Ordunque.
Eccomi tornata
con un nuovo capitolo di questa Fanfic, che mai mi sarei aspettata di
continuare, non tanto per mancanza di voglia, ma per mancanza di
ispirazione. Sono
sempre stata convinta che scrivere un capitolo per forza,
“per portare avanti
la storia” fosse inutile e stupido, dunque ho preferito
aspettare l’ispirazione
per buttare giù le stesse idee che continuano a frullarmi in
testa dal giorno
in cui questa storia è nata… il fatto che ci
abbia messo così tanto è
sicuramente imperdonabile, e chiedo umilmente scusa. Spero che questa
attesa
sia servita a produrre qualcosa di decente… in caso non
fosse così, vi prego di
farmelo sapere ;) (ma anche si vi piace, eheh)
Many
kisses,
J.
P.s.
risponderò
volentieri alle eventuali recensioni di questo capitolo e dei
precedenti nel
prossimo aggiornamento, che non dovrebbe tardare…
TAKE
A BREATH
Artemis
tornò nella cabina, e si sedette al posto di guida, senza
però concentrarsi
effettivamente su ciò che stava facendo. In quel momento,
infatti, stava
cercando di distogliere la sua mente da quel fastidiosissimo senso di
colpa di
cui tanto si vergognava. Avevano la sua età, quei ragazzi,
nel retro
dell’aereo. Quella ragazza che l’aveva aiutato ora
era in pericolo per lui.
Cercò di distogliere i suoi pensieri da ciò,
ricordandosi che il giorno dopo,
se non quello stesso giorno, non avrebbero ricordato più
nulla, grazie
all’intervento della Lep. Uno Spazzamente e via, sarebbe
finito tutto, e lui
sarebbe tornato a essere quel freddo, cinico e vincente genio di sempre.
O
almeno
così sperava.
Odio
puro
e profondo. Era tutto ciò che Elinor riusciva a provare in
quel momento, e
questi ben poco cordiali sentimenti le impedivano di provare la paura
che
invece sembrava attanagliare tutti gli altri.
Ci
voleva
ben altro, tuttavia, per farla sentire coraggiosa, in quel momento. La
paura la
colse di colpo, e la trovò impreparata e indifesa:
l’aereo stava rallentando.
Un milione di domande le affollò la testa, impedendole di
formulare un
qualsiasi pensiero di senso compiuto; non sentiva nient’altro
che terrore,
irrequietezza, e la terribile sensazione di non poter fare proprio
nulla per
cambiare la situazione: dove stavano andando? Dove stavano atterrando?
Dopo
un’ora e mezza di viaggio avrebbero potuto trovarsi ovunque,
o quasi. Si
affacciò al finestrino, ma una coltre di nubi le impediva di
vedere il terreno.
Presa
da
un’irrefrenabile voglia di muoversi, di fare qualcosa, e dal
presentimento che
lo star ferma l’avrebbe fatta impazzire, si alzò,
e si diresse con passo fermo
verso il sedile occupato da Arianna: la ragazza dormiva, stretta
nell’abbraccio
di Luca, che invece la fissava in silenzio. Vicino a loro
c’era Giova, che
fissava il vuoto con un’espressione indecifrabile. Elinor
prese una tazza e
bevve un altro sorso di tè, senza neanche accorgersi che era
ghiacciato, tanto
era immersa nei suoi pensieri.
“Stiamo
atterrando” disse, con una voce talmente ferma da sorprendere
perfino sé
stessa.
Alle
sue
spalle, Lorenzo alzò gli occhi. La sua quasi impercettibile
reazione fu
l’unica. Il resto del gruppo rimase fermo, in perfetto
silenzio, come in una
sorta di trance.
Elinor
si
avvicinò ancora al finestrino, e attese. Dopo
un’infinità di tempo, o almeno
così le era sembrato, iniziò a vedere verdi
colline, ampie distese disseminate
qua e là da piccoli boschi.
“Siamo
andati verso Nord. Nord-Ovest direi, a giudicare dal
paesaggio.”
Per
la
seconda volta, nessuno sembrò prestare alcuna attenzione
alle sue parole.
La
porta
della cabina si aprì improvvisamente. Ne uscì
l’uomo pelato, reggendo alcuni
pezzi di stoffa nera.
“Ragazzi,
mi dispiace, ma dovrete indossare questi. Li potrete togliere quando
arriveremo. Tenetevi pure le coperte, non fa caldo” disse, e
si diresse verso
Sissi, impugnando il primo cappuccio, pronto a infilarglielo in testa.
Tutti
alzarono gli occhi verso la rossa, da cui si aspettavano una volenta
reazione.
Inaspettatamente, tuttavia, lei alzò lo sguardo e non disse
una parola, neanche
quando lui le infilò il cappuccio e glielo legò
al capo. Non una sillaba,
soltanto un gemito soffocato.
Toccò
poi
agli altri. Quando fu il suo turno, Elinor non disse nulla e porse il
capo in
avanti, rassegnata. Guardò l’uomo negli occhi, e
le sembrò di scorgere un lampo
di tristezza trapassarne lo sguardo, prima che il cappuccio le coprisse
il
volto.
Poi,
il
buio.
Aiuto.
Avrebbe
voluto urlarlo, chiederlo, riceverlo. Invece, dalla sua bocca non
usciva nulla,
le sue labbra non emettevano suoni, né gemiti, i suoi occhi
non ne volevano
sapere di piangere.
Era
semplicemente terrorizzata.
Quando
le
tolsero finalmente il cappuccio, Elinor si guardò intorno,
alla ricerca di qualcosa,
qualsiasi cosa che le potesse essere di conforto. Quasi sperava che
fosse tutto
uno scherzo, una diabolica trovata di un qualche pessimo programma TV
di
terz’ordine. Invece, si ritrovò seduta sulla
moquette. “Moquette
“, pensò, quasi fosse uno scherzo del destino.
Si
ricordava di aver salito delle scale. O perlomeno, che qualcuno le
aveva fatto
salire le scale, e poi l’aveva rinchiusa, sola, in quella
stanza, ma nulla di
più. Cosa c’era stato prima o dopo? Vuoto totale.
La
stanza
era spoglia, ma comunque accogliente. Un letto, una sedia, una
scrivania, e
basta, ma il tutto aveva un che di elegante e studiato. Oltre,
naturalmente,
alla moquette, che però sembrava avere l’unica
funzione di renderle il tutto
ancora più odioso. Si chiese per un momento da che razza di
rapitori erano
stati catturati, che mettevano i loro prigionieri in stanze singole
arredate
con gusto, ma si rese conto che la risposta non le interessava. Non in
quel
momento, perlomeno.
Si
alzò,
e diede un’occhiata alla stanza: c’era anche il
bagno e un piccolo balcone. Non
ebbe tempo di stupirsi, perché troppo interessata ai rumori
che provenivano da
oltre la porta, che naturalmente era chiusa a chiave.
“Lasciami
immediatamente brutto imbecille!!!” era inconfondibilmente la
voce di Sissi
“toglimi subito le mani di dosso brutto figlio
di…”
“Sissi!”
urlò Elinor. Nonostante la situazione, fu presa da un
incredibile sollievo:
almeno non era sola.
“Lily!”
urlò la rossa in risposta. Elinor sentì una porta
che si chiudeva, poi
nuovamente la voce dell’amica: “Elinor mi
senti?”
“Sì”
gridò “dove sono gli altri?”
“Nelle
altre stanze. Credo che ci abbiano chiusi ognuno in una camera, ma non
so se
siamo tutti nella stessa zona. Mi sembra di aver visto un corridoio, ma
non ne
sono affatto sicura.”
Lily
non
rispose, mentre il suo cervello formulava ipotesi su ipotesi. Si
sentiva
reattiva come non mai, anche se non se ne capacitava.
“Lily”
disse Sissi, con voce più calma. “Che sta
succedendo?”
Silenzio.
Elinor non sapeva cosa dire, cosa rispondere, come confortarla. Sissi
sembrò
capire. Poi il suo sussurro, la voce dimessa e spaventata che non
sembrava
appartenerle.
“E
adesso?”
Sembravano
secoli. Secoli da quando aveva messo piede in quella camera, secoli da
quando
Sissi le aveva assicurato che era riuscita a parlare con gli altri, e
le aveva
detto che stavano tutti bene, ognuno nella propria stanza. Secoli da
quando era
partita, secoli da quando aveva preso l’aereo, secoli da
quando aveva aiutato
il suo dannatissimo rapitore.
Secoli
da
quando aveva smesso di cercare di capire dove si trovava, e si era
arresa
buttandosi sul letto e stringendosi le ginocchia, presa
dall’angoscia e dal
desiderio di tornare indietro.
Secoli.
Si
mise a
sedere sul letto, fermamente convinta di doversi muovere e di dover
fare
qualcosa. Afferrò una caramella alla menta che si trovava
sul tavolino, la
inghiottì e prese a tormentare la cartina, senza neanche
rendersene conto.
All’improvviso
sentì qualcuno armeggiare con delle chiavi appena fuori
dalla sua porta. Non se
l’aspettava, e non ebbe il tempo di provare alcuna emozione
che non fosse la
sorpresa.
L’uomo
alto e pelato entrò, senza dire una parola. Lei lo
fissò, pregando che sul suo
viso non si leggessero la paura e l’angoscia che in quel
momento le impedivano
di ragionare. L’unico rumore che riusciva a sentire era
quello del suo cuore,
che batteva all’impazzata, e si chiese se anche
l’uomo poteva sentirlo.
“Volevo
controllare che fosse tutto a posto.” Disse l’uomo,
conciso. La voce, ferma,
non faceva trasparire alcuna emozione o preoccupazione.
Elinor,
immersa in queste considerazioni, ci mise un po’ a capire che
l’uomo attendeva
una risposta. Pregò che la voce non l’abbandonasse
proprio in quel momento, e
che risultasse più calma e decisa di quanto in
realtà non fosse.
“Tutto
a
posto?” rispose lei, con un ghigno. Attese qualche secondo,
poi riprese: “No,
non è tutto a posto. E sono sicura che puoi capire benissimo
il perché.”
Non
le
importava neanche più di usare il Lei, anche se
quell’uomo, con quel suo
vestito di sartoria, l’arma che ci teneva sotto, e i
probabili muscoli con cui
avrebbe potuto stendere chiunque, le incuteva un certo timore.
“Dove
siamo?” chiese secca, senza però riuscire a
nascondere un velo d’ansia nella
sua voce.
Lui
non
rispose. Elinor pensò di ripetere la domanda, ma poi si
accorse che lui era
distratto e si era portato una mano all’orecchio, come se
stesse ascoltando
qualcos’altro.
“Diamine”
disse semplicemente l’uomo, che si voltò e prese a
camminare verso la porta.
E
fu in
quell’istante che Elinor fece quello che, come
realizzò più tardi, non avrebbe
mai dovuto fare.
Non
aveva
mai pensato a sé come a una persona amante
dell’avventura o del rischio, né
tantomeno coraggiosa. Ma in quel momento, in quell’esatto
istante si buttò,
rischiò, consapevole del fatto di non poter perdere nulla.
Perché, in quel
momento, non aveva nulla da perdere.
L’aveva
visto fare in un film. Era una di quelle azioni che sembrano banali e
curiosamente geniali, ma che riescono a fare soltanto ai supereroi.
Elinor
sapeva di non rientrare nella categoria, ma si fece coraggio e strinse
la
cartina della caramella che teneva ancora in mano. Scivolò
silenziosa verso la
porta che si stava chiudendo e a occhi chiusi, senza pensarci, la
infilò fra la
porta e il muro, all’altezza della serratura, bloccandola.
Quando
riaprì gli occhi, lo fece nella speranza che
quell’uomo non se ne fosse accorto
e che non fosse lì, dietro alla porta, aspettando il momento
buono per
ucciderla per punirla per la sua insolenza e audacia.
Con
suo
sommo sollievo, non c’era anima viva. Nessuno si era accorto
della cartina e
del suo gesto da supereroina a corto di mezzi. Si ritrovò a
sorridere da sola,
guardando la porta e la sua mano che ancora teneva stretto un lembo di
quella
che si prospettava come la migliore chance di uscire da lì.
Respirò
profondamente e chiuse gli occhi, tentando di formulare un piano. Una
volta
uscita dalla stanza, cosa avrebbe fatto? Non aveva idea del luogo in
cui erano
rinchiusi, non aveva idea di come uscirci e di come liberare i suoi
amici. E
non aveva idea di come non farsi scoprire.
Lentamente,
abbassò la maniglia e aprì la porta, trattenendo
il respiro.
Leale
corse giù dalle scale, precipitandosi nel soggiorno, dove il
suo protetto,
smentendo la sua fama di ragazzo freddo e calcolatore, stava perdendo
il
controllo.
“Cosa
vuol dire questo? Non potete fare così. Non dopo tutto
quello che io ho fatto
per voi…” Artemis stava parlando rivolto al
display di un minuscolo computer
appoggiato sul tavolino.
“Fowl,
ascoltami bene. Tu sei quello che
ci
ha fatto passare mille guai, tu
quello che mi ha rapito per ottenere un riscatto, tu
che hai quasi messo a repentaglio la vita del Popolo ben più
di
una volta, tu…”
“Ok,
Spinella, d’accordo. Non è questo il
punto.” Artemis si sedette sul divano e si
prese la testa fra le mani, abbassando lo sguardo. “Non ho
alternative,
capisci? Non posso rimandarli indietro, e non solo perché
rischierebbero di
fornire informazioni vitali su me e Leale, ma anche perché
probabilmente li
ucciderebbero, credendo che mi abbiano aiutato…”
“Artemis”
la voce femminile che usciva dallo schermo si ammorbidì un
poco. “mi dispiace,
ma questa volta è un problema tuo. Il Popolo non
può fare una decina di
Spazzamente come se nulla fosse … se fosse per me, sappi che
lo farei subito.”
Il
ragazzo alzò lo sguardo verso lo schermo, fissandolo
silenzioso e rassegnato.
“In
quanto al problema di cui mi hai accennato prima, sarò
felice di darti una
mano. Farò qualche ricerca con Polledro qua giù,
poi io e Bombarda verremo da
voi appena possibile. Sei sicuro di non aver notato
qualcos’altro, qualche
indizio?”
“Nulla.
L’unica cosa che so è che il Popolo è
in mezzo. Nessuno fra gli umani possiede
una tecnologia così avanzata, a parte me,
ovviamente.” Artemis rimase un attimo
in silenzio, immerso nei suoi pensieri. “D’altro
canto, io non credo nelle
coincidenze. Il fatto che qualcosa abbia voluto attaccarci proprio il
giorno
del nostro incontro con Jason Lagerfeld non può essere un
caso.” Si alzò,
rassettandosi le pieghe della camicia. “In ogni caso, in
questo momento ho
problemi più urgenti di questo. Qui, per il momento, siamo
al sicuro.” Un
ghigno apparve sulla sua faccia. “In fondo, questa
è casa Fowl”.
Salutò
Spinella, e spense il computer. Si voltò poi verso Leale,
che l’aveva osservato
paziente mentre il ragazzo era impegnato nella conversazione.
“Non
hanno intenzione di effettuare gli Spazzamente. Ti ho chiamato
perchè volevo
che tu convincessi Spinella, ma poi mi sono reso conto che era
inutile”.
La
guardia
del corpo annuì. “E ora? Che ne faremo dei
ragazzi?”
Artemis,
in tutta risposta, si limitò a fissare intensamente il
pavimento. Poi alzò
nuovamente lo sguardo.
“Non
abbiamo scelta. Dobbiamo trattenerli qui finchè non
sarà tutto finito.”
Elinor
si
sentiva governata da una forza estranea. Il suo oroscopo
l’aveva detto quella
mattina, che forze incontrollabili e al di sopra della sua portata
avrebbero
influito sul suo destino, ma lei, come al solito, non ci aveva fatto
caso. Il
suo corpo si muoveva come se non fosse il suo cervello a controllarlo;
le sue
gambe sembravano autogovernarsi e portarla verso la fine del corridoio
da sole,
senza che nulla di lei opponesse resistenza. Arrivata al fondo del
corridoio,
si ritrovò in cima a delle scale ampie e sontuose, in legno.
Si sentivano delle
voci provenire dal piano inferiore, che sembrava essere
l’unico sottostante.
Il
suo
cervello era in fermento: prima di tutto servivano le chiavi delle
stanze. Non
aveva molto tempo prima che qualcuno si accorgesse che lei era fuggita,
dunque
doveva muoversi in fretta. Aveva come il presentimento che le chiavi
fossero
nelle mani dell’omone pelato, ma preferì essere
ottimista e immaginarle posate
da qualche parte in un luogo deserto e non controllato. Illudendosi e
beandosi
di tale prospettiva, cercò di farsi coraggio e, pregando
mentalmente il suo
cuore di smettere di battere così forte, fece il suo primo
passo giù per le
scale.
Il
fatto
di avere le pantofole, che attutivano qualsiasi suo movimento,
risultò essere,
con sua piacevole sorpresa, un fattore chiave. Scese senza fare alcun
rumore, e
arrivata al fondo, si appoggiò al muro sulla sinistra, che
presentava
un’apertura mediante la quale, probabilmente, si accedeva al
soggiorno. Il
suono delle voci provenienti dalla stanza appena al di là
del muro a cui si
stava appoggiando era chiaro e distinto, e Elinor riuscì a
cogliere sprazzi di
conversazione fra l’uomo e il ragazzo.
Finchè
fosse rimasta lì, nessuno avrebbe potuto scoprirla. La
speranza di trovare le
chiavi, però, era un chiodo fisso nella sua testa, anche se
una vocina, dai
meandri della sua mente, le suggeriva di cercare la prima finestra
aperta e di
gettarsi fuori, dal momento che il liberare i suoi amici era
senz’ombra di
dubbio una missione disperata e impossibile.
Naturalmente,
la vocina non fu ascoltata.
In
quel
momento spostò lo sguardo dall’apertura e
fissò dritto davanti a sé.
E
si rese
conto di quanto sarebbe stato meglio ascoltare quella saggia vocina.
Spazio
Autrice
Non
potevo assolutamente
fare a meno di lasciare un piccolo intervento al fondo…
allora, che ne pensate?
Ho un po’ di dubbi sulla conversazione fra Spinella e
Artemis, e credetemi,
Artemis è il personaggio più difficile in
assoluto su cui scrivere… insomma,
per descrivere i pensieri e i sentimenti di un genio dovrei essere un
genio,
giusto? Beh, si dà il caso che io non lo sia affatto. Dunque
perdonatemi se il
mio Artemis non rende bene l’idea… ma spero che
possa essere lo stesso di
vostro gradimento J
Au
revoir!
J.
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