«Cerca
di starle vicino il più possibile.»
Mena
proferì quelle parole intenta a pelare delle patate in
cucina. Non
alzò lo sguardo su di lui; da quando aveva saputo la notizia
e da
quando Piero aveva fatto quella scenata in casa loro era sempre
più
arrabbiata.
Vittorio
sbuffò, poi si passò una mano in mezzo ai
capelli.
Come
se fosse facile starle vicino. Sembrava che non volesse più
stare
con lui.
Annuì lievemente.
Mena
posò il coltello e spostò con il braccio delle
ciocche castane che
le ricadevano davanti agli occhi.
«Io
ancora non capisco. Non riesco a capire…»
mormorò, scuotendo la
testa.
Il
ragazzo alzò gli occhi al cielo. Sua madre ricominciava con
i soliti
discorsi.
«Come
diavolo avete fatto? È inconcepibile!»
sbottò con le orbite di
fuori.
«È
assolutamente una cosa dell’altro mondo.»
Vittorio
sbuffò di nuovo. Non era roba dell’altro mondo
aspettare un
bambino, si disse. Dio, quanto era diventata pesante, non la
sopportava più.
«E
lei, poi, ancora minorenne! Ci credo che Piero ha fatto tutte quelle
storie.»
Il
castano fece finta di non sentirla e mandò un messaggio con
il suo
cellulare.
Mena
si pulì le mani con un panno, poi riprese incrociando le
braccia.
«Sei
stato un irresponsabile, Vittorio, te ne rendi conto? Siete ancora
dei ragazzini. Santo cielo, non riesco ancora a crederci!» si
portò
una mano sulla fronte, angosciata, abbandonandosi sulla sedia.
«Prima
Ross e ora tu. Siete uguali voi due, combinate sempre disastri. Oh,
Vergine! E tu stai tutto pacato a fare finta di niente. Non capisci,
sei ancora troppo giovane, sei troppo immaturo, sei così
poco
responsabile...»
Adesso
era troppo.
Vittorio
si alzò di scatto dalla sedia facendola sobbalzare, menando un colpo
sopra il
tavolo e facendola così zittire all’istante.
Aveva
i pugni serrati e non ce la faceva più a sentire quelle
critiche
pesanti su di lui. Tutti pensavano al fatto che erano giovani, di qua
e di là, ma nessuno sapeva cosa stava succedendo tra di
loro,
invece.
«Adesso
basta, mamma, mi hai rotto i coglioni!» sbottò con
il volto
un’espressione livida.
Mena
lo fissò con gli occhi spalancati, lievemente intimorita
dalla
reazione.
«Sempre
a prendermi per irresponsabile, incosciente, tutte queste stronzate!
Basta, mi sono stancato! Lo so che abbiamo sbagliato, che ho
sbagliato,
mettila come ti pare, ma basta. Non ce la faccio
più!» urlò.
La
sua salute psicologica era talmente fragile in quel momento da essere
appesa ad un filo sottile.
Mena
lo fronteggiò, guardandolo severamente.
«E
adesso fai pure la vittima, bravo! Prima combini il danno e poi ci
piangi sopra!» lo rimproverò apparentemente senza
scrupoli.
Era
sempre stata così, sua madre, severa ed esigente, ma adesso
era
troppo, si disse. Non meritava di sentire quelle parole offensive.
Non meritava di essere definito vittima
quando stava davvero patendo dentro le responsabilità delle
sue
azioni, quando Valeryn si allontanava sempre di più da lui.
«Senti,
io sono qui che sto affrontando le cose, non sto scappando. Io non
sono un vigliacco!» sbottò fumante di rabbia, di
frustrazione nel
sentirsi impotente di fronte ad una situazione così grande.
E
fu un attimo prima che gli venne in mente qualcosa che gli comprimeva
il petto da tempo e che aveva provato a malcelarla dentro di
sé.
«E
poi parli proprio tu, eh? Quanti anni ci sono voluti prima che mi
dicessi che non ero veramente tuo
figlio?»
chiese con ironia tagliente.
Calò
un silenzio pietrificante.
I
suoi occhi grigi luccicarono pieni di risentimento, mentre Mena
spalancava la bocca e si portava una mano al cuore, mortificata. Non
avevano più affrontato quell’argomento fino ad
allora.
La
sua adozione rimaneva una ferita aperta su tutti loro, per il modo in
cui avevano gestito le cose e per come Vittorio lo aveva scoperto.
«Chi
era quella che piangeva per non aver avuto il coraggio di dirmi le
cose come stavano? E adesso incolpi me! Io sono qui, io
non scappo!»
continuò.
Le
lanciò uno sguardo di fuoco, uno sguardo che aveva qualcosa
di
represso, qualcosa che aveva cercato di seppellire, ma che era uscito
inevitabilmente fuori perché dentro bruciava come fuoco
ardente.
Mena
abbassò gli occhi, ferita, gli occhi le si riempirono di
lacrime.
Quelle parole erano come pugnali per lei, perché aveva
sempre
sperato nel profondo del suo cuore e della sua anima che Vittorio
riuscisse a superare al più presto quel trauma e invece non
lo aveva
ancora fatto, il dolore era ancora troppo vivido, aleggiava
costantemente sopra di lui, sopra di lei.
Prima
che potesse dire qualsiasi cosa, il cellulare del ragazzo
squillò.
Lesse il messaggio e fece per uscire dalla cucina.
La
donna, con il cuore in gola e con le lacrime che colavano dalle sue
guance, si voltò verso di lui.
«E
adesso dov’è che vai?» chiese, tirando
su con il naso, mentre una
lacrima solcava la sua guancia e si faceva largo attraverso la pelle
segnata dall’età.
Vittorio
rimase di spalle, non si voltò neanche a guardarla.
«Da
lei. Devo starle vicino, l’hai detto tu.»
soffiò con voce
tremante.
«Per
quanto me lo permetta…» aggiunse poi in un
sussurro, mentre una
lacrima solcava anche il suo bel viso e l’asciugava con
violenza,
quasi fosse disgustato dalla sua stessa debolezza.
La
donna rimase sola in cucina a piangere e a tormentarsi per i suoi
stupidi errori del passato.
Non
si sarebbe mai perdonata per ciò che aveva fatto a suo
figlio, mai,
e promise a sé stessa che non gli avrebbe detto
più niente, non lo
avrebbe più rimproverato, anzi lo avrebbe aiutato. Anche se
era
difficile comunicare con lui, anzi, quasi impossibile, quello era il
minimo che poteva fare. Aiutare Vittorio a capire i suoi sbagli, a
imparare a non commetterne più. Non voleva che un giorno
potesse
fare la sua stessa fine.
Guardò
il secchio con le patate e lo spinse di lato, emettendo un singulto e
portandosi il dorso della mano su un occhio.
Non
aveva più voglia di fare niente, non aveva la forza.
Voleva
solo piangere e piangere.
Passò
a prenderla con la macchina di Ross. L’aspettava
giù, mentre lei,
con molto imbarazzo, indugiava sul portone di casa sua. Si morse il
labbro inferiore, confusa, piena di dubbi tormentosi.
Non
sapeva se stava facendo la cosa giusta.
Aprì
la portiera e salì in macchina bisbigliando un flebile
“ciao”,
evitando accuratamente di guardarlo in viso.
Vittorio
non si aspettava diversamente, perciò sospirò, ma
non rispose. Mise
in moto la macchina e partì per il centro.
Per
tutto il tragitto Valeryn non disse una parola e lui non fece da
meno. Non riusciva a dirle nulla, era come immersa nel suo mondo, in
quei pensieri che il ragazzo non riusciva a penetrare.
Parcheggiò
in un vicolo, poi scese dalla macchina aprendole lo sportello. Lei
scese eludendo ancora il suo sguardo.
Gli
sembrava così ridicola tutta quella situazione, o per meglio
dire,
il loro comportamento gli sembrava ridicolo. A Vittorio
sembrò
talmente ridicolo non parlarle, camminare al suo fianco senza
stringere la sua mano, fare finta di niente quando in realtà
aveva
voglia di urlare.
L’osservò
sedersi su una panchina, nella solita piazzetta comune.
Voleva
scuoterla violentemente, voleva svegliarla, voleva urlarle che non
riusciva più a sopportare tutto quello.
Non
lo fece, solo sentiva il cuore che gli batteva veloce, come preambolo
di qualcosa di negativo.
Era
come se lo stesse mettendo in allerta.
Valeryn
si guardò intorno, quasi aspettandosi di vedere spuntare
tutti i
loro amici da dietro gli alberi scuri. Ma nessuno di essi si fece
vivo e lei ne fu quasi delusa di non avere una scappatoia
dell’ultimo
momento.
Iniziava
a pentirsi di aver deciso di parlargli proprio quel giorno, forse non
era pronta, non sapeva che parole trovare.
Vittorio,
inoltre, sembrava perso nei suoi pensieri, il suo sguardo vacuo era
puntato altrove. Lo sentiva che era triste per causa sua, per
l’attaccamento evitante che aveva indotto da circa una decina
di
giorni.
Si
sentì in colpa, più in colpa che mai. Dentro di
lei non riusciva a
credere di volersi allontanare da lui, dal suo unico amore, dalla
persona che la completava nel modo più profondo, ma non
sapeva che
fare, non aveva altra scelta, aveva bisogno di riflettere.
“Hai
paura.”
Le
parole di Miriel tornarono a tartassarle la testa. Forse era vero che
aveva paura, perché nemmeno lei riusciva a trovare una
spiegazione
logica a quel comportamento. E si sentiva una stupida, ma doveva
parlargli. Doveva metterlo al corrente di come si sentiva, delle
emozioni contrastanti che la pervadevano quando stavano insieme.
Vittorio
continuò a non spiccicare parola, prese un pacchetto di
sigarette
dalla tasca dei pantaloni e ne estrasse una. Non fumava giornalmente
come Elia, anzi a dire il vero fumava poche volte e solo in compagnia
degli amici, ma in quei giorni si sentiva nervoso come non lo era mai
stato.
Poi
ripensò al suo amico, tirando una boccata di fumo.
Elia.
Ma cosa c’entrava in quel momento soffermarsi su di lui? Non
era
possibile che potesse collegare una semplice sigaretta a
Elia…
Il
solo menzionarlo nella sua testa gli evocò immagini del suo
viso e
il suo sorriso, la sua risata e le sue parole.
E
le sensazioni.
Quelle
erano più che mai impresse nella memoria del suo corpo.
Continuò
a fumare nervosamente, per un attimo dimenticandosi di Valeryn alla
sua sinistra. Cercando di capire il perché Elia lo turbava
così
tanto, perché sentiva una sorta di guizzo
all’altezza del cuore
quando pensava a lui.
La
ragazza nel frattempo si portò una mano al ventre
spontaneamente,
poi decise di aprire un argomento perlomeno decente. Non riusciva
più
a sopportare quel silenzio, si sentiva in colpa, e doveva dire a
Vittorio tutta la verità.
«Ehi.
Me la offri una sigaretta?» lo chiamò, cercando di
attirare la sua
attenzione con una domanda a caso.
Il
ragazzo smise di fumare, si voltò lentamente verso di lei,
mettendola quasi in soggezione. Dopo come lo aveva trattato in quei
giorni se ne usciva con una stupida sigaretta...
«No.»
rispose semplicemente. Continuò a tirare dalla sua, volgendo
lo
sguardo altrove, mentre Valeryn lo guardava accigliata.
«Come
sarebbe no?»
chiese allora, brusca.
«No,
sai cosa significa no?» la schernì con una smorfia
«Negazione, non
te la do la sigaretta.»
La
castana rimase spiazzata dalla sua risposta e, ferita,
abbassò lo
sguardo.
«Volevo
solo...» mormorò, ma la sua voce si
spezzò.
Vittorio
aveva tutte le ragioni per risponderle così,
d’altronde lei voleva
allontanarsi da lui, ma non sopportava la sua freddezza.
“Sei
un’egoista.”
«Non
puoi fumare, lo sai.» aggiunse poi il castano, giustificando
il
motivo per cui non gliel’aveva data, improvvisamente
interessato a
dei bambini che giocavano a palla vicino a loro.
«Ma
io...» provò ad aggiungere lei.
«Cosa?»
Lui si voltò stancamente «Cosa, Valeryn, vuoi
dirmi che cosa c’è?»
«Io…»
si bloccò, perché i suoi occhi grigi erano
freddi, la tagliavano,
le facevano male.
«Io...
Niente.» mormorò, tremante, intimorita al sol
pensiero della sua
reazione a quello che aveva da dire.
«Smettila
di prendermi in giro, dimmelo per favore, dimmi che cazzo hai! Fai un
cenno, scrivimelo, ma fammelo sapere!»
Vittorio
aveva gettato la sigaretta ed era livido, le faceva paura, non lo
aveva mai visto arrabbiato in quel modo. Aveva ragione a stare
così,
lei lo stava facendo soffrire senza che se lo meritasse e per di
più
non gli aveva ancora detto niente.
Guardò
nervosamente la piazza, si torturò i capelli. Non riusciva a
dirglielo, si sentiva una vigliacca.
Il
ragazzo si portò una mano sul volto, scosse ripetutamente la
testa,
sorridendo amaramente. Sentiva gli occhi lucidi, il cuore continuava
a battergli forte.
Perché
doveva soffrire? Perché
soffrire proprio quando pensava di aver trovato il culmine della
felicità con lei? Certo, avere un bambino a
quell’età non era una
passeggiata, ma lui era sicuro che ce l’avrebbero fatta in
qualche
modo, che tutto quello avrebbe rinforzato il loro amore
perché loro
si amavano davvero, anche se erano giovani. Ma adesso... adesso,
guardandola in quel momento, non sapeva se quell’amore era
ricambiato.
Valeryn
sospirò pesantemente, poi decise di allontanarsi da quel
luogo
troppo affollato. Se doveva dire la verità a Vittorio
dovevano
essere da soli, senza permanere in un luogo affollato.
«Torniamo
in macchina, per favore.» lo pregò.
«Solo
se mi prometti che parli.» aggiunse lui prontamente,
guardandola
negli occhi serio e con un tono di voce che non ammetteva repliche.
Lei
cercò di mantenere lo sguardo dei suoi occhi grigi.
«D’accordo»
si arrese alla fine.
Non
aveva altra scelta, doveva dirgli tutto.
Si
alzarono, Vittorio con il cuore in gola, lei molto inquieta.
Raggiunsero silenziosamente la macchina nel vicolo dove era
parcheggiata. Il castano aprì le portiere ed entrarono
dentro.
Ci
fu ancora silenzio per qualche minuto.
Vittorio
guardò Valeryn impaziente, lei guardava verso il finestrino,
consapevole che ormai non poteva più prendere tempo, non
poteva più
fingere. Era arrivato il momento di dirgli tutto. Prese un bel
respiro e incominciò.
«Vedi,
Vitto, io ho fatto molti errori. E mi dispiace commetterne altri di
cui so che mi pentirò.» disse piano.
Il
castano sentì il cuore cedere, deglutì a fatica.
«Va’
al dunque, cazzo, niente discorsi profondi, niente stronzate. Per
favore!»
Non
poteva sopportare che lui la pregasse. Notò tutta
l’ansia, tutto
il suo dolore impresso nei suoi occhi grigi. Per alcuni secondi si
disse di lasciar perdere, non stava facendo la cosa giusta, lo
avrebbe perso,
ma la sua mano scivolò sul suo ventre, quasi a ricordargli
che dopo
quello
si sentiva cambiata.
Fece
una gran respiro, mentre Vittorio continuava a fissarla intensamente
quasi volesse penetrarla con lo sguardo.
«Ecco,
io... Non so cosa mi succede, ma mi sento molto strana, mi sento
confusa su ogni cosa, non riesco a capire se tutto questo lo voglio
veramente.» spiegò con la voce tremante, mentre si
spostava delle
ciocche di capelli dietro l’orecchio.
«Intendi,
che… non sai se tenere il bambino?» chiese
Vittorio, preso dal
panico al sol pensiero.
Lei
sospirò, negando piano con la testa.
Ci
aveva pensato all’aborto, nei momenti in cui si sentiva senza
speranza alcuna di poter gestire quella situazione, ma
adesso… Non
aveva il coraggio neanche di pensarlo.
«No,
non è questo. Riguarda me e te.» si
apprestò a precisare.
Un
po’ lo fece respirare meglio sapendo che non aveva intenzione
di
abortire, ma la consapevolezza che era come aveva pensato in tutti
quei giorni lo trascinò nel baratro.
«L’avevo
intuito.» Abbassò il capo con tristezza, ma subito
dopo strinse i
pugni guardandola di nuovo. Cercò di farsi coraggio, sentiva
che ne
avrebbe avuto bisogno.
Valeryn
lo fissò vacuamente per alcuni secondi, poi scosse la testa
e
riprese.
«Devi
perdonarmi... La gravidanza non mi sta facendo comportare come vorrei
e... E non voglio che tu ne vada di mezzo perché non meriti
di
essere trattato così.»
Vittorio
la guardò di sottecchi, con sospetto, poi con freddezza le
domandò:
«Che
cosa vuoi dire?»
La
castana smise di torturarsi le mani, sbuffando per la
difficoltà che
sentiva nello spiegarsi, poi si morse il labbro inferiore.
«Io
non so se sia la cosa giusta. Continuare a stare insieme.» lo
disse,
ma quasi si pentì di averlo detto un secondo dopo.
Ci
furono dei secondi di silenzio dove gli unici rumori erano le auto
che passavano in strada, accanto a dove erano parcheggiati.
Vittorio
la guardò come se tentasse di capire una lingua sconosciuta,
come se
fosse un alieno proveniente da Marte, ma poi, dopo aver assimilato
inevitabilmente le sue parole, aprì la bocca.
«Ma...
ma che stai dicendo?» balbettò, non riusciva a
proferire altro,
guardava davanti a sé come se le macchine parcheggiate
davanti
fossero uno spettacolo stupendo.
Valeryn
si sentì in colpa come non mai e si scompigliò i
capelli, nervosa.
«Nel
senso che... insomma, preferirei che ci allontanassimo per un
po’,
ma non molto, io… io voglio solo vedere se riesco a
cavarmela da
sola. Voglio mettere alla prova me stessa, capisci?»
Vittorio
negò con la testa, stordito, la bocca semiaperta.
Non
poteva, anzi, non voleva capire. Come poteva essere che la sua
fidanzata, il suo amore, l’unica ragazza per cui aveva
lottato fino
in fondo potesse d’un tratto dire quelle parole?
Potesse
distruggerlo così semplicemente come con un soffio avrebbe
fatto
cadere un castello di carte.
«Mi
stai lasciando?»
chiese puntando gli occhi su di lei, occhi grigi diventati
d’un
tratto freddi, glaciali.
La
castana scosse la testa, non sapeva come dire, non sapeva ancora una
volta se stava facendo la cosa giusta.
«NO!»
si affrettò a dire, ma poi si morse il labbro ed aggiunse:
«Non
lo so, ecco, voglio un periodo di pausa, Vitto, ma... ma non
è colpa
tua... sono io che...»
«Smettila!
Smettila con queste puttanate!» urlò con rabbia,
interrompendola e
stringendo i pugni fino a farsi diventare le nocche bianche.
Valeryn
tremò leggermente, sentendosi intimorita dalla reazione
inaspettata.
O
forse era ingenua a pensare che non avrebbe reagito così,
anzi,
egoista, aveva pensato solo a lei, solo ai suoi bisogni, tralasciando
completamente i sentimenti di Vittorio.
«Io
non sono l’idiota da scaricare con le solite scuse del cazzo.
Devi
dirmi la verità.» le afferrò il mento
con una mano e la fece
voltare verso di lui, dato che si ostinava ad evitare il suo sguardo.
«Dimmi
che non vuoi più stare con me, che non mi ami
più, ma dimmelo.»
Il
silenzio che susseguì fu doloroso come degli spilli
conficcati nella
carne.
I
vetri erano appannati dal freddo.
Non
riuscivano a trovare via d’uscita a quello che stava per
accadere.
Calde
lacrime solcarono il bel volto della ragazza, lacrime amare piene di
colpa, colme di angoscia. Singhiozzò, mentre lui la guardava
senza
riuscire a dire nulla, colpito nel profondo del suo animo come un
bersaglio da poligono.
«Io,
adesso… Io non
voglio più stare con te.
Non sto bene.» furono le parole che infine
pronunciò.
Crack.
E
lui sentì il cuore spezzarsi.
La
fissò incapace di crederle, come se gli avesse appena detto
una
burla e quasi si aspettasse uno scherzi organizzato dai suoi amici,
che lei lo avrebbe abbracciato e lo avrebbe rassicurato. Non accadde
niente di tutto ciò, anzi quelle parole risuonavano
più veritiere
che mai.
Sentì
la gola secca e si passò una mano tra i capelli castani.
Faceva
male più del previsto, più dei suoi incubi remoti.
I
battiti accelerarono, cominciò a sentire un calore terribile
nonostante il freddo di pieno inverno, la macchina di suo fratello
pareva vorticasse spaventosamente fino a rinchiuderlo tra le sue
pareti e fargli perdere il respiro.
«Non
riesco a capire…» mormorò quasi senza
accorgersene di averlo
detto, anche se in fondo lo aveva capito, solo non voleva crederci,
il suo cuore rifiutava quelle parole.
«Scusami.»
disse lei, ancora con le lacrime agli occhi.
«Ho
bisogno di questa pausa. Ti giuro che non sto più bene
così. Mi...
mi sento in trappola, io... mi serve del tempo, solo un po’
di
tempo per riprendermi, assimilare tutto questo...»
«Forse
non ti ho dimostrato abbastanza quanto ti
amo.»
aggiunse il ragazzo senza aspettare che finisse, con lo sguardo vacuo
fissava il finestrino come se potesse vedere al di fuori, ma non
poteva.
Buio,
gelido, come quella giornata di dicembre.
Quelle
parole la spiazzarono, spalancò gli occhi arrossati, poi
tirò su
con il naso e si tamponò gli occhi sporchi di matita.
Si
sentiva così piena di rimorsi per aver preso quella scelta e
per
averla comunicata a Vittorio. Si sentiva colpevole del male che stava
facendo a l’unica persona che non lo meritava.
«Non
è colpa tua, Vitto. Non ho mai dubitato del tuo amore. La
colpa è
mia, sono io che non so come reagire a ques...»
«Basta
dire che non è colpa mia, Valeryn!»
esclamò rabbioso il ragazzo,
continuando a stringere i pugni. Ci fu una pausa di silenzio
assordante, dopodiché lui sussurrò:
«Hai...
hai detto che non stai più bene con me, eppure... eppure in
questi
giorni ho solo tentato di starti più vicino, ma non me
l’hai mai
permesso.»
Valeryn
abbassò gli occhi verdi.
«Lo
so. Ero molto confusa. Poi ne ho parlato con le altre e...»
ricordò
con malincuore la conversazione del giorno prima con Maia e Miriel.
«E
a dire il vero non erano d’accordo, ma...»
tirò su col naso,
Vittorio sentì gli occhi lucidi di riflesso.
«Ma...
la scelta è mia, no?»
«Appunto!»
sbottò il castano, adirato e con un senso di frustrazione
addosso.
«Appunto.
E’ una tua
scelta,
ma io? A me non hai pensato? Non hai pensato che forse a me poteva
non
stare bene?»
Il
tono sarcastico la fece sentire nuovamente un’egoista,
perché pur
ripetendosi di star facendo del male a Vittorio, continuava a farlo
preoccupandosi solo di sé stessa.
«Io
e te aspettiamo un bambino, cazzo. Come puoi solo minimamente pensare
di potertela cavare da sola? E a che scopo, poi? Per fare la ragazza
madre? E io, non ho diritto di starti vicino durante la gravidanza?
Non puoi escludermi.»
Lei
si morse il labbro inferiore. Non riusciva nemmeno a guardarlo negli
occhi, in quel momento le sembrò così arrabbiato
che non osava
nemmeno voltarsi.
«Non
ti escluderei mai dalla vita di questo bambino, sarai informato su
tutto.»
rispose piano, poggiando le mani sul suo ventre.
Vittorio
scosse la testa e si massaggiò la fronte.
Chi
glielo garantiva?
Se
ne stava infischiando del fatto che in quella situazione erano in
due, non solo lei.
Non
doveva combattere una guerra da sola, c’era lui.
Lui,
che lei rigettava e non voleva più accanto.
«Io
non riesco più. Mi viene difficile, scusami, ma non riesco
più.»
la sua voce si ridusse in poco più di un sussurro.
Il
castano levò la mano dal viso e la guardò
indecifrabile, poi rise
senza allegria. Sentiva un male atroce all’altezza del cuore,
avrebbe preferito che lo uccidessero perché il dolore
sarebbe stato
lieve al confronto.
«Non
riesci più?» ripeté sarcastico
«Come se i sentimenti vadano e
vengano in un secondo... come se adesso tu mi stai lasciando e io
domani non ci penserò più...»
Scosse
la testa, esausto, mentre lei si dava della stupida, lottando contro
la voce della sua coscienza che, nella sua testa, la induceva a
ritirare tutto, provava a convincerla che stava commettendo un grosso
errore. Provò ad avvicinarsi per toccarlo, abbracciarlo,
fare
qualsiasi cosa ma non ci riuscì.
Non
riusciva a toccarlo.
Aveva
un rifiuto tale da farsi schifo lei stessa.
«Perdonami.
Ti giuro che l’ultima cosa che voglio è farti del
male.» sussurrò
e quelle parole suonarono sincere, seppure non avevano un gran peso.
Vittorio
rise nuovamente, una risata senza gioia, una risata derisoria. Lei
notò perfino una punta di disprezzo.
«Troppo
tardi, non ti pare?»
Sentiva
sempre di più quelle lacrime sopprimerlo, ma lui non avrebbe
mai
pianto davanti a lei, non si sarebbe mostrato debole di fronte a chi
credeva lo capisse e lo amasse, ma che invece lo aveva distrutto come
un soldato in trincea nel pieno di una guerra.
Valeryn
gli aveva spezzato il cuore quella sera e lui non poteva cedere. Non
voleva, ma la tentazione era forte.
Aveva
voglia di sfogarsi, prendere a calci il muro, rompere qualcosa. Si
sentiva così male che sentiva lo stomaco in subbuglio e gli
veniva
da vomitare.
Era
colpa sua, perché se esisteva Dio
gli aveva inflitto una punizione per ciò che aveva fatto ad
Elia.
Era
così che si era sentito?
Abbandonato,
pugnalato alle spalle.
Se
lo meritava, forse, lo meritava tutto.
Le
lanciò un altro sguardo, ma non si aspettò che
lei dicesse altro.
Prese le chiavi e mise in moto. Lei, spiazzata dal gesto repentino,
lo guardò con gli occhi smeraldini interrogativi.
«Bene,
meglio se te ne vai a casa.» disse poi senza guardarla,
sforzandosi
di utilizzare il suo tono più freddo.
«Oppure
preferisci andare a piedi, visto che vuoi cavartela da sola.»
le
lanciò un frecciatina ironica subito dopo, non riuscendo
proprio a
trattenersi.
Valeryn
si sentì ferita, fece per parlare, ma la sua gola era
prosciugata
come un deserto triste. Sentì nuovamente le lacrime agli
occhi.
Vittorio
non la guardò per tutto il tragitto, riusciva solo ad udire
solo i
suoi singhiozzi soffocati.
Ma
che aveva da piangere?, si chiese, era lui che aveva lasciato, era
lui che doveva star male.
Non
aveva neanche il diritto di star male, aveva perso perfino la
dignità
di soffrire.
Deglutì,
sentendosi arido dentro.
Parcheggiò
di fronte casa sua. Lei indugiò prima di scendere. Voleva
dire
qualcosa, dirgli che nonostante tutto era ancora innamorata di lui,
ma non ci riuscì. Scese dalla macchina sussurrando un debole
saluto,
dopodiché sparì dentro il portone.
Vittorio
rimase ancora fermo con la macchina accesa, portandosi una mano alla
fronte, cercando di capire se tutto quello era successo veramente.
Represse le lacrime per l’ennesima volta, non voleva piangere
per
lei, non voleva fare più niente per nessuno.
Si
sentì così solo quella sera, sentiva unicamente
il battito del suo
cuore spezzato. Qualcosa dentro di sé gli urlava di salire
le scale
che li separavano e pregarla di restare con lui, perché
senza di lei
niente aveva un senso, niente.
Ma
strinse i pugni sul volante, mentre ripartiva a tutta
velocità,
deluso, con il luccichio di una lacrima fatta scivolare, silenziosa,
e il dolore come unico compagno.
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