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Autore: Silice    02/04/2010    5 recensioni
Una gita, una missione. I loro destini si incrociano. Un’avventura per entrambi, lei trascinata in un mondo misterioso e sconosciuto, lui nell’universo degli adolescenti. Riusciranno a uscire indenni da questa avventura? Ma soprattutto, i loro destini rimarranno legati? La guardò negli occhi. “Ti odierò per sempre” Silenzio. “Anch’io"
Genere: Romantico, Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ordunque. Eccomi tornata con un nuovo capitolo di questa Fanfic, che mai mi sarei aspettata di continuare, non tanto per mancanza di voglia, ma per mancanza di ispirazione. Sono sempre stata convinta che scrivere un capitolo per forza, “per portare avanti la storia” fosse inutile e stupido, dunque ho preferito aspettare l’ispirazione per buttare giù le stesse idee che continuano a frullarmi in testa dal giorno in cui questa storia è nata… il fatto che ci abbia messo così tanto è sicuramente imperdonabile, e chiedo umilmente scusa. Spero che questa attesa sia servita a produrre qualcosa di decente… in caso non fosse così, vi prego di farmelo sapere ;) (ma anche si vi piace, eheh)

Many kisses,

J.

P.s. risponderò volentieri alle eventuali recensioni di questo capitolo e dei precedenti nel prossimo aggiornamento, che non dovrebbe tardare…

 

TAKE A BREATH

 

Artemis tornò nella cabina, e si sedette al posto di guida, senza però concentrarsi effettivamente su ciò che stava facendo. In quel momento, infatti, stava cercando di distogliere la sua mente da quel fastidiosissimo senso di colpa di cui tanto si vergognava. Avevano la sua età, quei ragazzi, nel retro dell’aereo. Quella ragazza che l’aveva aiutato ora era in pericolo per lui. Cercò di distogliere i suoi pensieri da ciò, ricordandosi che il giorno dopo, se non quello stesso giorno, non avrebbero ricordato più nulla, grazie all’intervento della Lep. Uno Spazzamente e via, sarebbe finito tutto, e lui sarebbe tornato a essere quel freddo, cinico e vincente genio di sempre.

O almeno così sperava.

 

Odio puro e profondo. Era tutto ciò che Elinor riusciva a provare in quel momento, e questi ben poco cordiali sentimenti le impedivano di provare la paura che invece sembrava attanagliare tutti gli altri.

Ci voleva ben altro, tuttavia, per farla sentire coraggiosa, in quel momento. La paura la colse di colpo, e la trovò impreparata e indifesa: l’aereo stava rallentando. Un milione di domande le affollò la testa, impedendole di formulare un qualsiasi pensiero di senso compiuto; non sentiva nient’altro che terrore, irrequietezza, e la terribile sensazione di non poter fare proprio nulla per cambiare la situazione: dove stavano andando? Dove stavano atterrando? Dopo un’ora e mezza di viaggio avrebbero potuto trovarsi ovunque, o quasi. Si affacciò al finestrino, ma una coltre di nubi le impediva di vedere il terreno.

Presa da un’irrefrenabile voglia di muoversi, di fare qualcosa, e dal presentimento che lo star ferma l’avrebbe fatta impazzire, si alzò, e si diresse con passo fermo verso il sedile occupato da Arianna: la ragazza dormiva, stretta nell’abbraccio di Luca, che invece la fissava in silenzio. Vicino a loro c’era Giova, che fissava il vuoto con un’espressione indecifrabile. Elinor prese una tazza e bevve un altro sorso di tè, senza neanche accorgersi che era ghiacciato, tanto era immersa nei suoi pensieri.

“Stiamo atterrando” disse, con una voce talmente ferma da sorprendere perfino sé stessa.

Alle sue spalle, Lorenzo alzò gli occhi. La sua quasi impercettibile reazione fu l’unica. Il resto del gruppo rimase fermo, in perfetto silenzio, come in una sorta di trance.

Elinor si avvicinò ancora al finestrino, e attese. Dopo un’infinità di tempo, o almeno così le era sembrato, iniziò a vedere verdi colline, ampie distese disseminate qua e là da piccoli boschi.

“Siamo andati verso Nord. Nord-Ovest direi, a giudicare dal paesaggio.”

Per la seconda volta, nessuno sembrò prestare alcuna attenzione alle sue parole.

La porta della cabina si aprì improvvisamente. Ne uscì l’uomo pelato, reggendo alcuni pezzi di stoffa nera.

“Ragazzi, mi dispiace, ma dovrete indossare questi. Li potrete togliere quando arriveremo. Tenetevi pure le coperte, non fa caldo” disse, e si diresse verso Sissi, impugnando il primo cappuccio, pronto a infilarglielo in testa. Tutti alzarono gli occhi verso la rossa, da cui si aspettavano una volenta reazione. Inaspettatamente, tuttavia, lei alzò lo sguardo e non disse una parola, neanche quando lui le infilò il cappuccio e glielo legò al capo. Non una sillaba, soltanto un gemito soffocato.

Toccò poi agli altri. Quando fu il suo turno, Elinor non disse nulla e porse il capo in avanti, rassegnata. Guardò l’uomo negli occhi, e le sembrò di scorgere un lampo di tristezza trapassarne lo sguardo, prima che il cappuccio le coprisse il volto.

Poi, il buio.

 

Aiuto.

Avrebbe voluto urlarlo, chiederlo, riceverlo. Invece, dalla sua bocca non usciva nulla, le sue labbra non emettevano suoni, né gemiti, i suoi occhi non ne volevano sapere di piangere.

Era semplicemente terrorizzata.

Quando le tolsero finalmente il cappuccio, Elinor si guardò intorno, alla ricerca di qualcosa, qualsiasi cosa che le potesse essere di conforto. Quasi sperava che fosse tutto uno scherzo, una diabolica trovata di un qualche pessimo programma TV di terz’ordine. Invece, si ritrovò seduta sulla moquette. “Moquette “, pensò, quasi fosse uno scherzo del destino.

Si ricordava di aver salito delle scale. O perlomeno, che qualcuno le aveva fatto salire le scale, e poi l’aveva rinchiusa, sola, in quella stanza, ma nulla di più. Cosa c’era stato prima o dopo? Vuoto totale.

La stanza era spoglia, ma comunque accogliente. Un letto, una sedia, una scrivania, e basta, ma il tutto aveva un che di elegante e studiato. Oltre, naturalmente, alla moquette, che però sembrava avere l’unica funzione di renderle il tutto ancora più odioso. Si chiese per un momento da che razza di rapitori erano stati catturati, che mettevano i loro prigionieri in stanze singole arredate con gusto, ma si rese conto che la risposta non le interessava. Non in quel momento, perlomeno.

Si alzò, e diede un’occhiata alla stanza: c’era anche il bagno e un piccolo balcone. Non ebbe tempo di stupirsi, perché troppo interessata ai rumori che provenivano da oltre la porta, che naturalmente era chiusa a chiave.

“Lasciami immediatamente brutto imbecille!!!” era inconfondibilmente la voce di Sissi “toglimi subito le mani di dosso brutto figlio di…”

“Sissi!” urlò Elinor. Nonostante la situazione, fu presa da un incredibile sollievo: almeno non era sola.

“Lily!” urlò la rossa in risposta. Elinor sentì una porta che si chiudeva, poi nuovamente la voce dell’amica: “Elinor mi senti?”

“Sì” gridò “dove sono gli altri?”

“Nelle altre stanze. Credo che ci abbiano chiusi ognuno in una camera, ma non so se siamo tutti nella stessa zona. Mi sembra di aver visto un corridoio, ma non ne sono affatto sicura.”

Lily non rispose, mentre il suo cervello formulava ipotesi su ipotesi. Si sentiva reattiva come non mai, anche se non se ne capacitava.

“Lily” disse Sissi, con voce più calma. “Che sta succedendo?”

Silenzio. Elinor non sapeva cosa dire, cosa rispondere, come confortarla. Sissi sembrò capire. Poi il suo sussurro, la voce dimessa e spaventata che non sembrava appartenerle.

“E adesso?”

 

Sembravano secoli. Secoli da quando aveva messo piede in quella camera, secoli da quando Sissi le aveva assicurato che era riuscita a parlare con gli altri, e le aveva detto che stavano tutti bene, ognuno nella propria stanza. Secoli da quando era partita, secoli da quando aveva preso l’aereo, secoli da quando aveva aiutato il suo dannatissimo rapitore.

Secoli da quando aveva smesso di cercare di capire dove si trovava, e si era arresa buttandosi sul letto e stringendosi le ginocchia, presa dall’angoscia e dal desiderio di tornare indietro.

Secoli.

Si mise a sedere sul letto, fermamente convinta di doversi muovere e di dover fare qualcosa. Afferrò una caramella alla menta che si trovava sul tavolino, la inghiottì e prese a tormentare la cartina, senza neanche rendersene conto.

All’improvviso sentì qualcuno armeggiare con delle chiavi appena fuori dalla sua porta. Non se l’aspettava, e non ebbe il tempo di provare alcuna emozione che non fosse la sorpresa.

L’uomo alto e pelato entrò, senza dire una parola. Lei lo fissò, pregando che sul suo viso non si leggessero la paura e l’angoscia che in quel momento le impedivano di ragionare. L’unico rumore che riusciva a sentire era quello del suo cuore, che batteva all’impazzata, e si chiese se anche l’uomo poteva sentirlo.

“Volevo controllare che fosse tutto a posto.” Disse l’uomo, conciso. La voce, ferma, non faceva trasparire alcuna emozione o preoccupazione.

Elinor, immersa in queste considerazioni, ci mise un po’ a capire che l’uomo attendeva una risposta. Pregò che la voce non l’abbandonasse proprio in quel momento, e che risultasse più calma e decisa di quanto in realtà non fosse.

“Tutto a posto?” rispose lei, con un ghigno. Attese qualche secondo, poi riprese: “No, non è tutto a posto. E sono sicura che puoi capire benissimo il perché.”

Non le importava neanche più di usare il Lei, anche se quell’uomo, con quel suo vestito di sartoria, l’arma che ci teneva sotto, e i probabili muscoli con cui avrebbe potuto stendere chiunque, le incuteva un certo timore.

“Dove siamo?” chiese secca, senza però riuscire a nascondere un velo d’ansia nella sua voce.

Lui non rispose. Elinor pensò di ripetere la domanda, ma poi si accorse che lui era distratto e si era portato una mano all’orecchio, come se stesse ascoltando qualcos’altro.

“Diamine” disse semplicemente l’uomo, che si voltò e prese a camminare verso la porta.

E fu in quell’istante che Elinor fece quello che, come realizzò più tardi, non avrebbe mai dovuto fare.

 

Non aveva mai pensato a sé come a una persona amante dell’avventura o del rischio, né tantomeno coraggiosa. Ma in quel momento, in quell’esatto istante si buttò, rischiò, consapevole del fatto di non poter perdere nulla. Perché, in quel momento, non aveva nulla da perdere.

L’aveva visto fare in un film. Era una di quelle azioni che sembrano banali e curiosamente geniali, ma che riescono a fare soltanto ai supereroi. Elinor sapeva di non rientrare nella categoria, ma si fece coraggio e strinse la cartina della caramella che teneva ancora in mano. Scivolò silenziosa verso la porta che si stava chiudendo e a occhi chiusi, senza pensarci, la infilò fra la porta e il muro, all’altezza della serratura, bloccandola.

Quando riaprì gli occhi, lo fece nella speranza che quell’uomo non se ne fosse accorto e che non fosse lì, dietro alla porta, aspettando il momento buono per ucciderla per punirla per la sua insolenza e audacia.

Con suo sommo sollievo, non c’era anima viva. Nessuno si era accorto della cartina e del suo gesto da supereroina a corto di mezzi. Si ritrovò a sorridere da sola, guardando la porta e la sua mano che ancora teneva stretto un lembo di quella che si prospettava come la migliore chance di uscire da lì.

Respirò profondamente e chiuse gli occhi, tentando di formulare un piano. Una volta uscita dalla stanza, cosa avrebbe fatto? Non aveva idea del luogo in cui erano rinchiusi, non aveva idea di come uscirci e di come liberare i suoi amici. E non aveva idea di come non farsi scoprire.

Lentamente, abbassò la maniglia e aprì la porta, trattenendo il respiro.

 

Leale corse giù dalle scale, precipitandosi nel soggiorno, dove il suo protetto, smentendo la sua fama di ragazzo freddo e calcolatore, stava perdendo il controllo.

“Cosa vuol dire questo? Non potete fare così. Non dopo tutto quello che io ho fatto per voi…” Artemis stava parlando rivolto al display di un minuscolo computer appoggiato sul tavolino.

“Fowl, ascoltami bene. Tu sei quello che ci ha fatto passare mille guai, tu quello che mi ha rapito per ottenere un riscatto, tu che hai quasi messo a repentaglio la vita del Popolo ben più di una volta, tu…”

“Ok, Spinella, d’accordo. Non è questo il punto.” Artemis si sedette sul divano e si prese la testa fra le mani, abbassando lo sguardo. “Non ho alternative, capisci? Non posso rimandarli indietro, e non solo perché rischierebbero di fornire informazioni vitali su me e Leale, ma anche perché probabilmente li ucciderebbero, credendo che mi abbiano aiutato…”

“Artemis” la voce femminile che usciva dallo schermo si ammorbidì un poco. “mi dispiace, ma questa volta è un problema tuo. Il Popolo non può fare una decina di Spazzamente come se nulla fosse … se fosse per me, sappi che lo farei subito.”

Il ragazzo alzò lo sguardo verso lo schermo, fissandolo silenzioso e rassegnato.

“In quanto al problema di cui mi hai accennato prima, sarò felice di darti una mano. Farò qualche ricerca con Polledro qua giù, poi io e Bombarda verremo da voi appena possibile. Sei sicuro di non aver notato qualcos’altro, qualche indizio?”

“Nulla. L’unica cosa che so è che il Popolo è in mezzo. Nessuno fra gli umani possiede una tecnologia così avanzata, a parte me, ovviamente.” Artemis rimase un attimo in silenzio, immerso nei suoi pensieri. “D’altro canto, io non credo nelle coincidenze. Il fatto che qualcosa abbia voluto attaccarci proprio il giorno del nostro incontro con Jason Lagerfeld non può essere un caso.” Si alzò, rassettandosi le pieghe della camicia. “In ogni caso, in questo momento ho problemi più urgenti di questo. Qui, per il momento, siamo al sicuro.” Un ghigno apparve sulla sua faccia. “In fondo, questa è casa Fowl”.

Salutò Spinella, e spense il computer. Si voltò poi verso Leale, che l’aveva osservato paziente mentre il ragazzo era impegnato nella conversazione.

“Non hanno intenzione di effettuare gli Spazzamente. Ti ho chiamato perchè volevo che tu convincessi Spinella, ma poi mi sono reso conto che era inutile”.

La guardia del corpo annuì. “E ora? Che ne faremo dei ragazzi?”

Artemis, in tutta risposta, si limitò a fissare intensamente il pavimento. Poi alzò nuovamente lo sguardo.

“Non abbiamo scelta. Dobbiamo trattenerli qui finchè non sarà tutto finito.”

 

Elinor si sentiva governata da una forza estranea. Il suo oroscopo l’aveva detto quella mattina, che forze incontrollabili e al di sopra della sua portata avrebbero influito sul suo destino, ma lei, come al solito, non ci aveva fatto caso. Il suo corpo si muoveva come se non fosse il suo cervello a controllarlo; le sue gambe sembravano autogovernarsi e portarla verso la fine del corridoio da sole, senza che nulla di lei opponesse resistenza. Arrivata al fondo del corridoio, si ritrovò in cima a delle scale ampie e sontuose, in legno. Si sentivano delle voci provenire dal piano inferiore, che sembrava essere l’unico sottostante.

Il suo cervello era in fermento: prima di tutto servivano le chiavi delle stanze. Non aveva molto tempo prima che qualcuno si accorgesse che lei era fuggita, dunque doveva muoversi in fretta. Aveva come il presentimento che le chiavi fossero nelle mani dell’omone pelato, ma preferì essere ottimista e immaginarle posate da qualche parte in un luogo deserto e non controllato. Illudendosi e beandosi di tale prospettiva, cercò di farsi coraggio e, pregando mentalmente il suo cuore di smettere di battere così forte, fece il suo primo passo giù per le scale.

Il fatto di avere le pantofole, che attutivano qualsiasi suo movimento, risultò essere, con sua piacevole sorpresa, un fattore chiave. Scese senza fare alcun rumore, e arrivata al fondo, si appoggiò al muro sulla sinistra, che presentava un’apertura mediante la quale, probabilmente, si accedeva al soggiorno. Il suono delle voci provenienti dalla stanza appena al di là del muro a cui si stava appoggiando era chiaro e distinto, e Elinor riuscì a cogliere sprazzi di conversazione fra l’uomo e il ragazzo.

Finchè fosse rimasta lì, nessuno avrebbe potuto scoprirla. La speranza di trovare le chiavi, però, era un chiodo fisso nella sua testa, anche se una vocina, dai meandri della sua mente, le suggeriva di cercare la prima finestra aperta e di gettarsi fuori, dal momento che il liberare i suoi amici era senz’ombra di dubbio una missione disperata e impossibile.

Naturalmente, la vocina non fu ascoltata.

In quel momento spostò lo sguardo dall’apertura e fissò dritto davanti a sé.

E si rese conto di quanto sarebbe stato meglio ascoltare quella saggia vocina.

 

Spazio Autrice

 

Non potevo assolutamente fare a meno di lasciare un piccolo intervento al fondo… allora, che ne pensate? Ho un po’ di dubbi sulla conversazione fra Spinella e Artemis, e credetemi, Artemis è il personaggio più difficile in assoluto su cui scrivere… insomma, per descrivere i pensieri e i sentimenti di un genio dovrei essere un genio, giusto? Beh, si dà il caso che io non lo sia affatto. Dunque perdonatemi se il mio Artemis non rende bene l’idea… ma spero che possa essere lo stesso di vostro gradimento J

Au revoir!

J.

 

  
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