Shouta
chiude la porta della sala interrogatori alle proprie spalle con un
sospiro esausto.
Stanno torchiando quella ragazza, Toga Himiko, da ore, ormai, senza
tuttavia ottenere alcun risultato. Si è chiusa in un
silenzio
ostinato, e Aizawa sa perfettamente di non poterle estorcere alcuna
informazione – se questo non bastasse, a tenerglielo a mente
c’è il fastidioso avvocato che la accompagna.
Quello di cui ha bisogno al momento è un caffè
forte. E
un miracolo, probabilmente, ma per il momento decide di accontentarsi
del primo. Così si avvia verso il distributore in corridoio,
l’andatura un po’ ciondolante.
La verità è che è stanco. In quel
momento
preferirebbe volentieri starsene a casa sotto le coperte, piuttosto che
a interrogare una ragazzina che non vuole saperne di dirgli la
verità. Vorrebbe avere il conforto di sapere Eri
addormentata
nella stanza accanto alla sua, invece tutto ciò che lo
circonda
al momento sono le scrivanie dei suoi colleghi.
Di notte il commissariato sembra essere leggermente più
tranquillo rispetto al resto del giorno, ma forse è solo
perché c’è più silenzio: gli
agenti in
servizio sono in numero ridotto, e se ne stanno tutti seduti alle loro
postazioni mentre battono a ritmo cadenzato le dita sulle tastiere dei
loro pc. Anche quello, però, è un rumore
sommesso, come
se non volessero infrangere una regola non scritta per cui dal
crepuscolo all’alba vige uno stato di quiete.
Shouta raggiunge il distributore di caffè e ci si appoggia
pesantemente con una mano, mentre l’altra rovista nella tasca
dei
pantaloni fino a che non trova la chiavetta, in dotazione a tutti gli
agenti. Shouta la infila, preme il tasto del caffè espresso,
dopodiché la macchinetta inizia a emettere una vibrazione
profonda, e quasi si sente in colpa di star violando il silenzio in cui
sono immersi i suoi colleghi.
Shouta lancia uno sguardo di lato, lasciandosi sfuggire un sospiro, per
poi spostarlo nuovamente sul distributore, il caffè che
lentamente scivola nel bicchiere di plastica.
In quel momento, Emi compare in cima al corridoio. Non appena individua
Aizawa, comincia a camminare più in fretta nella sua
direzione,
i capelli acquamarina che si agitano alle sue spalle come in tempesta.
«C’è una persona che chiede di
te», gli
comunica, passando alle sue spalle. «L’ho fatta
accomodare
nel tuo ufficio.»
Aizawa si volta a guardarla con un’espressione contrariata in
volto. «Adesso?», domanda, incredulo.
«Sono nel bel
mezzo di un interrogatorio…»
«Ha detto che si trattava di una questione
urgente!»,
replica Emi, mentre continua a camminare lungo il corridoio, le braccia
che tengono stretti al petto i fogli di alcune pratiche.
Shouta scrolla le spalle, con fare arrendevole. Quella notte sembra non
voler finire più. Il bip
della macchinetta lo avverte che il suo caffè è
pronto,
così ne approfitta per recuperarlo. Mentre si avvia lungo il
corridoio, Shouta miscela lo zucchero con la palettina, per poi
prenderne un piccolo sorso.
Continuando ad avanzare verso il suo ufficio, Aizawa si ritrova a
scuotere la testa. Gli riesce difficile immaginare cosa ci possa essere
di più importante del suo interrogatorio, soprattutto adesso
che
sono a un passo dalla soluzione di un caso che era sembrato semplice
solo al primo sguardo. Sotto braccio ha ancora la cartellina gialla al
cui interno ha inserito i documenti del caso Ukai, ma considerando che
l’alternativa sarebbe stata lasciarli in sala interrogatori
– alla completa mercé di Toga Himiko e del suo
avvocato
– è ben lieto di averla portata con sé.
Nel momento in cui arriva davanti al suo ufficio, Shouta abbassa la
maniglia e apre la porta di scatto, pronto già a
chissà
quale noiosissima perdita di tempo, invece per poco non gli viene un
colpo.
Hizashi.
Il suo compagno ha voltato la testa in direzione della porta quando
l'ha sentito aprirla, e adesso Shouta sente gli occhi
dell’altro
puntati su di sé. I capelli biondi gli sfiorano le spalle
allo
stesso modo dell’ultima volta in cui lo ha visto, e sul suo
volto
c’è un sorriso dall’aria leggermente
colpevole.
«Ciao, Shouta», lo saluta, la voce calma
– ma è la sua, quella di sempre.
Aizawa resta immobile sulla soglia per un momento. Alla fine,
però, riesce a chiudere la porta alle proprie spalle, per
poi
scattare in avanti verso Hizashi. Si accomoda sulla sedia accanto alla
sua, poggiando distrattamente il caffè – di colpo
berlo
è diventata l’ultima delle sue priorità
– e
la cartellina sulla scrivania.
«Che ci fai qui…?» Che fine hai fatto per tutto
questo tempo? Dove sei stato fino a questo momento?
In realtà c’è
un’infinità di domande
che Shouta vorrebbe fargli, e alla fine gli sembra di essere partito
dalla più stupida di tutte. «Credevo che ti fosse
successo
qualcosa…»
Hizashi sposta lo sguardo di lato, il sorriso sulle sue labbra che si
fa più amaro. «No, sto bene», ammette,
in tono
affranto.
Shouta sente che c’è qualcosa che non va, solo che
non
riesce a capire di cosa si tratti. Si china leggermente in avanti,
prendendo le mani dell’altro nelle sue. «E allora
cos’è successo?», gli chiede ancora,
comprensivo.
Hizashi continua a non ricambiare il suo sguardo, e Shouta lo conosce
troppo bene, sa che se si comporta così è
perché
c’è qualcosa che lo turba. Istintivamente
accarezza con le
dita il dorso delle mani dell’altro, come per
incoraggiarlo.
Quando finalmente Hizashi solleva il capo, Shouta scorge nei suoi occhi
qualcosa che raramente vi ha intravisto – incertezza.
«Ho avuto paura»,
confessa, la voce che s’incrina appena mentre si costringe a
mantenere un debole sorriso.
Sul volto di Shouta compare un’espressione confusa.
«Paura
di cosa…?», domanda, il pollice che traccia
arabeschi
sulla pelle dell’altro.
Hizashi si lascia sfuggire un sospiro tremante, le labbra ancora
piegate in quel sorriso amaro mentre lo sguardo combatte per non
sottrarsi a quello di Shouta. «All’inizio
è stato
Shirakumo», spiega, remissivo. «All’epoca
eravamo
ancora in accademia, volevamo entrare tutti e tre in polizia quando ci
fu quell’incidente, ricordi?»
Shouta si limita ad annuire, così Hizashi prosegue.
«In
quel momento è stato uno sprone, ci siamo gettati sulle
nostre
carriere con ancor più convinzione. Andando avanti,
però,
quella scia di morte non ha mai smesso di accompagnarci
–
Toshinori, Enji, pensa a quanti colleghi abbiamo già
perso…»
Shouta lo osserva perplesso, la fronte corrucciata. «Non
capisco», ammette, interdetto. «Dove vuoi
arrivare…?»
Hizashi si appoggia stancamente allo schienale alle proprie spalle,
continuando a sorridere tristemente. «Finché
eravamo solo
noi due andava tutto bene. Poi, però, le cose sono
cambiate», continua, la testa che si piega appena di lato.
«Eri e Hitoshi sono entrati a far parte della nostra vita, ed
è stata la cosa più bella che ci sia mai
capitata. Solo
che, in quel momento, io ho avuto paura, Shouta, paura di lasciarli di
nuovo da soli. Perché il nostro è un mestiere
difficile,
la mattina ci alziamo per andare al lavoro ma non abbiamo alcuna
garanzia che a fine giornata torneremo a casa sani e salvi. Ed ero
terrorizzato al pensiero di parlartene, perché tu ami i
ragazzi
più di ogni altra cosa e, semplicemente, non mi sentivo
pronto
ad affrontare questo discorso con te. È per questo che sono
sparito…»
Shouta sobbalza, osservandolo sorpreso. «Avevi paura di
deludermi…?», domanda, incredulo.
Hizashi si limita ad annuire brevemente, per poi spostare lo sguardo in
direzione della finestra dell’ufficio di Aizawa.
«Hitoshi
sapeva dove mi trovavo. Ogni tanto veniva a trovarmi, ma sono stato io
a chiedergli di non dirti niente su dove fossi. Avevo bisogno di stare
da solo per un po’, capire cosa pensassi davvero. Mi spiace
di
averlo messo in difficoltà con te», confessa,
lasciandosi
sfuggire stavolta un sorriso beffardo.
Sul volto di Shouta, invece, compare un’espressione
sollevata.
Per settimane non ha avuto idea di che fine avesse fatto Hizashi, e ora
che ce l’ha davanti e gli ha confessato tutta la
verità si
sente uno stupido per non esserci arrivato prima e aver immaginato
invecce tutti gli scenari peggiori possibili. Shouta scuote appena la
testa, sporgendosi ancora un po’ verso Hizashi e
circondandogli
una guancia con la mano.
Hizashi solleva lo sguardo per la sorpresa, ma ad attenderlo non trova
altro che le iridi nere e pacate di Aizawa.
«Perché non me ne hai parlato prima?»,
chiede, ma
nella sua voce non c’è alcun tono inquisitorio.
«Avremmo affrontato questa cosa insieme, come tutto, come
sempre...»
L’espressione sul volto di Hizashi si fa finalmente
rilassata.
Shouta si china in avanti, e mentre bacia le sue labbra si sente come
un marinaio che vede di nuovo terra, dopo aver passato un lungo periodo
in alto mare.
«C’è una sospettata che mi attende, di
là», gli confessa Shouta, quando si separa appena
da lui.
«Mi concedi l’onore di condurre
quest’interrogatorio
assieme a te?»
La porta della sala interrogatori si spalanca di nuovo, e stavolta alle
spalle di Shouta entra anche Hizashi.
L’avvocato di Toga Himiko sobbalza sul posto, quasi
strabuzzando
i suoi piccoli occhi neri dietro le lenti spesse degli occhiali.
«C-credevo che avrebbe condotto questo interrogatorio da
solo…», fa per protestare, interdetto.
Aizawa si accomoda sulla sedia che ha occupato fino a poco prima,
sporgendosi appena verso l’altro lato del tavolo.
«L’ispettore Yamada è un mio collega e
ha tutto il
diritto di trovarsi qui in questo momento», replica, mentre
rivolge un’occhiata torva all’avvocato.
Il difensore di Himiko sembra rabbrividire, a disagio, tuttavia nessuno
ci fa caso.
Hizashi si siede accanto a Shouta, aprendo il fascicolo che gli ha
lasciato. «Allora, Himiko… diciamo che la tua
situazione
non è così buona», commenta, osservando
alcuni
fogli. «Hanno trovato un bel po’ di pasticche di crimson a casa tua,
quindi direi che per l’incriminazione per detenzione di
stupefacenti non si possa fare molto.»
«Le cose però potrebbero andare in maniera diversa
se tu
ci aiutassi fornendoci alcune informazioni», prosegue Shouta,
incrociando le braccia al petto. «Potresti ottenere uno
sconto di
pena, magari.»
«Himiko, non sei costretta a dire loro
niente…», le fa notare l’avvocato, con
voce tremolante.
«Avvocato, basta!» Himiko si volta in direzione
dell’uomo, con aria esasperata. «I miei genitori
l’hanno mandata qui non per difendere me, ma per tutelare il
buon
nome di famiglia. Sa qual è il problema? Che io la voglio
dire,
la verità.»
Gli occhi di Himiko tornano a fissarsi in quelli di Aizawa.
«È vero. La crimson
che avete trovato in camera mia mi appartiene. L’ho prodotta
io,
per l’esattezza», ammette, giungendo le mani sopra
il
tavolo. «La formula precedente comprendeva
un’imprecisione.
Io l’ho sistemata, migliorando il prodotto finale.»
Shouta sostiene con fermezza lo sguardo della ragazza. In quel momento
ci sono solo lui e la sospettata, nient’altro conta
all’interno della stanza. «Chi ti ha chiesto di
migliorare
la formula, Himiko?», domanda, in tono solenne.
L’avvocato sembra accaldato e sul punto di svenire, ma a
Himiko non importa.
In quel momento, sul suo volto c’è
un’aria tranquilla e determinata.
Rei è seduta a una delle scrivanie del commissariato.
Al momento, l’agente che di solito la occupa non è
in
servizio, così si è limitata a sistemarsi
lì
mentre aspetta.
Aizawa sta interrogando la ragazza che hanno fermato e, in attesa di
qualche nuovo elemento, a lei non resta altro da fare che starsene
lì da sola.
Lo sguardo di Rei vaga tra le postazioni che, a quell’ora,
sono
quasi tutte deserte. Enji l’ha seguita fin lì dal
porto, e
ora la osserva mentre sul volto le compare un’aria assorta.
In quel momento, Fukukado Emi le si avvicina, con aria corrucciata.
«Ah, dottoressa», la chiama, allungando
distrattamente una
busta da lettera nella sua direzione. «Stamattina
è
arrivata questa per lei.»
Rei inarca le sopracciglia, scettica. «Alla
buon’ora», commenta, in tono caustico. «E
dire che
avevo anche specificato che si trattava di una cosa
urgente…»
Emi si sporge oltre la spalla di Rei per spiare mentre la donna legge.
«Che cosa sono?», domanda, curiosa.
«I risultati degli esami tossicologici di Ukai
Tomie»,
spiega, stringendo i fogli tra le dita e esaminandoli attentamente.
«Li avevo richiesti una settimana fa, subito dopo
l’incidente, eppure a quanto pare sono arrivati solo
adesso…»
Rei è costretta a fermarsi di colpo mentre parla.
C’è un valore, infatti, che non può in
alcun modo
passare inosservato sotto il suo sguardo.
E in quel momento Rei capisce che quello è il tassello
mancante che stavano cercando.
«Non è possibile…», mormora,
incredula.
Enji scorre velocemente a sua volta i fogli, ritrovandosi a sbarrare
gli occhi non appena comprende cos’ha scoperto sua moglie.
Rei si alza in maniera repentina dalla scrivania, avviandosi lungo il
corridoio. «Avverti Aizawa», prega, rivolta a Emi.
«Ci serve una volante, subito.»
Enji, nel frattempo, lascia il commissariato, svanendo nel nulla.
Keigo.
Il nome del ragazzo è tutto ciò a cui Enji riesce
a pensare mentre il mondo riprende forma attorno a lui.
Man mano che i contorni tornano a essere definiti, si rende conto di
trovarsi in un luogo che non ha mai visto prima d’ora.
Sembra essere una baita di montagna, almeno dalla struttura in legno,
tuttavia l’arredamento è più moderno di
quel che ci
si aspetterebbe. C’è una cucina di colore bianco
ghiaccio
– freddo, asettico – all’apparenza
moderna e dotata
di ogni genere di fornitura, ma quel che ruba l’attenzione
è senza dubbio il camino di pietra che impreziosisce il
soggiorno.
Alle spalle di Enji c’è un’enorme
vetrata
spalancata, dalla quale scivola all’interno
dell’abitazione
una brezza leggera. Se si volta a osservare il panorama, lo attende una
vista mozzafiato su un bosco che lentamente dirada verso un lago che,
dalla posizione in cui si trova, sembra risplendere d’argento
alle prime luci dell’alba che s’affacciano dietro
le
montagne.
«Dove siamo?», si ritrova a domandare Enji, prima
ancora di
rendersi conto che le parole gli sono sfuggite dalle labbra.
«Casa di Ryou.» Keigo si trova accanto a un divano,
e a
Enji sembra di riuscire a inquadrarlo solo nel momento in cui
finalmente lo sente parlare. Dal punto in cui si trova al momento,
fermo sulla soglia della vetrata, riesce a vedere il ragazzo soltanto
di spalle: segue i suoi movimenti mentre afferra con le dita un
fazzoletto di seta, rimasto abbandonato sopra un cuscino, ripiegandolo
ordinatamente.
Nelle ultime ore, mentre era in commissariato, Enji ha perso di vista
il ragazzo. Probabilmente è saltato sul primo autobus
diretto
verso la zona, ecco perché adesso è
già lì.
«Himiko ha confessato», spiega, lanciando
un’occhiata
nervosa attorno a sé. «La notizia del suo arresto
dev’essere arrivata all’orecchio di Ryou,
così
avrà mangiato la foglia per poi decidere di scappare in
fretta e
furia. Di sicuro starà cercando di cancellare le sue
tracce.»
Lo sguardo rammaricato di Keigo si posa sul divano. «A
giudicare
dal disordine che ha lasciato dietro di sé, sembra essere
parecchio di corsa. In ogni caso, non penso che sia andato via da molto
tempo», commenta, pensieroso. «Il posto
più vicino
da qui è l’istituto. Forse la crimson
è sempre stata lì.»
L’espressione di Enji sembra rilassarsi un poco.
«Perfetto», valuta, risoluto. «Allora non
ci resta
altro da fare che raggiungerlo e fermarlo prima che salga su un volo
diretto dall’altra parte del mondo.»
Keigo si decide a ricambiare lo sguardo di Enji, le labbra che si
piegano in un accenno di sorriso. «Tu vai,
intanto», lo
esorta, la voce che scivola fuori in un sussurro.
«Smaterializzandoti direttamente lì arriverai
prima,
così non rischieremo che Ryou ci sfugga nel frattempo. Io
vedo
di raggiungerti più in fretta che posso, promesso.»
Enji esita, incerto. «Sei sicuro…?»,
domanda, osservando attentamente il ragazzo.
Keigo annuisce piano, il sorriso sulle sue labbra che si fa
più deciso. «Certo», lo rassicura,
cordiale.
Alla fine, Enji decide di fidarsi del ragazzo.
Ancora non lo sa, ma quello sarà il suo più
grande rimpianto.
Poco dopo Enji svanisce nel nulla, mentre lo sguardo di Keigo si posa
sul caminetto.
L’istituto ha un aspetto spettrale.
Enji è già stato lì, eppure adesso,
negli ultimi
istanti di tenebra – quelli più bui –
prima
dell’alba e senza un anima viva in giro, è ancora
più inquietante.
Trova perfino la porta d’ingresso spalancata, altro dettaglio
piuttosto angoscioso.
Le luci dell’atrio sono accese, ma non sembra esserci
movimento
nei paraggi. Enji si guarda un po’ intorno, finché
non
nota una porta socchiusa che dà su un sottoscala.
Enji ci si avvicina in fretta, sbirciando mentre rimane sulla soglia.
Non si vede un granché, l’ambiente è
piuttosto buio
ed è rischiarato a malapena da alcune lampade
dall’aspetto
rudimentale appese alla parete, tuttavia da quello che riesce a
scorgere gli sembra che ci siano delle scale che scendono verso il
basso.
A Enji non resta che dirigersi al piano inferiore. Quella situazione
non gli piace per nulla, tuttavia al momento non ha altra scelta.
Alla fine delle scale trova ad attenderlo un altro ambiente
tremendamente macabro. Le pareti hanno una tonalità di
turchese
piuttosto scura, ma ciò che non si può fare a
meno di
notare entrando là dentro è il tavolaccio di
metallo al
centro della stanza. Ci sono delle cinghie di cuoio
all’altezza
in cui, se una persona si trovasse sdraiata là sopra, si
troverebbero i suoi polsi e le caviglie.
In quel momento, Enji capisce di aver già visto quel posto.
È lo stesso in cui erano state scattate le fotografie che ha
visto a casa di Tomie.
Il tavolo dell’elettroshock. Lo stesso su cui è
stato
disteso anche Keigo. Enji avverte un moto minaccioso di rabbia
accrescere sempre di più dentro di sé.
La sua attenzione, tuttavia, viene distolta da quel tavolo non appena
un rumore imprevisto gli giunge alle orecchie. Enji sposta lo sguardo
di lato, verso un angolino in cui una luce sfarfallante – ed
è sicuro di non essere lui a farla tremolare, stavolta
–
rischiara a malapena un armadietto.
Ryou si volta appena, lanciandogli un’occhiata in tralice da
sopra una spalla. «Todoroki Enji», soffia, in un
sibilo
malevolo. «Vorrei dirti che è un piacere
rivederti, ma
mentirei.»
Enji lo osserva con sguardo severo, per niente intimorito.
«È finita, Ryou», commenta,
un’espressione
dura sul volto. «La polizia è arrivata a te. Sanno
che ci
sei tu dietro a tutta questa storia. Stanno venendo a
prenderti.»
Ryou torna a puntare lo sguardo dritto davanti a sé,
ignorando
le parole dell’altro. «Oh, ma davvero?»,
chiosa,
sarcastico. «Beh, è un peccato allora che io me ne
stia
andando.»
Solo in quel momento Enji riesce finalmente a vedere cosa diavolo stia
combinando Ryou. L’uomo stringe tra le mani un barattolo di
vetro, e ne sta riversando il contenuto in una busta trasparente. Senza
troppe sorprese, là dentro c’è una
miriade di
pasticche di crimson
–
su uno degli scaffali dell’armadio ci sono già
altri tre
barattoli vuoti, e questo dà a Enji un’idea
piuttosto
chiara di come quel bastardo avesse ben architettato il traffico.
Ryou, però, non ha tempo da perdere con le occhiate
giudicanti
di Enji, così, dopo aver svuotato anche l’ultimo
barattolo, ha già recuperato il sacchetto con tutta la crimson, per poi
voltare le spalle al fantasma e avviarsi di nuovo su per le scale.
Enji, ovviamente, lo segue. Osserva Ryou attraversare l’atrio
dell’istituto, scendere giù per la scalinata
d’ingresso e incamminarsi lungo il vialetto esterno, i
sassolini
che scricchiolano appena sotto i passi affrettati delle sue scarpe
eleganti.
Enji lo vede fermarsi solo quando raggiunge una vettura sportiva
dall’aspetto costosissimo, la vernice nera lucida che
risplende
sotto i lampioni che corrono lungo tutto il perimetro esterno
dell’istituto. Ryou sale in macchina, gira le chiavi nel
quadro
ma il motore non parte. Ci riprova due, tre, quattro volte,
però
l’esito non cambia.
Ryou solleva lo sguardo, osservando Enji con astio. Il fantasma
è lì davanti alla macchina, lo vede perfettamente
attraverso il parabrezza, e sa che è lui a controllare
l’energia elettrica della batteria, impedendo al motore di
avviarsi.
«Arrenditi. Non andrai da nessuna parte», insiste
Enji, non
senza una certa soddisfazione, mentre infila le mani nelle tasche della
giacca.
Ryou trattiene un ringhio tra i denti, ma non si dà per
vinto.
Non riuscirà a scappare via in auto come avrebbe voluto,
però può ancora mettere un po’ di
distanza tra
sé e l’istituto. Così scende dalla
vettura,
abbandonando sul sedile del passeggero la busta con la crimson –
al diavolo,
l’importante è fuggire da lì
–, per poi proseguire a piedi.
Enji continua a seguirlo. Ryou s’infila in un bosco, ed
è
sorprendente come riesca a muoversi con agilità anche mentre
i
rami tentano in tutti i modi di ghermirlo.
L’oscurità,
poi, non aiuta certo ad avanzare lungo il percorso, né il
terreno irregolare – Enji lo avverte di colpo farsi in
discesa.
Uscendo dal fitto del bosco dopo diversi minuti d’affanno, i
due
si ritrovano su una strada, la lunga lingua scura d’asfalto
che
corre tra abeti centenari e vertiginosi tornanti di montagna. Ryou
prova a percorrerla a piedi, attraversando un ponte che passa sopra un
torrente dalle acque agitate.
È allora che uno sparo squarcia l’aria.
Enji si ritrova senza accorgersene a trattenere il fiato, mentre Ryou,
colpito di striscio a una gamba, si accascia al suolo, dolorante.
Alle sue spalle, Enji avverte alcuni rumori che riesce a distinguere
nitidamente, anche grazie ad anni di esperienza in polizia –
un
gridolino di sorpresa e forse un poco di paura, un’arma che
con
il contraccolpo vola via dalla mano e rotola lungo l’asfalto.
Enji si volta lentamente, ed è costretto a sbarrare gli
occhi per il terrore.
«Pezzo di
merda!»
Keigo trema, e quello che sta provando in questo momento
dev’essere un insieme di rabbia, tristezza e spavento. Enji
non
ha la più pallida idea di dove si sia procurato quella
pistola,
probabilmente a casa di Ryou – e si maledice, dannazione, non
avrebbe mai dovuto lasciarlo da solo.
«Keigo…» Enji cerca di richiamarlo
piano, ma sa che
al momento l’attenzione del ragazzo non è rivolta
a lui.
«Come hai potuto?!», grida ancora Keigo,
trattenendo a
stento le lacrime. «Io mi fidavo di te! Credevo che mi
amassi!»
Ryou si volta verso il ragazzo, sfoderando il suo sorriso
più
ammaliante nonostante le fitte al polpaccio si facciano sempre
più insopportabili – anche se è tutto
inutile,
ormai, quel trucchetto ha smesso di avere effetto su di lui da tempo.
«Keigo, tesoro… cerca di
ragionare…»,
mormora, suadente. «Minacciava di denunciare tutto alla
polizia.
Sarebbe stata una tragedia, lo capisci?»
Keigo sente le lacrime rigargli le guance. «Era mia madre, dannazione!»,
urla, singhiozzando.
«Non importa!» Il tono di Ryou adesso si fa
più
concitato. «Non potevo permettere che i ragazzi finissero in
mezzo alla strada.»
Enji è piuttosto certo che, nel momento in cui Ryou ha
deciso di
far fuori Tomie, la sua prima preoccupazione non sia stato esattamente
il corpo studentesco dell’istituto, tuttavia decide che
quello
non è il momento migliore per farlo notare.
«Cosa le hai fatto, mostro?», domanda invece,
osservando Ryou con rabbia.
L’uomo si ritrova a deglutire a vuoto. «Le ho dato
della crimson»,
ammette, tremante – ed Enji riflette che quella è
la prima volta in cui gli sembra di vederlo avere paura.
«È venuta a cercarmi durante il rinfresco, il
giorno delle
lauree. Mi ha fermato una prima volta, facendomi vedere le foto e
minacciando di fare un casino. Io ho minimizzato, dicendole che nessuno
avrebbe dato retta a una pazza come lei, dopodiché sono
tornato
dagli altri alla cerimonia. Pensavo che se ne fosse andata, invece ha
cominciato a gironzolare per l’edificio. Non so come sia
arrivata
alla sala dell’elettroshock, fatto sta che lì ha
trovato
la crimson.
Dopo è
tornata di sopra, l’ho vista e l’ho portata di
nuovo in una
stanzetta in disparte. Ha detto che aveva visto la droga, mi ha
sbattuto in faccia un paio di pasticche che aveva preso come prova e ha
detto che non l’avrei fatta franca. Io ero nel
panico…
avevo una dose di crimson
con
me, così l’ho polverizzata e gliel’ho
offerta in un
drink con la scusa di invitarla a festeggiare perché
finalmente
si sarebbe sbarazzata di me. Lei ha bevuto, soddisfatta, e poco dopo ha
lasciato l’istituto. Non è servito
nient’altro,
è bastato l’effetto degli stupefacenti a mandarla
fuori
strada.»
Mentre il racconto di Ryou va avanti, il pianto sulle guance di Keigo
non fa che aumentare. «C-come hai
potuto…», mormora
ancora, la schiena scossa dai singhiozzi. «Era mia
madre…»
Enji si avvicina al ragazzo, portandosi istintivamente alle sue spalle.
«Shh. Va tutto bene, Keigo», mormora, le labbra
così
vicine al suo collo. «Stai tranquillo, è tutto
finito…»
Le sue parole sembrano ottenere il risultato desiderato. Sente il
ragazzo tirare un piccolo sospiro, mentre i suoi muscoli si rilassano
lentamente.
Poco dopo, però, tutti i suoi sforzi vengono resi vani.
«Sì, Keigo, dagli ascolto…»,
mormora Ryou, ancora a terra.
In quel momento, Enji vorrebbe solo potergli urlare contro Idiota, che diavolo ti viene in
mente? Non vedi che stavo riuscendo a calmarlo?! Così non
farai altro che…
Enji non riesce nemmeno a portare a termine il pensiero. Lo sguardo di
Keigo torna a puntarsi su Ryou, con decisione.
Tutto quello che succede nei secondi successivi Enji lo vive al
rallentatore. Keigo fa per avvicinarsi di nuovo alla pistola e,
d’impulso, Enji stende la mano in avanti cercando di
spostarla.
Muovere gli oggetti è un’azione facile per i
fantasmi,
ormai ha perso il conto di quante volte lo abbia già fatto.
Stavolta, però, qualcosa non va per il verso giusto.
Anziché la pistola, a cambiare improvvisamente traiettoria
è il corpo di Keigo, che vola giù, oltre la
struttura del
ponte, con un urlo agghiacciante.
È solo in quel momento che, troppo tardi, Enji capisce.
La visione.
Quel luogo, il ponte… è lo stesso che ha visto la
notte
dell’incidente di Tomie. Quelli alle spalle di Keigo, fin dal
principio, non sono stati nient’altro che gli stralli della
struttura.
Ha fatto di tutto per sfuggirle ma, alla fine, è stato
proprio lui a farla realizzare.
Sotto lo sguardo terrorizzato di Enji, il corpo di Keigo viene
inghiottito dal vuoto.
«Keigo!»,
lo chiama, disperato.
Ryou, a terra e ferito, sembra quasi divertito da tutta quella
situazione, tanto che una risata strozzata gli sale alle labbra.
Enji si lancia attraverso la carreggiata, affacciandosi oltre il
parapetto. In quel momento avverte le sirene di una volante della
polizia arrivare sul luogo, ma non riesce a curarsene.
Fortunatamente, il ragazzo non è precipitato in acqua. Dopo
la
caduta, Enji ha avvertito un tonfo sordo, e adesso vede che Keigo
è atterrato su quella che pare essere la struttura di un
ponteggio per dei lavori di messa in sicurezza del viadotto. Sembra,
però, privo di conoscenza – ed Enji sente di nuovo
un
tumulto attanagliargli il petto.
«Fermo!» Aizawa scende dall’auto in
maniera
repentina, la pistola puntata verso Ryou per intimargli di non
contraddirlo.
No, adesso non
è lui che conta! Il mio ragazzo…
Enji vorrebbe gridare, ma sa già che non lo sentirebbero.
Lo sportello del passeggero anteriore si apre più
lentamente,
lasciando scendere Hizashi. I suoi occhi vagano osservando la scena che
si è ritrovato davanti, Ryou a terra, la pistola, il ponte.
Lo
sguardo di Hizashi si posa infine sul parapetto, a cui si avvicina
intuendo almeno in parte la dinamica dell’accaduto.
L’ispettore si affaccia, mentre accanto a lui Enji continua
ad
avere gli occhi sbarrati per la paura. Hizashi guarda giù,
verso
il basso, e si ritrova a trasecolare vedendo il corpo immobile di Keigo.
«Shouta! Chiama un’ambulanza!» Hizashi si
volta verso il collega. «C’è
Keigo!»
«Keigo?», domanda Shouta, incerto, tuttavia ha
già
estratto il cellulare dalla tasca dei pantaloni e composto il numero di
emergenza. «Pronto, serve un’ambulanza sulla
statale due,
al chilometro…»
Le parole di Aizawa arrivano ovattate alle orecchie di Enji. Hizashi
scavalca il parapetto del ponte, cominciando a scendere giù
per
quella struttura temporanea fino a raggiungere Keigo. Enji lo segue, in
preda a un’apprensione cieca.
«Keigo…» Hizashi lo chiama piano, ha
quasi paura di scuoterlo con troppa violenza.
«Ti prego, Keigo, svegliati…», mormora
Enji, inginocchiandosi accanto a lui.
Poco dopo, il ragazzo riapre gli occhi di scatto, ansimando.
Enji si lascia sfuggire un sospiro di sollievo, stremato.
«Quindi, ricapitoliamo.»
Mentre parla, Aizawa continua a camminare lungo il corridoio.
«Il colpo di pistola è partito per errore a Ryou,
che ha
finito per ferirsi a una gamba, mentre tu sei caduto dal ponte
sporgendoti troppo oltre il parapetto. È corretto?»
Keigo lancia un’occhiata verso il pavimento, ritrovandosi a
osservare piccole piastrelle verde giada. «Sì,
è
andata così», conferma, le dita che si stringono
attorno
alla tracolla della sua borsa.
È un miracolo che, nonostante quel volo assurdo, non abbia
riportato che pochi graffi qua e là. Adesso sono in
ospedale,
dove lo hanno portato per accertamenti, eppure l’unica
medicazione che gli hanno applicato è una fasciatura attorno
alla mano.
«Bene.» Aizawa si ferma a metà del
corridoio,
portandosi le braccia dietro la schiena. «Se le cose stanno
così, non ho altre domande da farti.»
Sul volto di Keigo compare un sorriso esitante. Sa che Aizawa sta
fingendo di credere alla sua versione dei fatti, sebbena abbia capito
perfettamente quale sia la verità. Lo fa perché
non vuole
metterlo nei guai, e Keigo gliene è grato.
Aizawa si congeda da lui augurandogli una pronta guarigione, per poi
imboccare a ritroso il tratto di corridoio che hanno percorso assieme.
Keigo, invece, dopo aver osservato il commissario allontanarsi, torna a
puntare lo sguardo davanti a sé, attirato dallo sfarfallio
del
neon di una lampada – e sa perfettamente che non si tratta di
un
calo di tensione elettrica.
Enji è lì, seduto su una panca di metallo, con le
braccia
conserte strette al petto e l’espressione più
immusonita
che Keigo abbia mai visto sul suo volto.
Il ragazzo si affretta a raggiungerlo, sedendosi accanto a lui. Sente
il sorriso sul suo volto farsi più disteso, come se la
tensione
delle ultime ore stesse cominciando finalmente a sciogliersi.
«È tutta colpa mia», esordisce Enji,
cupo. «Ho
fatto di tutto per tenerti lontano dal pericolo. Pensavo che
così ti avrei salvato, invece ti ho quasi ucciso.»
«Io non la vedo così.» Keigo solleva i
suoi enormi
occhi dorati su di lui, ed Enji vi trova una spensieratezza che mancava
da tempo. «Hai allontanato quella pistola da me per impedirmi
di
sparare. L’hai fatto perché non volevi che
diventassi un
assassino. Hai cercato di proteggermi, a modo tuo.»
Gli occhi turchesi di Enji si ritrovano a fissare il ragazzo colmi di
stupore. Il sorriso sul volto di Keigo, per tutta risposta, si fa
ancora più ampio mentre abbassa le palpebre in
un’espressione divertita.
Il ragazzo avvicina la fronte alla sua, e ancora una volta Enji ha
l’impressione che possano toccarsi, la luce sopra di loro che
continua a tremolare.
Sono passati alcuni giorni dall’arresto di Ryou, e a Tokyo
sembra essere tornato a splendere il sole.
Quella è, a tutti gli effetti, ancora una fredda mattina
d’inverno, eppure Keigo pare troppo distratto per avvertire
il
gelo.
«Sei preoccupato?»
Keigo solleva di scatto lo sguardo da terra, un’espressione
confusa che gli compare in volto. Per tutta risposta, Rei gli rivolge
un sorriso dolce, dal sapore materno.
È stata la dottoressa Himura a proporgli di accompagnarlo in
procura, quel giorno. Rei, dopotutto, parteciperà
all’interrogatorio di Ryou, visto che si è
occupata in
prima persona del caso di Tomie.
Enji sta seguendo i due a qualche passo di distanza, le mani infilate
nelle tasche della giacca. Continua a provare una strana sensazione
ogni volta che vede Rei e Keigo insieme, ma è qualcosa di
piacevole, come un calore che lo avvolge dall’interno.
Keigo serra nervosamente le dita attorno alla tracolla della borsa, un
sorriso che fa capolino sul suo volto sebbene l’espressione
continui a rimanere tesa. «Un po’»,
ammette,
trattenendo a stento un risolino. «Continuo a pensare a tutte
le
cose che possono andare per il verso storto…»
I due salgono su per i gradini d’ingresso, per poi infilarsi
all’interno della procura e imboccare la scala che porta al
primo
piano.
«Vedrai che andrà tutto bene», cerca di
rassicurarlo
Rei, posandogli una mano sulla spalla con fare cordiale.
«Alla
fine si tratta solo di un’interrogatorio di convalida.
Aspettami
con Aizawa e gli altri nel mio ufficio, sarò da voi prima di
quanto immagini.»
Rei rivolge un ultimo sorriso incoraggiante in direzione del ragazzo,
per poi avviarsi lungo il corridoio.
Enji lancia uno sguardo intenso verso Keigo. Ha l’impressione
che
riescano a capirsi senza parlare, come sempre. Poco dopo si affretta a
raggiungere sua moglie, con la certezza di sapere che il ragazzo
è in buone mani.
Rei apre una porta di legno dall’aspetto monumentale, e si
ritrova in una stanza dalle pareti verde pino e il soffitto altissimo.
C’è un tavolo imponente, sul quale sono state
depositate
pile di documenti e scartoffie, che si estende quasi per
l’intera
lunghezza della stanza. Dal lato opposto all’ingresso, il
giudice
ha già fatto accomodare Ryou e il suo avvocato.
«Buongiorno», esordisce Rei, poggiando il trench in
panno
bianco sull’appendiabiti per poi prendere posto a sua volta.
«Direi che possiamo cominciare», decreta il
giudice, con un sorriso bonario.
Rei gli rivolge un lieve cenno del capo, per poi spostare lo sguardo su
Ryou. «Signor Shigaraki, lei è accusato di
produzione,
detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, oltre che
dell’omicidio di Ukai Tomie», riepiloga, mentre
apre la
cartellina con il fascicolo dell’indagine che ha portato con
sé. «Cos’ha da dire in merito?»
Sul volto di Ryou compare un sorriso beffardo che Enji sarebbe ben
lieto di cancellargli a suon di pugni. Nel frattempo,
l’avvocato
dell’uomo si schiarisce la voce.
«A questo proposito, signor giudice», interviene
quest’ultimo, evitando accuratamente di incrociare lo sguardo
con
quello di Rei. «Il mio assistito vorrebbe dichiararsi
colpevole
del primo reato, ma innocente per quanto riguarda il secondo.»
Enji non è sorpreso. Immaginava che, ovviamente, avrebbero
cercato di evitare la pena più consistente. Tutto
ciò,
però, non fa che accrescere il suo disgusto nei confronti di
Ryou.
Rei sposta lo sguardo sull’avvocato, con
un’espressione
confusa. «Nell’auto dell’imputato
è stata
rinvenuta una quantità notevole di pasticche di crimson»,
fa notare, interdetta. «La stessa droga che, secondo il
referto
autoptico, Ukai Tomie ha assunto poco prima del decesso.»
«Dettaglio ininfluente, signor giudice», insiste
l’avvocato, senza scomporsi. «Non ci sono prove che
attestino che, a far assumere alla signora Ukai questa droga, sia stato
il mio assistito, a meno che non ci vogliamo basare su una confessione
che non ha alcun valore giuridico.»
L’uomo parla col tono calmo di chi sa di non poter essere
contraddetto, e sul volto di Ryou c’è ancora il
sorriso
sfrontato di poco prima. Ed Enji sa che no, non
può riuscire a sopportarlo ancora a lungo.
All’improvviso, sotto ai paralumi verdi delle lampade da
scrivania disposte su tutto il tavolo, le luci cominciano a
sfarfallare. Rei, il giudice e l’avvocato si ritrovano a
osservare il fenomeno con aria perplessa.
Ryou, invece, ha un’espressione terrorizzata.
Non si è accorto della presenza di Enji, non l’ha
minimamente visto entrare. Il fantasma lo osserva con le mani infilate
in tasca, un sogghigno sul volto.
«Chi non muore si rivede, bastardo»,
commenta, malevolo.
Ryou si ritrova ad ansimare, la luce che prende a lampeggiare sempre
più velocemente. Alla fine chiude gli occhi, portandosi le
mani
alle tempie.
«Basta! Basta, confesso!», esclama, rassegnato.
«Sono stato io! Ho dato io alla Ukai quella droga.»
La luce delle lampade torna a essere fissa, mentre i presenti osservano
Ryou con espressioni diverse – il giudice sembra confuso,
l’avvocato disperato e Rei soddisfatta.
Enji, invece, si sente di colpo più leggero.
Un’esclamazione di esultanza accompagna lo schioppo del tappo
che vola via dalla bottiglia.
Lo studio di Rei è proprio come Enji se lo ricordava, non
sembra
cambiato di una virgola nel corso degli anni – le pareti blu
di
Prussia, la scrivania con tutte le pratiche ordinatamente sistemate, i
divanetti all’ingresso. Quel giorno si è riunito
lì
un folto gruppetto di persone – ci sono Shouta e Hizashi con
Eri
e Hitoshi, Emi e, naturalmente, Keigo. I presenti si passano tra loro
calici di spumante, e l’atmosfera generale è di
grande
allegria.
Dopotutto, c’è più di una cosa da
festeggiare.
Se, infatti, l’occasione è principalmente quella
di
celebrare la fine dell’indagine, tutti sanno bene cosa questo
stia implicitamente a significare.
«Congratulazioni, Rei.» Aizawa è il
primo a parlare,
lo sguardo che si posa con ammirazione sulla donna. «Adesso
potrai partire per Kyoto a cuor leggero.»
Rei abbassa per un momento lo sguardo sulla scrivania, le labbra
piegate in un sorriso. «Oh, sapete che niente di tutto questo
sarebbe stato possibile senza l’impegno di tutti
voi»,
commenta, modesta, tornando a osservare i presenti.
«Però
sì, è vero. Dopo aver risolto questo caso, sento
di aver
finalmente chiuso un capitolo importante della mia vita.
Chissà,
forse questo è stato il mio modo per offrire
l’ultimo
saluto a Enji.»
Shouta rotea gli occhi, ma non lo fa con malizia – forse la
sua
è solo esasperazione. «Enji», bofonchia,
rassegnato.
«La sua presenza è sempre stata così
ingombrante
che a volte sembra che non se ne sia mai andato davvero dal
commissariato.»
Enji non ha bisogno di voltarsi verso Keigo per sapere che sulle labbra
del ragazzo è comparso un sorriso imbarazzato.
«Beh, però in fin dei conti è
vero», si
ritrova a convenire Hizashi. «Se non fosse per la sua
indagine
sulla crimson,
probabilmente oggi non saremmo arrivati a questo risultato.»
Shouta incassa la testa nelle spalle, con fare arrendevole.
«E va
bene», cede allora, sollevando il calice in aria.
«Allora
facciamo che il prossimo brindisi lo dedichiamo a lui.»
La proposta raccoglie consensi entusiasti tra i presenti, che si
ritrovano ad annuire con decisione. Poco dopo si limitano a imitare
Aizawa, alzando anche i loro bicchieri.
«A Enji», pronuncia, con fare solenne.
«Senza il
quale non saremmo riusciti a risolvere questo caso e che continua a
tormentare la nostra esistenza.»
«A Enji», ripetono tutti, in un coro commosso.
«Testa di cazzo», commenta Enji, alle spalle di
Shouta.
Seduto vicino a Keigo su uno dei due divanetti c’è
Hitoshi, impegnato a tenere Eri sulle gambe. Lei, divertita e confusa,
continua a fargli domande su quello che sta succedendo a cui lui cerca
di rispondere, un po’ impacciato. Lo zainetto a forma di
ranocchia è a terra, lì vicino a loro.
Alle parole di Enji, Keigo non riesce a trattenere un sorriso. Mentre
gli altri bevono, gli sguardi dei due sono l’uno solo per
l’altro.
Eri corre allegra davanti a sé, mentre Hitoshi fa fatica a
starle dietro.
La risata della bambina riempie l’aria, e Shouta si chiede
quando
sia stata l’ultima volta che l’ha vista
così
spensierata.
È sera e lui, Hizashi e i ragazzi stanno facendo una
passeggiata
in città. Intorno a loro ci sono i locali che iniziano a
riempirsi di clienti per la cena, le luci dei lampioni che cominciano
ad accendersi lungo la strada e si riflettono nel fiume.
«È tutto perfetto», valuta Hizashi, con
quell’aria da eterno bambino meravigliato che ha fatto
innamorare
Shouta di lui.
Shouta si ferma, e Hizashi si sente tirare indietro, la mano di Aizawa
ancora stretta attorno al suo polso. Sta per dirgli qualcosa, ma prima
che possa riuscirci le labbra di Shouta sono sulle sue, intrappolandole
in un bacio intenso.
«Adesso lo è», precisa Aizawa,
sentendosi sereno come non gli capitava da tanto tempo.
Sul volto di Hizashi compare un sorriso delicato. Ti amo, vorrebbe
dirgli. Ti amo
anch’io, finirebbe di sicuro per rispondergli
Shouta.
I due riprendono a camminare, affrettandosi a raggiungere Hitoshi ed
Eri.
«Questo era l’ultimo.»
Lo sguardo di Rei si ritrova a vagare in quello che per lunghi anni
fino a poche ore fa è stato il soggiorno di casa sua. Ha
appena
portato in macchina l’ultimo pacco con le cose che ancora non
aveva spedito a Kyoto, quello stretto necessario che ha tenuto con
sé in quei pochi giorni d’indagini a Tokyo.
Keigo è davanti a lei, e la osserva sorridente. Ha proposto
con
piacere a Rei di aiutarla con gli scatoloni, così adesso si
ritrova in quella casa che la donna per anni ha condiviso col marito.
Gli occhi di Rei si posano con dolcezza e riconoscenza sul ragazzo.
«Ora che farai?», domanda, premurosa.
Keigo porta le braccia dietro alla schiena, dondolando un po’
sui
talloni. «L’istituto è stato
chiuso», ammette,
chinando appena la testa di lato. «Era inevitabile, dopo
tutti
gli scandali che sono usciti fuori trovare dei finanziatori disposti a
supportare il progetto era un po’ un suicidio. Nei giorni
scorsi
sono stato a prendere la mia roba e per il momento mi sto appoggiando
da Kaina. Adesso… probabilmente cercherò di
riaprire
l’Owl. Sento che, in un certo senso, lo devo a mia
madre.»
Rei annuisce, colpita. «È una splendida
idea», si ritrova a valutare, con stupore.
Keigo accenna un altro sorriso nella sua direzione, e Rei si sporge in
avanti, abbracciando il ragazzo.
È una stretta così tenera e materna che, per un
momento,
Keigo è colto di sorpresa, imbarazzato. Le braccia di Rei,
però, sono troppo gentili, così poco dopo si
è
già sciolto e cerca un po’ impacciato di
restituirle
l’abbraccio come può.
«Lo sai che per qualsiasi cosa io ci sono sempre,
sì?», gli domanda la donna, passando una mano tra
i suoi
capelli dorati.
«Certo…», le assicura lui, posando una
guancia sulla sua spalla.
Rei scioglie lentamente l’abbraccio. Quando si separa dal
ragazzo, fruga per un momento nella tasca della giacca, per poi
recuperare qualcosa e porgergliela.
«Queste sono per te», spiega, lasciando cadere il
mazzo di
chiavi nelle mani di Keigo. «Sono di questa casa. Ci ho
pensato a
lungo, e mi sono detta che piuttosto che lasciarla a qualche
sconosciuto, è giusto che sia tu ad averla. Hai fatto
così tanto per me ed Enji, e sono certa che anche lui
sarebbe
d’accordo.»
Keigo le rivolge uno sguardo pieno d’imbarazzo, mentre dopo
un
primo istante in cui non è riuscito a far altro
che restare
immobile cerca di restituirle le chiavi. «No, Rei, non posso
accettare», balbetta, incredulo. «È
d-davvero
troppo…»
Rei posa gentilmente le dita su quelle del ragazzo, facendogliele
richiudere attorno alle chiavi. «No, non lo
è», lo
rassicura lei, col suo tono pacato.
Keigo rivolge uno sguardo intenerito alla donna, che gli lascia una
carezza leggera sulla guancia. Rei gli dedica ancora un sorriso sereno,
per poi infine aprire per l’ultima volta il portone di casa,
richiudendolo mentre abbandona alle proprie spalle quegli anni di vita
a Tokyo.
Il portone si chiude, e da dietro di esso Keigo vede comparire Enji.
Ha assistito a tutto il saluto tra i due, e si trova a valutare che,
come al solito, anche stavolta Rei ha preso la decisione giusta: non
esiste al mondo persona più meritevole di Keigo di
abitare
in quell’appartamento.
«Ha ragione lei», commenta infatti, chinando appena
il capo verso il portone.
Lo sguardo di Keigo si sposta di lato, coperto da un velo di
malinconia. «Dunque ci siamo…», valuta,
esitante.
Enji sa cosa sia a turbare il ragazzo – ne sono consapevoli
entrambi, in realtà. Ormai il suo tempo nel mondo dei vivi
sta
per scadere, e sono giunti ai saluti finali.
«Beh, sapevamo che questo momento sarebbe
arrivato», gli fa
notare Enji, stringendosi nelle spalle mentre gli rivolge un sorriso
incoraggiante.
Keigo si avvicina a lui, socchiudendo le palpebre. «Cerchiamo
almeno di salutarci come si deve, allora», propone, con voce
suadente.
Prima che Enji possa chiedergli cosa intende, sente il proprio corpo
guadagnare nuovamente densità. Osserva il ragazzo con
un’espressione sorpresa, credeva che non sarebbe
più
ricorso a quell’espediente, ma Keigo non gli lascia il tempo
di
rivolgergli una parola, perché l’istante
successivo gli ha
già gettato le braccia al collo, posando le labbra sulle sue.
Enji si ritrova a chiudere gli occhi, pieno di meraviglia. Affonda le
dita tra i capelli del ragazzo, stringendolo a sé mentre
approfondisce il bacio, spingendo Keigo con la schiena contro la parete.
«Non mi lasciare», sente mugugnare il ragazzo, tra
un bacio
e l’altro. «Ti prego, non mi
lasciare…»
Enji sente che c’è qualcosa di diverso, questa
volta.
Nelle parole di Keigo, nel modo in cui le sue dita
s’aggrappano
ai vestiti, avverte una cieca disperazione.
«Devo andare, lo sai…», sussurra,
prendendogli il viso tra le mani.
«I-io non ce la faccio senza di te…»,
replica ancora Keigo, con la voce rotta.
A Enji sembra di non aver mai visto il ragazzo così vicino
al
pianto come in quel momento. «Sì che ce la
fai», lo
rassicura, scostandosi appena da lui ma continuando a tenerlo vicino a
sé. «Sei riuscito a sopravvivere in questi tre
anni senza
di me o sbaglio?»
«Sì, ma guarda dov’ero
finito!», insiste il
ragazzo, sconfortato, lasciandosi sfuggire una risata triste.
«In
una sorta di comune per gente con i superpoteri…»
«Ehi, Keigo.» Enji gli prende il volto tra le mani,
cancellando i segni di lacrime dalle guance e afferrandogli il mento
tra pollice e indice per fargli sollevare il capo. «Guardami.
Sei
una delle persone più intelligenti e coraggiose che conosca.
Puoi riuscire a fare tutto ciò che desideri. Io ho piena
fiducia
in te.»
Il ragazzo ricambia il suo sguardo, gli occhi dorati che tremolanti si
aggrappano ai suoi come alla ricerca di un’ancora.
«Enji…», mormora piano, un sospiro che
gli sfugge
dalle labbra mentre le palpebre tornano ad abbassarsi sui suoi occhi.
Enji gli passa per un’ultima volta il pollice sulle labbra,
facendo appena in tempo prima di tornare di nuovo inconsistente.
Keigo gli volta piano le spalle, lasciandosi sfuggire un singhiozzo
mentre stringe le braccia attorno al corpo. «Vai,
adesso»,
lo esorta, debolmente. «Vai, perché altrimenti non
ce la
faccio a lasciarti andare.»
Enji allunga istintivamente una mano verso il ragazzo, cercando di
sfiorarlo, ma tutto ciò che le sue dita si ritrovano a
stringere
è solo aria. Va
bene così, in fondo, si dice tra sé.
Dopotutto, non potrebbe
essere altrimenti.
Enji chiude gli occhi, svanendo e lasciando per l’ultima
volta quella casa.
Quando Keigo torna a voltarsi, è rimasto da solo
nell’appartamento.
Fuori, un tuono squarcia l’aria mentre comincia a piovere.
Come la prima volta, si ritrova a valutare Keigo.
Le lacrime continuano a scendergli dagli occhi, mentre le sue labbra si
piegano in un sorriso.
Enji si ritrova sul tetto dove ha perso la vita, tre anni prima.
Non fa in tempo ad arrivare lì che un temporale si abbatte
sulla città. Come
quella notte, come la prima notte.
La luce è lì, dove l’ha vista per la
prima volta,
dopo la sua morte. È calda e accogliente come sempre, ed
Enji sa
che non vuole più scappare via da lei.
Non si è mai chiesto che cosa ci sia ad aspettarlo oltre di
essa. Se potesse scegliere, probabilmente sarebbe bloccato
all’infinito in un istante, mentre lui e Keigo sono distesi
su un
letto e tiene il ragazzo tra le braccia.
Keigo. Enji
non sa come, ma
non ha dubbi che lui e il ragazzo sapranno ritrovarsi di nuovo, in
qualche modo. Sono destinati a incontrarsi in ogni universo, ormai ne
è certo.
Finalmente, Enji attraversa quella luce, pronto ad andare.
Nella
vita, la fine non esiste.
Nelle
storie, invece, sì.
✽✽✽
È una giornata tiepida di primavera. Dalla vetrina del bar,
la
luce del sole entra all’interno del locale e
s’infrange
sulle sue ciglia dorate.
Keigo si passa una mano sulla fronte. Alla fine ce l’ha
fatta,
è riuscito a riaprire l’Owl e adesso se ne occupa
dedicandosi anima e cuore all’attività.
Tutto sommato, gli affari stanno anche andando bene.
C’è
sempre un viavai di clienti, e sente che non ha niente di cui
lamentarsi, davvero.
Pulisce con un panno il bancone del bar, sereno. È
metà
mattinata, a quest’ora sono quasi tutti a scuola o al lavoro,
così lui può tirare un sospiro di sollievo e
godersi un
momento di calma prima della prossima ora di punta.
Di colpo, la sua attenzione viente attirata dallo sfarfallio di una
luce, in una delle lampade sospese sopra al bancone. Resta per un
attimo interdetto, come accarezzando un dolce ricordo.
Probabilmente dovrebbe cambiare quella lampadina, già.
Poco dopo, la campanella sopra la porta trilla, annunciando
l’arrivo di un gruppo di nuovi clienti.
Keigo scuote la testa scacciando un pensiero, per poi affrettarsi a
raggiungere i clienti mentre rivolge loro un sorriso.
note
Fine.
ah, mi sembra incredibile essere riuscita finalmente ad arrivare alla
conclusione di questa storia. è stato un viaggio
lunghissimo, la
storia è stata in stesura per dieci mesi, se poi ci
aggiungiamo
i tre di pubblicazione arriviamo a circa un anno. in effetti, era
più o meno questo periodo quando, l'anno scorso, finivo di
scrivere il primo capitolo. un percorso impegnativo, non c'è
che
dire.
non so se la risoluzione della parte investigativa sia stata troppo
affrettata, ma la verità è che sono una frana con
queste
cose.
per quanto riguarda enji e keigo, invece, lo confesso: avrei preferito
molto di più lasciarli per sempre insieme, ma mi rendo conto
che
questa fosse l'unica soluzione sensata possibile.
un po' mi spiace che la storia sia "floppata", dall'altra parte
però vbb dai, non fa niente, ormai è andata.
adesso sinceramente penso che mi prenderò una pausa dal
sito. un
po' perché i mesi passati dietro a questa long hanno
prosciugato
le mie energie, un po' perché al momento sto lavorando a
qualcosa che non ho intenzione di postare.
grazie a chiunque abbia letto e seguito questa long, spero che vi sia
piaciuta! ♡
aria
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