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Autore: rose07    11/01/2024    0 recensioni
Valeryn e Vittorio sono due cugini di terzo grado che sono stati travolti da una passione tale da tradire la fiducia del migliore amico di lui e da non pensare alle conseguenze delle loro scelte avventate.
Dopo circa un anno, quelle conseguenze cominciano a palesarsi di fronte ai loro occhi, cambiando in primis la visione della realtà di Valeryn, la quale si ritrova a scoprire un fatto che le cambierà per sempre la vita.
Vittorio deve fare i conti con le volontà della ragazza, ma in momenti di difficoltà alcune persone inaspettate bussano alla porta offrendo una spalla di conforto. Quello che Vittorio troverà in Elia lo lascerà senza difese alcune, permettendo libero sfogo ad un piacere del tutto nuovo, cedendo a delle sensazioni che i due amici avevano da sempre fatto finta di non provare.
Seguito della mia vecchia storia "Splendida Follia", revisionata e corretta. Serie "Ubi Maior Minor Cessat".
Genere: Erotico, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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- Questa storia fa parte della serie 'Ubi maior minor cessat'
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«Cerca di starle vicino il più possibile.»
Mena proferì quelle parole intenta a pelare delle patate in cucina. Non alzò lo sguardo su di lui; da quando aveva saputo la notizia e da quando Piero aveva fatto quella scenata in casa loro era sempre più arrabbiata.
Vittorio sbuffò, poi si passò una mano in mezzo ai capelli.
Come se fosse facile starle vicino. Sembrava che non volesse più stare con lui. Annuì lievemente.
Mena posò il coltello e spostò con il braccio delle ciocche castane che le ricadevano davanti agli occhi.
«Io ancora non capisco. Non riesco a capire…» mormorò, scuotendo la testa.
Il ragazzo alzò gli occhi al cielo. Sua madre ricominciava con i soliti discorsi.
«Come diavolo avete fatto? È inconcepibile!» sbottò con le orbite di fuori.
«È assolutamente una cosa dell’altro mondo.»
Vittorio sbuffò di nuovo. Non era roba dell’altro mondo aspettare un bambino, si disse. Dio, quanto era diventata pesante, non la sopportava più.
«E lei, poi, ancora minorenne! Ci credo che Piero ha fatto tutte quelle storie.»
Il castano fece finta di non sentirla e mandò un messaggio con il suo cellulare.
Mena si pulì le mani con un panno, poi riprese incrociando le braccia.
«Sei stato un irresponsabile, Vittorio, te ne rendi conto? Siete ancora dei ragazzini. Santo cielo, non riesco ancora a crederci!» si portò una mano sulla fronte, angosciata, abbandonandosi sulla sedia.
«Prima Ross e ora tu. Siete uguali voi due, combinate sempre disastri. Oh, Vergine! E tu stai tutto pacato a fare finta di niente. Non capisci, sei ancora troppo giovane, sei troppo immaturo, sei così poco responsabile...»
Adesso era troppo.
Vittorio si alzò di scatto dalla sedia facendola sobbalzare, menando un colpo sopra il tavolo e facendola così zittire all’istante.
Aveva i pugni serrati e non ce la faceva più a sentire quelle critiche pesanti su di lui. Tutti pensavano al fatto che erano giovani, di qua e di là, ma nessuno sapeva cosa stava succedendo tra di loro, invece.
«Adesso basta, mamma, mi hai rotto i coglioni!» sbottò con il volto un’espressione livida.
Mena lo fissò con gli occhi spalancati, lievemente intimorita dalla reazione.
«Sempre a prendermi per irresponsabile, incosciente, tutte queste stronzate! Basta, mi sono stancato! Lo so che abbiamo sbagliato, che ho sbagliato, mettila come ti pare, ma basta. Non ce la faccio più!» urlò.
La sua salute psicologica era talmente fragile in quel momento da essere appesa ad un filo sottile.
Mena lo fronteggiò, guardandolo severamente.
«E adesso fai pure la vittima, bravo! Prima combini il danno e poi ci piangi sopra!» lo rimproverò apparentemente senza scrupoli.
Era sempre stata così, sua madre, severa ed esigente, ma adesso era troppo, si disse. Non meritava di sentire quelle parole offensive. Non meritava di essere definito vittima quando stava davvero patendo dentro le responsabilità delle sue azioni, quando Valeryn si allontanava sempre di più da lui.
«Senti, io sono qui che sto affrontando le cose, non sto scappando. Io non sono un vigliacco!» sbottò fumante di rabbia, di frustrazione nel sentirsi impotente di fronte ad una situazione così grande.
E fu un attimo prima che gli venne in mente qualcosa che gli comprimeva il petto da tempo e che aveva provato a malcelarla dentro di sé.
«E poi parli proprio tu, eh? Quanti anni ci sono voluti prima che mi dicessi che non ero veramente tuo figlio?» chiese con ironia tagliente.
Calò un silenzio pietrificante.
I suoi occhi grigi luccicarono pieni di risentimento, mentre Mena spalancava la bocca e si portava una mano al cuore, mortificata. Non avevano più affrontato quell’argomento fino ad allora.
La sua adozione rimaneva una ferita aperta su tutti loro, per il modo in cui avevano gestito le cose e per come Vittorio lo aveva scoperto.
«Chi era quella che piangeva per non aver avuto il coraggio di dirmi le cose come stavano? E adesso incolpi me! Io sono qui, io non scappo!» continuò.
Le lanciò uno sguardo di fuoco, uno sguardo che aveva qualcosa di represso, qualcosa che aveva cercato di seppellire, ma che era uscito inevitabilmente fuori perché dentro bruciava come fuoco ardente.
Mena abbassò gli occhi, ferita, gli occhi le si riempirono di lacrime. Quelle parole erano come pugnali per lei, perché aveva sempre sperato nel profondo del suo cuore e della sua anima che Vittorio riuscisse a superare al più presto quel trauma e invece non lo aveva ancora fatto, il dolore era ancora troppo vivido, aleggiava costantemente sopra di lui, sopra di lei.
Prima che potesse dire qualsiasi cosa, il cellulare del ragazzo squillò. Lesse il messaggio e fece per uscire dalla cucina.
La donna, con il cuore in gola e con le lacrime che colavano dalle sue guance, si voltò verso di lui.
«E adesso dov’è che vai?» chiese, tirando su con il naso, mentre una lacrima solcava la sua guancia e si faceva largo attraverso la pelle segnata dall’età.
Vittorio rimase di spalle, non si voltò neanche a guardarla.
«Da lei. Devo starle vicino, l’hai detto tu.» soffiò con voce tremante.
«Per quanto me lo permetta…» aggiunse poi in un sussurro, mentre una lacrima solcava anche il suo bel viso e l’asciugava con violenza, quasi fosse disgustato dalla sua stessa debolezza.
La donna rimase sola in cucina a piangere e a tormentarsi per i suoi stupidi errori del passato.
Non si sarebbe mai perdonata per ciò che aveva fatto a suo figlio, mai, e promise a sé stessa che non gli avrebbe detto più niente, non lo avrebbe più rimproverato, anzi lo avrebbe aiutato. Anche se era difficile comunicare con lui, anzi, quasi impossibile, quello era il minimo che poteva fare. Aiutare Vittorio a capire i suoi sbagli, a imparare a non commetterne più. Non voleva che un giorno potesse fare la sua stessa fine.
Guardò il secchio con le patate e lo spinse di lato, emettendo un singulto e portandosi il dorso della mano su un occhio.
Non aveva più voglia di fare niente, non aveva la forza.
Voleva solo piangere e piangere.






Passò a prenderla con la macchina di Ross. L’aspettava giù, mentre lei, con molto imbarazzo, indugiava sul portone di casa sua. Si morse il labbro inferiore, confusa, piena di dubbi tormentosi.
Non sapeva se stava facendo la cosa giusta.
Aprì la portiera e salì in macchina bisbigliando un flebile “ciao”, evitando accuratamente di guardarlo in viso.
Vittorio non si aspettava diversamente, perciò sospirò, ma non rispose. Mise in moto la macchina e partì per il centro.
Per tutto il tragitto Valeryn non disse una parola e lui non fece da meno. Non riusciva a dirle nulla, era come immersa nel suo mondo, in quei pensieri che il ragazzo non riusciva a penetrare.
Parcheggiò in un vicolo, poi scese dalla macchina aprendole lo sportello. Lei scese eludendo ancora il suo sguardo.
Gli sembrava così ridicola tutta quella situazione, o per meglio dire, il loro comportamento gli sembrava ridicolo. A Vittorio sembrò talmente ridicolo non parlarle, camminare al suo fianco senza stringere la sua mano, fare finta di niente quando in realtà aveva voglia di urlare.
L’osservò sedersi su una panchina, nella solita piazzetta comune.
Voleva scuoterla violentemente, voleva svegliarla, voleva urlarle che non riusciva più a sopportare tutto quello.
Non lo fece, solo sentiva il cuore che gli batteva veloce, come preambolo di qualcosa di negativo.
Era come se lo stesse mettendo in allerta.
Valeryn si guardò intorno, quasi aspettandosi di vedere spuntare tutti i loro amici da dietro gli alberi scuri. Ma nessuno di essi si fece vivo e lei ne fu quasi delusa di non avere una scappatoia dell’ultimo momento.
Iniziava a pentirsi di aver deciso di parlargli proprio quel giorno, forse non era pronta, non sapeva che parole trovare.
Vittorio, inoltre, sembrava perso nei suoi pensieri, il suo sguardo vacuo era puntato altrove. Lo sentiva che era triste per causa sua, per l’attaccamento evitante che aveva indotto da circa una decina di giorni.
Si sentì in colpa, più in colpa che mai. Dentro di lei non riusciva a credere di volersi allontanare da lui, dal suo unico amore, dalla persona che la completava nel modo più profondo, ma non sapeva che fare, non aveva altra scelta, aveva bisogno di riflettere.

Hai paura.”

Le parole di Miriel tornarono a tartassarle la testa. Forse era vero che aveva paura, perché nemmeno lei riusciva a trovare una spiegazione logica a quel comportamento. E si sentiva una stupida, ma doveva parlargli. Doveva metterlo al corrente di come si sentiva, delle emozioni contrastanti che la pervadevano quando stavano insieme.
Vittorio continuò a non spiccicare parola, prese un pacchetto di sigarette dalla tasca dei pantaloni e ne estrasse una. Non fumava giornalmente come Elia, anzi a dire il vero fumava poche volte e solo in compagnia degli amici, ma in quei giorni si sentiva nervoso come non lo era mai stato.
Poi ripensò al suo amico, tirando una boccata di fumo.
Elia. Ma cosa c’entrava in quel momento soffermarsi su di lui? Non era possibile che potesse collegare una semplice sigaretta a Elia…
Il solo menzionarlo nella sua testa gli evocò immagini del suo viso e il suo sorriso, la sua risata e le sue parole.
E le sensazioni.
Quelle erano più che mai impresse nella memoria del suo corpo.
Continuò a fumare nervosamente, per un attimo dimenticandosi di Valeryn alla sua sinistra. Cercando di capire il perché Elia lo turbava così tanto, perché sentiva una sorta di guizzo all’altezza del cuore quando pensava a lui.
La ragazza nel frattempo si portò una mano al ventre spontaneamente, poi decise di aprire un argomento perlomeno decente. Non riusciva più a sopportare quel silenzio, si sentiva in colpa, e doveva dire a Vittorio tutta la verità.
«Ehi. Me la offri una sigaretta?» lo chiamò, cercando di attirare la sua attenzione con una domanda a caso.
Il ragazzo smise di fumare, si voltò lentamente verso di lei, mettendola quasi in soggezione. Dopo come lo aveva trattato in quei giorni se ne usciva con una stupida sigaretta...
«No.» rispose semplicemente. Continuò a tirare dalla sua, volgendo lo sguardo altrove, mentre Valeryn lo guardava accigliata.
«Come sarebbe no?» chiese allora, brusca.
«No, sai cosa significa no?» la schernì con una smorfia «Negazione, non te la do la sigaretta.»
La castana rimase spiazzata dalla sua risposta e, ferita, abbassò lo sguardo.
«Volevo solo...» mormorò, ma la sua voce si spezzò.
Vittorio aveva tutte le ragioni per risponderle così, d’altronde lei voleva allontanarsi da lui, ma non sopportava la sua freddezza.

Sei un’egoista.”

«Non puoi fumare, lo sai.» aggiunse poi il castano, giustificando il motivo per cui non gliel’aveva data, improvvisamente interessato a dei bambini che giocavano a palla vicino a loro.
«Ma io...» provò ad aggiungere lei.
«Cosa?» Lui si voltò stancamente «Cosa, Valeryn, vuoi dirmi che cosa c’è?»
«Io…» si bloccò, perché i suoi occhi grigi erano freddi, la tagliavano, le facevano male.
«Io... Niente.» mormorò, tremante, intimorita al sol pensiero della sua reazione a quello che aveva da dire.
«Smettila di prendermi in giro, dimmelo per favore, dimmi che cazzo hai! Fai un cenno, scrivimelo, ma fammelo sapere!»
Vittorio aveva gettato la sigaretta ed era livido, le faceva paura, non lo aveva mai visto arrabbiato in quel modo. Aveva ragione a stare così, lei lo stava facendo soffrire senza che se lo meritasse e per di più non gli aveva ancora detto niente.
Guardò nervosamente la piazza, si torturò i capelli. Non riusciva a dirglielo, si sentiva una vigliacca.
Il ragazzo si portò una mano sul volto, scosse ripetutamente la testa, sorridendo amaramente. Sentiva gli occhi lucidi, il cuore continuava a battergli forte.
Perché doveva soffrire? Perché soffrire proprio quando pensava di aver trovato il culmine della felicità con lei? Certo, avere un bambino a quell’età non era una passeggiata, ma lui era sicuro che ce l’avrebbero fatta in qualche modo, che tutto quello avrebbe rinforzato il loro amore perché loro si amavano davvero, anche se erano giovani. Ma adesso... adesso, guardandola in quel momento, non sapeva se quell’amore era ricambiato.
Valeryn sospirò pesantemente, poi decise di allontanarsi da quel luogo troppo affollato. Se doveva dire la verità a Vittorio dovevano essere da soli, senza permanere in un luogo affollato.
«Torniamo in macchina, per favore.» lo pregò.
«Solo se mi prometti che parli.» aggiunse lui prontamente, guardandola negli occhi serio e con un tono di voce che non ammetteva repliche.
Lei cercò di mantenere lo sguardo dei suoi occhi grigi.
«D’accordo» si arrese alla fine.
Non aveva altra scelta, doveva dirgli tutto.
Si alzarono, Vittorio con il cuore in gola, lei molto inquieta. Raggiunsero silenziosamente la macchina nel vicolo dove era parcheggiata. Il castano aprì le portiere ed entrarono dentro.
Ci fu ancora silenzio per qualche minuto.
Vittorio guardò Valeryn impaziente, lei guardava verso il finestrino, consapevole che ormai non poteva più prendere tempo, non poteva più fingere. Era arrivato il momento di dirgli tutto. Prese un bel respiro e incominciò.
«Vedi, Vitto, io ho fatto molti errori. E mi dispiace commetterne altri di cui so che mi pentirò.» disse piano.
Il castano sentì il cuore cedere, deglutì a fatica.
«Va’ al dunque, cazzo, niente discorsi profondi, niente stronzate. Per favore!»
Non poteva sopportare che lui la pregasse. Notò tutta l’ansia, tutto il suo dolore impresso nei suoi occhi grigi. Per alcuni secondi si disse di lasciar perdere, non stava facendo la cosa giusta, lo avrebbe perso, ma la sua mano scivolò sul suo ventre, quasi a ricordargli che dopo quello si sentiva cambiata.
Fece una gran respiro, mentre Vittorio continuava a fissarla intensamente quasi volesse penetrarla con lo sguardo.
«Ecco, io... Non so cosa mi succede, ma mi sento molto strana, mi sento confusa su ogni cosa, non riesco a capire se tutto questo lo voglio veramente.» spiegò con la voce tremante, mentre si spostava delle ciocche di capelli dietro l’orecchio.
«Intendi, che… non sai se tenere il bambino?» chiese Vittorio, preso dal panico al sol pensiero.
Lei sospirò, negando piano con la testa.
Ci aveva pensato all’aborto, nei momenti in cui si sentiva senza speranza alcuna di poter gestire quella situazione, ma adesso… Non aveva il coraggio neanche di pensarlo.
«No, non è questo. Riguarda me e te.» si apprestò a precisare.
Un po’ lo fece respirare meglio sapendo che non aveva intenzione di abortire, ma la consapevolezza che era come aveva pensato in tutti quei giorni lo trascinò nel baratro.
«L’avevo intuito.» Abbassò il capo con tristezza, ma subito dopo strinse i pugni guardandola di nuovo. Cercò di farsi coraggio, sentiva che ne avrebbe avuto bisogno.
Valeryn lo fissò vacuamente per alcuni secondi, poi scosse la testa e riprese.
«Devi perdonarmi... La gravidanza non mi sta facendo comportare come vorrei e... E non voglio che tu ne vada di mezzo perché non meriti di essere trattato così.»
Vittorio la guardò di sottecchi, con sospetto, poi con freddezza le domandò:
«Che cosa vuoi dire?»
La castana smise di torturarsi le mani, sbuffando per la difficoltà che sentiva nello spiegarsi, poi si morse il labbro inferiore.
«Io non so se sia la cosa giusta. Continuare a stare insieme.» lo disse, ma quasi si pentì di averlo detto un secondo dopo.
Ci furono dei secondi di silenzio dove gli unici rumori erano le auto che passavano in strada, accanto a dove erano parcheggiati.
Vittorio la guardò come se tentasse di capire una lingua sconosciuta, come se fosse un alieno proveniente da Marte, ma poi, dopo aver assimilato inevitabilmente le sue parole, aprì la bocca.
«Ma... ma che stai dicendo?» balbettò, non riusciva a proferire altro, guardava davanti a sé come se le macchine parcheggiate davanti fossero uno spettacolo stupendo.
Valeryn si sentì in colpa come non mai e si scompigliò i capelli, nervosa.
«Nel senso che... insomma, preferirei che ci allontanassimo per un po’, ma non molto, io… io voglio solo vedere se riesco a cavarmela da sola. Voglio mettere alla prova me stessa, capisci?»
Vittorio negò con la testa, stordito, la bocca semiaperta.
Non poteva, anzi, non voleva capire. Come poteva essere che la sua fidanzata, il suo amore, l’unica ragazza per cui aveva lottato fino in fondo potesse d’un tratto dire quelle parole?
Potesse distruggerlo così semplicemente come con un soffio avrebbe fatto cadere un castello di carte.
«Mi stai lasciando?» chiese puntando gli occhi su di lei, occhi grigi diventati d’un tratto freddi, glaciali.
La castana scosse la testa, non sapeva come dire, non sapeva ancora una volta se stava facendo la cosa giusta.
«NO!» si affrettò a dire, ma poi si morse il labbro ed aggiunse:
«Non lo so, ecco, voglio un periodo di pausa, Vitto, ma... ma non è colpa tua... sono io che...»
«Smettila! Smettila con queste puttanate!» urlò con rabbia, interrompendola e stringendo i pugni fino a farsi diventare le nocche bianche.
Valeryn tremò leggermente, sentendosi intimorita dalla reazione inaspettata.
O forse era ingenua a pensare che non avrebbe reagito così, anzi, egoista, aveva pensato solo a lei, solo ai suoi bisogni, tralasciando completamente i sentimenti di Vittorio.
«Io non sono l’idiota da scaricare con le solite scuse del cazzo. Devi dirmi la verità.» le afferrò il mento con una mano e la fece voltare verso di lui, dato che si ostinava ad evitare il suo sguardo.
«Dimmi che non vuoi più stare con me, che non mi ami più, ma dimmelo.»
Il silenzio che susseguì fu doloroso come degli spilli conficcati nella carne.
I vetri erano appannati dal freddo.
Non riuscivano a trovare via d’uscita a quello che stava per accadere.
Calde lacrime solcarono il bel volto della ragazza, lacrime amare piene di colpa, colme di angoscia. Singhiozzò, mentre lui la guardava senza riuscire a dire nulla, colpito nel profondo del suo animo come un bersaglio da poligono.

«Io, adesso… Io non voglio più stare con te. Non sto bene.» furono le parole che infine pronunciò.

Crack.

E lui sentì il cuore spezzarsi.

La fissò incapace di crederle, come se gli avesse appena detto una burla e quasi si aspettasse uno scherzi organizzato dai suoi amici, che lei lo avrebbe abbracciato e lo avrebbe rassicurato. Non accadde niente di tutto ciò, anzi quelle parole risuonavano più veritiere che mai.
Sentì la gola secca e si passò una mano tra i capelli castani.
Faceva male più del previsto, più dei suoi incubi remoti.
I battiti accelerarono, cominciò a sentire un calore terribile nonostante il freddo di pieno inverno, la macchina di suo fratello pareva vorticasse spaventosamente fino a rinchiuderlo tra le sue pareti e fargli perdere il respiro.
«Non riesco a capire…» mormorò quasi senza accorgersene di averlo detto, anche se in fondo lo aveva capito, solo non voleva crederci, il suo cuore rifiutava quelle parole.
«Scusami.» disse lei, ancora con le lacrime agli occhi.
«Ho bisogno di questa pausa. Ti giuro che non sto più bene così. Mi... mi sento in trappola, io... mi serve del tempo, solo un po’ di tempo per riprendermi, assimilare tutto questo...»
«Forse non ti ho dimostrato abbastanza quanto ti amo.» aggiunse il ragazzo senza aspettare che finisse, con lo sguardo vacuo fissava il finestrino come se potesse vedere al di fuori, ma non poteva.
Buio, gelido, come quella giornata di dicembre.
Quelle parole la spiazzarono, spalancò gli occhi arrossati, poi tirò su con il naso e si tamponò gli occhi sporchi di matita.
Si sentiva così piena di rimorsi per aver preso quella scelta e per averla comunicata a Vittorio. Si sentiva colpevole del male che stava facendo a l’unica persona che non lo meritava.
«Non è colpa tua, Vitto. Non ho mai dubitato del tuo amore. La colpa è mia, sono io che non so come reagire a ques...»
«Basta dire che non è colpa mia, Valeryn!» esclamò rabbioso il ragazzo, continuando a stringere i pugni. Ci fu una pausa di silenzio assordante, dopodiché lui sussurrò:
«Hai... hai detto che non stai più bene con me, eppure... eppure in questi giorni ho solo tentato di starti più vicino, ma non me l’hai mai permesso.»
Valeryn abbassò gli occhi verdi.
«Lo so. Ero molto confusa. Poi ne ho parlato con le altre e...» ricordò con malincuore la conversazione del giorno prima con Maia e Miriel.
«E a dire il vero non erano d’accordo, ma...» tirò su col naso, Vittorio sentì gli occhi lucidi di riflesso.
«Ma... la scelta è mia, no?»
«Appunto!» sbottò il castano, adirato e con un senso di frustrazione addosso.
«Appunto. E’ una tua scelta, ma io? A me non hai pensato? Non hai pensato che forse a me poteva non stare bene?»
Il tono sarcastico la fece sentire nuovamente un’egoista, perché pur ripetendosi di star facendo del male a Vittorio, continuava a farlo preoccupandosi solo di sé stessa.
«Io e te aspettiamo un bambino, cazzo. Come puoi solo minimamente pensare di potertela cavare da sola? E a che scopo, poi? Per fare la ragazza madre? E io, non ho diritto di starti vicino durante la gravidanza? Non puoi escludermi.»
Lei si morse il labbro inferiore. Non riusciva nemmeno a guardarlo negli occhi, in quel momento le sembrò così arrabbiato che non osava nemmeno voltarsi.
«Non ti escluderei mai dalla vita di questo bambino, sarai informato su tutto.» rispose piano, poggiando le mani sul suo ventre.
Vittorio scosse la testa e si massaggiò la fronte.
Chi glielo garantiva?
Se ne stava infischiando del fatto che in quella situazione erano in due, non solo lei.
Non doveva combattere una guerra da sola, c’era lui.
Lui, che lei rigettava e non voleva più accanto.
«Io non riesco più. Mi viene difficile, scusami, ma non riesco più.» la sua voce si ridusse in poco più di un sussurro.
Il castano levò la mano dal viso e la guardò indecifrabile, poi rise senza allegria. Sentiva un male atroce all’altezza del cuore, avrebbe preferito che lo uccidessero perché il dolore sarebbe stato lieve al confronto.
«Non riesci più?» ripeté sarcastico «Come se i sentimenti vadano e vengano in un secondo... come se adesso tu mi stai lasciando e io domani non ci penserò più...»
Scosse la testa, esausto, mentre lei si dava della stupida, lottando contro la voce della sua coscienza che, nella sua testa, la induceva a ritirare tutto, provava a convincerla che stava commettendo un grosso errore. Provò ad avvicinarsi per toccarlo, abbracciarlo, fare qualsiasi cosa ma non ci riuscì.
Non riusciva a toccarlo.
Aveva un rifiuto tale da farsi schifo lei stessa.
«Perdonami. Ti giuro che l’ultima cosa che voglio è farti del male.» sussurrò e quelle parole suonarono sincere, seppure non avevano un gran peso.
Vittorio rise nuovamente, una risata senza gioia, una risata derisoria. Lei notò perfino una punta di disprezzo.
«Troppo tardi, non ti pare?»
Sentiva sempre di più quelle lacrime sopprimerlo, ma lui non avrebbe mai pianto davanti a lei, non si sarebbe mostrato debole di fronte a chi credeva lo capisse e lo amasse, ma che invece lo aveva distrutto come un soldato in trincea nel pieno di una guerra.
Valeryn gli aveva spezzato il cuore quella sera e lui non poteva cedere. Non voleva, ma la tentazione era forte.
Aveva voglia di sfogarsi, prendere a calci il muro, rompere qualcosa. Si sentiva così male che sentiva lo stomaco in subbuglio e gli veniva da vomitare.
Era colpa sua, perché se esisteva Dio gli aveva inflitto una punizione per ciò che aveva fatto ad Elia.
Era così che si era sentito?
Abbandonato, pugnalato alle spalle.
Se lo meritava, forse, lo meritava tutto.
Le lanciò un altro sguardo, ma non si aspettò che lei dicesse altro. Prese le chiavi e mise in moto. Lei, spiazzata dal gesto repentino, lo guardò con gli occhi smeraldini interrogativi.
«Bene, meglio se te ne vai a casa.» disse poi senza guardarla, sforzandosi di utilizzare il suo tono più freddo.
«Oppure preferisci andare a piedi, visto che vuoi cavartela da sola.» le lanciò un frecciatina ironica subito dopo, non riuscendo proprio a trattenersi.
Valeryn si sentì ferita, fece per parlare, ma la sua gola era prosciugata come un deserto triste. Sentì nuovamente le lacrime agli occhi.
Vittorio non la guardò per tutto il tragitto, riusciva solo ad udire solo i suoi singhiozzi soffocati.
Ma che aveva da piangere?, si chiese, era lui che aveva lasciato, era lui che doveva star male.
Non aveva neanche il diritto di star male, aveva perso perfino la dignità di soffrire.
Deglutì, sentendosi arido dentro.
Parcheggiò di fronte casa sua. Lei indugiò prima di scendere. Voleva dire qualcosa, dirgli che nonostante tutto era ancora innamorata di lui, ma non ci riuscì. Scese dalla macchina sussurrando un debole saluto, dopodiché sparì dentro il portone.
Vittorio rimase ancora fermo con la macchina accesa, portandosi una mano alla fronte, cercando di capire se tutto quello era successo veramente. Represse le lacrime per l’ennesima volta, non voleva piangere per lei, non voleva fare più niente per nessuno.
Si sentì così solo quella sera, sentiva unicamente il battito del suo cuore spezzato. Qualcosa dentro di sé gli urlava di salire le scale che li separavano e pregarla di restare con lui, perché senza di lei niente aveva un senso, niente.
Ma strinse i pugni sul volante, mentre ripartiva a tutta velocità, deluso, con il luccichio di una lacrima fatta scivolare, silenziosa, e il dolore come unico compagno.









   
 
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