That
Love is All There is
Terre_del_Nord
Slytherin's Blood
Mirzam - MS.009
- Nulla è Come Appare (1)
Mirzam
Sherton
Inverness, Highlands - giov. 1 ottobre 1970
“AVADA…”
Un rumore sinistro si
levò sopra di noi, già prima che il getto di luce
verde iniziasse a prendere forma sulla punta della bacchetta: alzammo
gli occhi e vedemmo, con orrore, che il soffitto stava per crollarci
addosso. D’istinto,
senza più pensare a nient’altro, mi lanciai sulla
figura che avevo accanto. Nel caos, la bacchetta cadde a
terra e la maledizione non fu pronunciata per intero. Subito dopo fu
l’inferno: il rumore delle travi, schiantate a terra, fu
assordante, la polvere si alzò, soffocando le fiamme, il
vuoto d’aria ci trascinò via, sollevandoci per poi
schiacciarci a terra. E,
infine, il buio c’intrappolò dentro di
sé. Voci,
pensieri, dolore, sogni: tutto si affievolì fino a sparire. Persino l’incendio si
spense, nel freddo e nel silenzio. Non avevo paura. Avevo messo in conto di poter
morire, quella notte. Ma
non avrei mai immaginato che sarebbe finito tutto così…
Mi ridestai all’improvviso. Un ticchettio, ritmato e
continuo, mi riportò a fatica al presente e quelle immagini
si dispersero ancora, nella confusione del dormiveglia: il ricordo
della notte di Imbolc si ripresentava ogni volta che chiudevo gli occhi
e si dissolveva sempre prima di vedere qualcosa di là di
quel buio. La mia mente ripercorreva all’infinito quegli
istanti, benché cercassi in tutti i modi, invano, di
sottrarmi a quell’agonia. Sospirai, sudato, sfinito, con un
cerchio doloroso a cingermi la testa: la sera precedente, dopo la
missione, avevo bevuto fin quasi a perdere i sensi, poi… A
stento capii dove mi trovassi: la luce del pomeriggio filtrava
attraverso le imposte accostate, riempiendo di un’aria
decadente la lussuosa camera in cui mi rifugiavo spesso, alla
“Dama Scarlatta”, un elegante albergo
dell’800 nel centro di Inverness. Scivolai con lo sguardo in
alto, agli intrecci elaborati del baldacchino e ai tendaggi rimasti
stranamente annodati.
“Salazar… fai
smettere… quel dannato…
rumore…”
La voce femminile, incerta, impastata da alcool e sonno, emerse da
sotto le coperte, e di colpo ricordai tutto: la sua mano pallida era
appoggiata sul mio petto nudo e il suo calore premeva leggero al mio
fianco destro. Una morsa dolorosa mi prese allo stomaco. Mi alzai, in
silenzio: sembrava ci fosse un gufo alla finestra. Mi cinsi i fianchi
con un asciugamano e mi affacciai: il Ness scorreva placido sotto gli
argini scanditi dagli alberi; il ponte, il castello, la cattedrale, i
tetti spioventi: tutto era ricoperto dalla prima neve
dell’anno. L’aria gelida mi risvegliò
completamente. Hermes, il gufo reale di mio padre, era in attesa, sul
davanzale, un messaggio legato alla zampa. Leggere, però,
era inutile, avevo già capito, c’era solo motivo,
se mi arrivavano notizie da Herrengton, dopo mesi: il bambino stava per
nascere e mia madre mi voleva accanto a sé, a casa.
“Devo andare,
scusami…”
Mi avvicinai al letto per darle un furtivo bacio sulle labbra, poi
iniziai a raccattare i miei vestiti sparsi per tutta la camera: mi
osservava tra le lenzuola, gli occhi carichi di promesse, vestita solo
dei lunghi capelli corvini, che ne rendevano ancora più
diafana la perfetta pelle di porcellana. Sorrise stiracchiandosi, poi
si rannicchiò dove avevo dormito fino a poco prima,
rotolandocisi in mezzo, per provocarmi e godersi il mio profumo e il
mio calore.
“… Non vuoi
portarmi con te?”
I suoi occhi erano capaci di ammaliare qualsiasi uomo. Esitai.
“… Lo
sai… Non sarebbe il momento più adatto per dire a
tutti di noi…”
Aprì le labbra carnose, per ribattere,
un’espressione severa rese gelidi i suoi occhi scuri; alla
fine, però, annuì e si limitò a mimare
con le labbra, muta e maliziosa, una sola parola: “PECCATO”. Le
sorrisi, complice, poi mi voltai per rivestirmi, pur continuando a
studiare le sue mosse allo specchio: non riuscivo a staccarle gli occhi
di dosso, sapeva bene quanto mi piacesse guardarla. Ero quasi pronto,
quando scivolò fuori dal letto, sinuosa, e mi raggiunse da
dietro: attraverso la seta della camicia, sentivo la sua pelle, riarsa,
strusciarsi su di me, languida. La sua destra si appoggiò
sul mio fianco e scese lentamente, sopra il tessuto, mentre
m’incantava con lo sguardo. Il mio respiro
accelerò, quando si alzò in punti di piedi,
l’altra mano premette sulla mia nuca, intrecciandosi ai miei
capelli e la sua voce vibrò al mio orecchio.
“Allora… Porta
questo momento con te, nei tuoi pensieri…”
Risalì lenta dalla mia gamba verso l’inguine,
senza staccare gli occhi dai miei, allo specchio. Ero in apnea. Con un
enorme sforzo di volontà riuscii a bloccarle il polso,
impedendo che salisse ancora, e mi voltai, fermandole il braccio destro
dietro la schiena, senza farle male, ma in modo deciso: un ghigno
soddisfatto si stampò sul suo viso, mentre portava la mano
sinistra, leggera, a disegnarmi le labbra con i polpastrelli. Recuperai
il fiato baciandole le dita, ma sentivo il mio viso avvampare al suo
sguardo: sapevamo entrambi quanto mi fosse difficile restare
impassibile a quelle sue lusinghe. Come suo solito,
m’investì con la sua risata irridente ed io
tremai. Vacillò, lasciandosi cadere all’indietro
sul letto, trascinandomi con sé, ed io, colto alla
sprovvista, mi ritrovai sopra di lei, intrappolandola tanto stretta a
me, da confondere i nostri respiri. Ghignò soddisfatta,
chiunque avrebbe perso la testa e approfittato di quella situazione:
iniziò a muoversi, sensuale, strusciandosi contro di me,
cercando con la mano libera di spogliarmi di nuovo e continuando a
fissarmi con occhi che mi supplicavano di prenderla. Mi sollevai appena
e questo l’accese di speranza, ma quando tornò a
scrutare nei miei occhi, non vide ciò che si aspettava.
Cercò di sollevarsi per baciarmi sulla bocca, ma io la
evitai e mi ritrassi ancora. Indispettita, lottò per
divincolarsi e con la mano libera cercò di schiaffeggiarmi,
ma io, preparato alla sua furia, le bloccai facilmente il polso,
inchiodandola definitivamente al letto.
“Smettila…
Black… smettila…”
La guardai risoluto: imprigionata sotto di me, si agitava
convulsamente, gli occhi fissi nei miei; era una belva pronta a fare
del male, ma lontana dalla sua bacchetta, le era impossibile sopraffare
qualcuno fisicamente tanto più forte di lei. Alla fine,
esausta, smise di combattere ed io approfittai della tregua per
stringerla nel mio abbraccio: sentii la sua ira lasciar posto, poco
alla volta, a quella strana sensazione che ci legava da mesi e che a
volte temevo di non riuscire più a controllare, come non
riuscivo più a controllare lei. Mi sollevai, in silenzio,
rotolandole di fianco, lo sguardo perso sul soffitto, ascoltando il suo
respiro tornare normale e il suo corpo, tremante, accucciarsi accanto
al mio, alla ricerca del mio calore.
“Dimmelo, Sherton…
Dimmelo… Devi dirmelo… o…”
“Non sono come gli altri,
Black, non puoi dominarmi… Fattene una ragione!”
La guardai con la consueta durezza, poi, però, le presi una
mano, gliela baciai e le accarezzai teneramente il viso: volevo
rassicurarla, anche se era troppa l’inquietudine che
sentivamo dentro.
“Sei stata perfetta, ieri
sera, Bella, appena Milord saprà che stavolta hai fatto
tutto da sola…”
“Adesso? Perché?
Avevi detto che avremmo preso il Marchio insieme, in
estate…”
“Non eri tu, quella
impaziente? Non avrai paura, vero, ora che stai per realizzare i tuoi
sogni?”
“Voglio farlo, più
di ogni cosa, lo sai… ma… ormai ero convinta di
farlo con te, di averti accanto…”
Rimasi in silenzio, per un istante, riflettendo.
“Ne riparleremo,
Black… ma al mio ritorno. Adesso… devo
assolutamente andare… Puoi restare quanto
vuoi…”
Fece di no con la testa, come al solito, io mi alzai, senza aggiungere
altro, mi sistemai gli abiti spiegazzati e mi gettai il mantello sulle
spalle. Scesi di sotto, per pagare il conto della stanza e ricompensare
il proprietario della Dama, per la piena discrezione che ci garantiva
ogni volta, poi finalmente uscii: si stava facendo di nuovo sera, avevo
appena il tempo di cambiarmi a casa mia e partire subito per
Herrengton. Appena ci salutavamo, mi ripromettevo di farla finita con
Bella, poi, però, una volta a casa, iniziavo subito a
progettare l’incontro successivo, studiandolo fino
all’ultimo dettaglio. Rischiavo molto ormai, lo sapevo, ma
andava fatto: non potevo e non volevo rinunciare. Non ora che ero ad un
passo dalla mia vittoria.
***
Mirzam
Sherton
Trevillick, Cornwall - sab. 25 aprile 1970 - inizio flashback
Il maniero di Trevillick, residenza estiva dei
Lestrange a picco su una scogliera del Cornwall, era stato riportato
agli antichi splendori in occasione del ventiduesimo compleanno di
Rodolphus e ora, finalmente, appariva di nuovo al massimo della sua
bellezza. Quella sera capimmo tutti, in fretta, di non essere stati
invitati a una semplice festa, ma all’evento mondano
dell’anno: ovunque era un tripudio di ricchezza ed eleganza,
nella ricercatezza di vini, cibi, musica e intrattenimenti, si leggeva
la volontà di Lestrange sr. di ribadire la propria
appartenenza al fior fiore dell’alta società
magica. Ero felice per il mio amico: finalmente, si celebrava la sua
prima, vera, grande vittoria, perché, dopo anni di
tentennamenti, suo padre aveva deciso di affidargli la conduzione di
buona parte dei suoi affari, dimostrando di ritenerlo
all’altezza del suo nome e della sua fiducia. Peccato che
quella repentina evoluzione dell’atteggiamento paterno
derivasse solo dal favore che Milord accordava a Rodolphus, considerato
ormai da tutti il suo più valido collaboratore. Anche a
causa mia. Non spettava a me criticare la sua vita, ma ero preoccupato:
per anni avevo sperato che, con una disposizione diversa del padre nei
suoi confronti, Rodolphus avrebbe smesso di fare la guerra al mondo
intero, ma ora, stretto tra Milord e il suo vecchio, rischiava di
scivolare verso il baratro. Mi guardò da lontano ed io,
sorridente, alzai il calice per brindare al suo indirizzo, non volevo
rovinare la sua giusta felicità con la mia malinconia o i
miei dubbi: avevo deciso di andare a quella festa solo
perché tenevo a lui, benché da febbraio
conducessi una vita ritirata a Inverness, evitando le occasioni mondane
e la gente in genere. Desideravo sparire e passavo le mie giornate
nella mia casa, lontano da tutti, solo con i miei pensieri e il mio
dolore. Quella sera, perciò, benché mi fossi
temporaneamente sottratto alla mia prigione volontaria, cercavo di
restare defilato, addossato a una delle colonne del portico, in mezzo a
quel tripudio di lusso e risate che non mi toccava affatto, ascoltando
musica e sorseggiando Firewhisky: rifuggivo le occhiate maliziose delle
ragazze che avrebbero desiderato ballare con me e chiunque cercasse di
parlarmi, compreso il mio padrino, Orion Black, che vedevo aggirarsi
preoccupato, cercando l’occasione giusta per parlarmi, per
sapere come stavo e per provare a far da paciere tra me e mio padre. Mi
sentivo rinfrancato solo dall’aroma del mare che saliva dalle
scogliere e si fondeva con quello delle rose: Rodolphus aveva
recuperato almeno quel segno tangibile dell’amore di sua
madre. Per un attimo pensai a Herrengton, alla voce di mia madre e alla
risata di mia sorella: da quando avevo scelto la mia strada…
avevo saputo per caso persino del bambino… Bevvi, cercando
di annegare in quel liquido bruciante, quanto premeva per emergere dal
cuore.
“Credi metterà la
testa a posto, adesso?”
Perso nel mio mondo, non mi ero accorto di Pucey se non
all’ultimo quando, guizzando dalle tenebre del colonnato, mi
si parò davanti: come me, fissava Rodolphus, impegnato con
suo padre in un frenetico svolazzare tra i tavoli, per scambiare
sorrisi e vane chiacchiere con i suoi invitati.
“Dovrà farlo, se
vuole apparire “rispettabile”: presto
prenderà anche moglie… Per essere un lord
perfetto ha bisogno solo di tre cose: l’impegno politico, un
ricco matrimonio e un erede maschio…”
Ghignammo, mentre il nostro eroe, che si pavoneggiava in un lussuoso
abito tradizionale rosso borgogna attorniato dalle più
ricche streghe in età da marito dell’alta
società, era di colpo coinvolto, suo malgrado, in una noiosa
discussione tenuta da Cornelius Fudge: probabilmente voleva
approfittare di quella festa per chiedere sostegno dopo il pomposo,
quanto inutile, discorso che aveva fatto al Ministero, appena due
giorni prima, per candidarsi come Ministro della Magia.
“Povero Cornelius,
è l’unico a non sapere di non avere speranze: da
mesi Abraxas Malfoy tesse le sue trame per mettere a capo del Ministero
uno dei suoi uomini di fiducia, Archibald Lodge...”
Guardai preoccupato Pucey, che mi fece un eloquente cenno di assenso.
Anche se non ci parlavo da settimane, potevo immaginare mio padre che
tuonava i suoi peggiori anatemi contro quella nefasta accoppiata,
appena l'avesse saputo: se Malfoy fosse riuscito nei suoi intenti,
infatti, la vita sarebbe stata ancora più dura per le Terre
del Nord e per la Confraternita, non c’erano dubbi.
“E tu? Che progetti hai,
Sherton? È da un pezzo che non ti si vede in
giro… Dopo la serata a Little Hangleton immaginavo di
vederti più spesso, avevo sentito dire che Milord ti aveva
scelto come “Reclutatore”, ora che non gli vanno
più bene i suoi vecchi uomini…”
“Ho avuto da fare in
Scozia…”
“Già…”
Mi trapassò con il suo ghigno ironico ed io sentii il sangue
andarmi alla testa: cercai di controllarmi e restai in silenzio,
trangugiando un altro sorso. L’aria era improvvisamente
troppo gelida persino per essere respirata.
Milord… mio padre…
la notte di Imbolc…
“Molti di noi non credevano
che te lo avrebbe chiesto e nessuno che avresti
accettato…”
“Come forse saprai, non mi
curo molto delle opinioni altrui, Pucey…”
Scorsi gli occhi sugli invitati, senza prestargli più
attenzione, ma Steven era troppo coinvolto in quel discorso per
sospenderlo così, o forse era solo molto più
ubriaco di me; mi si avvicinò ancora e si sollevò
la manica della giacca sull’avambraccio sinistro, esponendo
alla luce delle fiaccole il deturpante Marchio Nero che si muoveva al
pulsare del suo sangue. Tremai, quel gesto mi riportava alla mente
pensieri spaventosi. Poi con gesto fulmineo, sollevò anche
la mia manica, confrontando con il suo Marchio, la mia pelle bianca e
immacolata.
“C’è una
bella differenza, ma pare contino più le parole dei
fatti… E il nome, più delle azioni.”
Stavo per ribattere, scocciato, che doveva chiedere a Milord, non a me,
perché gli avesse tolto quell’incarico per darlo a
me che ancora nemmeno portavo il Marchio, quando sentimmo un suono
secco, tipico del legno quando si spezza: ci voltammo e vedemmo
qualcosa nel buio del colonnato, a pochi passi da noi. Il mio cuore
perse un colpo e la paura mi serrò la gola.
Salazar, no! Il Ministero, la
Confraternita e soprattutto mio padre non devono sapere niente di
questa dannata storia.
Impegnati ad affrontarci, nessuno dei due si era accorto della figura
nascosta per spiarci, che ora fuggiva via, cambiando strada
più volte e facendo un giro largo per confonderci fino a
raggiungere gli altri invitati: alla luce della luna, ne riconobbi i
capelli corvini.
Ci mancava solo questa!
“È solo Bellatrix
Black, non ti preoccupare… Salazar… Darei tutto
quello che possiedo per farmela almeno una volta… Tu che ne
pensi, Sherton?”
"… Che faresti bene a tenere
gli occhi aperti, quando mostri quel dannato braccio, invece di pensare
alle stronzate, Pucey! Immagina se nascosto nel buio ci fosse stato un
ministeriale…”
“O peggio ancora…
tuo padre! Dico bene, Sherton? Ti tiene ancora sotto, per quella
storia? È per questo che non esci da casa? Hai giocato con i
fiammiferi nel posto sbagliato,vero? Ahahah…”
“Anche se non sono affari
tuoi, Pucey… io non c’entro niente con
quell’incendio…”
“Chi vuoi ingannare? Non ti
crede nemmeno tuo padre! Non vuol più vederti, né
ascoltarti… Lo sanno tutti…”
“Vai all’inferno,
Pucey…”
Lo lasciai lì, furente, e attraversai il portico, sempre
tenendo gli occhi fissi su Bellatrix: sentendosi osservata, anche lei
si voltò, mi chiedevo se intuisse quanto profondo fosse
l’odio che provavo nei suoi confronti. Bevvi un altro sorso,
poi mi lasciai i suoni della festa alle spalle, avanzando nel buio del
parco, sempre più lontano dagli altri, ammirando la luna che
illuminava la spiaggia. Una profonda necessità di fuggire,
di sparire, di perdermi, s’impadronì di
me… Fu un lampo e rividi tutto: a volte sentivo persino il
calore del fuoco e il profumo che Sile portava addosso quella notte, il
suo corpo che tremava tra le mie braccia… e le grida, il
fumo, la paura, le macerie che ci crollavano addosso… e il
risveglio… e mio padre… Sentivo qualcosa
bruciarmi dentro, soffocarmi, mi mancava l’aria, la testa
scoppiava, uno strano brivido mi prese allo stomaco e salì,
trasformandosi in un patetico pizzicore agli occhi. Me li asciugai
furtivo, col palmo della mano. Ormai solo, sul precipizio che si apriva
sulla scogliera, scagliai quel che restava del Firewhisky e il prezioso
calice sugli scogli sotto di me. Il rumore del cristallo frantumato fu
divorato dal ruggito delle onde: desideravo annientare allo stesso modo
la mia vita, i pensieri, i sentimenti, tutte le cazzate che ancora mi
albergavano nel cuore. E me stesso. Bastava un passo, un solo,
impercettibile passo… e il silenzio avrebbe spento ogni
dolore. Non sentii il rumore leggero dei tacchi sul pietrisco,
né la voce, soffocata dall’ululato del mare, che
mi stregava e mi chiamava a sé; quando, però, una
mano calda si posò sul mio braccio, mi voltai, alterato
dall’alcool e dai propositi di morte. Bellatrix Black era di
fronte a me, ad ammirare il mare, o forse il capolavoro che aveva fatto
della mia vita…
Tutta colpa sua, solo colpa
sua…
“Anche tu trovi noiosa questa
festa?”
Senza rispondere, tantomeno salutarla, feci per andarmene, ma Bella
aumentò la pressione sul mio braccio, costringendomi a
fermarmi. La guardai: doveva essere consapevole di quanto la odiassi,
ma per ribadire il concetto, mi staccai da dosso la sua mano con
violenza.
“Vorrei ringraziarti: quella
volta, senza di te, sarei finita ad Azkaban…”
“Non ringraziare me, ringrazia
gli altri: se non fosse stato per aiutare loro…”
La guardai con disprezzo, ma non sembrò curarsene
né dar peso alle mie parole. Le diedi le spalle e iniziai ad
allontanarmi.
“Sherton… Devo
parlarti di Andromeda… solo tu puoi
aiutarla…”
Mi bloccai all’istante, mi voltai di nuovo, la guardai: Bella
ghignava, trionfante.
“Ho appena sentito Pucey dire
che sei tu il nuovo“Reclutatore” di
Milord…”
“Non so di cosa parli, Black!
Basta con le stronzate e dimmi di Meda!”
“Non trattarmi da stupida,
Sherton, sai bene di Chi e di che cosa sto parlando: ho visto te e
Pucey scambiarvi il gesto dei Suoi seguaci… So tutto di Lui,
ho sentito mio padre parlarne con i suoi amici… e ricordo
bene che tempo fa Lo andavi ad ascoltare anche tu, come me, a
Hogsmeade…”
Sollevai la manica e mostrai il braccio, in silenzio, sicuro di mettere
fine, così, a quella situazione spiacevole, ma Bella non lo
guardò nemmeno: teneva, ostinata, gli occhi fissi nei miei.
“So che non ti ha
marchiato… Tra un anno devi prendere le Rune e non vuole che
ti scoprano, ma so anche che tu sei uno dei Suoi, come lo è
Pucey… Hai preso il suo posto… Vi ho
sentito…”
“Anche se fosse, Black, non
hai prove per denunciarmi e, senza di quelle, nemmeno il Ministero
può farmi qualcosa!”
“Il Ministero forse
no… per ora… Ma tuo padre? Lui mi ascolterebbe
anche senza prove… Mi basterebbe fare la giusta allusione
durante una cena a Grimmauld Place e zio Orion partirebbe subito per
Herrengton, per informarlo…”
“Sei più stupida di
quanto pensassi, Black! Se fossi chi pensi tu, ti saresti appena
condannata a morte da sola, con un ricatto del genere: qui
fuori… al buio… su queste rocce… non
sarebbe poi tanto strano cadere di sotto, sai? Soprattutto se si
è bevuto un po’ troppo, come nel tuo caso...
Accetta un consiglio, Black: smettila di giocare… Rischi di
minacciare la persona sbagliata, una volta o
l’altra… e fare una gran brutta
fine…”
“Ti sbagli, non
m’importa minacciarti, Sherton, sto solo fissando il prezzo
delle mie informazioni: voglio conoscere Milord, essere presentata a
Lui e far parte della Sua cerchia…”
“E cosa ti fa credere che sia
sufficiente chiedere, per ottenere, Black? Credi che un Mago come
quello Si abbassi a te solo per il tuo nome? Non dovresti dimostrare di
meritartelo in maniera più concreta, il Suo interesse? Di
certo non puoi aspettarti una raccomandazione, non da me,
perché si dice che di fronte a Lui, nessuno possa
mentire, e tu sai bene quanto io ti disprezzi…”
“Molti non hanno alcuna
fiducia in te, Sherton, ho sentito la rabbia di Pucey… ma se
fossi tu a reclutare un membro della Nobile e Antichissima Casata dei
Black? Quanto ti sarebbe grato Milord per un dono del genere? Chi
dubiterebbe più di te, dopo, se Lui fosse tanto
soddisfatto?”
“Sono stanco delle tue
chiacchiere e delle tue menzogne, Bellatrix… spero che Meda
non stia male per colpa tua, perché ti giuro…
patiresti le pene dell’inferno, se accadesse… e
ora addio…”
“Non ho mentito su Meda per
avere la tua attenzione, Sherton… mia sorella ha bisogno di
te…”
“Commovente… da
quando t’interessano le sorti di tua sorella e il suo
bene?”
“Da quando è in
serio pericolo…”
“Cosa ti stai inventando,
stavolta, Bellatrix?”
“Sto parlando di un maledetto
mezzo babbano… di uno schifoso SangueSporco… di
un certo…”
“… Ted
Tonks…”
Bella annuì e iniziò a raccontarmi quello che le
aveva scritto Narcissa, di quanto fossero entrambe preoccupate per
quella strana amicizia che evidentemente, nel periodo in cui mi ero
ritirato dal mondo, era ulteriormente degenerata. Tutto
l’odio, che covavo da settimane verso il destino infame e
nemici senza volto, prese una forma nitida; la mia stessa vita, che
ormai consideravo priva di significato, assunse uno scopo: avevo fatto
una promessa, avevo giurato di proteggerla e ora era il momento di
intervenire, o Andromeda si sarebbe perduta per sempre.
“Proverò a parlare
di te con chi potrebbe aiutarti, Black, ma il tuo ingresso in
quell’ambiente non dipende da me. Ti manderò un
gufo, ci dovremo rivedere presto... meglio se lontano da
Londra…”
Bella annuì di nuovo, stavolta reprimendo a stento un ghigno
di trionfo: sapevo di aver appena siglato un altro patto col diavolo,
ma la tensione e l’alcool rendevano tutto più
sfuocato. Me la lasciai alle spalle e tornai preoccupato alla festa,
attraversando il parco e rientrando nel salone: volevo andarmene
subito, per pensare con calma a Meda. Raggiunsi Augustus, che
stava chiacchierando con sua moglie e i Warrington al tavolo, per
pregarlo di salutare il festeggiato da parte mia: Rodolphus, infatti,
era di nuovo tenuto in ostaggio dal gruppetto di streghe con le figlie
da sistemare ed era meglio restare alla larga almeno da quel genere di
problema. Feci un galante baciamano alle signore, entrambe avanti con
la gravidanza, ma Sybille Rookwood, avendo intuito perché
non andassi da Lestrange, mi trattenne per prendermi in giro,
invitandomi da loro per il weekend, per farmi conoscere un paio di sue
amiche interessanti. Vittima delle loro risate, mi allontanai
risentito e finalmente, dopo aver evitato di nuovo il mio padrino, misi
quanti più kilometri possibili tra me e quella dannata
festa.
fine
flashback
***
Mirzam
Sherton
Herrengton Hill, Highlands - sab. 3 ottobre 1970 (chap.2)
Avevo percorso, avanti e indietro, per ore, i corridoi, nervoso e
frustrato, non sopportavo di sentire i lamenti della mamma e non poter
fare nulla per lei; avevo intercettato Meissa, spaventata, e avevo
provato ad avvicinarla per darle conforto, ma mio padre aveva chiesto a
Kreya di portarla di sopra e a me di scrivere di nuovo alle zie e a
nostro fratello. Avevo sbrigato quella commissione rapidamente, poi ero
ritornato negli appartamenti dei miei, deciso a sottoporre a mio padre
uno degli scritti del trisavolo Rufus, convinto di aver trovato una
pozione utile in quella circostanza. Sapevo quanta fiducia
riponesse in Peter Sell, il Medimago che aveva fatto nascere Meissa e
me e, in un’altra occasione, avremmo approfittato anche di
una controversia del genere per scatenarci in una delle nostre liti
furiose, ma quel giorno eravamo entrambi troppo preoccupati, per non
tentare di tutto. Lo osservai: pur di fronte a me, evitava il mio
sguardo, era pallido e angosciato, e si sorreggeva sfinito alla porta,
stremato da una notte insonne, passata a intrugliare da solo nei
sotterranei. Mia madre era la sua unica debolezza, bastava guardarli,
per capire quanto, dopo tanti anni di matrimonio, fosse ancora
totalizzante l’amore che provavano l’uno per
l’altra, per questo mio padre era tormentato dalla
preoccupazione e da una specie di senso di colpa. E in quel momento
così difficile, io, il suo primogenito indegno e traditore,
non ero di nessun aiuto per lui. Mi avvicinai, deciso a fare qualcosa,
pur mettendo in conto di ricevere solo un altro silenzio.
“Non temere: la mamma sente
l’amore che provi per lei e questo le darà la
forza necessaria… Sono sicuro che presto questa giornata si
riempirà di gioia… e se poi nascesse una
bambina…”
Mi rivolse uno sguardo strano, come se tornasse a vedermi dopo secoli
di oscurità. Da quanto non ci rivolgevamo uno sguardo
simile? Da quanto non ci parlavamo senza insultarci?
“Non importa cosa
sarà… purché gli dei ti ascoltino,
Mirzam… e finisca tutto bene e in fretta…
perché se accadesse qualcosa a tua madre,
io…”
Continuò a guardarmi, poi levò gli occhi al
cielo, di là delle grandi finestre ad arco acuto che
irradiavano la luce del pomeriggio sul corridoio stretto e
già oscuro; occhi che stentavo a riconoscere, pieni di
sgomento, rivolgevano la sua supplica a qualche dio. Capivo fin troppo
bene quello che provava. E lui lo sapeva. Mi ritrovai ad abbracciarlo:
ripensai allo sguardo che c’eravamo scambiati al mio diploma,
e mi resi conto che da allora non eravamo più riusciti a
capirci davvero. Il nostro abbraccio divenne più
intenso, sembrava non volesse più lasciarmi andare, forse
stava riflettendo anche lui sul nostro recente passato. Sarebbe stato
diverso questa volta, dopo quanto era successo? No, ma
forse… Sentii quelle parole, le uniche che avessero un
senso, montarmi alle labbra, prepotenti, incapace di trattenerle oltre.
Anche se, ormai, erano inutili e tardive.
“Mi dispiace…
Perdonami…”
Mi osservò in silenzio, enigmatico, ma non fece in tempo a
dirmi niente: dalla camera, simile a una risata liberatoria, si
librò un timido vagito che andò a rompere le
sofferenze di mia madre e l’atmosfera carica
d’angoscia del corridoio. Mio padre si sciolse dal mio
abbraccio, commosso e incredulo, io gli feci segno di andare, senza
aspettare che lo chiamassero: non si era allontanato dalla mamma
dall’inizio del travaglio se non per preparare delle pozioni
o quando, poco prima, gliel’avevo chiesto io. Nulla doveva
tenerlo lontano da sua moglie un secondo di più. Avrei
voluto seguirlo, per assicurarmi che la mamma stesse bene, ma era
giusto lasciarli soli, con il bambino: quella nascita era un segno per
la nostra famiglia, ma sapevo di non avere più il diritto di
farne parte. Ruotai senza accorgermene l’anello di Messer
Yuket che, da febbraio, portavo alla mia destra e mi affacciai alla
finestra: i rilievi attorno a Herrengton erano addolciti dalla prima
neve della stagione, i raggi del sole, che rapidamente volgeva al
tramonto, tingevano ogni cosa di un rosa pallido, carico di
speranza. Non per me: avevo scelto la mia strada e, per
percorrerla, dovevo fare in modo di non mettere a rischio quanto avevo
di più caro. Il bambino non poteva cambiare niente. Poco
dopo, mio padre riemerse dalla camera, raggiante, per rassicurarmi:
appena aveva visto mia madre, stanca ma sana e salva, era tornato
pienamente in sé. Mi mise la mano sulla spalla, guardandomi
come faceva in passato ed io capii che mi aveva perdonato,
già molto prima che glielo chiedessi. Il mio turbamento,
però, non diminuì.
“Lei come sta? E il
bambino?”
“Perfettamente, entrambi: tua
madre è stanca ma sta bene: alla fine le tue preghiere sono
state accolte… il bambino… è un bel
maschietto, ha i tuoi capelli e ti assomiglia, molto più di
Rigel…”
Sorrisi e annuii, pensando alla faccia di Rigel quando
l’avesse saputo: di sicuro avrebbe pensato di mettere subito
in cantiere una squadra di Quidditch tutta nostra.
“Sarai impaziente di
riabbracciare tua madre, ma prima vorrei che salissi da tua sorella,
per rassicurarla e portarla qui: le sei mancato molto in questo periodo
e ora che è nato un maschio… saranno mesi un
po’ difficili per lei, Mirzam… Meissa ha bisogno
di te, del tuo sostegno. Non sto cercando d’importi di
tornare a casa facendo leva sul vostro affetto reciproco,
ma…”
“Non è giusto che
la mamma e i miei fratelli soffrano ancora per le nostre dispute, lo
so… abbiamo sprecato troppo tempo, ma… restano
dei problemi oggettivi e potrebbe essere
difficile…”
“Possiamo risolvere ogni cosa,
Mirzam, basta volerlo davvero… Non pretendo che tu mi dica
subito di sì, ma vorrei che ci riflettessi…
Abbiamo intenzione di passare l’inverno ad Amesbury e tornare
a vivere a Londra, a Essex Street… e… Non credi
che il tuo esilio sia durato abbastanza, Mirzam? Pensaci… E
se puoi… accetta anche tu le mie scuse… sono
stato troppo impulsivo e ho detto cose che non
pensavo…”
Annuii e sospirando presi la destra che mi porgeva, poi corsi per le
scale evitando di prolungare ancora quel confronto di sguardi, ormai
fin troppo eloquenti, ben sapendo che il discorso non sarebbe finito
lì; bussai e, senza attendere risposta, entrai: Meissa era
crollata sul letto, sfinita, spaventata dalle frasi infelici dei
Medimaghi, capaci di turbare persino me. Avvicinandomi, guardai fuori
dalla finestra: quella lunga giornata si stava finalmente spegnendo in
un magnifico tramonto.
“Meissa…”
Le accarezzai la testa, scostandole una ciocca corvina dal viso: pur
così piccola e fragile, avrebbe cambiato il destino della
nostra famiglia. Ed era compito mio aiutarla a superare le sue paure,
senza contravvenire al giuramento di silenzio fatto a nostro nonno.
Invece avevo perso la testa e...
“Mir…”
“Scendiamo di sotto, Mei,
c’è qualcuno che vuole conoscerci.”
Le sorrisi: mi era mancata, molto più di quanto volessi
ammettere; e sapevo di averla ferita, andando via, ma da quando ero
ritornato a casa, la gioia di riavermi accanto sembrava aver cancellato
tutto. Ora, a turbare il suo musetto, restava solo la preoccupazione
per nostra madre.
“La mamma sta bene, non ti
preoccupare, è stanca, starà a letto diversi
giorni, certo, ma vedrai che gli "intrugli" di papà la
rimetteranno in sesto e in un batter d’occhio sarà
come nuova!”
Prima che finissi di parlare, mi si era già gettata tra le
braccia, liberandosi nel pianto, provai a consolarla in silenzio,
tremando a mia volta; era difficile muoversi tra quelle mura, o
guardare in faccia mio padre e mia madre, ma era quando stavo con Mei
che i ripensamenti diventavano più feroci. Per quante scuse
avessi trovato, in quei mesi, per convincermi di aver fatto la cosa
giusta, la verità era che la notte di Imbolc
l’avevo tradita e abbandonata. Avevo affrontato la sorte con
superficialità, incurante delle conseguenze,
benché sapessi di rischiare la prigionia o la morte. Non
avevo tenuto in alcun conto il dolore che potevo darle, né
le cose terribili cui esponevo tutti loro.
“Come hai potuto?”
Erano state quelle le prime parole che mi aveva rivolto giustamente mio
padre, il mattino seguente, quando mi aveva raccolto dalle braccia di
Donovan Kelly, più morto che vivo. Tremavo ancora mentre
stringevo Meissa al mio fianco e ci dirigevamo di sotto, a conoscere il
bambino. Erano passati mesi, la mia famiglia mi tendeva le braccia per
riaccogliermi, ma non sapeva ancora tutta la verità: per mio
padre avevo fatto una sciocchezza che aveva messo a rischio molte
persone, ma infondo, era successo per un motivo in qualche modo
comprensibile… Non sapeva ancora tutto il resto, non sapeva
che da mesi non ero più me stesso e che la strada, che ormai
avevo scelto, poteva trascinarli tutti con me, in un abisso oscuro.
***
Mirzam
Sherton
la notte di Imbolc - sab. 31 gennaio 1970 - inizio flashback
“The Cove”, uno dei
più malfamati pub di Nocturne Alley, era pieno come ogni
sera, l’atmosfera era calda, eccitata, l’odore
dell’alcool si fondeva a quello del sangue: quasi ogni notte
là dentro scoppiavano risse, raramente risolte solo a colpi
di bacchetta. La prima volta che ci avevo messo piede era stata un paio
di settimane prima, naturalmente con Lestrange: ne eravamo usciti
entrambi troppo ubriachi per ricordarci persino il nostro nome. Da
allora, era diventato il nostro ritrovo preferito e sbronzarci una
delle tante insane abitudini che ci concedevamo. I soliti due
particolari mi distrassero da un paio di ceffi pronti a picchiarsi:
avevo notato dal primo istante gli stendardi del Puddlemere affissi in
alto, sopra il bancone, insozzati dal fumo e dai vapori del locale e,
nella bacheca in fondo alla stanza, la foto ingiallita di mio padre
ritratto dopo una delle sue tante vittorie.Trangugiai d’un
fiato un bicchiere di Firewhisky: avevo già messo in conto
che l’alba avrebbe dissolto anche quel sogno, insieme alle
tenebre, perciò era inutile ripensarci adesso.
“E con questo sono due i Sabba
che ignori… che cosa mi combini, Sherton? Se domattina tuo
padre ti appendesse per i pollici dalla torre più alta di
Herrengton, avrebbe tutto il mio sostegno… anzi…
se fosse possibile, vorrei un posto in prima fila, per godermi lo
spettacolo! Ahahahah…”
Gli sorrisi sprezzante, ma non ribattei, anzi buttai giù un
altro sorso, come se quel Firewhisky potesse colmare le sabbie mobili
che sentivo risucchiarmi da dentro; le immagini evocate da Lestrange
non mi toccavano, non ero più un ragazzino e
all’alba, se mai avessi rivisto sorgere il sole, ritrovarmi
di fronte a mio padre incazzato a morte, sarebbe stato
l’ultimo dei miei problemi.
“E sorridi! Perché
sei voluto uscire con me, stasera, se apprezzi così poco la
mia compagnia?”
Mi guardava con l’aria da cane bastonato, ferito dal mio
crudele disinteresse, sperando di strapparmi una risata, io invece
sentivo solo salirmi alle labbra un “Andiamo a
uccidere…”, perciò rimanevo in silenzio
e distoglievo lo sguardo da chi mi conosceva fin troppo bene, temendo
che i suoi occhi potessero leggermi dentro. Da quando ero uscito da
casa, scappando dall’abbraccio di mia madre con una menzogna,
istante dopo istante avevo sentito le mie convinzioni vacillare e
scivolare via. Avevo previsto che sarebbe successo, per questo volevo
Rodolphus al mio fianco, perché sapevo che una sua sola
parola mi sarebbe bastata per ritrovare volontà e coraggio.
Così non rispondevo e bevevo sempre di più,
mentre Lestrange mi osservava dubbioso, seduto di fronte a me, al
tavolo. Non avevamo mai discusso tra noi di cosa fosse successo a
Little Hangleton, prima del suo arrivo al seguito di Milord, non ne
avevo voluto parlare e lui aveva rispettato il mio silenzio, ma sapevo
che era l’unico cui potessi confidare le mie
perplessità, senza rischiare di essere frainteso, deriso, o,
peggio ancora, accusato. Alla fine, la mia prima impressione su di lui
si era rivelata giusta, era un bastardo immorale, un giuda, vero, ma
non nei miei confronti. Da sempre, c’era un groviglio di
sentimenti strani tra noi, che s’ingarbugliavano ogni giorno
di più, soprattutto da quando avevo salvato la sua preziosa
Bellatrix: Rodolphus era l’unico che intuisse quanto mi fossi
spinto oltre i miei limiti, ed io l’unico a scorgere quel
minimo di umanità che gli restava. Per quanto mi conoscesse
più di tutti, però, nemmeno lui immaginava cosa
avessi in mente quella notte.
“Allora, chiudiamo
allegramente questa serata… Che ne dici di quelle due rosse
laggiù? No, eh… Insomma, Sherton… non
puoi rinunciare così alle femmine! Diventerai un monaco, di
questo passo, e a me toccherà fare pure la tua parte! Mi
avrai sulla coscienza, se ci resterò secco!”
Scoppiò a ridere, facendo un cenno inequivocabile e volgare
verso due ragazzotte che ci puntavano fin dal nostro arrivo, mentre io
scuotevo la testa, esasperato: Rodolphus faceva già paura a
molti, ma per me continuava a essere solo l’idiota
incorreggibile che conoscevo dai tempi della scuola.
“Un giorno, Lestrange, anche
tu troverai quella persona unica che ti entrerà nel
sangue… e allora forse capirai…”
Di solito, alle mie parole, seguiva da parte sua una sequela di battute
volgari e gesti scaramantici, ma quella sera rimase in silenzio ed io
non me ne stupii troppo: sospettavo da un po’ che si fosse
innamorato sul serio di Bellatrix, non era più solo una
questione di sangue, di denaro o di lussuria; e per la prima volta,
invece di compatirlo, lo invidiai. Era un’evidente pazzia, ma
Rodolphus non avrebbe esitato, avrebbe fatto di tutto per realizzare i
suoi sogni e alla fine l’avrebbe conquistata, al contrario di
me che avevo rinunciato a Sile senza nemmeno combattere. Le mie
vendette, i miei piani… Avevo creduto di poter
cambiare il nostro destino, invece… Ero stato un buono a
niente. Colpii il tavolo col bicchiere, reclamando un altro giro, vidi
Rodolphus, preoccupato dalle mie condizioni, fare un cenno di diniego
all’elfo accorso, ma io m’impuntai ed estrassi la
bacchetta, ottenendo alla fine il mio ennesimo Firewhisky; bevvi,
consapevole che nulla sarebbe bastato a spegnere il dolore che sentivo
dentro: né uccidere, né morire. Eppure una forza
mi spingeva a farlo, a qualsiasi costo. Rod guardò prima le
Rune sulle mie mani, poi me. E sospirò.
“Mirzam… Ora basta!
So che giorno è oggi… so che
cos’hai… Ma devi smetterla di abbatterti
così, perché non esiste un solo motivo valido per
rinunciare a lei: Sile ti ama ancora, la conosco, non può
essere vera la storia che mi hai raccontato… E, se anche
fosse, così non risolveresti niente… Hai mai
pensato di affrontarlo, quel francese? Comunque vada a finire,
spaccargli la faccia ti farebbe bene, molto di più di questo
Firewhisky. Per lo meno non vivresti più nel dubbio e nel
rimpianto…”
“E le conseguenze, Lestrange?
Non posso più fare solo ciò che
voglio… Devo pensare anche…”
“Conseguenze? Non puoi
rinunciare al tuo bene, per paura delle conseguenze! Se un giorno la
Confraternita finisse in mano a tuo fratello, a cosa sarebbe servito
rinunciare a tutto ciò cui tieni? Stiamo parlando della tua
vita: anche tuo padre, a suo tempo, ha scelto tua madre e ha mandato al
diavolo le proprie responsabilità…
Perché tu dovresti rovinarti la vita
così?”
“Io non sono mio padre! Lui
aveva qualcuno per cui combattere, io… A me interessa
guidare la Confraternita: farò di tutto per realizzare il
mio sogno, quando sarà il momento… almeno questo
sogno…”
“E credi che i Maghi del Nord
si accontenteranno di un capo che rinuncia? Il nostro mondo
è sul punto di esplodere, Sherton! C’è
bisogno di gente che sappia ciò che vuole e che sia disposta
a tutto per ottenerlo, anche nella Confraternita! Tu lo sai
cos’è giusto: te lo dice il cuore, da mesi, cosa
va fatto, per il mondo magico, per le Terre del Nord, e per te
stesso… Lo potresti imparare facilmente con Milord, lui ti
aiuterebbe a superare i tuoi limiti, oltre a insegnarti magie
portentose che nemmeno immagini… E alla fine, quando
sentirà Milord con le sue orecchie, anche tuo padre si
ricrederà e ti sarà grato, per averlo condotto a
Lui. Ascolta il cuore, Mirzam, e avrai tutto: anche la vita che
desideri con Sile!”
Mi mise una mano sulla mia: solo a sentire quel nome, il sangue aveva
pompato così forte, che…
“Sono già pronto a
lottare, Lestrange, anche senza l’aiuto di nessuno, per avere
ciò che mi spetta…”
“So che ne hai la
volontà, ma… per ora non riesci a uccidere
nemmeno la feccia… Non te l’hanno mai insegnato.
Che cosa accadrebbe se l’unica scelta possibile fosse
uccidere?”
“Stai dicendo che non ho le
palle per uccidere? Mi stai dando del codardo, Rodolphus?”
“Io non ho detto questo,
Mirzam… Io…”
“Proverò su di te,
qui e adesso, se sono capace di uccidere! Vieni fuori e affrontami da
uomo, Lestrange! O sei tu che non hai le palle per
combattere?”
“Io? Che diavolo stai dicendo,
Sherton? Io non…”
“Preferisci scommettere 50.000
galeoni che difendere il tuo onore? Va bene, giochiamoceli! Vedrai, se
so ammazzare: prima dell’alba, cancellerò quel
sorriso idiota dalla faccia, a te e al tuo dannato Milord”
“Dico… sei
impazzito? Siediti e smettila!”
Mi ero messo in piedi, barcollante, in mezzo alla calca del pub: anche
se in pochi ormai sembravano avere il dominio del proprio corpo e della
propria mente, Rodolphus mi guardò allibito, poi rapido mi
aveva tirato giù a sedere, imponendomi il silenzio. Solo un
pazzo poteva parlare ad alta voce di Milord in pubblico e giocarsi
tutto quello che possedeva. Io non mi arresi, continuai a pungolarlo,
fino a convincerlo: si calmò solo quando calcolò
che, in poche ore, si sarebbe ritrovato con una valanga di tintinnanti
galeoni in mano, così, ghignando, mi tese la destra e
sancimmo il patto. Non aveva capito che era per questo che ci trovavamo
lì, quella sera: volevo che sembrasse il delirio di un
povero ubriaco, provocato dalle sue filippiche, perché non
avrei mai trovato la forza di dirgli su cosa avessi riflettuto nelle
ultime settimane, fino a convincermi che fosse l’unica scelta
possibile. In silenzio, uscimmo nel gelo di Londra,
l’orologio di Westminster segnò le tre della
notte: avanzammo nella neve, i suoni erano attutiti, mi arrivavano solo
gli scricchiolii della ghiaia mista a ghiaccio sotto gli stivali. La
determinazione e il freddo mi schiarirono la mente e la paura mi
strinse il cuore: alla fine, dopo tanti dubbi, stavo per farlo davvero.
Sospirai. Rodolphus prese l’iniziativa ed io, perso nei miei
pensieri, mi lasciai condurre: scivolammo fino a uno dei ponti sul
Tamigi, immaginava che, la prima volta, mi accontentassi di una preda
facile, babbani provati da malattie, alcool e freddo, ma io mi fermai,
non era quello che avevo in mente. Lestrange, credendo ci avessi
già ripensato, tese la mano, sorridente, reclamando i suoi
galeoni.
“Quanta fretta! Rifiuto il
terreno di caccia che hai scelto per me: non mi piace! Se
permetti…”
Mi guardai attorno, barcollante, non poteva prendermi sul serio, o
sospettare qualcosa, perché avevo già rischiato
un paio di volte di perdere l’equilibrio e di cadere nella
neve e, infatti, non si meravigliò quando lo arpionai al
braccio, fingendo di sorreggermi di nuovo a lui. Proprio come mi
aspettavo. Stavolta, però, non volevo sostenermi, ma
smaterializzarlo lontano da lì, insieme con me.
*
Arrivammo
in riva a un fiume, immersi nell’oscurità, rotta
solo dalle timide luci di fiaccola, che punteggiavano una strada
affacciata sugli argini. Risalimmo il greto con qualche
difficoltà, a causa del ghiaccio, nelle orecchie sentivo
solo il borbottio continuo e sommesso di Rodolphus che, disorientato,
infreddolito e, soprattutto, arrabbiato, non riusciva a capire dove
fossimo. Raggiunta la strada, attraversammo la cittadina
deserta senza esitazioni, in silenzio, sicuri che nessuno si sarebbe
accorto di noi, vista l’ora tarda e il freddo. Una volta
raggiunto l’edificio che mi tormentava da mesi,
però, persino la faccia di bronzo di Lestrange si
velò di legittima preoccupazione.
“Non c’è bisogno che tu mi segua,
Rodolphus: mi basta che tu sappia…”
Rodolphus
osservò sbalordito prima me, rendendosi conto che ero serio
e molto meno sbronzo di quanto avessi finto, poi la sagoma oscura e
inconfondibile che si stagliava davanti a noi.
“Hai progettato bene la tua trappola per attirarmi qui: ed io
sono stato uno stupido a caderci… ora spero che tu abbia
progettato altrettanto bene tutto il resto, perché questo
non è uno scherzo…”
“Se non l’hai ancora capito, Lestrange, stanotte
non ho alcuna intenzione di scherzare…”
Mi guardò, fu
la prima e unica volta che lo vidi senza il suo ghigno ironico stampato
in faccia.
“Allora sei solo un pazzo, Sherton!”
“Probabile… ma come hai detto anche tu, vivrei nel
rimpianto per tutta la vita, se non lo facessi…”
“Non sono stato io a suggerirti di fare la cazzata della tua
vita, Sherton, perché, ricordalo, questa è solo
un’enorme cazzata: finirai ad Azkaban o sotto terra, se
metterai piede là dentro!”
Scoppiai a ridere, una
risata tesa, isterica, assolutamente disperata.
“E credi che non lo sappia? Credi che mi preoccupi di morire
o di finire ad Azkaban, a questo punto? La mia vita è
finita, Lestrange, non importa cosa accadrà
domani… perché questa notte io porterò
Lucien Corso con me, all’inferno …”
Non vidi la sua
espressione, celata nel buio, ma sentii il suo profondo sospiro. Poi la
sua mano strinse il mio braccio: la prima volta che lo vidi, al tavolo
dei Serpeverde, anni prima, mi aveva preso allo stesso modo, davanti a
tutti. Pensai fosse il suo modo di dirmi addio. La sua voce
vibrò nell’aria gelida della notte, in una nuvola
di vapore, riportandomi al presente.
“Andiamo…”
“Che cosa? No! Tu non c’entri niente,
Lestrange… Perché mai
dovresti…”
“Non resterò a guardarti affrontare da solo questa
follia, Sherton: sei l’amico migliore che
ho…”
*
L’ingresso principale della Cancelleria,
un enorme portone di metallo scuro e pesante, su cui era stata impressa
la forma della spada di Hifrig, era incassato in un portale di pietra
nera, di epoca medievale, decorato con dei mostri raccapriccianti,
proprio al centro di una bella facciata squadrata. Divisa
orizzontalmente a metà da due serie di archetti ciechi, in
basso ospitava due ordini di nicchie, contenenti le statue dei dodici
Maghi del Nord che avevano fondato la cittadina. Nella parte
superiore, invece, sormontato da un altro paio di ordini di archetti, e
stretto tra due lesene decorate con due draghi rampanti, si apriva il
maestoso finestrone ad arco ogivale, chiuso da vetrate e ripartito in
riquadri da un pregiato ricamo di colonnine tortili. Le varie
formelle vetrate, intervallate da simboli cabalistici, narravano le
imprese di Salazar e della Confraternita, e circondavano, nella parte
centrale, una vetrata unica, più grande, in cui, anche alla
luce della luna, rilucevano lo smeraldo e l’argento delle due
serpi di Herrengton, intrecciate a sorreggere
Habarcat. Lateralmente, arretrati rispetto alla facciata, e
non molto più alti di essa, s’innalzavano due
campanili dalla forma tozza; fin dalle origini, fungevano uno da
marcatempo e l’altro da patibolo: quest’ultimo era
tragicamente noto in tutto il mondo magico, alla stregua di Azkaban,
perché per secoli lì erano state eseguite le
sentenze di morte di tutte le Terre del Nord. E certe nostre leggi, pur
non applicate da oltre un secolo, non erano mai state abrogate,
nonostante le pressioni del Ministero della Magia: potevo
perciò immaginare cosa pensasse Lestrange, in quel momento,
e rispettai il suo silenzio teso, pronto a ripetergli di nuovo che non
aveva obblighi nei miei confronti e che non doveva seguirmi. Girammo su
uno dei lati lunghi dell’edificio, mascherandoci nella notte:
all’orizzonte, bagliori continui annunciavano
l’arrivo di una tempesta. Al buio, senza usare la magia,
cercammo uno degli ingressi di servizio: sapevo che ce n’era
uno a circa metà strada, che immetteva in un angusto
corridoio e, da lì, tra l’altro, alle scale
scivolose e ripide, che portavano al deposito dei documenti,
inviolabile almeno quanto le camere della Gringott. Si diceva che ci
fossero Orchi dalle cento teste, a montare la guardia, in
realtà c’erano solo complicati Incantesimi di
Disillusione, che intrappolavano gli intrusi, obbligandoli a
percorrere, per ore, sempre gli stessi pochi metri di corridoio, in
preda a terrificanti visioni, finché, prossimi alla pazzia,
non erano soccorsi dai custodi.
“Solo dei barbari potevano
scegliere un luogo tanto sinistro per celebrarci feste e
rituali…”
“Che cosa vuoi dire?”
“Salazar, Sherton! Era un
carcere, un luogo di morte, come fate a festeggiare qui
dentro?”
“La torre era
l’unico edificio del complesso con quella funzione,
Rodolphus: la Cancelleria è molto di più, per le
Terre del Nord questo luogo è sacro quasi quanto Herrengton!
Entra e capirai…”
“E come pensi di farlo? Non
puoi certo dire soltanto
“ALOHOMORA”…”
“Tu dici?”
Appoggiai le mani sulle ante del piccolo portale e queste si aprirono,
sotto gli occhi stupefatti di Rodolphus, lasciandoci entrare: la
Cancelleria sentiva il potere di Herrengton fluire attraverso le mie
Rune e si sarebbe perciò piegata a esse e alla mia
volontà. Ogni Sherton, a meno di non essere
ripudiato, vedeva riconosciuto il proprio sangue in tutte le Terre del
Nord: secondo mio padre, era un potere eccessivo e, tra i suoi
obiettivi, c’era quello di limitare questi nostri privilegi.
Io condividevo le sue posizioni ma, quella notte, forse per
l’ultima volta, i poteri della mia famiglia, grazie ai
segreti incantesimi risalenti a ottocento anni prima, non solo mi
avrebbero fornito un aiuto vitale, ma rappresentavano, ai miei occhi,
la benedizione dei miei avi alla mia impresa, confermandomi che ero nel
giusto, che potevo andare avanti. Che potevo, legittimamente, uccidere.
I locali della Cancelleria, aperti al pubblico, erano usati come uffici
in cui si amministravano gli interessi della Confraternita; durante i
Sabba, però, si poteva accedere solo ai portici e ai
chiostri, trasfigurati così da rievocare
l’antichissimo bosco di Doire, semidistrutto tre secoli prima
dai Babbani e, solo in minima parte, protetto e conservato ancora a
ridosso di quelle mura. Trasfigurammo i nostri abiti in lunghe tuniche
grigie, tipiche della ricorrenza di Imbolc, poi ci inoltrammo per uno
stretto corridoio, appena illuminato dalla luce lunare, che filtrava da
una serie di cortili interni: a mano a mano che procedevamo e ci
avvicinavamo al luogo in cui si stavano celebrando i riti, una teoria
di luci fatate, sempre più corposa, illuminava le pareti,
danzandoci sopra come per guidarci. Il corridoio finì
confluendo in un portico, che circondava un chiostro ampliato
magicamente tanto da sembrare una vera radura, delimitata da alberi e
cespugli e illuminata dalla luna. Ci addossammo alle colonne,
nell’oscurità: numerosi Maghi e Streghe, scalzi,
vestiti con lunghe tuniche grigie ricamate di argento e di smeraldo, il
volto celato dai cappucci, stavano immobili con una candela in mano,
salmodiando in gaelico, in piedi attorno a un cerchio di pietra, da cui
zampillava l’acqua di una sorgente. Sarebbe stato quello lo
scenario del mio primo omicidio? Sentii le gambe piegarsi e la paura
afferrarmi alla gola.
“La Cancelleria è
molto più grande di quanto appaia da fuori, o è
solo frutto della magia?”
Ammiravo la capacità di Rodolphus di estraniarsi da quello
che stavamo per fare: si guardava attorno, disorientato,
perché il buio e una magia simile a quella che anima il
soffitto della Sala Grande a Hogwarts, permettevano di intravedere
appena, attorno e sopra di noi, la sagoma dell’edificio che
ci ospitava. Chi partecipava ai riti, infatti, doveva avere la
sensazione di essere all’aperto, nel vero bosco, e non
all’interno di un edificio costruito dall’uomo. Mi
guardai intorno sperando di individuare Corso e Sile, ma nonostante i
fuochi accesi e la luna, era troppo buio: c’erano candele
distribuite a terra in punti strategici, a formare simboli cabalistici,
tutte orientate verso il cerchio di pietra, un tappeto di petali
ricopriva il terreno, e ovunque erano bruciati incenso ed essenze,
creando un leggero velo di fumo che rendeva incerta la vista. Osservai
lo spazio di fronte a noi: dall’altra parte del chiostro,
s’innalzava un’ara di alabastro, incassata in una
parete di pietra grezza e, sopra, un candelabro di argento e smeraldi,
con sei candele che si sarebbero spente una dopo l’altra,
entro l’alba. L’ultima si sarebbe estinta al
sorgere del sole, mettendo fine alle mie speranze: fui preso dal panico
quando vidi che tre erano già consumate e altre due erano
prossime a farlo. Dell’ultima era rimasta appena
metà della cera: Sile e Corso, perciò, erano
ormai nel bosco.
“Entrare è stato
facile, lo ammetto, ma ora, non ci basteranno più le tue
Rune: nonostante sembrino imbambolati, qui c’è
almeno un centinaio di persone, e noi siamo solo in due. Qual
è il tuo piano?”
“Che cosa?”
“Sveglia Sherton: il piano!
Qual è la prossima mossa? Hai un piano, vero?”
“Sì,
certo… Devo trovare Sile…”
“Questo lo so…
Salazar! Non sarà solo questo il tuo piano? Dimmi
che… No! Maledizione! No!”
“Rodolphus, calmati! So dove
sono Sile e Corso… ma tu dovrai restare qui: non hai
relazioni con le Terre del Nord, non puoi seguirmi oltre…
imbucati tra gli invitati, nessuno si accorgerà di te, sono
tutti presi dal rito…”
“Così
m’impiccheranno con te, domattina! No, grazie! Ci serve un
diversivo…”
“Un centinaio di Maghi non ci
metterebbe molto ad annullare qualsiasi tuo diversivo! Fai come ti ho
detto e non correrai rischi. Io attraverserò il portico,
dietro l’ara c’è un passaggio, Sile e
Corso sono dall’altra parte, tornerò prima che
quelle candele si spengano e scapperemo insieme…”
“Le candele sono quasi del
tutto consumate, te ne rendi conto?”
“Lo so… dammi la
mano e prometti di ascoltarmi: se vedi che ci metto troppo,
probabilmente… non esitare, scappa, fai il percorso inverso,
la porta ora ti riconoscerà e si aprirà al tuo
tocco…”
*
Dalla penombra del
portico, accucciato a terra, mi mossi rapido tra le colonne e gli
alberi, fino a guadagnare l’altro lato del chiostro: ombra
tra le ombre, nessuno si curò di me, tutti presi dal rito
del fuoco e dell’acqua. Con cautela, mi avvicinai
all’ara, guardai quell’ultima candela che,
tremolando, segnava il tempo e m’insinuai nella fenditura
della parete, dietro l’altare: il muro era formato da due
lame di pietra grezza, così vicine da sembrare un
tutt’uno, in realtà sfalsate in modo da permettere
a un uomo adulto d’infilarsi a stento. Era il passaggio per
il santuario di An Feabhail, che custodiva i resti del bosco sacro:
davanti a me si aprì il sentiero, che si snodava, selvaggio,
in quella foresta sospesa in un’illusoria primavera e
illuminata dalla luce tenue che precede l’alba. Mi lasciai
rapire da quella magia, da cui mi riscossi a stento, poi avanzai con la
forza della disperazione, tendendo l’orecchio per sentire la
voce di Sile. Quando il bosco si aprì formando un cerchio di
dodici querce secolari, quasi in riva al fiume Foyle, mi trovai davanti
alla stessa apparizione che, tanti secoli prima, convinse i dodici
Maghi del Nord, giunti in Irlanda in cerca di una nuova terra, a
fermarsi lì, sotterrare al centro di quella radura una delle
reliquie di Salazar e fondare An
Feabhail. L’atmosfera mistica di quel luogo
ricordava la grotta di Salazar, a Herrengton: chiusi gli occhi e mi
lasciai permeare da quanto mi circondava, permettendo al mio spirito di
fondersi con quello che animava il bosco; vidi con la mente i tasselli
andare al loro posto e capii il vero motivo che mi aveva spinto
lì.
Dovevo lasciare che il
mio amore combattesse al posto della mia bacchetta, o avrei perso
tutto. Se il prezzo da pagare, per riavere Sile, era diventare un
assassino, allora avrei scelto di perderla, perché se mi
fossi trasformato in ciò che non ero, in un mostro, non
avrei più nemmeno avuto occhi puri per guardarla,
né mani degne di toccarla. Spargendo sangue, avrei comprato
l’alleanza di chi l’avrebbe costretta a sposarmi
con la forza, certo, ma non il suo amore: l’amore non si
compra, tantomeno col sangue. Tantomeno il suo amore: l’amore
di Sile non era mai stato e non sarebbe mai stato in
vendita… Lo avevo imparato, a mie spese, tanto tempo prima.
Forse, quella notte avrei avuto un’ultima occasione per
provare a riconquistarlo, ma dovevo dimostrare di avere ancora fede
nell’amore puro che avevamo condiviso. Mentre quelle
verità si facevano strada nella mia mente, percepii delle
voci che sussurravano in francese; mi celai dietro un albero, per
riordinare le idee: prima che la candela si spegnesse, Sile doveva
ascoltarmi, poi avrei accettato il mio destino... Mi guardai intorno e
la vidi seduta sul tronco di un albero: sembrava
un’apparizione eterea, una fata, con il lungo e ampio abito
cerimoniale, i capelli bruni lasciati sciolti e l’aria
assente. Corso era in piedi, le dava le spalle, impegnato a discutere
con il Mago che avrebbe officiato il rito. Immaginai che, per
quell’idiota, Sile costituisse solo un matrimonio vantaggioso
con una famiglia ricca e potente del Nord, per questo l’odiai
ancora di più, ma mi riempii anche di speranza,
perché così forse sarebbe stato più
facile separarli. Lo osservai: doveva avere circa venticinque anni, era
un bel giovane, appena più alto e robusto di me, con i
capelli e gli occhi scuri e i modi curati ed eleganti da francese. Ma
più lo guardavo, più mi convincevo che il suo non
fosse uno sguardo innamorato. Per questo, quando il Mago si
allontanò e, rimasti soli, dopo essersi inginocchiato ai
suoi piedi e averle preso teneramente il viso tra le mani, Corso
iniziò a baciarla con passione, rimasi incredulo e ferito,
come se mi avessero inferto una coltellata mortale in pieno petto;
mentre Sile rispondeva a quel bacio con trasporto, facendo crollare le
mie ultime illusioni di fronte all’amara verità,
la furia omicida che credevo di aver placato, ritornò a
impossessarsi della mia mente. Mi scostai dall’albero,
estrassi la mia bacchetta, superai un cespuglio. Sile, ancora stordita
dal bacio, non sentì il frusciare delle foglie, Corso
invece, allarmato, sì staccò da lei e, per quanto
fosse possibile in quella sciocca posizione, le si parò
davanti per proteggerla, senza avermi ancora nemmeno visto.
“Allontanati da lei, francese…”
Avanzavo verso di lui,
dal lato sinistro: lanciai un leggero incantesimo, con cui bruciai
delle foglie ai suoi piedi, perché si voltasse verso di me.
Non ero un vigliacco, non l’avrei colpito alle spalle.
“Salazar… Che cosa succede, qui? Chi
osa…”
Il
“sacerdote”, tornato indietro quando aveva udito
una voce sconosciuta, non riuscì a completare la frase
perché gli lanciai un PETRIFICUS e continuai ad avanzare.
Sile balzò in piedi: non mi sfuggì la
rapidità con cui la sua mano andò ad abbassare la
bacchetta sguainata da Corso appena mi mise a fuoco; Lucien la
guardò, confuso, ed io in quel gesto lessi
l’invito di Sile a non fermarmi. Ora, però, era
lei a frapporsi tra Corso e me.
“Monsieur, non potete restare qui… questo
è un bosco sacro e…”
“Fai silenzio e combatti!”
“Lucien!”
Pronunciai due parole in
gaelico, furioso, e Corso, colpito in pieno petto, andò a
sbattere contro la quercia che stava dietro di lui: aveva perso la
bacchetta e aveva una piccola ferita a un braccio, forse si era
graffiato su dei rami. La soddisfazione nel vedere sparso il suo sangue
placò un po’ la mia furia e attesi che si
riprendesse e recuperasse la sua arma. Sile si piegò per
soccorrerlo e prestargli aiuto, ma lui fece un gesto brusco per
allontanarla, alzandosi da solo e pulendosi del terriccio che aveva
addosso.
“Mirzam Sherton, presumo: colui che mi giurò
morte, e non ebbe mai il coraggio di affrontarmi… Che cosa
vi porta qui, stanotte?”
“Quello che avrei dovuto fare, fin
dall’inizio…”
“Un po’ tardi, Monsieur… vi resta giusto
il tempo di guardarci scambiare anelli e promesse… Direi un
ottimo motivo per fuggire subito a casa, a piangere sulla vostra
codardia…”
Sile lo
guardò con occhi sgranati e feriti, Lucien le fece un gesto
d’ironica sufficienza e le ordinò di mettersi al
riparo, poi si preparò al duello: non vedeva l’ora
di darmi una lezione. Da parte mia, ero fermamente intenzionato a fare
altrettanto, ma anche a non cedere a quelle provocazioni: proprio
perché si trattava di un odioso sbruffone, mi ripromisi di
combattere in modo deciso ma leale, senza più ricorrere alla
magia del Nord, così che Sile vedesse, di là
dalla forza, chi fosse il migliore. Fin dalle prime battute, mi resi
conto che era un avversario deciso, abile nelle finte e nei tranelli, e
a usare fatture e incantesimi al limite della legalità:
sarebbe stato un ottimo Serpeverde a Hogwarts, astuto
com’era. Peccato fosse anche un vile: quando, con un paio
delle sue finte, mi colpì in pieno e caddi a terra, mi
lanciò a tradimento anche una leggera fattura, poi
scoppiò a ridere, ritenendo chiuso lo scontro.
“Siamo già stanchi, Monsieur? Questo è
combattere, non recitare favolette antiche nei
boschi…”
“Sì, sono stanco, francese… stanco di
sentire le tue offese alla nostra Terra…”
Appena mi risollevai,
provai a centrarlo, invano, con due potenti Schiantesimi, ai quali
reagì con un paio di mosse tutt’altro che leali:
avevo sbagliato a valutarlo, Corso non era il damerino incapace e
smorfioso delle mie fantasie, ed io non ce l’avrei mai fatta
a sconfiggerlo così, non avevo il tempo, non avevo le forze
e forse nemmeno la cattiveria sufficiente. Per vincere, non potevo
continuare a combattere lealmente, lo sapevamo entrambi, ma questo
significava rinunciare al mio onore o, insieme a Sile, avrei perso
anche il mio orgoglio. Per un soffio, riuscii a evitare il suo nuovo
Petrificus, ma non la fattura che arrivò subito dopo: mi
colpì in pieno, talmente dolorosa da togliermi il fiato e
mettermi in ginocchio. Mentre provavo, invano, con le poche forze che
mi restavano, a rialzarmi, Lucien ricominciò a farsi beffe
di me, con quella sua dannata voce nasale: anche lui era stanco, e
sperava che provocandomi, reagissi in maniera inconsulta,
così da potermi umiliare definitivamente di fronte a Sile.
“Allora? Che cosa c’è? Vi manca il
fiato, Monsieur, o vi siete solo nascosto dietro a
quell’albero?”
Mi sostenevo a una
quercia per riprendere fiato, tutte le sue ultime mosse erano state
difficili da schivare e l’ultima mi aveva preso in pieno, ma
con la forza della disperazione e dell’orgoglio mi rimisi in
posizione, pronto a duellare ancora: sentivo la gamba destra incapace
di sorreggermi a lungo e il calore del sangue fluire da un taglio sulla
mano sinistra e dal naso. Ma sarei morto piuttosto che arrendermi.
Ferito, spaventato, confuso, quel francese aveva sbagliato a
giudicarmi, almeno quanto io avevo sbagliato con lui
all’inizio: con le mie ultime forze, quando ormai non ce
l’aspettavamo più nessuno dei due, riuscii ad
assestare un colpo violento che gli fece perdere
l’equilibrio. Corso cadde a terra, ai piedi di una delle
querce e la bacchetta gli volò lontano. E ora, la mia era
puntata alla sua gola: mi guardava, carico di disprezzo, avrei voluto
sottoporlo per poco a un incantesimo che gli impedisse di respirare,
giusto per vedere la sua paura, ma me ne mancava la forza.
“Chi è quello finito, Monsieur?”
“Perde chi muore, Sherton… e voi non avete il
coraggio per andare fino in fondo…”
“Ne sei sicuro francese? Intanto goditi un po’ di
dolore… CRUCIO!”
“NO!”
Sile, che aveva pianto
per tutto il tempo, accorse per soccorrerlo, vedendolo contorcersi, ma
dovette fermarsi a un passo da noi, quando la mia bacchetta si
spostò su di lei e fu certa che non l’avrei
abbassata. Impallidì, ma non provò a fare niente
per difendersi, rimase diritta e fiera, in silenzio, fissandomi
risoluta, frapponendosi tra me e Corso che stentava a riprendersi dalle
fitte: era pronta a morire per salvare il suo francese. Ma non
a combattere contro di me per salvarsi. Nei suoi occhi mi
sembrò di leggere quello che volevo, quello che
speravo. Indecisione. Provava ancora qualcosa per me?
“Se non ci vedrà tornare prima che si spenga la
candela, mio padre verrà qua a cercarci… E tu non
avresti scampo… Se te ne vai ora, invece… Hai
vinto tu… Il duello è finito! Salvati!”
“Non sono venuto fin qui per fuggire o vincere un
duello…”
“Ti prego; Mirzam… non puoi pensare davvero di
ucciderlo… non servirebbe a niente e te ne pentiresti per
tutta la vita…”
“Non è uccidendolo che riconquisterei il tuo
amore, lo so, e questo idiota è troppo meschino
perché mi sporchi le mani col suo sangue, ma non
permetterò che… EVERTE STATIM!”
Mentre Lucien cercava
invano di rialzarsi, dopo il violento colpo che l’aveva
sbalzato lontano da noi, lamentandosi del dolore a una gamba, presi
Sile per un braccio e, di corsa, la trascinai con me per un tratto del
sentiero, continuando a tenerla sotto tiro perché non
provasse a sfuggirmi o a gridare, benché non ne avesse
alcuna intenzione: aveva capito che non avevo cattive intenzioni, che
volevo un ultimo istante, da solo, con lei, per parlarle. Ormai vicini
alla fenditura, mi fermai di fronte a lei, potevo già
intravvedere le travi del portico sopra le fronde degli alberi, appena
pochi centimetri di pietra grezza ci separavano dagli altri: se Sile
avesse gridato, per me sarebbe stata la fine, ma i suoi occhi dicevano
che non l’avrebbe fatto.
“Mirzam… Mi spiace che le cose siano andate
così… Mi spiace per questa notte, ma…
Non è cambiato niente rispetto a qualche mese fa…
io… quello che dovevamo dirci… è
già stato detto... ”
La guardai, il mio
sguardo pieno di orgoglio e di amore per lei
s’intrecciò al suo, carico di domande e
incertezza, quando iniziai a sollevare lentamente la manica sinistra e,
porgendole il braccio, riuscì a vedere che la mia pelle era
decorata solo dalle nostre Rune.
“Salazar… Io credevo che tu…”
“Mi hanno mostrato quella strada, Sile, per
riaverti… ma non è ciò che
sono… Salazar solo sa, quanto abbia desiderato farlo, con
quali pensieri sono arrivato fin qui… ma nel bosco ho aperto
gli occhi…”
Un coro di voci
concitate si librò di là della fenditura,
interrompendo l’atmosfera di assoluta complicità
che si era ricreata tra noi: Sile guardava e toccava il mio braccio con
sorpresa e commozione, capii che parte delle sue decisioni su di noi,
si basava su notizie errate che aveva avuto sul mio conto. E ora, forse
troppo tardi, aveva saputo la verità: l’ultima
candela doveva essersi spenta e il mio tempo, il nostro tempo, era
finito. Esitai, spaventato. Alla fine ero di fronte al risultato di
tutta quella follia, all’ultima parola, quella definitiva, di
Sile su di noi: temevo di sapere il perché della tristezza
che leggevo nei suoi occhi, pur amandomi ancora, non c’era
più nulla che uno di noi due potesse fare. L’avevo
persa quel lontano mattino di agosto, nel momento esatto in cui eravamo
diventati una cosa sola. Sentii le lacrime scaldarmi la
faccia, poi un sibilo odioso, dietro di me, mi riportò al
presente.
“Preparati a morire, Sherton!”
Mi voltai, Corso aveva
recuperato la bacchetta e, pur dolorante, ci aveva inseguito.
“LEVICORPUS!”
“STUPEFICIUM!”
“PROTEGO!”
Avevo provato ad
appenderlo per aria per una caviglia, ma l’avevo mancato e, a
sua volta, Corso mi aveva scagliato addosso uno dei suoi potenti
Schiantesimi. Sile, nel disperato tentativo di concludere quel
discorso, prima che gli altri irrompessero dalla fenditura,
oscillò verso di me facendomi scudo e deviando
l’incantesimo del francese. La sorressi per non farla cadere,
proprio nell’istante in cui l’imponente figura di
Donovan Kelly emerse dal passaggio, davanti a tutti gli altri,
allucinato, la bacchetta sguainata: vedendomi così, nascosto
dal cappuccio che avevo rialzato, appena avevo sentito le urla di
là della parete, immaginò che stessi trattenendo
Sile con la forza e che mi stessi nascondendo dietro di lei come un
vigliacco. Molti degli altri invitati si affollarono attorno a noi,
angosciati per la sorte di Sile, mentre un piccolo drappello corse
avanti e, poco dopo, dal bosco, riecheggiarono le urla di chi aveva
trovato il “sacerdote” petrificato. Corso, con gli
occhi iniettati di sangue, nella confusione riuscì a
strapparmi Sile dalle braccia per consegnarla a suo padre e, puntandomi
la bacchetta alla gola, mi sollevò il cappuccio dalla testa
rivelando a tutti la mia identità.
“Monsieur Kelly… Quest’uomo è
un pericolo per tutti noi… Ha ucciso il sacerdote e voleva
uccidere anche vostra figlia e me…”
“Non è vero, stai mentendo
Lucien…”
“Quando smetterai di difenderlo? Ha quasi ucciso me e ti ha
portato qui, sola, in mezzo al bosco, Merlino solo sa per farti
cosa…”
Sile cercò di
spiegare che cos’era successo per provare a salvarmi, ma
Corso le impedì di continuare, con le sue assurde accuse: la
mia situazione era seria, ma lo sguardo che Sile mi lanciò,
mi ripagò di tutto quello che avrei potuto soffrire da quel
momento in poi. Era ancora al mio fianco, non era stato tutto inutile.
“Salazar… Non può essere…
Questo è il figlio di Alshain… lo
riconosco… Che cosa ci fai qui Mirzam? Deve esserci
assolutamente un errore… Abbassate quelle
bacchette!”
Mi voltai verso il Mago
che mi aveva riconosciuto e ora parlava per me, facendosi largo tra la
folla: era un vecchio imparentato col marito di mia zia, uno che
sicuramente sapeva quale legame ci fosse stato in passato tra me e Sile
e forse considerava nel modo giusto le ferite che io e Corso avevamo
addosso. Da parte mia, stavo per dire a tutti di chiedere a Donovan
Kelly perché fossi lì quella sera, quale patto mi
avesse proposto, ma Corso, come impazzito, mi puntò di nuovo
la bacchetta addosso e, cogliendoci tutti di sorpresa, emise la sua
sentenza personale nei miei confronti.
“AVADA…”
“NO!”
“Salazar! E’ sotto Imperius!”
Il vecchio
cercò di disarmarlo, altri lo aiutarono, si creò
molta confusione: fu allora che un rumore sinistro si levò
sopra le nostre teste, ancor prima che il getto di luce verde iniziasse
a prendere forma dalla punta della bacchetta: alzammo gli occhi e
vedemmo, con orrore, le travi del portico divorate dalle fiamme e il
soffitto che a pezzi iniziava a crollarci addosso. D’istinto,
senza pensare a niente, mi lanciai sulla figura di Donovan, vicino a
me, per strappargli Sile dalle mani e cercare di metterla in salvo. Nel
caos, la bacchetta di Corso cadde a terra e la maledizione non fu
pronunciata per intero; gli altri Maghi scapparono in tutte le
direzioni, per salvare se stessi e il bosco, io cercai solo di
proteggere Sile, ma con tutto quel fumo e la confusione, rimanemmo
indietro e sbagliammo direzione. Ci ritrovammo catturati
nell’inferno: le travi si schiantavano a terra, sollevando
polvere e soffocando le fiamme, liberando ancora più fumo,
la pressione del soffitto e il calore fece esplodere le due lastre di
pietra, così ci ritrovammo sbalzati via, cademmo a terra e
restammo schiacciati dalle macerie. Eravamo prigionieri, nel buio,
senza aria, senza la possibilità di muoverci, e tutto
sembrava scivolare via fino a sparire: l’ultima cosa che,
ormai semicosciente, percepii fu Sile, ancora stretta a me, il suo
calore e il suo respiro sempre più deboli al mio fianco,
sotto le macerie. E il suo profumo di fiori… ma
forse quella era solo una mia fantasia, come certamente era solo una
speranza, la mia ultima speranza, la sua voce che ruppe per
l’ultima volta il silenzio.
“Ho amato solo te…”
fine flashback
*continua*
NdA:
Ringrazio quanti hanno letto, aggiunto a preferiti/seguiti,
recensito ecc ecc.
Valeria
Scheda
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