso la porta aperta. Nessuno badava a loro, ovviamente, ma Rotwang proseguì allo stesso modo. «Suo figlio non può più essere arrestato, forse, ma io sì.»

Il signor Fuji non l’aveva affatto detto ad alta voce. Aveva bisbigliato il suo nome a malapena, in punta di labbra, piano tanto che appena fosse udibile; ma era evidente che non aveva la minima intenzione di contraddirlo, e non fece niente per obiettare o difendersi.

«Mi dispiace.» La sua voce suonava genuinamente mortificata. «È solo che avevo bisogno di sapere se lei fosse a conoscenza di… di lei.»

Rotwang continuò a guardare ostinatamente al di fuori della stanza. Avrebbe dovuto provare pietà per quel vecchio seduto al suo fianco, disperatamente alla ricerca di qualsiasi cosa gli parlasse di suo figlio, ma, forse perché gli ricordava certe scene omeriche, strappalacrime, di quando studiava al ginnasio, non ne provava nessuna.

«Che vuol dire che lo sapevo?» chiese senza troppa buona grazia. «Pensa che sarei mai andato a vivere con suo figlio, che sarebbe successo tutto quello che è successo, se non fosse stato per lei?»

Non era stato sempre solo per lei, in realtà. M2 era stata quasi tutto, ma non era stata ogni cosa, e non tutti i suoi pensieri erano sempre stati per lei. Ma questo apparteneva solo a lui, e non era tenuto a raccontarlo a nessuno.

«Lei era là dentro?» chiese Fuji a bassa voce. «Dentro la Villa, intendo. Durante l’incendio.»

Gli tornò in mente d’improvviso il lampo di luce azzurra che quella notte aveva nominato Lestournelle, ma allontanò quel pensiero da sé, ancora una volta. L’aveva vista morire. M2 si era assommata a M1 nei suoi rimpianti, e ogni notte egli si ripeteva che avrebbe dovuto salvarli entrambi. La cosa peggiore era che sapeva di aver ragione su entrambi, anche se in modi diversi.

«No» rispose. «È morta due anni fa.»

«Due anni fa» ripeté Fuji. La coincidenza nella data parve risuonare nella sua mente. «È per questo che vi siete lasciati?»

Rotwang non rispose. Gli pareva che fosse già abbastanza evidente così: il signor Fuji attese la sua risposta per un po’, poi dovette sembrare evidente anche a lui. Assunse l’aria impacciata, fuori luogo, di chi deve fare una domanda scomoda e non sa che parole usare.

«Posso chiederle com’è morta?»

Per un attimo Rotwang considerò quasi di dirglielo. Dire la verità però avrebbe richiesto di risalire all’indietro lungo tutta la linea di eventi che lui stesso non conosceva nella loro interezza, all’indietro per più di quattro anni fino alla notte nella giungla, fino all’unico grido di M1 sotto le sue mani prima di morire, e ai grandi occhi azzurri di Mew. Avrebbe dovuto dire anche qualcosa che non aveva mai saputo: che cosa avesse attraversato la profonda mente di Emir in quei due mesi che aveva trascorso recluso da solo nel ventre della Villa, al termine dei quali tutto era successo come in un incubo. Avrebbe dovuto ammettere ad alta voce la propria cecità, e soprattutto avrebbe dovuto confessare che quello che Emir aveva fatto andava molto al di là, in modi inimmaginabili, del rapimento di un Pokémon e di un esperimento genetico. Quell’uomo non avrebbe mai più potuto pensare a suo figlio come aveva fatto fino ad allora; e Rotwang sapeva quanto doloroso fosse quello che lui conosceva.

Dire tutto ciò sarebbe stato troppo intenso e troppo complicato, e Rotwang non solo non se ne sentiva le forze, ma neppure si sentiva in diritto di cancellare tutto ciò che quell’uomo sapeva di suo figlio. Cercò le parole con accortezza.

«Negli ultimi tempi, da solo nella Villa, Emir non era più tanto in sé» disse lentamente, indagando sul suo volto, a misura che parlava, gli effetti che le sue parole scaturivano; ma il signor Fuji si limitava ad ascoltarlo in silenzio, con occhi attenti, come se bevesse le sue parole a una a una dalle sue labbra. Nelle sue parole egli disperatamente cercava suo figlio. «Emir ha fatto delle scelte sbagliate, a volte… ma quello che è successo a Mew è stato un incidente.»

Non aveva più rivisto Emir da quando aveva lasciato la Villa, ma non importava vederlo per aver sue notizie. Ne parlava tutta l’Isola, di tanto in tanto. Portia aveva cercato di telefonargli tante volte, ma alle sue telefonate nessuno aveva mai risposto, e Rotwang s’immaginava gli squilli echeggiare senza scopo nelle stanze vuote. Gli aveva persino chiesto di tornare a parlargli, e dopo averglielo chiesto lo aveva supplicato: Rotwang l’aveva spinta fuori dal proprio ufficio senza ascoltare le sue proteste. Qualunque cosa ti abbia fatto, dobbiamo almeno accertarci che sia vivo, gli aveva gridato Portia sbattendo i pugni contro la sua porta, e Rotwang s’era appoggiato a quella porta ignorando le sue suppliche. Portia era inutilmente melodrammatica: che fosse vivo lo sapeva tutta l’Isola, perché ogni tanto lo avvistavano fuori dalla Villa. La segretaria del Laboratorio era riuscita a parlargli, una volta: Rotwang l’aveva sentita mentre raccontava a Portia nel suo ufficio, profondamente commossa e turbata, perché a Emir aveva voluto bene davvero, che l’aveva incontrato nella spiaggia e che lui non l’aveva riconosciuta; che le aveva parlato con voce strana, totalmente assente, e che aveva dovuto pensare a lungo dopo ogni sua domanda… Credo che fosse drogato, aveva confidato a Portia piangendo, e Rotwang s’era risentito profondamente della banalità della conclusione a cui era giunta. Non era drogato, era pazzo; ma questo era bene che continuasse a saperlo solo lui.

Il signor Fuji chinò il mento sul petto sorridendo tra sé. Tentennò il capo per un po’.

«È la verità?»

No, non lo è, avrebbe dovuto dire Rotwang. Invece, guardandolo negli occhi, disse ad alta voce: «Mi sta dando del bugiardo?»

Se Emir non fosse morto, il signor Fuji non gli avrebbe creduto: Rotwang glielo lesse negli occhi con la stessa chiarezza con la quale aveva letto tutto il letto. Ma Emir era morto, la sua vita si era spenta, era svanita da quel mondo come la fiamma di una candela, proprio come se non fosse mai esistita sulla terra, e quel padre che lo cercava affannosamente nel solo luogo al mondo dove sperava di trovarlo, nelle sue parole, aveva un tale bisogno di saper qualcosa di lui che si sarebbe aggrappato a tutto. Anche alle sue menzogne, se la verità era troppo terribile perché la si potesse ascoltare.

«Non mi permetterei mai!» protestò Fuji spalancando gli occhi. «Glielo chiedevo solo perché…»

Sapendo d’avergli mentito, Rotwang rispose: «Lasci stare. La prendevo solo in giro.»

La conversazione era finita, o meglio ci sarebbero state tante cose da dire, forse infinite; ma l’unico a conoscerle era lui, ed era anche l’unico a non aver forze a sufficienza per parlarne. A quel vecchio che Emir aveva odiato con tutte le sue forze ora Rotwang non sapeva più che dire, ma uno strano pudore lo tratteneva dal cacciarlo direttamente. Il signor Fuji, a ogni modo, parve condividere il suo imbarazzo, o quantomeno comprenderlo, perché si risolse a piegare definitivamente il giornale, con aria di commiato, e fece per alzarsi.

«La ringrazio, dottore. La pazienza che ha avuto con me le fa davvero onore. L’ho già disturbata più che a sufficienza, direi…»

«Non se ne vada» disse Rotwang d’impulso.

Il signor Fuji chinò gli occhi su di lui in un moto di stupore. «Come dice?»

Rotwang si pose quasi la stessa domanda: perché l’aveva detto? Era stato un rimasuglio di civiltà, forse: un’eco della sua educazione classica, borghese, Achille che piangeva con Priamo eccetera, e di sicuro quei ricordi che affioravano dalla sua giovinezza lo condizionavano più di quanto fosse disposto ad ammettere. Ma poi c’era stato anche qualcos’altro che era ancora più oscuro e inconfessabile, e che Rotwang non avrebbe ammesso mai, neppure di fronte a se stesso: che quell’uomo era l’unico con cui potesse parlare di Emir. Che quando fosse rimasto solo, la consapevolezza che Emir era morto, che il suo pensiero non poteva più raggiungerlo in nessun luogo del creato, come onde radio destinate a vagare sempre e a non essere recepite mai, l’avrebbe assalito con una forza ch’egli non era in grado di reggere e che preferiva procrastinare. Ad alta voce però bisognava pur dire qualcosa per giustificare la sua stranezza improvvisa, e Rotwang, colto alla sprovvista, disse: «I miei fratelli non arriveranno prima di stasera. Potrebbe tenermi compagnia fino ad allora.»

«Oh.» Il signor Fuji parve cercare qualcosa di educato da dire per prendere tempo. «Più di un fratello, quindi. Sono una bella cosa, le famiglie numerose. Abitano qui in Kanto anche loro?»

«Siamo sparsi per il mondo. Uno è in America, mentre altri due sono rimasti in Germania.» Non s’accorse neppure di aver sorriso un po’. «Il più piccolo ha finito da poco il dottorato in ingegneria aerospaziale.»

«Tutti figli di successo, quindi» commentò Fuji gentilmente. «I vostri genitori devono essere molto fieri di voi.»

Prima di mostrare una parte troppo vulnerabile di sé, Rotwang cambiò decisamente argomento. «Quindi, rimane?»

Fuji si tormentò il giornale tra le mani per un po’.

«So che lei non mi vuole davvero qui, dottor Rotwang» disse finalmente, con un sorriso esitante. «Lei prova solo pietà per un povero vecchio. La sua gentilezza le fa troppo onore.»

«Senta» lo interruppe Rotwang. «Io non sono molto educato, ma sono molto onesto. Era Emir l’ipocrita tra noi due, non io. Se gliel’ho chiesto è perché…»

Nella pausa che fece, senza saper che dire, Fuji avrebbe dovuto fargli la cortesia di parlare per riempire l’imbarazzo del silenzio; invece Fuji rimase in silenzio ad aspettare di sentire da lui perché gli avesse chiesto di restare; ma Rotwang non lo sapeva, o forse soltanto non lo sapeva dire, e nessuno dei due disse niente per un momento. Poi l’impasse passò, e il signor Fuji, riponendo il giornale, sedette di nuovo sulla sedia, quasi sul bordo, come se temesse di approfittare troppo della sua cortesia.

«La ringrazio, dottore. Lei è…» La sua voce vibrava di una gratitudine ch’egli non avrebbe saputo dire a parole. «Non osavo chiederglielo, ma… lei è il solo con cui possa parlare di mio figlio.»

«Sì» disse Rotwang schiarendosi la gola, sperando che dall’esterno non si sentisse che la sua voce tremava. «Anche per me lei è l’unico con cui possa parlare di Emir.»


Fine.


* Seconda lettera ai Corinzi 9, 7: “Ciascuno dia secondo quanto ha deciso nel suo cuore, non con tristezza né per forza.”


Finire questa storia è la sensazione più strana che io abbia mai provato. Credevo che sarei stata felicissima di dare finalmente una fine a questi personaggi, per quanto dolorosa, e in un certo senso lo sono; ma questa storia era anche rimasta l’unica cosa costante della mia vita negli ultimi sette anni, e averla finita mi lascia uno strano senso di smarrimento.

A un certo punto però mi sono sentita in grado di lasciar andare questa storia e mi sono decisa a scrivere questo epilogo, cercando di dare a ciascuno il finale che avevo progettato fin dall’inizio.

Non posso che ringraziare, arrivata a questo punto, tutti coloro che hanno sostenuto questa storia in ogni modo. Grazie perciò a carachiel, Luminja, Mad_Dragon, NicoRobs, Persej Combe, e Wings44 per aver aggiunto la storia alle seguite; a BlazePower, Peppe_97_Rinaldi, PoisonRain, RedLinus e Wings44 per averla aggiunta alle preferite; e infine grazie a cristal_93, KomadoriZ71, Peppe_97_Rinaldi, Persej Combe, Mad_Dragon, NicoRobs, BlazePower, IndianaJones25, PoisonRain, Gaia Bessie, Wings44 e Bankotsu90 per le loro meravigliose recensioni. Non so come ringraziarvi, se non infinitamente, per aver provato a conoscere questi personaggi e le loro vicissitudini, e per aver sostenuto me. Siete stati meravigliosi. Grazie.

A parte, non posso che ringraziare di cuore Fiulopis per le sue continue correzioni a questa storia, a prezzo della sua serenità, e per il suo sostegno immancabile.

Non mi rimane che augurarmi che questa storia non vi abbia delusi troppo, e augurare a voi un anno ricco di tutto quello che potete desiderare.

A presto!

Afaneia

   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Pokemon / Vai alla pagina dell'autore: Afaneia