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Autore: Terre_del_Nord    27/01/2010    11 recensioni
Sirius Black e la sua Nobile Casata; gli Sherton e la Confraternita del Nord; l’Ascesa di Lord Voldemort e dei suoi Mangiamorte; gli Intrighi di Lestrange e Malfoy; le leggende di Potere e Sangue risalenti a Salazar Slytherin. E Hogwarts, i primi passi dei Malandrini e di chi, Amico o Nemico, condivise la loro Storia. UNA STORIA DI AMORE E DI GUERRA.
Anni 70. Il Mondo Magico, alle prese con Lord Voldemort, sempre più potente e feroce, farà da sfondo dark a storie d'amicizia per la vita, a un complicato rapporto tra un padre e i suoi figli, a vicende di fratelli divisi dalle scelte e dal sangue, a storie d'amore romantiche e avventurose. Gli eventi sono narrati in 1° persona da vari personaggi, canon e originali. "Nuovo Personaggio" indica la famiglia Sherton e altri OC.
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HABARCAT (Chap. 1/20) *** ORION (Chap. 21/24) *** HOGWARTS (Chap. 25/39) *** MIRZAM (Chap. 40/52) *** STORM IN HEAVEN (Chap. 53/62) *** CHAINS (Chap. 63/X) *** FEAR (Chap.97/) ***
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VINCITRICE 1° TURNO "Harry Potter Final Contest"
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Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: I Malandrini, Mangiamorte, Nuovo personaggio, Regulus Black, Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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- Questa storia fa parte della serie 'That Love is All There is' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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That Love is All There is

Terre_del_Nord

Slytherin's Blood

Mirzam - MS.009 - Nulla è Come Appare (1)

MS.009


Mirzam Sherton
Inverness, Highlands - giov. 
1 ottobre 1970

    “AVADA…”
Un rumore sinistro si levò sopra di noi, già prima che il getto di luce verde iniziasse a prendere forma sulla punta della bacchetta: alzammo gli occhi e vedemmo, con orrore, che il soffitto stava per crollarci addosso. D’istinto, senza più pensare a nient’altro, mi lanciai sulla figura che avevo accanto. Nel caos, la bacchetta cadde a terra e la maledizione non fu pronunciata per intero. Subito dopo fu l’inferno: il rumore delle travi, schiantate a terra, fu assordante, la polvere si alzò, soffocando le fiamme, il vuoto d’aria ci trascinò via, sollevandoci per poi schiacciarci a terra. E, infine, il buio c’intrappolò dentro di sé. Voci, pensieri, dolore, sogni: tutto si affievolì fino a sparire. Persino l’incendio si spense, nel freddo e nel silenzio. Non avevo paura. Avevo messo in conto di poter morire, quella notte. Ma non avrei mai immaginato che sarebbe finito tutto così

Mi ridestai all’improvviso. Un ticchettio, ritmato e continuo, mi riportò a fatica al presente e quelle immagini si dispersero ancora, nella confusione del dormiveglia: il ricordo della notte di Imbolc si ripresentava ogni volta che chiudevo gli occhi e si dissolveva sempre prima di vedere qualcosa di là di quel buio. La mia mente ripercorreva all’infinito quegli istanti, benché cercassi in tutti i modi, invano, di sottrarmi a quell’agonia. Sospirai, sudato, sfinito, con un cerchio doloroso a cingermi la testa: la sera precedente, dopo la missione, avevo bevuto fin quasi a perdere i sensi, poi… A stento capii dove mi trovassi: la luce del pomeriggio filtrava attraverso le imposte accostate, riempiendo di un’aria decadente la lussuosa camera in cui mi rifugiavo spesso, alla “Dama Scarlatta”, un elegante albergo dell’800 nel centro di Inverness. Scivolai con lo sguardo in alto, agli intrecci elaborati del baldacchino e ai tendaggi rimasti stranamente annodati.

    “Salazar… fai smettere… quel dannato… rumore…”

La voce femminile, incerta, impastata da alcool e sonno, emerse da sotto le coperte, e di colpo ricordai tutto: la sua mano pallida era appoggiata sul mio petto nudo e il suo calore premeva leggero al mio fianco destro. Una morsa dolorosa mi prese allo stomaco. Mi alzai, in silenzio: sembrava ci fosse un gufo alla finestra. Mi cinsi i fianchi con un asciugamano e mi affacciai: il Ness scorreva placido sotto gli argini scanditi dagli alberi; il ponte, il castello, la cattedrale, i tetti spioventi: tutto era ricoperto dalla prima neve dell’anno. L’aria gelida mi risvegliò completamente. Hermes, il gufo reale di mio padre, era in attesa, sul davanzale, un messaggio legato alla zampa. Leggere, però, era inutile, avevo già capito, c’era solo motivo, se mi arrivavano notizie da Herrengton, dopo mesi: il bambino stava per nascere e mia madre mi voleva accanto a sé, a casa.

    “Devo andare, scusami…”

Mi avvicinai al letto per darle un furtivo bacio sulle labbra, poi iniziai a raccattare i miei vestiti sparsi per tutta la camera: mi osservava tra le lenzuola, gli occhi carichi di promesse, vestita solo dei lunghi capelli corvini, che ne rendevano ancora più diafana la perfetta pelle di porcellana. Sorrise stiracchiandosi, poi si rannicchiò dove avevo dormito fino a poco prima, rotolandocisi in mezzo, per provocarmi e godersi il mio profumo e il mio calore.

    “… Non vuoi portarmi con te?”

I suoi occhi erano capaci di ammaliare qualsiasi uomo. Esitai.

    “… Lo sai… Non sarebbe il momento più adatto per dire a tutti di noi…”

Aprì le labbra carnose, per ribattere, un’espressione severa rese gelidi i suoi occhi scuri; alla fine, però, annuì e si limitò a mimare con le labbra, muta e maliziosa, una sola parola: “PECCATO”. Le sorrisi, complice, poi mi voltai per rivestirmi, pur continuando a studiare le sue mosse allo specchio: non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso, sapeva bene quanto mi piacesse guardarla. Ero quasi pronto, quando scivolò fuori dal letto, sinuosa, e mi raggiunse da dietro: attraverso la seta della camicia, sentivo la sua pelle, riarsa, strusciarsi su di me, languida. La sua destra si appoggiò sul mio fianco e scese lentamente, sopra il tessuto, mentre m’incantava con lo sguardo. Il mio respiro accelerò, quando si alzò in punti di piedi, l’altra mano premette sulla mia nuca, intrecciandosi ai miei capelli e la sua voce vibrò al mio orecchio.

    “Allora… Porta questo momento con te, nei tuoi pensieri…”

Risalì lenta dalla mia gamba verso l’inguine, senza staccare gli occhi dai miei, allo specchio. Ero in apnea. Con un enorme sforzo di volontà riuscii a bloccarle il polso, impedendo che salisse ancora, e mi voltai, fermandole il braccio destro dietro la schiena, senza farle male, ma in modo deciso: un ghigno soddisfatto si stampò sul suo viso, mentre portava la mano sinistra, leggera, a disegnarmi le labbra con i polpastrelli. Recuperai il fiato baciandole le dita, ma sentivo il mio viso avvampare al suo sguardo: sapevamo entrambi quanto mi fosse difficile restare impassibile a quelle sue lusinghe. Come suo solito, m’investì con la sua risata irridente ed io tremai. Vacillò, lasciandosi cadere all’indietro sul letto, trascinandomi con sé, ed io, colto alla sprovvista, mi ritrovai sopra di lei, intrappolandola tanto stretta a me, da confondere i nostri respiri. Ghignò soddisfatta, chiunque avrebbe perso la testa e approfittato di quella situazione: iniziò a muoversi, sensuale, strusciandosi contro di me, cercando con la mano libera di spogliarmi di nuovo e continuando a fissarmi con occhi che mi supplicavano di prenderla. Mi sollevai appena e questo l’accese di speranza, ma quando tornò a scrutare nei miei occhi, non vide ciò che si aspettava. Cercò di sollevarsi per baciarmi sulla bocca, ma io la evitai e mi ritrassi ancora. Indispettita, lottò per divincolarsi e con la mano libera cercò di schiaffeggiarmi, ma io, preparato alla sua furia, le bloccai facilmente il polso, inchiodandola definitivamente al letto.

    “Smettila… Black… smettila…”

La guardai risoluto: imprigionata sotto di me, si agitava convulsamente, gli occhi fissi nei miei; era una belva pronta a fare del male, ma lontana dalla sua bacchetta, le era impossibile sopraffare qualcuno fisicamente tanto più forte di lei. Alla fine, esausta, smise di combattere ed io approfittai della tregua per stringerla nel mio abbraccio: sentii la sua ira lasciar posto, poco alla volta, a quella strana sensazione che ci legava da mesi e che a volte temevo di non riuscire più a controllare, come non riuscivo più a controllare lei. Mi sollevai, in silenzio, rotolandole di fianco, lo sguardo perso sul soffitto, ascoltando il suo respiro tornare normale e il suo corpo, tremante, accucciarsi accanto al mio, alla ricerca del mio calore.

    “Dimmelo, Sherton… Dimmelo… Devi dirmelo… o…”
    “Non sono come gli altri, Black, non puoi dominarmi… Fattene una ragione!”

La guardai con la consueta durezza, poi, però, le presi una mano, gliela baciai e le accarezzai teneramente il viso: volevo rassicurarla, anche se era troppa l’inquietudine che sentivamo dentro. 

    “Sei stata perfetta, ieri sera, Bella, appena Milord saprà che stavolta hai fatto tutto da sola…”
    “Adesso? Perché? Avevi detto che avremmo preso il Marchio insieme, in estate…”
    “Non eri tu, quella impaziente? Non avrai paura, vero, ora che stai per realizzare i tuoi sogni?”
    “Voglio farlo, più di ogni cosa, lo sai… ma… ormai ero convinta di farlo con te, di averti accanto…”
 
Rimasi in silenzio, per un istante, riflettendo.

    “Ne riparleremo, Black… ma al mio ritorno. Adesso… devo assolutamente andare… Puoi restare quanto vuoi…”

Fece di no con la testa, come al solito, io mi alzai, senza aggiungere altro, mi sistemai gli abiti spiegazzati e mi gettai il mantello sulle spalle. Scesi di sotto, per pagare il conto della stanza e ricompensare il proprietario della Dama, per la piena discrezione che ci garantiva ogni volta, poi finalmente uscii: si stava facendo di nuovo sera, avevo appena il tempo di cambiarmi a casa mia e partire subito per Herrengton. Appena ci salutavamo, mi ripromettevo di farla finita con Bella, poi, però, una volta a casa, iniziavo subito a progettare l’incontro successivo, studiandolo fino all’ultimo dettaglio. Rischiavo molto ormai, lo sapevo, ma andava fatto: non potevo e non volevo rinunciare. Non ora che ero ad un passo dalla mia vittoria.

***

Mirzam Sherton
Trevillick, Cornwall - sab. 25 aprile 1970 - inizio flashback

Il maniero di Trevillick, residenza estiva dei Lestrange a picco su una scogliera del Cornwall, era stato riportato agli antichi splendori in occasione del ventiduesimo compleanno di Rodolphus e ora, finalmente, appariva di nuovo al massimo della sua bellezza. Quella sera capimmo tutti, in fretta, di non essere stati invitati a una semplice festa, ma all’evento mondano dell’anno: ovunque era un tripudio di ricchezza ed eleganza, nella ricercatezza di vini, cibi, musica e intrattenimenti, si leggeva la volontà di Lestrange sr. di ribadire la propria appartenenza al fior fiore dell’alta società magica. Ero felice per il mio amico: finalmente, si celebrava la sua prima, vera, grande vittoria, perché, dopo anni di tentennamenti, suo padre aveva deciso di affidargli la conduzione di buona parte dei suoi affari, dimostrando di ritenerlo all’altezza del suo nome e della sua fiducia. Peccato che quella repentina evoluzione dell’atteggiamento paterno derivasse solo dal favore che Milord accordava a Rodolphus, considerato ormai da tutti il suo più valido collaboratore. Anche a causa mia. Non spettava a me criticare la sua vita, ma ero preoccupato: per anni avevo sperato che, con una disposizione diversa del padre nei suoi confronti, Rodolphus avrebbe smesso di fare la guerra al mondo intero, ma ora, stretto tra Milord e il suo vecchio, rischiava di scivolare verso il baratro. Mi guardò da lontano ed io, sorridente, alzai il calice per brindare al suo indirizzo, non volevo rovinare la sua giusta felicità con la mia malinconia o i miei dubbi: avevo deciso di andare a quella festa solo perché tenevo a lui, benché da febbraio conducessi una vita ritirata a Inverness, evitando le occasioni mondane e la gente in genere. Desideravo sparire e passavo le mie giornate nella mia casa, lontano da tutti, solo con i miei pensieri e il mio dolore. Quella sera, perciò, benché mi fossi temporaneamente sottratto alla mia prigione volontaria, cercavo di restare defilato, addossato a una delle colonne del portico, in mezzo a quel tripudio di lusso e risate che non mi toccava affatto, ascoltando musica e sorseggiando Firewhisky: rifuggivo le occhiate maliziose delle ragazze che avrebbero desiderato ballare con me e chiunque cercasse di parlarmi, compreso il mio padrino, Orion Black, che vedevo aggirarsi preoccupato, cercando l’occasione giusta per parlarmi, per sapere come stavo e per provare a far da paciere tra me e mio padre. Mi sentivo rinfrancato solo dall’aroma del mare che saliva dalle scogliere e si fondeva con quello delle rose: Rodolphus aveva recuperato almeno quel segno tangibile dell’amore di sua madre. Per un attimo pensai a Herrengton, alla voce di mia madre e alla risata di mia sorella: da quando avevo scelto la mia strada… avevo saputo per caso persino del bambino… Bevvi, cercando di annegare in quel liquido bruciante, quanto premeva per emergere dal cuore.

    “Credi metterà la testa a posto, adesso?”

Perso nel mio mondo, non mi ero accorto di Pucey se non all’ultimo quando, guizzando dalle tenebre del colonnato, mi si parò davanti: come me, fissava Rodolphus, impegnato con suo padre in un frenetico svolazzare tra i tavoli, per scambiare sorrisi e vane chiacchiere con i suoi invitati.

    “Dovrà farlo, se vuole apparire “rispettabile”: presto prenderà anche moglie… Per essere un lord perfetto ha bisogno solo di tre cose: l’impegno politico, un ricco matrimonio e un erede maschio…”

Ghignammo, mentre il nostro eroe, che si pavoneggiava in un lussuoso abito tradizionale rosso borgogna attorniato dalle più ricche streghe in età da marito dell’alta società, era di colpo coinvolto, suo malgrado, in una noiosa discussione tenuta da Cornelius Fudge: probabilmente voleva approfittare di quella festa per chiedere sostegno dopo il pomposo, quanto inutile, discorso che aveva fatto al Ministero, appena due giorni prima, per candidarsi come Ministro della Magia.

    “Povero Cornelius, è l’unico a non sapere di non avere speranze: da mesi Abraxas Malfoy tesse le sue trame per mettere a capo del Ministero uno dei suoi uomini di fiducia, Archibald Lodge...”

Guardai preoccupato Pucey, che mi fece un eloquente cenno di assenso. Anche se non ci parlavo da settimane, potevo immaginare mio padre che tuonava i suoi peggiori anatemi contro quella nefasta accoppiata, appena l'avesse saputo: se Malfoy fosse riuscito nei suoi intenti, infatti, la vita sarebbe stata ancora più dura per le Terre del Nord e per la Confraternita, non c’erano dubbi.

    “E tu? Che progetti hai, Sherton? È da un pezzo che non ti si vede in giro… Dopo la serata a Little Hangleton immaginavo di vederti più spesso, avevo sentito dire che Milord ti aveva scelto come “Reclutatore”, ora che non gli vanno più bene i suoi vecchi uomini…”
    “Ho avuto da fare in Scozia…”
    “Già…”

Mi trapassò con il suo ghigno ironico ed io sentii il sangue andarmi alla testa: cercai di controllarmi e restai in silenzio, trangugiando un altro sorso. L’aria era improvvisamente troppo gelida persino per essere respirata.

    Milord… mio padre… la notte di Imbolc…

    “Molti di noi non credevano che te lo avrebbe chiesto e nessuno che avresti accettato…”
    “Come forse saprai, non mi curo molto delle opinioni altrui, Pucey…”

Scorsi gli occhi sugli invitati, senza prestargli più attenzione, ma Steven era troppo coinvolto in quel discorso per sospenderlo così, o forse era solo molto più ubriaco di me; mi si avvicinò ancora e si sollevò la manica della giacca sull’avambraccio sinistro, esponendo alla luce delle fiaccole il deturpante Marchio Nero che si muoveva al pulsare del suo sangue. Tremai, quel gesto mi riportava alla mente pensieri spaventosi. Poi con gesto fulmineo, sollevò anche la mia manica, confrontando con il suo Marchio, la mia pelle bianca e immacolata.

    “C’è una bella differenza, ma pare contino più le parole dei fatti… E il nome, più delle azioni.”

Stavo per ribattere, scocciato, che doveva chiedere a Milord, non a me, perché gli avesse tolto quell’incarico per darlo a me che ancora nemmeno portavo il Marchio, quando sentimmo un suono secco, tipico del legno quando si spezza: ci voltammo e vedemmo qualcosa nel buio del colonnato, a pochi passi da noi. Il mio cuore perse un colpo e la paura mi serrò la gola.

    Salazar, no! Il Ministero, la Confraternita e soprattutto mio padre non devono sapere niente di questa dannata storia.

Impegnati ad affrontarci, nessuno dei due si era accorto della figura nascosta per spiarci, che ora fuggiva via, cambiando strada più volte e facendo un giro largo per confonderci fino a raggiungere gli altri invitati: alla luce della luna, ne riconobbi i capelli corvini.
   
    Ci mancava solo questa!

    “È solo Bellatrix Black, non ti preoccupare… Salazar… Darei tutto quello che possiedo per farmela almeno una volta… Tu che ne pensi, Sherton?”
    "… Che faresti bene a tenere gli occhi aperti, quando mostri quel dannato braccio, invece di pensare alle stronzate, Pucey! Immagina se nascosto nel buio ci fosse stato un ministeriale…”
    “O peggio ancora… tuo padre! Dico bene, Sherton? Ti tiene ancora sotto, per quella storia? È per questo che non esci da casa? Hai giocato con i fiammiferi nel posto sbagliato,vero? Ahahah…”
    “Anche se non sono affari tuoi, Pucey… io non c’entro niente con quell’incendio…”
    “Chi vuoi ingannare? Non ti crede nemmeno tuo padre! Non vuol più vederti, né ascoltarti… Lo sanno tutti…”
    “Vai all’inferno, Pucey…”

Lo lasciai lì, furente, e attraversai il portico, sempre tenendo gli occhi fissi su Bellatrix: sentendosi osservata, anche lei si voltò, mi chiedevo se intuisse quanto profondo fosse l’odio che provavo nei suoi confronti. Bevvi un altro sorso, poi mi lasciai i suoni della festa alle spalle, avanzando nel buio del parco, sempre più lontano dagli altri, ammirando la luna che illuminava la spiaggia. Una profonda necessità di fuggire, di sparire, di perdermi, s’impadronì di me… Fu un lampo e rividi tutto: a volte sentivo persino il calore del fuoco e il profumo che Sile portava addosso quella notte, il suo corpo che tremava tra le mie braccia… e le grida, il fumo, la paura, le macerie che ci crollavano addosso… e il risveglio… e mio padre… Sentivo qualcosa bruciarmi dentro, soffocarmi, mi mancava l’aria, la testa scoppiava, uno strano brivido mi prese allo stomaco e salì, trasformandosi in un patetico pizzicore agli occhi. Me li asciugai furtivo, col palmo della mano. Ormai solo, sul precipizio che si apriva sulla scogliera, scagliai quel che restava del Firewhisky e il prezioso calice sugli scogli sotto di me. Il rumore del cristallo frantumato fu divorato dal ruggito delle onde: desideravo annientare allo stesso modo la mia vita, i pensieri, i sentimenti, tutte le cazzate che ancora mi albergavano nel cuore. E me stesso. Bastava un passo, un solo, impercettibile passo… e il silenzio avrebbe spento ogni dolore. Non sentii il rumore leggero dei tacchi sul pietrisco, né la voce, soffocata dall’ululato del mare, che mi stregava e mi chiamava a sé; quando, però, una mano calda si posò sul mio braccio, mi voltai, alterato dall’alcool e dai propositi di morte. Bellatrix Black era di fronte a me, ad ammirare il mare, o forse il capolavoro che aveva fatto della mia vita…

    Tutta colpa sua, solo colpa sua…

    “Anche tu trovi noiosa questa festa?”

Senza rispondere, tantomeno salutarla, feci per andarmene, ma Bella aumentò la pressione sul mio braccio, costringendomi a fermarmi. La guardai: doveva essere consapevole di quanto la odiassi, ma per ribadire il concetto, mi staccai da dosso la sua mano con violenza.

    “Vorrei ringraziarti: quella volta, senza di te, sarei finita ad Azkaban…”
    “Non ringraziare me, ringrazia gli altri: se non fosse stato per aiutare loro…”

La guardai con disprezzo, ma non sembrò curarsene né dar peso alle mie parole. Le diedi le spalle e iniziai ad allontanarmi.

    “Sherton… Devo parlarti di Andromeda… solo tu puoi aiutarla…”

Mi bloccai all’istante, mi voltai di nuovo, la guardai: Bella ghignava, trionfante.

    “Ho appena sentito Pucey dire che sei tu il nuovo“Reclutatore” di Milord…”
    “Non so di cosa parli, Black! Basta con le stronzate e dimmi di Meda!”
    “Non trattarmi da stupida, Sherton, sai bene di Chi e di che cosa sto parlando: ho visto te e Pucey scambiarvi il gesto dei Suoi seguaci… So tutto di Lui, ho sentito mio padre parlarne con i suoi amici… e ricordo bene che tempo fa Lo andavi ad ascoltare anche tu, come me, a Hogsmeade…”

Sollevai la manica e mostrai il braccio, in silenzio, sicuro di mettere fine, così, a quella situazione spiacevole, ma Bella non lo guardò nemmeno: teneva, ostinata, gli occhi fissi nei miei.

     “So che non ti ha marchiato… Tra un anno devi prendere le Rune e non vuole che ti scoprano, ma so anche che tu sei uno dei Suoi, come lo è Pucey… Hai preso il suo posto… Vi ho sentito…”
    “Anche se fosse, Black, non hai prove per denunciarmi e, senza di quelle, nemmeno il Ministero può farmi qualcosa!”
    “Il Ministero forse no… per ora… Ma tuo padre? Lui mi ascolterebbe anche senza prove… Mi basterebbe fare la giusta allusione durante una cena a Grimmauld Place e zio Orion partirebbe subito per Herrengton, per informarlo…”
    “Sei più stupida di quanto pensassi, Black! Se fossi chi pensi tu, ti saresti appena condannata a morte da sola, con un ricatto del genere: qui fuori… al buio… su queste rocce… non sarebbe poi tanto strano cadere di sotto, sai? Soprattutto se si è bevuto un po’ troppo, come nel tuo caso... Accetta un consiglio, Black: smettila di giocare… Rischi di minacciare la persona sbagliata, una volta o l’altra… e fare una gran brutta fine…”
    “Ti sbagli, non m’importa minacciarti, Sherton, sto solo fissando il prezzo delle mie informazioni: voglio conoscere Milord, essere presentata a Lui e far parte della Sua cerchia…”
    “E cosa ti fa credere che sia sufficiente chiedere, per ottenere, Black? Credi che un Mago come quello Si abbassi a te solo per il tuo nome? Non dovresti dimostrare di meritartelo in maniera più concreta, il Suo interesse? Di certo non puoi aspettarti una raccomandazione, non da me, perché si dice che di fronte a Lui, nessuno possa  mentire, e tu sai bene quanto io ti disprezzi…”
    “Molti non hanno alcuna fiducia in te, Sherton, ho sentito la rabbia di Pucey… ma se fossi tu a reclutare un membro della Nobile e Antichissima Casata dei Black? Quanto ti sarebbe grato Milord per un dono del genere? Chi dubiterebbe più di te, dopo, se Lui fosse tanto soddisfatto?”
    “Sono stanco delle tue chiacchiere e delle tue menzogne, Bellatrix… spero che Meda non stia male per colpa tua, perché ti giuro… patiresti le pene dell’inferno, se accadesse… e ora addio…”
    “Non ho mentito su Meda per avere la tua attenzione, Sherton… mia sorella ha bisogno di te…”
    “Commovente… da quando t’interessano le sorti di tua sorella e il suo bene?”
    “Da quando è in serio pericolo…”
    “Cosa ti stai inventando, stavolta, Bellatrix?”
    “Sto parlando di un maledetto mezzo babbano… di uno schifoso SangueSporco… di un certo…”
    “… Ted Tonks…”

Bella annuì e iniziò a raccontarmi quello che le aveva scritto Narcissa, di quanto fossero entrambe preoccupate per quella strana amicizia che evidentemente, nel periodo in cui mi ero ritirato dal mondo, era ulteriormente degenerata. Tutto l’odio, che covavo da settimane verso il destino infame e nemici senza volto, prese una forma nitida; la mia stessa vita, che ormai consideravo priva di significato, assunse uno scopo: avevo fatto una promessa, avevo giurato di proteggerla e ora era il momento di intervenire, o Andromeda si sarebbe perduta per sempre.

    “Proverò a parlare di te con chi potrebbe aiutarti, Black, ma il tuo ingresso in quell’ambiente non dipende da me. Ti manderò un gufo, ci dovremo rivedere presto... meglio se lontano da Londra…”

Bella annuì di nuovo, stavolta reprimendo a stento un ghigno di trionfo: sapevo di aver appena siglato un altro patto col diavolo, ma la tensione e l’alcool rendevano tutto più sfuocato. Me la lasciai alle spalle e tornai preoccupato alla festa, attraversando il parco e rientrando nel salone: volevo andarmene subito, per pensare con calma a Meda. Raggiunsi Augustus, che stava chiacchierando con sua moglie e i Warrington al tavolo, per pregarlo di salutare il festeggiato da parte mia: Rodolphus, infatti, era di nuovo tenuto in ostaggio dal gruppetto di streghe con le figlie da sistemare ed era meglio restare alla larga almeno da quel genere di problema. Feci un galante baciamano alle signore, entrambe avanti con la gravidanza, ma Sybille Rookwood, avendo intuito perché non andassi da Lestrange, mi trattenne per prendermi in giro, invitandomi da loro per il weekend, per farmi conoscere un paio di sue amiche interessanti. Vittima delle loro risate, mi allontanai risentito e finalmente, dopo aver evitato di nuovo il mio padrino, misi quanti più kilometri possibili tra me e quella dannata festa.
fine flashback

***

Mirzam Sherton
Herrengton Hill, Highlands - sab. 3 ottobre 1970 (chap.2)

Avevo percorso, avanti e indietro, per ore, i corridoi, nervoso e frustrato, non sopportavo di sentire i lamenti della mamma e non poter fare nulla per lei; avevo intercettato Meissa, spaventata, e avevo provato ad avvicinarla per darle conforto, ma mio padre aveva chiesto a Kreya di portarla di sopra e a me di scrivere di nuovo alle zie e a nostro fratello. Avevo sbrigato quella commissione rapidamente, poi ero ritornato negli appartamenti dei miei, deciso a sottoporre a mio padre uno degli scritti del trisavolo Rufus, convinto di aver trovato una pozione utile in quella circostanza. Sapevo quanta fiducia riponesse in Peter Sell, il Medimago che aveva fatto nascere Meissa e me e, in un’altra occasione, avremmo approfittato anche di una controversia del genere per scatenarci in una delle nostre liti furiose, ma quel giorno eravamo entrambi troppo preoccupati, per non tentare di tutto. Lo osservai: pur di fronte a me, evitava il mio sguardo, era pallido e angosciato, e si sorreggeva sfinito alla porta, stremato da una notte insonne, passata a intrugliare da solo nei sotterranei. Mia madre era la sua unica debolezza, bastava guardarli, per capire quanto, dopo tanti anni di matrimonio, fosse ancora totalizzante l’amore che provavano l’uno per l’altra, per questo mio padre era tormentato dalla preoccupazione e da una specie di senso di colpa. E in quel momento così difficile, io, il suo primogenito indegno e traditore, non ero di nessun aiuto per lui. Mi avvicinai, deciso a fare qualcosa, pur mettendo in conto di ricevere solo un altro silenzio.

    “Non temere: la mamma sente l’amore che provi per lei e questo le darà la forza necessaria… Sono sicuro che presto questa giornata si riempirà di gioia… e se poi nascesse una bambina…”

Mi rivolse uno sguardo strano, come se tornasse a vedermi dopo secoli di oscurità. Da quanto non ci rivolgevamo uno sguardo simile? Da quanto non ci parlavamo senza insultarci?

     “Non importa cosa sarà… purché gli dei ti ascoltino, Mirzam… e finisca tutto bene e in fretta… perché se accadesse qualcosa a tua madre, io…”

Continuò a guardarmi, poi levò gli occhi al cielo, di là delle grandi finestre ad arco acuto che irradiavano la luce del pomeriggio sul corridoio stretto e già oscuro; occhi che stentavo a riconoscere, pieni di sgomento, rivolgevano la sua supplica a qualche dio. Capivo fin troppo bene quello che provava. E lui lo sapeva. Mi ritrovai ad abbracciarlo: ripensai allo sguardo che c’eravamo scambiati al mio diploma, e mi resi conto che da allora non eravamo più riusciti a capirci davvero. Il nostro abbraccio divenne più intenso, sembrava non volesse più lasciarmi andare, forse stava riflettendo anche lui sul nostro recente passato. Sarebbe stato diverso questa volta, dopo quanto era successo? No, ma forse… Sentii quelle parole, le uniche che avessero un senso, montarmi alle labbra, prepotenti, incapace di trattenerle oltre. Anche se, ormai, erano inutili e tardive.

    “Mi dispiace… Perdonami…”

Mi osservò in silenzio, enigmatico, ma non fece in tempo a dirmi niente: dalla camera, simile a una risata liberatoria, si librò un timido vagito che andò a rompere le sofferenze di mia madre e l’atmosfera carica d’angoscia del corridoio. Mio padre si sciolse dal mio abbraccio, commosso e incredulo, io gli feci segno di andare, senza aspettare che lo chiamassero: non si era allontanato dalla mamma dall’inizio del travaglio se non per preparare delle pozioni o quando, poco prima, gliel’avevo chiesto io. Nulla doveva tenerlo lontano da sua moglie un secondo di più. Avrei voluto seguirlo, per assicurarmi che la mamma stesse bene, ma era giusto lasciarli soli, con il bambino: quella nascita era un segno per la nostra famiglia, ma sapevo di non avere più il diritto di farne parte. Ruotai senza accorgermene l’anello di Messer Yuket che, da febbraio, portavo alla mia destra e mi affacciai alla finestra: i rilievi attorno a Herrengton erano addolciti dalla prima neve della stagione, i raggi del sole, che rapidamente volgeva al tramonto, tingevano ogni cosa di un rosa pallido, carico di speranza. Non per me: avevo scelto la mia strada e, per percorrerla, dovevo fare in modo di non mettere a rischio quanto avevo di più caro. Il bambino non poteva cambiare niente. Poco dopo, mio padre riemerse dalla camera, raggiante, per rassicurarmi: appena aveva visto mia madre, stanca ma sana e salva, era tornato pienamente in sé. Mi mise la mano sulla spalla, guardandomi come faceva in passato ed io capii che mi aveva perdonato, già molto prima che glielo chiedessi. Il mio turbamento, però, non diminuì.

    “Lei come sta? E il bambino?”
    “Perfettamente, entrambi: tua madre è stanca ma sta bene: alla fine le tue preghiere sono state accolte… il bambino… è un bel maschietto, ha i tuoi capelli e ti assomiglia, molto più di Rigel…”

Sorrisi e annuii, pensando alla faccia di Rigel quando l’avesse saputo: di sicuro avrebbe pensato di mettere subito in cantiere una squadra di Quidditch tutta nostra.

    “Sarai impaziente di riabbracciare tua madre, ma prima vorrei che salissi da tua sorella, per rassicurarla e portarla qui: le sei mancato molto in questo periodo e ora che è nato un maschio… saranno mesi un po’ difficili per lei, Mirzam… Meissa ha bisogno di te, del tuo sostegno. Non sto cercando d’importi di tornare a casa facendo leva sul vostro affetto reciproco, ma…”
    “Non è giusto che la mamma e i miei fratelli soffrano ancora per le nostre dispute, lo so… abbiamo sprecato troppo tempo, ma… restano dei problemi oggettivi e potrebbe essere difficile…”
    “Possiamo risolvere ogni cosa, Mirzam, basta volerlo davvero… Non pretendo che tu mi dica subito di sì, ma vorrei che ci riflettessi… Abbiamo intenzione di passare l’inverno ad Amesbury e tornare a vivere a Londra, a Essex Street… e… Non credi che il tuo esilio sia durato abbastanza, Mirzam? Pensaci… E se puoi… accetta anche tu le mie scuse… sono stato troppo impulsivo e ho detto cose che non pensavo…”

Annuii e sospirando presi la destra che mi porgeva, poi corsi per le scale evitando di prolungare ancora quel confronto di sguardi, ormai fin troppo eloquenti, ben sapendo che il discorso non sarebbe finito lì; bussai e, senza attendere risposta, entrai: Meissa era crollata sul letto, sfinita, spaventata dalle frasi infelici dei Medimaghi, capaci di turbare persino me. Avvicinandomi, guardai fuori dalla finestra: quella lunga giornata si stava finalmente spegnendo in un magnifico tramonto.

    “Meissa…”

Le accarezzai la testa, scostandole una ciocca corvina dal viso: pur così piccola e fragile, avrebbe cambiato il destino della nostra famiglia. Ed era compito mio aiutarla a superare le sue paure, senza contravvenire al giuramento di silenzio fatto a nostro nonno. Invece avevo perso la testa e...

    “Mir…”
    “Scendiamo di sotto, Mei, c’è qualcuno che vuole conoscerci.”

Le sorrisi: mi era mancata, molto più di quanto volessi ammettere; e sapevo di averla ferita, andando via, ma da quando ero ritornato a casa, la gioia di riavermi accanto sembrava aver cancellato tutto. Ora, a turbare il suo musetto, restava solo la preoccupazione per nostra madre.

    “La mamma sta bene, non ti preoccupare, è stanca, starà a letto diversi giorni, certo, ma vedrai che gli "intrugli" di papà la rimetteranno in sesto e in un batter d’occhio sarà come nuova!”

Prima che finissi di parlare, mi si era già gettata tra le braccia, liberandosi nel pianto, provai a consolarla in silenzio, tremando a mia volta; era difficile muoversi tra quelle mura, o guardare in faccia mio padre e mia madre, ma era quando stavo con Mei che i ripensamenti diventavano più feroci. Per quante scuse avessi trovato, in quei mesi, per convincermi di aver fatto la cosa giusta, la verità era che la notte di Imbolc l’avevo tradita e abbandonata. Avevo affrontato la sorte con superficialità, incurante delle conseguenze, benché sapessi di rischiare la prigionia o la morte. Non avevo tenuto in alcun conto il dolore che potevo darle, né le cose terribili cui esponevo tutti loro.

    “Come hai potuto?”

Erano state quelle le prime parole che mi aveva rivolto giustamente mio padre, il mattino seguente, quando mi aveva raccolto dalle braccia di Donovan Kelly, più morto che vivo. Tremavo ancora mentre stringevo Meissa al mio fianco e ci dirigevamo di sotto, a conoscere il bambino. Erano passati mesi, la mia famiglia mi tendeva le braccia per riaccogliermi, ma non sapeva ancora tutta la verità: per mio padre avevo fatto una sciocchezza che aveva messo a rischio molte persone, ma infondo, era successo per un motivo in qualche modo comprensibile… Non sapeva ancora tutto il resto, non sapeva che da mesi non ero più me stesso e che la strada, che ormai avevo scelto, poteva trascinarli tutti con me, in un abisso oscuro.

***

Mirzam Sherton
la notte di Imbolc - sab. 31 gennaio 1970 - inizio flashback

“The Cove”, uno dei più malfamati pub di Nocturne Alley, era pieno come ogni sera, l’atmosfera era calda, eccitata, l’odore dell’alcool si fondeva a quello del sangue: quasi ogni notte là dentro scoppiavano risse, raramente risolte solo a colpi di bacchetta. La prima volta che ci avevo messo piede era stata un paio di settimane prima, naturalmente con Lestrange: ne eravamo usciti entrambi troppo ubriachi per ricordarci persino il nostro nome. Da allora, era diventato il nostro ritrovo preferito e sbronzarci una delle tante insane abitudini che ci concedevamo. I soliti due particolari mi distrassero da un paio di ceffi pronti a picchiarsi: avevo notato dal primo istante gli stendardi del Puddlemere affissi in alto, sopra il bancone, insozzati dal fumo e dai vapori del locale e, nella bacheca in fondo alla stanza, la foto ingiallita di mio padre ritratto dopo una delle sue tante vittorie.Trangugiai d’un fiato un bicchiere di Firewhisky: avevo già messo in conto che l’alba avrebbe dissolto anche quel sogno, insieme alle tenebre, perciò era inutile ripensarci adesso.

    “E con questo sono due i Sabba che ignori… che cosa mi combini, Sherton? Se domattina tuo padre ti appendesse per i pollici dalla torre più alta di Herrengton, avrebbe tutto il mio sostegno… anzi… se fosse possibile, vorrei un posto in prima fila, per godermi lo spettacolo! Ahahahah…”

Gli sorrisi sprezzante, ma non ribattei, anzi buttai giù un altro sorso, come se quel Firewhisky potesse colmare le sabbie mobili che sentivo risucchiarmi da dentro; le immagini evocate da Lestrange non mi toccavano, non ero più un ragazzino e all’alba, se mai avessi rivisto sorgere il sole, ritrovarmi di fronte a mio padre incazzato a morte, sarebbe stato l’ultimo dei miei problemi.

    “E sorridi! Perché sei voluto uscire con me, stasera, se apprezzi così poco la mia compagnia?”

Mi guardava con l’aria da cane bastonato, ferito dal mio crudele disinteresse, sperando di strapparmi una risata, io invece sentivo solo salirmi alle labbra un “Andiamo a uccidere…”, perciò rimanevo in silenzio e distoglievo lo sguardo da chi mi conosceva fin troppo bene, temendo che i suoi occhi potessero leggermi dentro. Da quando ero uscito da casa, scappando dall’abbraccio di mia madre con una menzogna, istante dopo istante avevo sentito le mie convinzioni vacillare e scivolare via. Avevo previsto che sarebbe successo, per questo volevo Rodolphus al mio fianco, perché sapevo che una sua sola parola mi sarebbe bastata per ritrovare volontà e coraggio. Così non rispondevo e bevevo sempre di più, mentre Lestrange mi osservava dubbioso, seduto di fronte a me, al tavolo. Non avevamo mai discusso tra noi di cosa fosse successo a Little Hangleton, prima del suo arrivo al seguito di Milord, non ne avevo voluto parlare e lui aveva rispettato il mio silenzio, ma sapevo che era l’unico cui potessi confidare le mie perplessità, senza rischiare di essere frainteso, deriso, o, peggio ancora, accusato. Alla fine, la mia prima impressione su di lui si era rivelata giusta, era un bastardo immorale, un giuda, vero, ma non nei miei confronti. Da sempre, c’era un groviglio di sentimenti strani tra noi, che s’ingarbugliavano ogni giorno di più, soprattutto da quando avevo salvato la sua preziosa Bellatrix: Rodolphus era l’unico che intuisse quanto mi fossi spinto oltre i miei limiti, ed io l’unico a scorgere quel minimo di umanità che gli restava. Per quanto mi conoscesse più di tutti, però, nemmeno lui immaginava cosa avessi in mente quella notte.

    “Allora, chiudiamo allegramente questa serata… Che ne dici di quelle due rosse laggiù? No, eh… Insomma, Sherton… non puoi rinunciare così alle femmine! Diventerai un monaco, di questo passo, e a me toccherà fare pure la tua parte! Mi avrai sulla coscienza, se ci resterò secco!”

Scoppiò a ridere, facendo un cenno inequivocabile e volgare verso due ragazzotte che ci puntavano fin dal nostro arrivo, mentre io scuotevo la testa, esasperato: Rodolphus faceva già paura a molti, ma per me continuava a essere solo l’idiota incorreggibile che conoscevo dai tempi della scuola.
 
    “Un giorno, Lestrange, anche tu troverai quella persona unica che ti entrerà nel sangue… e allora forse capirai…”

Di solito, alle mie parole, seguiva da parte sua una sequela di battute volgari e gesti scaramantici, ma quella sera rimase in silenzio ed io non me ne stupii troppo: sospettavo da un po’ che si fosse innamorato sul serio di Bellatrix, non era più solo una questione di sangue, di denaro o di lussuria; e per la prima volta, invece di compatirlo, lo invidiai. Era un’evidente pazzia, ma Rodolphus non avrebbe esitato, avrebbe fatto di tutto per realizzare i suoi sogni e alla fine l’avrebbe conquistata, al contrario di me che avevo rinunciato a Sile senza nemmeno combattere. Le mie vendette, i miei piani… Avevo creduto di poter cambiare il nostro destino, invece… Ero stato un buono a niente. Colpii il tavolo col bicchiere, reclamando un altro giro, vidi Rodolphus, preoccupato dalle mie condizioni, fare un cenno di diniego all’elfo accorso, ma io m’impuntai ed estrassi la bacchetta, ottenendo alla fine il mio ennesimo Firewhisky; bevvi, consapevole che nulla sarebbe bastato a spegnere il dolore che sentivo dentro: né uccidere, né morire. Eppure una forza mi spingeva a farlo, a qualsiasi costo. Rod guardò prima le Rune sulle mie mani, poi me. E sospirò.

    “Mirzam… Ora basta! So che giorno è oggi… so che cos’hai… Ma devi smetterla di abbatterti così, perché non esiste un solo motivo valido per rinunciare a lei: Sile ti ama ancora, la conosco, non può essere vera la storia che mi hai raccontato… E, se anche fosse, così non risolveresti niente… Hai mai pensato di affrontarlo, quel francese? Comunque vada a finire, spaccargli la faccia ti farebbe bene, molto di più di questo Firewhisky. Per lo meno non vivresti più nel dubbio e nel rimpianto…”
    “E le conseguenze, Lestrange? Non posso più fare solo ciò che voglio… Devo pensare anche…”
    “Conseguenze? Non puoi rinunciare al tuo bene, per paura delle conseguenze! Se un giorno la Confraternita finisse in mano a tuo fratello, a cosa sarebbe servito rinunciare a tutto ciò cui tieni? Stiamo parlando della tua vita: anche tuo padre, a suo tempo, ha scelto tua madre e ha mandato al diavolo le proprie responsabilità… Perché tu dovresti rovinarti la vita così?”
    “Io non sono mio padre! Lui aveva qualcuno per cui combattere, io… A me interessa guidare la Confraternita: farò di tutto per realizzare il mio sogno, quando sarà il momento… almeno questo sogno…”
    “E credi che i Maghi del Nord si accontenteranno di un capo che rinuncia? Il nostro mondo è sul punto di esplodere, Sherton! C’è bisogno di gente che sappia ciò che vuole e che sia disposta a tutto per ottenerlo, anche nella Confraternita! Tu lo sai cos’è giusto: te lo dice il cuore, da mesi, cosa va fatto, per il mondo magico, per le Terre del Nord, e per te stesso… Lo potresti imparare facilmente con Milord, lui ti aiuterebbe a superare i tuoi limiti, oltre a insegnarti magie portentose che nemmeno immagini… E alla fine, quando sentirà Milord con le sue orecchie, anche tuo padre si ricrederà e ti sarà grato, per averlo condotto a Lui. Ascolta il cuore, Mirzam, e avrai tutto: anche la vita che desideri con Sile!”

Mi mise una mano sulla mia: solo a sentire quel nome, il sangue aveva pompato così forte, che…

    “Sono già pronto a lottare, Lestrange, anche senza l’aiuto di nessuno, per avere ciò che mi spetta…”
    “So che ne hai la volontà, ma… per ora non riesci a uccidere nemmeno la feccia… Non te l’hanno mai insegnato. Che cosa accadrebbe se l’unica scelta possibile fosse uccidere?”
    “Stai dicendo che non ho le palle per uccidere? Mi stai dando del codardo, Rodolphus?”
    “Io non ho detto questo, Mirzam… Io…”
    “Proverò su di te, qui e adesso, se sono capace di uccidere! Vieni fuori e affrontami da uomo, Lestrange!  O sei tu che non hai le palle per combattere?”
    “Io? Che diavolo stai dicendo, Sherton? Io non…”
    “Preferisci scommettere 50.000 galeoni che difendere il tuo onore? Va bene, giochiamoceli! Vedrai, se so ammazzare: prima dell’alba, cancellerò quel sorriso idiota dalla faccia, a te e al tuo dannato Milord”
    “Dico… sei impazzito? Siediti e smettila!”

Mi ero messo in piedi, barcollante, in mezzo alla calca del pub: anche se in pochi ormai sembravano avere il dominio del proprio corpo e della propria mente, Rodolphus mi guardò allibito, poi rapido mi aveva tirato giù a sedere, imponendomi il silenzio. Solo un pazzo poteva parlare ad alta voce di Milord in pubblico e giocarsi tutto quello che possedeva. Io non mi arresi, continuai a pungolarlo, fino a convincerlo: si calmò solo quando calcolò che, in poche ore, si sarebbe ritrovato con una valanga di tintinnanti galeoni in mano, così, ghignando, mi tese la destra e sancimmo il patto. Non aveva capito che era per questo che ci trovavamo lì, quella sera: volevo che sembrasse il delirio di un povero ubriaco, provocato dalle sue filippiche, perché non avrei mai trovato la forza di dirgli su cosa avessi riflettuto nelle ultime settimane, fino a convincermi che fosse l’unica scelta possibile. In silenzio, uscimmo nel gelo di Londra, l’orologio di Westminster segnò le tre della notte: avanzammo nella neve, i suoni erano attutiti, mi arrivavano solo gli scricchiolii della ghiaia mista a ghiaccio sotto gli stivali. La determinazione e il freddo mi schiarirono la mente e la paura mi strinse il cuore: alla fine, dopo tanti dubbi, stavo per farlo davvero. Sospirai. Rodolphus prese l’iniziativa ed io, perso nei miei pensieri, mi lasciai condurre: scivolammo fino a uno dei ponti sul Tamigi, immaginava che, la prima volta, mi accontentassi di una preda facile, babbani provati da malattie, alcool e freddo, ma io mi fermai, non era quello che avevo in mente. Lestrange, credendo ci avessi già ripensato, tese la mano, sorridente, reclamando i suoi galeoni.

    “Quanta fretta! Rifiuto il terreno di caccia che hai scelto per me: non mi piace! Se permetti…”

Mi guardai attorno, barcollante, non poteva prendermi sul serio, o sospettare qualcosa, perché avevo già rischiato un paio di volte di perdere l’equilibrio e di cadere nella neve e, infatti, non si meravigliò quando lo arpionai al braccio, fingendo di sorreggermi di nuovo a lui. Proprio come mi aspettavo. Stavolta, però, non volevo sostenermi, ma smaterializzarlo lontano da lì, insieme con me.

*

Arrivammo in riva a un fiume, immersi nell’oscurità, rotta solo dalle timide luci di fiaccola, che punteggiavano una strada affacciata sugli argini. Risalimmo il greto con qualche difficoltà, a causa del ghiaccio, nelle orecchie sentivo solo il borbottio continuo e sommesso di Rodolphus che, disorientato, infreddolito e, soprattutto, arrabbiato, non riusciva a capire dove fossimo. Raggiunta la strada, attraversammo la cittadina deserta senza esitazioni, in silenzio, sicuri che nessuno si sarebbe accorto di noi, vista l’ora tarda e il freddo. Una volta raggiunto l’edificio che mi tormentava da mesi, però, persino la faccia di bronzo di Lestrange si velò di legittima preoccupazione.

    “Non c’è bisogno che tu mi segua, Rodolphus: mi basta che tu sappia…”

Rodolphus osservò sbalordito prima me, rendendosi conto che ero serio e molto meno sbronzo di quanto avessi finto, poi la sagoma oscura e inconfondibile che si stagliava davanti a noi.

    “Hai progettato bene la tua trappola per attirarmi qui: ed io sono stato uno stupido a caderci… ora spero che tu abbia progettato altrettanto bene tutto il resto, perché questo non è uno scherzo…”
    “Se non l’hai ancora capito, Lestrange, stanotte non ho alcuna intenzione di scherzare…”
 
Mi guardò, fu la prima e unica volta che lo vidi senza il suo ghigno ironico stampato in faccia.

    “Allora sei solo un pazzo, Sherton!”
    “Probabile… ma come hai detto anche tu, vivrei nel rimpianto per tutta la vita, se non lo facessi…”
    “Non sono stato io a suggerirti di fare la cazzata della tua vita, Sherton, perché, ricordalo, questa è solo un’enorme cazzata: finirai ad Azkaban o sotto terra, se metterai piede là dentro!”

Scoppiai a ridere, una risata tesa, isterica, assolutamente disperata.

    “E credi che non lo sappia? Credi che mi preoccupi di morire o di finire ad Azkaban, a questo punto? La mia vita è finita, Lestrange, non importa cosa accadrà domani… perché questa notte io porterò Lucien Corso con me, all’inferno …”

Non vidi la sua espressione, celata nel buio, ma sentii il suo profondo sospiro. Poi la sua mano strinse il mio braccio: la prima volta che lo vidi, al tavolo dei Serpeverde, anni prima, mi aveva preso allo stesso modo, davanti a tutti. Pensai fosse il suo modo di dirmi addio. La sua voce vibrò nell’aria gelida della notte, in una nuvola di vapore, riportandomi al presente.

    “Andiamo…”
    “Che cosa? No! Tu non c’entri niente, Lestrange… Perché mai dovresti…”
    “Non resterò a guardarti affrontare da solo questa follia, Sherton: sei l’amico migliore che ho…”

*

L’ingresso principale della Cancelleria, un enorme portone di metallo scuro e pesante, su cui era stata impressa la forma della spada di Hifrig, era incassato in un portale di pietra nera, di epoca medievale, decorato con dei mostri raccapriccianti, proprio al centro di una bella facciata squadrata. Divisa orizzontalmente a metà da due serie di archetti ciechi, in basso ospitava due ordini di nicchie, contenenti le statue dei dodici Maghi del Nord che avevano fondato la cittadina. Nella parte superiore, invece, sormontato da un altro paio di ordini di archetti, e stretto tra due lesene decorate con due draghi rampanti, si apriva il maestoso finestrone ad arco ogivale, chiuso da vetrate e ripartito in riquadri da un pregiato ricamo di colonnine tortili. Le varie formelle vetrate, intervallate da simboli cabalistici, narravano le imprese di Salazar e della Confraternita, e circondavano, nella parte centrale, una vetrata unica, più grande, in cui, anche alla luce della luna, rilucevano lo smeraldo e l’argento delle due serpi di Herrengton, intrecciate a sorreggere Habarcat. Lateralmente, arretrati rispetto alla facciata, e non molto più alti di essa, s’innalzavano due campanili dalla forma tozza; fin dalle origini, fungevano uno da marcatempo e l’altro da patibolo: quest’ultimo era tragicamente noto in tutto il mondo magico, alla stregua di Azkaban, perché per secoli lì erano state eseguite le sentenze di morte di tutte le Terre del Nord. E certe nostre leggi, pur non applicate da oltre un secolo, non erano mai state abrogate, nonostante le pressioni del Ministero della Magia: potevo perciò immaginare cosa pensasse Lestrange, in quel momento, e rispettai il suo silenzio teso, pronto a ripetergli di nuovo che non aveva obblighi nei miei confronti e che non doveva seguirmi. Girammo su uno dei lati lunghi dell’edificio, mascherandoci nella notte: all’orizzonte, bagliori continui annunciavano l’arrivo di una tempesta. Al buio, senza usare la magia, cercammo uno degli ingressi di servizio: sapevo che ce n’era uno a circa metà strada, che immetteva in un angusto corridoio e, da lì, tra l’altro, alle scale scivolose e ripide, che portavano al deposito dei documenti, inviolabile almeno quanto le camere della Gringott. Si diceva che ci fossero Orchi dalle cento teste, a montare la guardia, in realtà c’erano solo complicati Incantesimi di Disillusione, che intrappolavano gli intrusi, obbligandoli a percorrere, per ore, sempre gli stessi pochi metri di corridoio, in preda a terrificanti visioni, finché, prossimi alla pazzia, non erano soccorsi dai custodi.

    “Solo dei barbari potevano scegliere un luogo tanto sinistro per celebrarci feste e rituali…”
    “Che cosa vuoi dire?”
    “Salazar, Sherton! Era un carcere, un luogo di morte, come fate a festeggiare qui dentro?”
    “La torre era l’unico edificio del complesso con quella funzione, Rodolphus: la Cancelleria è molto di più, per le Terre del Nord questo luogo è sacro quasi quanto Herrengton! Entra e capirai…”
    “E come pensi di farlo? Non puoi certo dire soltanto “ALOHOMORA”…”
    “Tu dici?”

Appoggiai le mani sulle ante del piccolo portale e queste si aprirono, sotto gli occhi stupefatti di Rodolphus, lasciandoci entrare: la Cancelleria sentiva il potere di Herrengton fluire attraverso le mie Rune e si sarebbe perciò piegata a esse e alla mia volontà. Ogni Sherton, a meno di non essere ripudiato, vedeva riconosciuto il proprio sangue in tutte le Terre del Nord: secondo mio padre, era un potere eccessivo e, tra i suoi obiettivi, c’era quello di limitare questi nostri privilegi. Io condividevo le sue posizioni ma, quella notte, forse per l’ultima volta, i poteri della mia famiglia, grazie ai segreti incantesimi risalenti a ottocento anni prima, non solo mi avrebbero fornito un aiuto vitale, ma rappresentavano, ai miei occhi, la benedizione dei miei avi alla mia impresa, confermandomi che ero nel giusto, che potevo andare avanti. Che potevo, legittimamente, uccidere.
I locali della Cancelleria, aperti al pubblico, erano usati come uffici in cui si amministravano gli interessi della Confraternita; durante i Sabba, però, si poteva accedere solo ai portici e ai chiostri, trasfigurati così da rievocare l’antichissimo bosco di Doire, semidistrutto tre secoli prima dai Babbani e, solo in minima parte, protetto e conservato ancora a ridosso di quelle mura. Trasfigurammo i nostri abiti in lunghe tuniche grigie, tipiche della ricorrenza di Imbolc, poi ci inoltrammo per uno stretto corridoio, appena illuminato dalla luce lunare, che filtrava da una serie di cortili interni: a mano a mano che procedevamo e ci avvicinavamo al luogo in cui si stavano celebrando i riti, una teoria di luci fatate, sempre più corposa, illuminava le pareti, danzandoci sopra come per guidarci. Il corridoio finì confluendo in un portico, che circondava un chiostro ampliato magicamente tanto da sembrare una vera radura, delimitata da alberi e cespugli e illuminata dalla luna. Ci addossammo alle colonne, nell’oscurità: numerosi Maghi e Streghe, scalzi, vestiti con lunghe tuniche grigie ricamate di argento e di smeraldo, il volto celato dai cappucci, stavano immobili con una candela in mano, salmodiando in gaelico, in piedi attorno a un cerchio di pietra, da cui zampillava l’acqua di una sorgente. Sarebbe stato quello lo scenario del mio primo omicidio? Sentii le gambe piegarsi e la paura afferrarmi alla gola.

    “La Cancelleria è molto più grande di quanto appaia da fuori, o è solo frutto della magia?”

Ammiravo la capacità di Rodolphus di estraniarsi da quello che stavamo per fare: si guardava attorno, disorientato, perché il buio e una magia simile a quella che anima il soffitto della Sala Grande a Hogwarts, permettevano di intravedere appena, attorno e sopra di noi, la sagoma dell’edificio che ci ospitava. Chi partecipava ai riti, infatti, doveva avere la sensazione di essere all’aperto, nel vero bosco, e non all’interno di un edificio costruito dall’uomo. Mi guardai intorno sperando di individuare Corso e Sile, ma nonostante i fuochi accesi e la luna, era troppo buio: c’erano candele distribuite a terra in punti strategici, a formare simboli cabalistici, tutte orientate verso il cerchio di pietra, un tappeto di petali ricopriva il terreno, e ovunque erano bruciati incenso ed essenze, creando un leggero velo di fumo che rendeva incerta la vista. Osservai lo spazio di fronte a noi: dall’altra parte del chiostro, s’innalzava un’ara di alabastro, incassata in una parete di pietra grezza e, sopra, un candelabro di argento e smeraldi, con sei candele che si sarebbero spente una dopo l’altra, entro l’alba. L’ultima si sarebbe estinta al sorgere del sole, mettendo fine alle mie speranze: fui preso dal panico quando vidi che tre erano già consumate e altre due erano prossime a farlo. Dell’ultima era rimasta appena metà della cera: Sile e Corso, perciò, erano ormai nel bosco.

    “Entrare è stato facile, lo ammetto, ma ora, non ci basteranno più le tue Rune: nonostante sembrino imbambolati, qui c’è almeno un centinaio di persone, e noi siamo solo in due. Qual è il tuo piano?”
    “Che cosa?”
    “Sveglia Sherton: il piano! Qual è la prossima mossa? Hai un piano, vero?”
    “Sì, certo… Devo trovare Sile…”
    “Questo lo so… Salazar! Non sarà solo questo il tuo piano? Dimmi che… No! Maledizione! No!”
    “Rodolphus, calmati! So dove sono Sile e Corso… ma tu dovrai restare qui: non hai relazioni con le Terre del Nord, non puoi seguirmi oltre… imbucati tra gli invitati, nessuno si accorgerà di te, sono tutti presi dal rito…”
    “Così m’impiccheranno con te, domattina! No, grazie! Ci serve un diversivo…”
    “Un centinaio di Maghi non ci metterebbe molto ad annullare qualsiasi tuo diversivo! Fai come ti ho detto e non correrai rischi. Io attraverserò il portico, dietro l’ara c’è un passaggio, Sile e Corso sono dall’altra parte, tornerò prima che quelle candele si spengano e scapperemo insieme…”
    “Le candele sono quasi del tutto consumate, te ne rendi conto?”
    “Lo so… dammi la mano e prometti di ascoltarmi: se vedi che ci metto troppo, probabilmente… non esitare, scappa, fai il percorso inverso, la porta ora ti riconoscerà e si aprirà al tuo tocco…”

*

Dalla penombra del portico, accucciato a terra, mi mossi rapido tra le colonne e gli alberi, fino a guadagnare l’altro lato del chiostro: ombra tra le ombre, nessuno si curò di me, tutti presi dal rito del fuoco e dell’acqua. Con cautela, mi avvicinai all’ara, guardai quell’ultima candela che, tremolando, segnava il tempo e m’insinuai nella fenditura della parete, dietro l’altare: il muro era formato da due lame di pietra grezza, così vicine da sembrare un tutt’uno, in realtà sfalsate in modo da permettere a un uomo adulto d’infilarsi a stento. Era il passaggio per il santuario di An Feabhail, che custodiva i resti del bosco sacro: davanti a me si aprì il sentiero, che si snodava, selvaggio, in quella foresta sospesa in un’illusoria primavera e illuminata dalla luce tenue che precede l’alba. Mi lasciai rapire da quella magia, da cui mi riscossi a stento, poi avanzai con la forza della disperazione, tendendo l’orecchio per sentire la voce di Sile. Quando il bosco si aprì formando un cerchio di dodici querce secolari, quasi in riva al fiume Foyle, mi trovai davanti alla stessa apparizione che, tanti secoli prima, convinse i dodici Maghi del Nord, giunti in Irlanda in cerca di una nuova terra, a fermarsi lì, sotterrare al centro di quella radura una delle reliquie di Salazar e fondare An Feabhail. L’atmosfera mistica di quel luogo ricordava la grotta di Salazar, a Herrengton: chiusi gli occhi e mi lasciai permeare da quanto mi circondava, permettendo al mio spirito di fondersi con quello che animava il bosco; vidi con la mente i tasselli andare al loro posto e capii il vero motivo che mi aveva spinto lì.
Dovevo lasciare che il mio amore combattesse al posto della mia bacchetta, o avrei perso tutto. Se il prezzo da pagare, per riavere Sile, era diventare un assassino, allora avrei scelto di perderla, perché se mi fossi trasformato in ciò che non ero, in un mostro, non avrei più nemmeno avuto occhi puri per guardarla, né mani degne di toccarla. Spargendo sangue, avrei comprato l’alleanza di chi l’avrebbe costretta a sposarmi con la forza, certo, ma non il suo amore: l’amore non si compra, tantomeno col sangue. Tantomeno il suo amore: l’amore di Sile non era mai stato e non sarebbe mai stato in vendita… Lo avevo imparato, a mie spese, tanto tempo prima. Forse, quella notte avrei avuto un’ultima occasione per provare a riconquistarlo, ma dovevo dimostrare di avere ancora fede nell’amore puro che avevamo condiviso. Mentre quelle verità si facevano strada nella mia mente, percepii delle voci che sussurravano in francese; mi celai dietro un albero, per riordinare le idee: prima che la candela si spegnesse, Sile doveva ascoltarmi, poi avrei accettato il mio destino... Mi guardai intorno e la vidi seduta sul tronco di un albero: sembrava un’apparizione eterea, una fata, con il lungo e ampio abito cerimoniale, i capelli bruni lasciati sciolti e l’aria assente. Corso era in piedi, le dava le spalle, impegnato a discutere con il Mago che avrebbe officiato il rito. Immaginai che, per quell’idiota, Sile costituisse solo un matrimonio vantaggioso con una famiglia ricca e potente del Nord, per questo l’odiai ancora di più, ma mi riempii anche di speranza, perché così forse sarebbe stato più facile separarli. Lo osservai: doveva avere circa venticinque anni, era un bel giovane, appena più alto e robusto di me, con i capelli e gli occhi scuri e i modi curati ed eleganti da francese. Ma più lo guardavo, più mi convincevo che il suo non fosse uno sguardo innamorato. Per questo, quando il Mago si allontanò e, rimasti soli, dopo essersi inginocchiato ai suoi piedi e averle preso teneramente il viso tra le mani, Corso iniziò a baciarla con passione, rimasi incredulo e ferito, come se mi avessero inferto una coltellata mortale in pieno petto; mentre Sile rispondeva a quel bacio con trasporto, facendo crollare le mie ultime illusioni di fronte all’amara verità, la furia omicida che credevo di aver placato, ritornò a impossessarsi della mia mente. Mi scostai dall’albero, estrassi la mia bacchetta, superai un cespuglio. Sile, ancora stordita dal bacio, non sentì il frusciare delle foglie, Corso invece, allarmato, sì staccò da lei e, per quanto fosse possibile in quella sciocca posizione, le si parò davanti per proteggerla, senza avermi ancora nemmeno visto.

    “Allontanati da lei, francese…”

Avanzavo verso di lui, dal lato sinistro: lanciai un leggero incantesimo, con cui bruciai delle foglie ai suoi piedi, perché si voltasse verso di me. Non ero un vigliacco, non l’avrei colpito alle spalle.

    “Salazar… Che cosa succede, qui? Chi osa…”

Il “sacerdote”, tornato indietro quando aveva udito una voce sconosciuta, non riuscì a completare la frase perché gli lanciai un PETRIFICUS e continuai ad avanzare. Sile balzò in piedi: non mi sfuggì la rapidità con cui la sua mano andò ad abbassare la bacchetta sguainata da Corso appena mi mise a fuoco; Lucien la guardò, confuso, ed io in quel gesto lessi l’invito di Sile a non fermarmi. Ora, però, era lei a frapporsi tra Corso e me.

    “Monsieur, non potete restare qui… questo è un bosco sacro e…”
    “Fai silenzio e combatti!”
    “Lucien!”

Pronunciai due parole in gaelico, furioso, e Corso, colpito in pieno petto, andò a sbattere contro la quercia che stava dietro di lui: aveva perso la bacchetta e aveva una piccola ferita a un braccio, forse si era graffiato su dei rami. La soddisfazione nel vedere sparso il suo sangue placò un po’ la mia furia e attesi che si riprendesse e recuperasse la sua arma. Sile si piegò per soccorrerlo e prestargli aiuto, ma lui fece un gesto brusco per allontanarla, alzandosi da solo e pulendosi del terriccio che aveva addosso.

    “Mirzam Sherton, presumo: colui che mi giurò morte, e non ebbe mai il coraggio di affrontarmi… Che cosa vi porta qui, stanotte?”
    “Quello che avrei dovuto fare, fin dall’inizio…”
    “Un po’ tardi, Monsieur… vi resta giusto il tempo di guardarci scambiare anelli e promesse… Direi un ottimo motivo per fuggire subito a casa, a piangere sulla vostra codardia…”

Sile lo guardò con occhi sgranati e feriti, Lucien le fece un gesto d’ironica sufficienza e le ordinò di mettersi al riparo, poi si preparò al duello: non vedeva l’ora di darmi una lezione. Da parte mia, ero fermamente intenzionato a fare altrettanto, ma anche a non cedere a quelle provocazioni: proprio perché si trattava di un odioso sbruffone, mi ripromisi di combattere in modo deciso ma leale, senza più ricorrere alla magia del Nord, così che Sile vedesse, di là dalla forza, chi fosse il migliore. Fin dalle prime battute, mi resi conto che era un avversario deciso, abile nelle finte e nei tranelli, e a usare fatture e incantesimi al limite della legalità: sarebbe stato un ottimo Serpeverde a Hogwarts, astuto com’era. Peccato fosse anche un vile: quando, con un paio delle sue finte, mi colpì in pieno e caddi a terra, mi lanciò a tradimento anche una leggera fattura, poi scoppiò a ridere, ritenendo chiuso lo scontro.

    “Siamo già stanchi, Monsieur? Questo è combattere, non recitare favolette antiche nei boschi…”
    “Sì, sono stanco, francese… stanco di sentire le tue offese alla nostra Terra…”

Appena mi risollevai, provai a centrarlo, invano, con due potenti Schiantesimi, ai quali reagì con un paio di mosse tutt’altro che leali: avevo sbagliato a valutarlo, Corso non era il damerino incapace e smorfioso delle mie fantasie, ed io non ce l’avrei mai fatta a sconfiggerlo così, non avevo il tempo, non avevo le forze e forse nemmeno la cattiveria sufficiente. Per vincere, non potevo continuare a combattere lealmente, lo sapevamo entrambi, ma questo significava rinunciare al mio onore o, insieme a Sile, avrei perso anche il mio orgoglio. Per un soffio, riuscii a evitare il suo nuovo Petrificus, ma non la fattura che arrivò subito dopo: mi colpì in pieno, talmente dolorosa da togliermi il fiato e mettermi in ginocchio. Mentre provavo, invano, con le poche forze che mi restavano, a rialzarmi, Lucien ricominciò a farsi beffe di me, con quella sua dannata voce nasale: anche lui era stanco, e sperava che provocandomi, reagissi in maniera inconsulta, così da potermi umiliare definitivamente di fronte a Sile.

    “Allora? Che cosa c’è? Vi manca il fiato, Monsieur, o vi siete solo nascosto dietro a quell’albero?”

Mi sostenevo a una quercia per riprendere fiato, tutte le sue ultime mosse erano state difficili da schivare e l’ultima mi aveva preso in pieno, ma con la forza della disperazione e dell’orgoglio mi rimisi in posizione, pronto a duellare ancora: sentivo la gamba destra incapace di sorreggermi a lungo e il calore del sangue fluire da un taglio sulla mano sinistra e dal naso. Ma sarei morto piuttosto che arrendermi. Ferito, spaventato, confuso, quel francese aveva sbagliato a giudicarmi, almeno quanto io avevo sbagliato con lui all’inizio: con le mie ultime forze, quando ormai non ce l’aspettavamo più nessuno dei due, riuscii ad assestare un colpo violento che gli fece perdere l’equilibrio. Corso cadde a terra, ai piedi di una delle querce e la bacchetta gli volò lontano. E ora, la mia era puntata alla sua gola: mi guardava, carico di disprezzo, avrei voluto sottoporlo per poco a un incantesimo che gli impedisse di respirare, giusto per vedere la sua paura, ma me ne mancava la forza.

    “Chi è quello finito, Monsieur?”
    “Perde chi muore, Sherton… e voi non avete il coraggio per andare fino in fondo…”
    “Ne sei sicuro francese? Intanto goditi un po’ di dolore… CRUCIO!”
    “NO!”

Sile, che aveva pianto per tutto il tempo, accorse per soccorrerlo, vedendolo contorcersi, ma dovette fermarsi a un passo da noi, quando la mia bacchetta si spostò su di lei e fu certa che non l’avrei abbassata. Impallidì, ma non provò a fare niente per difendersi, rimase diritta e fiera, in silenzio, fissandomi risoluta, frapponendosi tra me e Corso che stentava a riprendersi dalle fitte: era pronta a morire per salvare il suo francese. Ma non a combattere contro di me per salvarsi. Nei suoi occhi mi sembrò di leggere quello che volevo, quello che speravo. Indecisione. Provava ancora qualcosa per me?

    “Se non ci vedrà tornare prima che si spenga la candela, mio padre verrà qua a cercarci… E tu non avresti scampo… Se te ne vai ora, invece… Hai vinto tu… Il duello è finito! Salvati!”
    “Non sono venuto fin qui per fuggire o vincere un duello…”
    “Ti prego; Mirzam… non puoi pensare davvero di ucciderlo… non servirebbe a niente e te ne pentiresti per tutta la vita…”
    “Non è uccidendolo che riconquisterei il tuo amore, lo so, e questo idiota è troppo meschino perché mi sporchi le mani col suo sangue, ma non permetterò che… EVERTE STATIM!”

Mentre Lucien cercava invano di rialzarsi, dopo il violento colpo che l’aveva sbalzato lontano da noi, lamentandosi del dolore a una gamba, presi Sile per un braccio e, di corsa, la trascinai con me per un tratto del sentiero, continuando a tenerla sotto tiro perché non provasse a sfuggirmi o a gridare, benché non ne avesse alcuna intenzione: aveva capito che non avevo cattive intenzioni, che volevo un ultimo istante, da solo, con lei, per parlarle. Ormai vicini alla fenditura, mi fermai di fronte a lei, potevo già intravvedere le travi del portico sopra le fronde degli alberi, appena pochi centimetri di pietra grezza ci separavano dagli altri: se Sile avesse gridato, per me sarebbe stata la fine, ma i suoi occhi dicevano che non l’avrebbe fatto.

    “Mirzam… Mi spiace che le cose siano andate così… Mi spiace per questa notte, ma… Non è cambiato niente rispetto a qualche mese fa… io… quello che dovevamo dirci… è già stato detto... ”

La guardai, il mio sguardo pieno di orgoglio e di amore per lei s’intrecciò al suo, carico di domande e incertezza, quando iniziai a sollevare lentamente la manica sinistra e, porgendole il braccio, riuscì a vedere che la mia pelle era decorata solo dalle nostre Rune.

    “Salazar… Io credevo che tu…”
    “Mi hanno mostrato quella strada, Sile, per riaverti… ma non è ciò che sono… Salazar solo sa, quanto abbia desiderato farlo, con quali pensieri sono arrivato fin qui… ma nel bosco ho aperto gli occhi…”

Un coro di voci concitate si librò di là della fenditura, interrompendo l’atmosfera di assoluta complicità che si era ricreata tra noi: Sile guardava e toccava il mio braccio con sorpresa e commozione, capii che parte delle sue decisioni su di noi, si basava su notizie errate che aveva avuto sul mio conto. E ora, forse troppo tardi, aveva saputo la verità: l’ultima candela doveva essersi spenta e il mio tempo, il nostro tempo, era finito. Esitai, spaventato. Alla fine ero di fronte al risultato di tutta quella follia, all’ultima parola, quella definitiva, di Sile su di noi: temevo di sapere il perché della tristezza che leggevo nei suoi occhi, pur amandomi ancora, non c’era più nulla che uno di noi due potesse fare. L’avevo persa quel lontano mattino di agosto, nel momento esatto in cui eravamo diventati una cosa sola. Sentii le lacrime scaldarmi la faccia, poi un sibilo odioso, dietro di me, mi riportò al presente.

    “Preparati a morire, Sherton!”

Mi voltai, Corso aveva recuperato la bacchetta e, pur dolorante, ci aveva inseguito.

    “LEVICORPUS!”
    “STUPEFICIUM!”
     “PROTEGO!”

Avevo provato ad appenderlo per aria per una caviglia, ma l’avevo mancato e, a sua volta, Corso mi aveva scagliato addosso uno dei suoi potenti Schiantesimi. Sile, nel disperato tentativo di concludere quel discorso, prima che gli altri irrompessero dalla fenditura, oscillò verso di me facendomi scudo e deviando l’incantesimo del francese. La sorressi per non farla cadere, proprio nell’istante in cui l’imponente figura di Donovan Kelly emerse dal passaggio, davanti a tutti gli altri, allucinato, la bacchetta sguainata: vedendomi così, nascosto dal cappuccio che avevo rialzato, appena avevo sentito le urla di là della parete, immaginò che stessi trattenendo Sile con la forza e che mi stessi nascondendo dietro di lei come un vigliacco. Molti degli altri invitati si affollarono attorno a noi, angosciati per la sorte di Sile, mentre un piccolo drappello corse avanti e, poco dopo, dal bosco, riecheggiarono le urla di chi aveva trovato il “sacerdote” petrificato. Corso, con gli occhi iniettati di sangue, nella confusione riuscì a strapparmi Sile dalle braccia per consegnarla a suo padre e, puntandomi la bacchetta alla gola, mi sollevò il cappuccio dalla testa rivelando a tutti la mia identità.

     “Monsieur Kelly… Quest’uomo è un pericolo per tutti noi… Ha ucciso il sacerdote e voleva uccidere anche vostra figlia e me…”
    “Non è vero, stai mentendo Lucien…”
    “Quando smetterai di difenderlo? Ha quasi ucciso me e ti ha portato qui, sola, in mezzo al bosco, Merlino solo sa per farti cosa…”

Sile cercò di spiegare che cos’era successo per provare a salvarmi, ma Corso le impedì di continuare, con le sue assurde accuse: la mia situazione era seria, ma lo sguardo che Sile mi lanciò, mi ripagò di tutto quello che avrei potuto soffrire da quel momento in poi. Era ancora al mio fianco, non era stato tutto inutile.

    “Salazar… Non può essere… Questo è il figlio di Alshain… lo riconosco… Che cosa ci fai qui Mirzam? Deve esserci assolutamente un errore… Abbassate quelle bacchette!”

Mi voltai verso il Mago che mi aveva riconosciuto e ora parlava per me, facendosi largo tra la folla: era un vecchio imparentato col marito di mia zia, uno che sicuramente sapeva quale legame ci fosse stato in passato tra me e Sile e forse considerava nel modo giusto le ferite che io e Corso avevamo addosso. Da parte mia, stavo per dire a tutti di chiedere a Donovan Kelly perché fossi lì quella sera, quale patto mi avesse proposto, ma Corso, come impazzito, mi puntò di nuovo la bacchetta addosso e, cogliendoci tutti di sorpresa, emise la sua sentenza personale nei miei confronti.

    “AVADA…”
    “NO!”
    “Salazar! E’ sotto Imperius!”

Il vecchio cercò di disarmarlo, altri lo aiutarono, si creò molta confusione: fu allora che un rumore sinistro si levò sopra le nostre teste, ancor prima che il getto di luce verde iniziasse a prendere forma dalla punta della bacchetta: alzammo gli occhi e vedemmo, con orrore, le travi del portico divorate dalle fiamme e il soffitto che a pezzi iniziava a crollarci addosso. D’istinto, senza pensare a niente, mi lanciai sulla figura di Donovan, vicino a me, per strappargli Sile dalle mani e cercare di metterla in salvo. Nel caos, la bacchetta di Corso cadde a terra e la maledizione non fu pronunciata per intero; gli altri Maghi scapparono in tutte le direzioni, per salvare se stessi e il bosco, io cercai solo di proteggere Sile, ma con tutto quel fumo e la confusione, rimanemmo indietro e sbagliammo direzione. Ci ritrovammo catturati nell’inferno: le travi si schiantavano a terra, sollevando polvere e soffocando le fiamme, liberando ancora più fumo, la pressione del soffitto e il calore fece esplodere le due lastre di pietra, così ci ritrovammo sbalzati via, cademmo a terra e restammo schiacciati dalle macerie. Eravamo prigionieri, nel buio, senza aria, senza la possibilità di muoverci, e tutto sembrava scivolare via fino a sparire: l’ultima cosa che, ormai semicosciente, percepii fu Sile, ancora stretta a me, il suo calore e il suo respiro sempre più deboli al mio fianco, sotto le macerie. E il suo profumo di fiori… ma forse quella era solo una mia fantasia, come certamente era solo una speranza, la mia ultima speranza, la sua voce che ruppe per l’ultima volta il silenzio.

    “Ho amato solo te…”
fine flashback


*continua*


NdA:
Ringrazio quanti hanno letto, aggiunto a preferiti/seguiti, recensito ecc ecc.

Valeria



Scheda
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