Quel giorno, quella mattina soleggiata d'aprile, cadde in ginocchio con
quella lettera in mano. Cercò di respirare, ma l'ossigeno
sembrava essere scomparso tutto d'un tratto; sentì che il
cuore faticava a pompare sangue nelle vene.
-Ema - esclamò Camilla, poi corse in pigiama verso di lui.
Gli toccò la schiena. - Cos'è successo? Ema?!
Lui non rispose; non riusciva a fare altro che tremare e cercare
affannosamente di prendere respiro. Lei gli tolse la lettera di mano,
la lesse velocemente, e anche le sue mani iniziarono a tremare.
Arrivata alla fine, lo guardò, stravolta dall'angoscia.
-Non è quello che penso, vero? - riuscì a
mormorare – Non l'ha fatto, vero?
-L'ha fatto – rantolò Emanuele – ci
è riuscita. Questa volta ci è riuscita.
Tacquero per un po', terrorizzati, con gli occhi fissi sul vuoto. La
lettera era per terra, la calligrafia tondeggiante e ordinata di Bianca
la decorava con l'inchiostro blu.
Ad un tratto Emanuele scoppiò a piangere tanto
disperatamente che i vicini accorsero ai suoi gemiti, ma lui non li
vide, non se ne accorse. Si nascose sul seno di Camilla e ne riemerse
solo quando non ebbe più la forza per urlare.
La scuola era in subbuglio.
I genitori avevano avvertito la mattina stessa; tutte le classi furono
convocate in aula magna per una riunione straordinaria, e la preside li
informò dell'evento con una voce flebile che non le avevano
mai udito. Lei, che era sempre stata così forte ed elegante,
non era nemmeno in grado di guardare verso il pubblico. Guardava il
pavimento, tormentandosi la collana costosa tra le dita.
-Non sono... non sono davvero in grado, in questo momento, di fare
discorsi commemorativi – esordì, a voce bassa
– vogliate comprendere il mio stato d'animo. Volevo soltanto
informarvi del fatto che il funerale, come ci hanno comunicato i
genitori, si terrà domani mattina alle dieci, nella chiesa
di Altichiero. Non chiederò alcuna giustificazione a chi
sarà assente per partecipare al rito funebre; non
controllerò chi c'era o non c'era, per cui, se volete, siete
liberi di fingere di esserci stati e di non giustificare la vostra
assenza. Io spero solo... - Ma a quel punto Giovanna s'interruppe.
Chiuse gli occhi, scosse la testa. - Ma cosa ve lo dico a fare. Siete
grandi, ormai. Potete fare quello che volete, se solo lo volete.
Nelle ultime parole, la voce le si incrinò.
Sonia non aveva voluto assistere alla riunione; Antonella
ascoltò senza mai alzare gli occhi dal pavimento. Sara si
asciugava le lacrime, Rossella e Mariolina sembravano pietrificate. Gli
altri tenevano una mano davanti alla bocca, si torcevano le mani,
battevano le palpebre per non piangere.
-Se qualcuno vuole aggiungere qualcosa – mormorò
la preside, al microfono – io ho finito.
Incrociò lo sguardo di Emanuele. Lui aveva ascoltato,
cercando di contenere i singhiozzi, passandosi continuamente una mano
sul viso che non smetteva mai di bagnarsi di lacrime.
Si alzò e camminò verso il microfono, cercando di
focalizzare gli studenti davanti a lui attraverso il velo di lacrime,
tentando d'ignorare il bruciore agli occhi. La voce gli uscì
strozzata, ma in qualche modo gli uscì.
-Ragazzi... - esordì, cercando di rassicurarli. Ma adesso
non ce la faceva ad essere adulto. Un singhiozzo lo costrinse a
voltarsi, nuove lacrime gli scesero sulle guance. - Scusatemi. - Il suo
pubblico mostrò espressioni comprensive. Molti iniziarono a
piangere nel vedere le sue lacrime. - Adesso dovrei fare l'uomo ed
essere forte, ma... perdonatemi. Non ce la faccio. Non
riuscirò mai a consolare nessuno, nemmeno me stesso, quindi
volevo dirvi solo un paio di cose, brevemente. La prima: non siate
ipocriti, non piangete per una persona che disprezzavate. Non l'avevate
capita prima, non la capirete nemmeno adesso. Ma, dato che lei me l'ha
chiesto, voglio provare a farvela capire. Cercate di seguirmi.
Tutti tacquero. Cercò con lo sguardo Cappelletto, che teneva
i gomiti sulle ginocchia e il volto fermamente coperto dalle mani.
Valeria aveva il trucco nero completamente sciolto sul volto.
Continuava a singhiozzare, e, nonostante Benetazzo la tenesse per mano
e cercasse di calmarla, non smise per un momento di piangere, come se
non riuscisse più a smettere.
-Lei – s'impose di mantenere ferma la voce – si
sentiva sola. E vorrei dire che era solo una sua sensazione, ma il
punto è che lo era davvero, e non posso negarlo, anche
perché significherebbe discolparvi ed è l'ultima
cosa che voglio fare. Ci sono moltissime cose che non sapete, e che non
posso rivelarvi, ma Bianca aveva mille motivi per voler morire, e
praticamente nessuno per aver voglia di vivere. Quello che vedevate di
lei non era che un superficie sulla quale lei non aveva il controllo.
La vita le ha fatto incontrare talmente tante persone orribili che alla
fine ha deciso scientemente di lasciarla. E sebbene adesso io abbia il
cuore in pezzi, e la netta sensazione che rimarrà in pezzi
per tutta la mia vita, non riesco a considerarla una codarda:
perché, se continuano a tormentarti e non c'è
modo di porre fine al tormento, non è poi così da
deboli prendere e andarsene da un'altra parte, dove si possa
stare più tranquilli. - Prese un respiro. - So che non
è giusto dirlo, che non è corretto, specie
davanti agli adolescenti. Ma le ho promesso di spiegarvi tutto, ed
è quello che farò: quindi, vi dirò in
sincerità che Bianca ha preso una decisione per
sé stessa. L'ha fatto per liberarsi di tutto ciò
che la stava distruggendo, e l'ha fatto dopo averci pensato infinite
volte. Cercate solo, con la prossima persona strana e diversa che vi si
presenta davanti, e che non riuscite a capire... - si morse le labbra;
i singhiozzi ripresero a battergli in gola per uscire –
cercate di non farvi un'idea senza sapere un cazzo. Non aumentate il
numero degli stronzi che popolano il mondo, ve ne prego – la
voce gli si ruppe clamorosamente, le lacrime ripresero a scendere
– cercate di essere persone migliori di quelle che lei ha
incontrato. Tutto qui. Ora scusatemi, ma ho bisogno di stare tranquillo
per un attimo.
Si allontanò velocemente, sotto lo sguardo preoccupato degli
studenti, e raggiunse Sonia in atrio. Anche lei aveva gli occhi rossi e
gonfi; guardava fisso davanti a sé, con la sua solita
espressione ferma, decisa, con i suoi occhi grandi così
simili a quelli di Bianca; ma le lacrime le bruciavano gli occhi e
continuavano a rotolare giù per il suo volto magro, senza
che lei nemmeno si premurasse di asciugarle.
Sedettero vicini, in silenzio; quel giorno i professori della terza A
si rifiutarono di tenere lezione, e gli insegnanti di altre sezioni si
offrirono di accogliere gli studenti nelle loro aule. Lentamente, tutti
si avviarono verso le loro aule, mormorando come se avessero paura di
infrangere il silenzio, come se avessero avuto paura che lei li
sentisse.
Mentre sedeva senza parlare accanto a Sonia, Cappelletto e Valeria,
accompagnata da Benetazzo, gli si avvicinarono. Soprattutto i primi
due, avevano due facce sconvolte, annientate. Lo raggiunsero senza
dirgli nulla, e lo guardarono, sperando forse che gli dicesse qualcosa.
Ma non aveva niente da dire.
-Venite qui, per favore – riuscì a sussurrare tra
le lacrime, e loro si gettarono su di lui e non poté fare
altro che stringerli tra le braccia.
Cappelletto che era sempre pronto a fare lo stupido, che non aveva
paura di dire scemenze davanti a tutti. Valeria, che lanciava fendenti
sul mondo intero, che era sempre al di sopra di tutto. Benetazzo
guardava da tutte le parti con un'espressione nervosa, angosciata.
-Prof, se n'è andata – sentì la voce
soffocata di Cappelletto – non c'è più.
-Lo so – soffiò, sentendo qualcosa di simile a un
braccio che gli attraversava il petto.
-Come si può essere così stupidi?! -
gridò Valeria, e poi prese a piangere con una violenza tale
che Benetazzo dovette aiutare Emanuele a sorreggerla.
-Prof, è morta
– singhiozzò Cappelletto – morta, come
tutte quelle altre persone che muoiono.
Capiva cosa intendesse dire. Bianca non aveva solo compiuto un atto di
estremo rifiuto verso la realtà che la circondava; adesso
non c'era più, proprio come tutte quelle altre persone che
morivano di cancro o di AIDS o di vecchiaia. Esattamente come loro, era
scomparsa dalla faccia della Terra. Dire che si era 'suicidata'
rimandava troppo al concetto del suo estremo addio a quel mondo che
odiava e che sembrava odiarla. 'Morta' era più crudo, meno
romantico, ma alla fine era la verità; ricordava che
ciò che aveva fatto era togliersi la vita, sparire da ogni
luogo tangibile.
Bianca era morta. Morta, come tutti gli altri cadaveri che riempivano i
cimiteri.
Non seppe mai con che forza riuscì a rimanere lì
sei ore; in classe non spiegò nulla, dichiarò che
non se ne sentiva in grado e continuò a guardare fuori dalla
finestra, cercando quel punto invisibile che Bianca guardava ogni
volta. Non fu mai in grado di capire su cosa si posasse il suo sguardo,
in quei giorni. Forse sulle case, forse su quell'albero fiorito che le
piaceva. Emanuele si chiese come avesse potuto andarsene, se era vero
che amava tanto quell'albero.
Ma poiché sapeva meglio di ogni altro perché
l'avesse fatto, non poté nemmeno porsi delle domande. Fu
semplicemente posto davanti alla rassegnazione.
Camilla venne a prenderlo all'uscita e, a casa, gli diede un calmante.
Lo abbracciò e gli accarezzò la schiena per tutto
il tempo in cui Emanuele rimase immobile e muto a fissare il soffitto.
Lui, nel frattempo, si chiedeva se era così che Bianca si
sentisse; senza forze, senza speranze, monca di qualcosa. Si rispose
che probabilmente era così. E subito dopo pensò
con chiarezza che lui non sarebbe riuscito a sopportarlo, non
più di una volta nella vita, mai; non certo per un mese
intero, più volte all'anno, per tutto il resto della sua
esistenza.
Non parlarono, non si dissero nulla, perché non esistevano
parole di consolazione, non esisteva niente che potesse ridurre quel
dolore. Niente avrebbe mai potuto porre rimedio alla morte. Era l'unico
posto da cui non si poteva tornare indietro.
Le ore colavano lentissime, ma un sonnifero gli regalò il
sollievo del sonno; fu una notte ovattata, priva di sogni, che lo fece
svegliare vuoto di sensazioni.
Poi la morte di Bianca gli precipitò addosso come una
grandinata e si sentì schiacciare a terra, con una forza
tale che si aggrappò alla mano di Camilla. Il panico lo
invase. Bianca era morta, e non l'avrebbe mai più rivista
per tutta la durata della sua vita.
-Dobbiamo andare al funerale – gli ricordò
Camilla, con grande delicatezza – dobbiamo lavarci e
vestirci. Te la senti?
-Sì – bisbigliò. Deglutì
faticosamente. Durante la notte aveva sudato; sentiva un fastidioso
senso di nausea. Non si sentiva affatto bene.
-Ti aiuto?
-No, grazie, Cami, ce la faccio – mormorò.
Ma la realtà fu che ebbe un capogiro e dovette sedersi, e
Camilla corse in cucina a prendergli del succo di frutta. Lo bevve
controvoglia; era solo un peso nello stomaco, ed era freddo,
freddissimo. Quella mattina, tutto gli sembrava brutto, tutto
contribuiva ad aumentare quel senso di nausea. Non gli passò
per tutto il giorno.
In macchina, la radio trasmetteva piano qualche canzone rock. L'ultima
volta stavano ascoltando Virgin Radio, quindi la stazione era rimasta
impostata su quelle frequenze. Il cielo era sorprendentemente bello, i
raggi di sole erano dorati e scaldavano. L'erba splendeva lucente. Le
canzoni rock erano nell'aria, e, nonostante questo, Bianca aveva scelto
di morire.
Le ascoltava mai, quelle canzoni? Vedeva mai il cielo e il sole e
l'erba? E se li aveva visti, forse non erano stati abbastanza per
convincerla che il mondo era un posto dove si poteva vivere?
Ma ci aveva già provato, considerò Emanuele. Non
era la prima volta che cercava di andarsene. E da quel giorno a ben
vedere non aveva trovato alcun motivo per cambiare idea; era logico,
pensò, avrebbe dovuto aspettarselo. Avrebbe dovuto capire.
Ma erano quelle cose che si pensavano sempre, in casi del genere.
“Come ho potuto non capirlo?”. Non l'aveva capito
perché Bianca gliel'aveva tenuto nascosto, perché
aveva sorriso e fatto sesso e gridato finché non si erano
tutti convinti che stesse pensando a qualcos'altro.
Eppure qualche indizio gliel'aveva dato.
Gli aveva chiesto se sarebbe rimasto ancora qualche giorno, prima di
partire. Era perché intendeva consegnargli la lettera,
sperando che la trovasse prima del viaggio. E quando gli aveva chiesto
di abbracciarla, perché lei tra poco avrebbe dovuto
andarsene, gli aveva sussurrato in mezzo alle parole che quello sarebbe
stato il loro addio.
Non gli aveva mai parlato chiaramente, non gli aveva mai mentito, ma
non gli aveva mai detto davvero la verità. Nonostante
dicesse di amarlo, gli era sfuggita dalle dita fino all'ultimo,
concedendogli di sapere solo ciò che lei voleva che sapesse.
Era tanto immerso nei suoi pensieri che arrivarono all'obitorio senza
aver mai parlato; d'altronde, Camilla sembrava tranquilla. Gli
toccò dolcemente il braccio e aspettò che
scendesse dalla macchina; poi gli prese la mano e la strinse forte, e
non la lasciò più finché non fu lui a
lasciare la sua.
Attraversarono capannelli di parenti sconvolti. C'era qualche
insegnante; oltre a lui, solo Antonella e Sonia si erano sentite
abbastanza legate a Bianca da presentarsi all'obitorio. Di fianco a
loro c'erano Valeria e Cappelletto.
Si diresse verso di loro, aggrappandosi alla mano di Camilla come se,
lasciandola, avesse potuto franare a terra.
-Ciao – disse, cercando di accennare un sorriso. Antonella
tentò con scarso successo di ricambiarlo; Sonia lo
salutò cortesemente, ma il suo volto era spento. Per molto
tempo non lo vide più riaccendersi.
I ragazzi non parlarono. Cappelletto aveva l'espressione più
triste e confusa che avesse mai visto; Valeria si mordeva le labbra per
non far rumore, ma i suoi occhi continuavano a far scendere lacrime.
Sonia le passò un braccio attorno alle spalle.
-Siete già entrati? - chiese.
-Noi e Valeria sì – rispose Antonella –
Federico ancora no.
Lo guardò.
-Ci andiamo assieme?
Cappelletto alzò lo sguardo su di lui. Lo fissò
per un attimo, poi annuì.
-Ti aspetto qui, se vuoi – mormorò Camilla. Ma le
strinse ancora di più la mano.
-No, per favore. Vieni con me.
Si avviarono assieme verso l'entrata. Pensare che Bianca era chiusa in
una camera mortuaria, senza vita, sembrava completamente assurdo.
Bianca, che era stata così vivace, che rideva sempre, quando
poteva.
La stanza era asettica, ma l'odore di fiori rendeva tutto tremendamente
lugubre. C'erano gigli e parenti in lacrime vestiti di nero. E proprio
al centro della stanza c'era una bara di legno scuro troppo grande,
aperta, tanto grande che non si vedevano nemmeno i suoi capelli.
Tuttavia, quando la vide sentì le ginocchia cederli. Ma
c'era Federico di fianco a lui, quindi proseguì.
Per tutta la vita si portò nel cuore l'immagine di Bianca,
pallida, con i capelli lisci e pettinati, vestita con un semplice abito
blu e grigio. Il suo sorriso era scomparso. I suoi grandi occhi erano
pesantemente chiusi. Le sue piccole mani esili, incrociate sul suo
petto.
-Prof – soffiò Federico, aggrappandosi al suo
braccio. Non seppe che cosa rispondergli. Continuò a
camminare verso la bara.
Sua madre era di fianco alla testa, ritirata in sé stessa.
Era chiusa in una rigida posizione fetale e non parlava con nessuno;
continuava a fissare un punto nel vuoto sopra il corpo della figlia
morta. C'era anche suo padre; con un fazzoletto ormai inservibile,
continuava ad asciugarsi lacrime da un volto innaturalmente rosso.
Non rivolse la parola a nessuno dei due.
Sapeva che era inutile fissare Bianca, ma non riusciva a togliersi
dalla testa che quella era la sua ultima occasione di guardare il suo
viso.
Camilla piangeva in silenzio; vide la sua mano allungarsi a sfiorare
quella di Bianca. Ma lei rimaneva immobile. L'assenza del respiro era
così pesante da rendere ancora più immoto e cupo
il silenzio che regnava attorno alla bara.
I fiori erano così lugubri, pensò. Senza i fiori,
non sarebbe stato così orribile.
Cercò di memorizzare il suo viso, la sua bocca piccola e
morbida. C'era una piccola cicatrice sotto il labbro. Due fila di
ciglia lunghe e folte spiccavano da sopra gli zigomi. I capelli,
benché fossero stati ben lisciati e pettinati con una sobria
riga in centro, avevano ancora quel colore rosso fuoco che li
contraddistingueva. Probabilmente sua madre non aveva avuto tempo o
voglia di decolorarli; fu felice di vedere che erano rimasti almeno
quelli, ma la felicità durò poco,
perché non gli avrebbero mai più ridato Bianca e
non avrebbe mai più visto i suoi capelli.
Era inutile guardarla, lo pensò ancora. Tanto, non si
muoveva, non poteva far nulla. Non sarebbero stati quei pochi minuti
accanto a lei a consolarlo della sua perdita. Non gli avrebbe fatto
alcun bene. Forse era il caso di uscire, altra gente stava entrando
nella stanza per vederla.
Era così buia, quella stanza. Anche se fuori c'era il sole,
era così grigia, in quella triste penombra. Forse era per
dare il giusto riposo ai morti.
Allungò una mano, lasciando quella di Camilla, e
toccò una mano di Bianca. Era gelida. Si sentì
ghiacciare il sangue nelle vene, si ritrasse. Ma poi si diede dello
stupido e la sfiorò ancora; si avvicinò al bordo
della bara rivestita di seta, prese coraggio, riuscì quasi a
chiudere quella piccola mano esanime nella sua. La strinse, ma non
riuscì a scaldarla. Sentì che le lacrime
tornavano. Appoggiò la mano sulla guancia di Bianca e le
diede un'ultima, tenera carezza, che aveva nel suo tocco tutto il
dolore dell'addio.
Incapace di sopportarlo, fece per avviarsi verso l'uscita; poi vide
Federico, aggrappato al bordo della bara con entrambe le mani, le
nocche bianche per lo sforzo. Guardava Bianca con una tale tristezza,
come se le stesse chiedendo ripetutamente
“perché?”, che Emanuele si
fermò ad aspettarlo. La guardava, confuso, imbronciato,
quasi fosse in attesa che lei si risvegliasse e gli dicesse che era
stato solo uno scherzo, che non l'aveva abbandonato davvero.
Ma Bianca rimaneva lì, e le persone continuavano a piangere
attorno a lei. Non era uno scherzo.
Lentamente, tremando, con le lacrime che scendevano sul viso del suo
primo amore, strinse piano la sua mano destra, poi si chinò
verso di lei e baciò una delle sue guance morbide, che ora
erano pallide e fredde. Il suo bacio fu di una tale delicatezza, di una
tale dolcezza, che Emanuele non seppe più trattenere le
lacrime. Circondò Federico con un braccio e
camminò velocemente assieme a lui verso l'uscita, tentando
di non ascoltare il suo pianto sempre più forte, sempre
più terribile.
Si sentiva come se gli avessero fatto il cuore in pezzi. La gente non
avrebbe dovuto dire 'ho il cuore in pezzi' con tanta leggerezza; prima
di poterlo dire, avrebbe dovuto sperimentare questo. Altrimenti non era
davvero a pezzi, era soltanto un po' soffocato.
Raggiunsero assieme Sonia, Antonella, Valeria e Benetazzo. Nessuno
parlò per un po'; parlare di Bianca era inconcepibile, e
parlare d'altro era fuori luogo. Nessuno di loro aveva la forza di
cercare un altro argomento di conversazione; si limitarono ad osservare
le altre persone intervenute, probabilmente parenti. Di tutte le
persone che Bianca aveva conosciuto, a parte i suoi tre compagni di
classe, non ce n'era nessuna. C'erano soltanto adulti, zii, nonni,
cognati. Attesero insieme di venir chiamati per la chiusura della bara.
Quando arrivò, fu un momento terribile. Quando il coperchio
si chiuse su di lei, seppero con lacerante chiarezza che non avrebbero
mai più, per tutta la loro vita, rivisto il suo viso. Non ci
avrebbero mai più parlato. Non l'avrebbero più
abbracciata. Non l'avrebbero più vista in classe, voltando
lo sguardo.
Avrebbero potuto cercarla ovunque, in ogni angolo della terra, ma non
l'avrebbero trovata; l'unico modo per rivederla la carta stampata delle
fotografie, i ricordi così fragili nelle loro memorie. La
sua voce non li avrebbe mai più chiamati. Bianca, la ragazza
che conoscevano, non sarebbe mai più riapparsa nelle loro
vite.
Avrebbero conosciuto qualcun altro, insegnato a qualcun altro, amato
qualcun altro, ma non Bianca. Mai più.
-Eterno riposo dona loro, o Signore; risplenda ad essi la luce
perpetua. Riposino in pace. Amen.
Tutti quei gigli sopra il legno della bara. Il suo corpo era chiuso
lì; non l'avrebbero mai più riaperta. Quella che
le avevano dato era stata l'ultima carezza, per sempre.
Il funerale fu insignificante, nemmeno una singola parola gli
sembrò adatta a Bianca, a quello che era stata. Quello
avrebbe potuto essere stato il rito funebre di chiunque, e non
ascoltò prestò la minima attenzione.
La sepoltura invece era intima, veniva gestita da chi era rimasto, con
i propri sguardi, con le proprie lacrime. Di fatto quell'ufficio,
nonostante fosse il momento peggiore, sembrò quasi una presa
in giro, a causa di tutto quel sole e di quel cielo terso. Alcune
rondini passarono sopra di loro, cinguettando e rincorrendosi allegre.
Avrebbero sicuramente avvertito in modo più chiaro la
perdita definitiva, pensò Emanuele, se avesse piovuto o ci
fosse stata la nebbia.
Ma poi, quando la bara fu alzata barcollando e fu infilata nel loculo,
con il cupo stridore del legno contro il cemento, il sole e il cielo e
le rondini sparirono d'un colpo. I pianti si alzarono in coro e
Federico e Valeria si aggrapparono tra di loro, così
disperati, tanto che sembrava che gli stessero strappando il cuore dal
petto.
Svuotato di tutte le sue lacrime, prese delicatamente il bouquet che
gli porgeva Camilla, di lilium e rose bianche, e lo posò
piano sulla tomba.
Aveva mantenuto la sua promessa.
Mai, in seguito, ricordò di aver fatto qualcosa di
più straziante. Si sentì come se tra i fiori
bianchi e rosa avesse lasciato il suo cuore bagnato di sangue, ancora
pulsante.
*
Emanuele si licenziò poco dopo essere tornato dalle ferie.
Diede il minimo del preavviso alla preside, quel giorno, e le disse che
non sarebbe tornato, che non ne aveva le forze.
-Hanno bisogno di te - osservò lei, indicando i ragazzini
che piangevano sperduti.
-Hanno l'un l'altro - replicò - è esattamente
quanto di cui hanno bisogno.
-Tu sei sempre stato il loro modello.
-Ma adesso non potrei esserlo. Non saprei davvero aiutarli, Giovanna,
sono sincero. Saprei soltanto farglielo pesare ulteriormente.
-Ne sei sicuro?
-Non tornerò dove Bianca non ha voluto tornare. Mi scusi.
-Non scusarti.
Partì per il suo viaggio. Si ripropose di dimenticare tutto,
di ricordarlo solo quando fosse tornato. Salì quindi sul
Rockefeller, guardò il Grand Canyon dall'alto, si godette le
spiagge assolate, andò per negozi e attraversò il
deserto in macchina, con una bandana in testa. Vinse anche qualche
cosa, a Las Vegas. Fece l'amore, molto. Rise come aveva riso al
matrimonio. Abbracciava Camilla, l'abbracciava spesso, e le fece dei
regali. Scattarono moltissime foto.
E quando furono nell'hotel dell'ultima notte, una frase gli si
stampò in testa all'improvviso e non vide altra alternativa
che dirla, subito, immediatamente.
-Ha fatto in modo che mi ricordassi di lei per sempre -
osservò, stupito della sua scoperta, guardando il soffitto.
Camilla, che ancora non dormiva, mormorò:
-Bianca?
-Sì. L'ha fatto il giorno del mio matrimonio. Non mi ha mai
perdonato, in realtà, per averti scelta.
Da quel momento fu consapevole che quell'ultimo atto era stato
un modo per entrargli per sempre nel cuore; un modo perché,
a ogni anniversario del matrimonio, a ogni giorno di
felicità e celebrazione con sua moglie, lui ricordasse che
qualcun altro l'aveva amato, e che per averlo amato aveva dovuto
d'andarsene, in preda al dolore dell'amore che non veniva corrisposto.
Gli aveva insomma lanciato una maledizione: non avrebbe mai
più potuto essere felice. Non senza pensare a lei, che per
lui aveva deciso di morire.
-In realtà - riprese Camilla, con sua grande sorpresa dato
che lei dopo il funerale non l'aveva più nominata - penso
che lei ci abbia insegnato qualcosa.
-Insegnato….? Che cosa?
la guardò con curiosità. Lei prese un respiro,
cercando di scacciare il sonno.
-Ci ha detto la verità al riguardo di noi stessi. E poi ha
fatto in modo che ce la dicessimo a vicenda. Se non ci fosse stata lei,
ci saremmo mai parlati con tanta sincerità?
-No - ammise, sbalordito dalla rivelazione.
-Già. Ci ha fatto capire che possono esistere momenti di
rabbia, o di tristezza. E che ne possono arrivare ancora, ma che questo
non significa che non ci amiamo più. Soltanto che ce ne
sono, e che dobbiamo saperlo.
-Non credo intendesse darci un messaggio di pace universale.
-Ho detto il contrario, infatti. Ho detto che ci ha insegnato che
combattere è giusto. Emanuele. Dovresti perdonarla.
Emanuele scoppiò a piangere disperatamente, e Camilla lo
strinse forte finché, dopo un'ora o due, non
sentì di avere più un briciolo d'energia in corpo.
-Ti amo - le disse.
-Ti amerò per sempre - gli rispose lei - forse non
è vero, ma ora voglio promettertelo.
Nonostante le lacrime versate, Camilla era ancora viva accanto a lui.
Ora sapeva che la vita di una persona ferita non era scontata, ma
Camilla era ancora lì, al suo fianco.
Tornò ancora a portarle dei fiori. Mazzi di lilium e rose
bianche, che alla visita successiva non ritrovava mai. Probabilmente i
genitori non li ritenevano adatti, non a una persona morta. I bouquet
da sposa erano per le persone vive. In fondo non li biasimava.
Ma un po' gli davano l'impressione di un augurio. L'augurio che potesse
trovare anche lei qualcuno che l'amasse, qualcuno da amare. Anche se
non c'era più, anche se non era possibile. Emanuele
continuava a pensare che lei ci fosse, da qualche parte, che fosse
partita verso un paese lontano dove cercare quello che lì le
era stato negato, per avere una nuova vita dove non sentirsi soltanto
un'asettica parete bianca.
Un giorno trovò Federico e Valeria, in visita, senza fiori.
-Non credo che le interessino - spiegò Valeria, atona - non
credo che nessuna di quelle robe la 'rappresenti'. Credo le interessi
di più quello che abbiamo da raccontarle.
-Ne sono sicuro - rispose, deciso.
A scuola non ne avevano più parlato, non nelle sue ore.
Comunque, ci era rimasto solo poche settimane.
-Mi manca troppo
- disse Federico, all'improvviso - più di quanto riesco a
sopportare.
-Non so come aiutarti, Federico - mormorò Emanuele, che non
sapeva, non sapeva assolutamente, come si potesse restituire la vita a
un ragazzino di sedici anni che vedeva morire la ragazza che amava.
Ma quello stesso ragazzino, cresciuto di dieci anni in pochi giorni,
scosse la testa con quell'aria matura, amareggiata, rassegnata che
avevano i vecchi.
-Lei non potrebbe fare niente - gli disse, saggiamente - a meno che non
la riporti qui, che cosa può dirmi di così
importante da farmi passare la tristezza?
-Ti capisco.
-Mi dicono di parlarne - proseguì il ragazzo, seccato - di
sfogarmi. Oppure mi dicono di non pensarci, di distrarmi. Grazie, lo so
anch'io che dovrei fare una di queste cose, o tutte e due. Le sto anche
facendo, per la verità. Ma perché me lo dicono
come se questo risolvesse la situazione? Non capiscono che sono solo un
modo per attutire, che non mi passa anche se vado in discoteca o parlo
di lei fino a che non arriva il mattino?
Emanuele e Valeria tacquero. Alla fine, lasciarono giù i
fiori di Emanuele ed andarono a fare colazione assieme, parlando
d'altro, del nuovo lavoro di Emanuele, di quello che succedeva a scuola.
Si salutarono come se si fossero rivisti il giorno dopo, come se non
fosse cambiato niente. La verità fu che dopo quel giorno non
li rivide mai, e nemmeno li cercò. Qualche collega lo
contattò, gli disse che chiedevano di lui, ma lui sorrideva
sempre e replicava cortesemente che, appena ne avesse avuto il tempo,
si sarebbe fatto vivo.
Non lo fece mai. Non ritornò più in
quell'istituto.
Ma ogni sabato mattina prendeva il treno e poi correva sul tredici, con
grande energia.
Arrivato al Altichiero, si precipitava dal fioraio, che ormai lo
riconosceva, e chiedeva un bouquet di lilion e rose bianche, avvolte in
un velo rosa acceso.
-Deve essere proprio innamorato di questa donna - scherzò un
giorno quel buon signore, a cui non aveva mai detto nulla - ancora non
ha ceduto?
Rise e gli rispose che era una ragazza difficile.
Hai visto?, disse più tardi a Bianca, senza parlare,
guardando la tomba. Un uomo che ti porta le rose fresche ogni
settimana. L'avresti mai immaginato?
-Guarda un po' - mormorò tra sé e sé -
dev'essere proprio innamorato, quell'uomo.
Sistemò delicatamente i fiori sul vaso; accarezzò
dolcemente la foto e poi se ne andò, mentre il sole e il
cielo e le rondini l'accoglievano vivaci.
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