That
Love is All There is
Terre_del_Nord
Slytherin's Blood
Storm in Heaven - III.001
- Ciò Che Non Sai di Me
Rigel Sherton
74, Essex Street, Londra - sab. 18 dicembre 1971
Non mi aspettavo che, di ritorno da Hogwarts, la
nostra destinazione sarebbe stata non Herrengton o Amesbury, ma la casa
di Essex Street, a Londra: i nostri genitori, già da qualche
settimana, si erano trasferiti lì con i bambini, per
permettere a papà di seguire con più costanza i
suoi affari al Ministero e per lasciare da soli, in seguito, nostro
fratello e sua moglie ad Amesbury, in attesa che fosse ultimata la casa
che Mirzam si stava facendo costruire vicino a Maillag, sulla costa
occidentale delle Highlands. Non sapevo se ero felice
perché, al contrario dei più, riusciva a sposare
la ragazza di cui era innamorato, o piuttosto perché
finalmente me lo toglievo dai piedi; di certo quel pensiero passava in
secondo piano, rispetto alla felicità di poter riabbracciare
la mamma e alla curiosità di rivedere la famigerata Essex
Street. L’appartamento di Londra era stato ereditato da
papà da suo zio, Tobias Meyer, in quanto ultimo discendente
di quella famiglia e perché Herrengton, secondo tradizione,
era destinata ai maschi primogeniti, quindi a suo fratello: nostro
padre vi si era stabilito quando fu cacciato da casa,
nell’estate del 1948 e, un anno dopo, vivendo dei soldi del
primo ingaggio al Puddlemere, aveva sposato la mamma e creato la nostra
famiglia nella Londra babbana. I miei fratelli ed io eravamo nati in
quella casa e lì eravamo rimasti fino alla morte del nonno,
nel 1962: al 74 di Essex Street aveva perciò avuto inizio la
mia storia e, anche se non ne avevo quasi più alcun ricordo,
sentivo di appartenerle ancora. Avevamo preso un taxi babbano appena
salutati i Black, fuori da una King’s Cross immersa nella
neve: feci tutto il tragitto con il naso incollato al finestrino,
trattenendomi a stento dal fare domande imbarazzanti su tutte le
meraviglie che mi circondavano. Avevo già visto molti
villaggi babbani e persino Londra, quell’estate, ma la
Capitale, in vesti natalizie, era tutta un’altra cosa, una
realtà in cui mi sarebbe piaciuto perdermi. Papà
si era seduto davanti, accanto all’autista, Meissa ed io
stavamo dietro; speravo che in stazione avrei rivisto anche la mamma,
ma lei era rimasta a casa, impegnata con i bambini, mentre Mirzam ci
avrebbe raggiunto solo il mattino successivo, al momento era a
Inverness a festeggiare con gli amici. Mi scappò un
sorrisetto malizioso, che lasciò interdetta mia sorella: mi
chiedevo se quel barbogio si sarebbe scatenato in un vero addio al
celibato o avrebbe piuttosto fatto il guastafeste pure quella sera.
Certo il fatto che avesse chiesto a Jarvis Warrington, e non a
Rodolphus Lestrange, di fargli da testimone, mi faceva propendere per
la seconda possibilità…
A
meno che…
Scacciai subito quel pensiero molesto. No, Rabastan diceva cose assurde
su Mirzam e, in effetti, spesso mio fratello era strano, ma non potevo
credere che la sua fosse qualcosa di più di una semplice
simpatia per quel gruppo di pazzi fanatici che andavano in giro,
mascherati, a far danni. Quell’estate, a dire il
vero, mi era preso un colpo quando l’avevo trovato con un
giornale clandestino e mi aveva fatto il solito discorso sui Purosangue
e sulla necessità di fare delle scelte consapevoli ma,
conoscendolo, mio fratello restava solo un pallone gonfiato, che, per
fortuna, non aveva il coraggio di mettere in pratica nemmeno un decimo
di quello di cui blaterava. Ritornai al presente, mentre Meissa,
contrariata per l’assenza di Mirzam, si lamentava
perché non avrebbe potuto salutare nostro fratello come
desiderava e perché il giorno successivo la mamma ci avrebbe
trascinato dalla sarta per provare i vestiti nuovi e anche
perché saremmo stati travolti dal caos degli ultimi
preparativi: in realtà, era gelosa pazza di Sile Kelly e si
sentiva male al solo pensiero che, l’indomani sera, avremmo
dovuto prendere parte al rito di Yule e al matrimonio. Sì, i
miei fratelli erano proprio fatti l’uno per
l’altra, erano due perfette piattole: mi chiedevo se non ci
fosse la possibilità che Mirzam si portasse via anche lei,
sarei stato pronto persino a pagarlo, purché me la togliesse
di torno. Ghignai e Meissa, forse intuendo che pensavo qualcosa di
spiacevole che la riguardava, mi guardò storto.
Arrivati a destinazione, papà aiutò
l’autista a scaricare un paio di valigie, gli diede una lauta
mancia e ci avviammo, come tre Babbani qualsiasi, lungo il vialetto
della nostra casa londinese. Tutto sembravamo fuorché la
più potente famiglia di Maghi del Nord dell’intera
Scozia: mia sorella ed io eravamo intabarrati nei nostri montgomery
scuri, avvolti in sciarpe, guanti e cappucci, nostro padre era chiuso
in un lungo cappotto di lana, che copriva completamente il suo vestito
babbano, e aveva persino il viso in parte camuffato da un finto paio di
occhiali da vista. Sorrisi tra me, immaginando le smorfie disgustate
che Walburga Black avrebbe fatto se ci avesse visto conciati in quel
modo. Appena Orion e i suoi figli si erano allontanati, infatti,
papà ci aveva trasfigurato le vesti, così da
poter passare la barriera di King’s Cross e confonderci tra i
viaggiatori “normali” senza destare sospetti: io mi
ero divertito a immergermi tra quella folla affannata, vestito con le
loro stesse vesti, pur intimamente tanto diverso da loro.
All’improvviso, mi ero sentito… libero! Era un
sentimento strano, molto strano, e lo sapevo, ma non potevo farci
niente: quello che mi costava, e che temevo sempre non mi riuscisse
bene, a scuola, era fingere, verso quel mondo, un disprezzo che non
provavo. Io ero curioso, molto curioso, volevo conoscere, volevo
sapere, anche se era rischioso. A casa mia si rispettavano i Babbani,
non come in una casa Grifondoro, certo, ma, pur tenendoci a
“distanza di sicurezza”, si cercava di convivere
con loro pacificamente e si apprezzavano alcune delle cose migliori del
loro mondo. Questo, però, presso gli altri Slytherins, e non
solo loro, non si poteva fare liberamente: gli altri non avrebbero
capito, gli altri si sarebbero fatti strane idee su di noi, ci
avrebbero chiamati traditori del Sangue Puro, rendendoci la vita un
inferno. A volte, invece, io sentivo che… che quello che
avevo intorno non mi bastava, avrei voluto anche di più,
molto di più, qualcosa che ancora non comprendevo, ma che
forse, se gliene avessi parlato, mio padre avrebbe capito meglio di me.
Ero certo di aver ereditato da lui, insieme alla passione per il
Quidditch, anche la curiosità per quel mondo, e da quando
avevo saputo che saremmo rimasti alcuni giorni a Londra, prima di
tornare a scuola, mi si era fissato nella mente il pensiero della
mitica Porsche che usava da ragazzo, e che, ero certo, avrei potuto
ammirare ancora, pronta e invitante, nel garage di Essex Street.
Nessuno dei miei amici di Serpeverde, tanto meno la mia famiglia, lo
sapeva, ma… a volte… con Emerson, ci nascondevamo
in una radura impervia dietro la Guferia ad ammirare macchine e
ragazze, nei giornali che William si faceva prestare da un ragazzo
più grande, del sesto anno, un Nato Babbano di Corvonero.
Con la coda dell’occhio, mentre schivavo una palla di neve
che Meissa mi aveva tirato addosso, a tradimento, e nostro padre ci
diceva di sbrigarci a entrare, perché stava ricominciando a
nevicare, vidi la signora del palazzo di fronte, bigodini in testa,
spiarci dalla finestra: provai a salutarla, sorridente e gentile, ma
lei, invece di ricambiare, chiuse di scatto le tende ed io ci rimasi
male.
“Hai visto che buffa quella
Babbana?”
Meissa lo borbottò sottovoce, in gaelico, un sorrisetto
canzonatorio e divertito in faccia. Non le risposi: era giusto, dovevo
mediare il mio entusiasmo con un po’ della sana cautela dei
miei, di mia madre in particolare, in fondo per secoli eravamo stati
trucidati dai Babbani, solo perché eravamo
“diversi”, e ora che non avevano più noi
da perseguitare, passavano il tempo a farsi la guerra tra loro,
soprattutto contro chi appariva in qualche modo
“strano”. Molti di loro non erano delle brave
persone, lo sapevo, eppure non tutti dovevano essere così:
mi piaceva pensare che anche tra loro, come tra noi Maghi, ci fossero
caratteri diversi, curiosi, aperti a realtà imprevedibili,
che… magari, un giorno, quando fossi stato più
grande e più abile a capire le situazioni e le persone,
chissà… forse avrei trovato dei Babbani simili a
quelli che popolavano le mie fantasie e...
“Insomma, Rigel, ti
muovi?”
Mi voltai e annuii a mio padre, non prima, però, di aver
prestato attenzione, di nuovo, alla casa: aveva una facciata bianca,
con gli ultimi due piani, alle luci dei lampioni, apparentemente color
crema, le finestre del piano terra e del primo piano a bow-windows e un
terrazzino al secondo piano, due file di ampie finestre con tendaggi
grigio scuro che non facevano intravvedere l’interno. Non era
grande ma già mi piaceva, riconoscevo infondo qualcosa di
noto, familiare, eppure non capivo, così incassata tra le
altre case, come fosse possibile viverci senza correre il rischio di
svelare la nostra natura ai Babbani. Superai i tre gradini
all’ingresso ed entrai, oltrepassando il portone di legno
scuro, con un anonimo battente d’ottone, senza fregi
slytherin, ma con ornamenti floreali: non c’era nemmeno il
simbolo dei Meyer, un’aquila dorata con le ali spalancate in
volo e gli occhi di ossidiana blu. L’ingresso era arioso,
illuminato da lampade elettriche a muro sorrette da candelieri di ferro
battuto, era abbellito da palme e anthurium rossi, un portaombrelli con
gli stessi motivi floreali dei candelieri e il simbolo
dell’aquila, una piccola consolle con sopra un telefono
babbano e un quadretto d’argento con la foto
“immobile” della mia famiglia risalente a quando
Meissa doveva avere appena un anno e, in fondo alla
“galleria”, un antico orologio a
pendolo. Il pavimento era di marmo bianco e rosa antico, a
mosaico, con motivi geometrici, le pareti erano coperte di carta da
parati chiara con motivi floreali, mi sembravano dei gigli: erano
appesi un bellissimo specchio in una cornice decorata dal simbolo dei
Meyer e dei quadri di mia nonna da giovane con la sua famiglia, in
abiti babbani. Probabilmente, come mio padre, avevo preso certe strane
tendenze da quel ramo della nostra famiglia. Sorrisi, mentre guardavo
la foto di Tobias Meyer, da ragazzo, vestito, come la nonna, secondo la
moda degli anni ‘20: era stato un grande Cercatore, aveva
contribuito a fare la storia del Quidditch, due generazioni prima della
mia, peccato avesse giocato nei Tornados e non nel Puddlemere e,
soprattutto, che fosse morto molto giovane, durante i bombardamenti di
Londra del 1940. Un’ampia arcata e una vetrata stile liberty
facevano da sipario e lasciavano intravvedere l’antistante
sala da pranzo, dominata da un lungo tavolo di legno, le sedie dagli
alti schienali di età vittoriana e una grandiosa credenza in
cui, dietro le vetrate di cristallo, facevano capolino servizi di
ceramica di Delft. Alla mia sinistra si dispiegava invece la scala che
portava ai piani superiori, con la ringhiera di ferro battuto, e
sull’altro lato si apriva, maestoso, l’enorme
salone, che dava su un giardino posteriore: anche lì
c’era la luce elettrica, diffusa attraverso un maestoso
lampadario che sorreggeva un numero imprecisato di candele elettriche,
nascoste in una pioggia di gocce di cristallo e foglie e arzigogoli
vari. Le pareti erano ricoperte da carta da parati di un leggero colore
avorio con lo stesso delicato motivo del giglio, i mobili erano di
legno chiaro con intarsi dorati e cobalto, e il pavimento di marmo blu
notte, con un elegante ricamo sottile a greche dorate che correva lungo
tutto il perimetro e si ricongiungeva al centro in una piccola aquila
dorata. Per quanto riuscivo a vedere, in tutta la casa erano
già stati allestiti gli addobbi natalizi e nel salone
campeggiava un albero di Natale che, per grandezza e ricchezza di
decorazioni, nulla aveva da invidiare agli alberi di Hogwarts e di
Herrengton: in basso, erano già stati sistemati tutti i
regali da aprire la mattina di festa. Sapevo che la maggior parte dei
Maghi, ormai, quasi fossero comuni Babbani, si scambiava i regali il 25
dicembre, in occasione delle festività cristiane ma, per noi
Maghi del Nord e pochi altri Purosangue tradizionalisti, la festa da
celebrare continuava a essere, da secoli, solo ed esclusivamente quella
del 21, il Solstizio d’Inverno.
“Le vostre camere si trovano
al secondo piano, io e la mamma stiamo al primo, dove
c’è anche la cameretta dei bambini, nella mansarda
c’è il mio studio. Prima di salire,
però, ho bisogno della vostra attenzione.”
Meissa ed io ci guardammo, c’eravamo tolti i giacconi, che
Doimòs aveva subito sistemato in un guardaroba che si apriva
dietro all’ingresso, in posizione nascosta, quindi seguimmo
nostro padre che ci fece strada diretto di nuovo alla porta.
“Questa casa, nel cuore di
Londra, è stata costruita secoli fa, molto prima che fosse
firmato lo “Statuto di Segretezza Magica”: da
sempre è appartenuta ai Meyer, e ora è nostra.
Fin dal 1550, fu dotata di opportuni incanti che la rendessero non del
tutto “comprensibile” ai Babbani: possono
guardarla, possono entrarci se invitati, possono vedere qui dentro
tutto quello che voi vedete in questo momento, ovvero una casa
qualsiasi, con mobili qualsiasi e vestiti qualsiasi; questo
perché all’ingresso opera un incantesimo
“Confundus” permanente, capace di generare questo
tipo d’illusione. So quello che stai per dire, Rigel, ma no,
non era possibile far sparire questa casa, perché
è una dimora storica. I Meyer, nel medioevo e fino a tutto
il 1600, sono stati importanti mercanti e alchimisti, e nel XV, XVI
secolo, in questa casa, sono passati personaggi fondamentali non solo
per il mondo magico. In quei tempi lontani, alcuni Babbani illuminati,
per amore della conoscenza, tenevano in gran conto i pareri di quelli
che chiamavano Alchimisti e Medici: erano in realtà i nostri
antenati, Pozionisti e Guaritori. Quella è stata
un’epoca felice per tutti, per noi come per loro, ed
è a questo che il Ministero dovrebbe mirare anche oggi, non
a farci nascondere come dei delinquenti! Evidentemente,
però, non tutti la pensano così…
perciò…”
Sfiorò il muro accanto alla porta con la runa che portava
impressa sul polso sinistro e nella casa, accanto agli oggetti finora
visibili, apparvero gli altri, quelli magici.
“Per quanto i Meyer siano tra
i Maghi più abili che io abbia mai conosciuto, ho passato
tutta l’estate, con Mirzam, a mettere delle precauzioni in
più, perché ora ci vivrete anche voi. Questo
è il vero aspetto della nostra casa, non
c’è molta differenza con Amesbury o Herrengton,
è solamente più piccola e invece dei fregi degli
Sherton, ci sono quelli dei Meyer. La vera differenza è che
abbiamo dei vicini, per cui dobbiamo comportarci usando sempre il
cervello. Appena siamo tutti in casa, è sufficiente sfiorare
il muro per rendere visibili le cose che ci servono, ma se qualcuno
bussa alla porta, l’incantesimo di cui vi ho parlato rientra
in funzione per noi e per il visitatore. Dopo il matrimonio vi
farò bere una pozione che maschererà
temporaneamente le vostre rune più visibili, lo
farò anch’io con le mie. In questo modo possiamo
vivere come vogliamo, senza correre rischi inutili. Tutto
chiaro?”
Annuimmo, capii che vedere il vero volto di quella casa aveva in parte
rasserenato mia sorella, ma io, interessato a vedere la mia stanza e
scoprire se davvero c’era, ancora, quella macchina nel
garage, stavo prestando via via meno attenzione a quel discorso.
“Bene: la porta del giardino
è dotata dello stesso incantesimo, come pure tutte le
finestre, nessuno da fuori può vedere la casa per quello che
è, né può vedere noi per quello che
siamo. Eventuali ospiti babbani, però, non devono salire ai
piani superiori o potrebbero incontrare Kreya e Doimòs: a
quel punto dovremmo chiamare la squadra Obliviatori e voi sapete bene
quanto mi scoccerebbe mettere in mezzo il Ministero!”
“Beh, se è per
quello… potremmo sempre obliviarli noi!”
Non so perché dissi quella sciocchezza, forse era solo
l’idea di come avrebbe reagito la signora con i bigodini in
testa se avesse saputo chi stava spiando, che mi faceva sghignazzare
divertito, ma capii che mio padre aveva male interpretato il mio
intervento e soprattutto la mia faccia insolente. Mi bastò
intercettare i suoi occhi furenti per sapere che non aveva ancora
dimenticato quella faccenda con Slughorn e Pascal e che correvo un
serio pericolo se si fosse arrabbiato con me.
“Non ammetterò
alcun genere di scherzo, nemmeno quelli più innocenti, ai
danni dei nostri vicini, da nessuno di voi due, è chiaro?
Soprattutto tu, Rigel… Sto ancora pensando di spedirti tra
le nevi di Durmstrang a calci, vedi di non darmi un’ulteriore
scusa per farlo davvero!”
M’incenerì con lo sguardo ma, preso dalle
novità che doveva ancora illustrarci, cambiò
subito discorso, sapevo però che presto saremmo tornati
sull’argomento; ci riaccompagnò quindi nel
salotto, che ora aveva un aspetto tradizionalmente magico, con i fregi
slytherin e ravenclaw distribuiti ovunque, il camino con la ciotola
della Metropolvere, la luce a gas, il quadro di nostra nonna, il giorno
del fidanzamento, a Herrengton Hill, di fianco al nonno, serio e
austero, che campeggiava in tutta la sua magnificenza.
“Pur tenendo con noi gli Elfi,
ufficialmente la nostra “governante” è
la signora Sheener: in questo momento si sta occupando della cena. Per
quel che riguarda la corrispondenza, invece, vostra madre ed io usiamo
i Patroni, il camino, i Gufi… e la posta babbana.”
“Posta babbana?”
“I nostri vicini troverebbero
sospetto se il postino non ci consegnasse mai della corrispondenza,
Mei…”
Da come ci guardò, capii che aveva anche lui qualche riserva
sulla Babbana con i bigodini in testa e sorrisi appena: con stupore e
un certo sollievo, mi accorsi che, a sua volta, mi sorrise, complice.
Merlino solo sapeva da quanto non gli vedevo una faccia così
comprensiva nei miei confronti! Dovevo fare di tutto, per non farlo
più arrabbiare con me, non solo perché rischiavo
serie punizioni, ma perché quando non lo irritavo, mi
divertivo molto di più, visto che mi coinvolgeva nelle sue
idee strane e avventurose e… Sì, evitare di farlo
arrabbiare sarebbe stato il mio impegno da prendere la notte di Yule,
quando le forze del nuovo anno mi avrebbero sorretto e aiutato nel
mantenere i miei propositi.
“Dobbiamo curare ogni
dettaglio, ragazzi, ma non preoccupatevi, abbiamo già
vissuto qui, per quattordici anni, senza problemi. Questi pochi giorni,
prima che torniate a scuola, vi serviranno per conoscere meglio la
città e imparare un po’ di cose sui Babbani che
ancora mancano alla vostra cultura. Se non avete domande, potete salire
in camera vostra: sistematevi, rilassatevi, fate ciò che
volete, ma ricordatevi che alle 19 dovete essere qui, puntuali e in
ordine. Abbiamo ospiti a cena.”
“Ospiti?”
Meissa si rianimò di colpo, probabilmente al pensiero che
gli ospiti, a sorpresa, fossero i Black: anche a me sarebbe piaciuto
rivedere subito Sirius e Regulus e magari…
Narcissa…
Sentii un groviglio strano in fondo allo stomaco, un desiderio feroce
di baciarla e al tempo stesso la tristezza al pensiero che…
probabilmente sarebbe stata invitata a qualche ballo con Malfoy,
durante le feste, e lui ne avrebbe approfittato per… Fu un
attimo e, di colpo, l’odio per Malfoy si tramutò
in rabbia cieca: sentii la necessità di rovinare qualcosa di
bello… come le illusioni di Meissa, perché il
dolore provato sembrava sempre meno pesante da sopportare, quando anche
gli altri, attorno a me, avevano motivo di essere tristi.
“Certo sorellina:
questa sera conosceremo la famiglia della misteriosa fidanzata di
Mirzam, io non vedo l’ora! E tu?”
Rimase in silenzio, ci guardò tutti e due, come a chiedere
conferma a mio padre, che annuì, poi fece cadere a terra la
borsa con i regali per la mamma e scappò furiosa per le
scale: papà rimase allibito, poi la rincorse e
l’afferrò per un braccio, sul primo pianerottolo.
“Meissa, che ti
succede?”
“Proprio stasera!
Perché? Perché?”
“Che vuoi dire? Non
capisco…”
“Non è giusto! Non
vi vedo da mesi… e invece di poter parlare in pace con voi e
riabbracciare Mirzam… Io… A quelli non importa
niente di noi, non hanno avuto la faccia di farsi vedere per
mesi… Perché proprio ora? Perché
devono rompere proprio stasera? Li odio! Li odio tutti!”
“Meissa!”
Mia sorella si divincolò e gli sfuggì di nuovo,
scappando di sopra e lasciando tutti interdetti, anche la mamma che,
sentito il trambusto per le scale, era uscita dalla camera dei bambini
con Adhara in braccio, che scoppiò a piangere.
“Ci penso io a
Meissa… Tu vai a cambiarti che tra poco Donovan
sarà qui... Quanto a te, immagino sarai contento…
Vai in camera tua e cerca di non fare altri danni, per stasera! Dopo il
matrimonio facciamo i conti…”
Rimasi da solo, ammutolito, ai piedi delle scale: mio padre aveva preso
in braccio Adhara e la cullava, guadagnandosi subito un sorriso
estatico da quel frugoletto dai capelli rossi, e non mi
degnò nemmeno di uno sguardo furioso, la mamma
salì di sopra a occuparsi della crisi isterica di Meissa.
Era così che ero riuscito a salutare la mia famiglia, dopo
mesi che non la vedevo, grazie alle mie solite, geniali, trovate da
matto: avrei voluto difendermi e urlare, dicendo che non era colpa mia,
ma di quell’idiota di Mirzam, se la situazione in cui ci
trovavamo con i Kelly era quella, se era passato quasi un anno
dall’inizio di quello strano fidanzamento e Sile non si era
mai vista a casa nostra, come invece si fa in tutte le famiglie
normali. Non sapevo che cosa avesse combinato mio fratello per farsi
trattare in quel modo da Donovan Kelly, ma era evidente che fosse tutta
colpa sua, come sempre. Per una volta, però, ebbi la
prudenza di tenere per me almeno quelle riflessioni. Dopo un
po’, smisi di fissare il quadro dei Meyer e salii le scale,
fino al secondo piano, sentii la voce amorevole della mamma alle prese
con Meissa: sembrava già più calma. Scivolai fino
in fondo al corridoio, raggiunsi la mia stanza, in tutto simile a
quella di Herrengton, solo un po’ più piccola. Mi
stesi sul letto ammirando il soffitto decorato dall’aquila
dei Meyer e lo stendardo del Puddlemere, gigantesco, che occupava tutta
la parete di fronte al mio letto: fuori dalla finestra, invitante ,
Londra sembrava reclamarmi. Speravo di riuscire a calmarmi, ma non ci
riuscii: ogni volta che la lasciavo libera, la mia mente faceva duemila
voli pindarici e si fermava, alla fine, lì, ai piedi di un
angelo biondo che, giorno per giorno, riempiva sempre di più
i miei pensieri. E pur soffrendo per quell’insana
schiavitù, mi rendevo conto che già non riuscivo
più a vivere senza quel sogno: mi ero fatto imprigionare dai
suoi sorrisi, invincibili carcerieri.
***
James Potter
Godric Hollow, West County - sab. 18 dicembre 1971
“Per Godric e tutti i
fondatori! Che diavolo hai fatto ai tuoi capelli?”
“Charlus… Ti pare
questo il modo di esprimerti? Jamie, tesoro… che
cos’è successo?”
Avevo nascosto a lungo, agli occhi del mondo, la mia chioma selvaggia:
scendendo dal treno mi ero messo un capiente berretto di lana,
così i miei per un po’ non si erano accorti di
niente a King’s Cross ma, una volta a casa, avevo dovuto
spogliarmi. Forse i miei avevano notato qualcosa di strano, ma mi
avevano visto solo di sfuggita, mentre andavo a cambiarmi nella mia
stanza. E comunque… la situazione era completamente
degenerata mentre ero in bagno, esattamente allo scoccare della mezzora
dall’ultimo incanto di contenimento che mi aveva fatto Remus:
avevo provato a pettinarmi col pettine bagnato, a bagnarmi con
l’acqua per sgonfiare tutto quel volume leonino, ma ormai
crescevano da un secondo all’altro e così, mezzi
umidi, parevano sparati per aria e svolazzanti come i tentacoli di
Medusa. Alla fine, quando mi ero presentato sconsolato in sala da
pranzo, mio padre non aveva potuto fingere che fosse tutto normale. La
mamma disse a Skhiat, il vecchio Elfo, di aspettare ancora un attimo,
prima di servire la cena, si avvicinò e mi
abbracciò amorevole, io la lasciai fare e affondai il viso
nel suo collo profumato, come un povero cucciolo smarrito. Era vero, mi
ero divertito come mai avrei sperato, in quelle settimane, a scuola, ma
ora che ero a casa, mi rendevo conto di quanto la mamma mi fosse
mancata. E a giudicare da come mi teneva stretto a sé,
dovevo esserle mancato tantissimo anch’io, perciò
approfittai del momento a lungo, rimandando a un’altra
occasione le mie ribellioni da ragazzino ormai grande e indipendente,
insofferente a quelle scene intrise di tenerezza. Mio padre
tossicchiò, quella “tossetta” secca e un
po’ ironica, con cui di solito m’invitava a non
fare il bambino, mettendo fine a quegli atteggiamenti che non sempre
riuscivo a reprimere da solo con successo; io mi staccai, rosso in
viso, aspettandomi l’espressione successiva, quella che
diceva “Ricordati
che ormai sei un uomo”, invece, mentre lo
guardavo allibito, si alzò da tavola, si avvicinò
e tese le braccia verso me e mia madre.
“Non credi sia ora di farti
abbracciare anche da me? Prima non stava bene davanti ai tuoi amici, ma
adesso…”
Ci strinse nel suo abbraccio, forte, inondandomi del profumo del suo
dopobarba: era il suo odore, il primo ricordo che avevo da quando ero
solo un bambino. Merlino, quanto amavo essere di nuovo a casa!
“Ora però tutti a
tavola, Charlus, o rischi di andare al lavoro a
digiuno…”
Guardai mio padre, interrogativo, lui mi rispose con
un’espressione rassegnata e colpevole: non era giusto che
dovesse andare a lavorare anche quella sera, era un vero peccato, avevo
così tanto da raccontare… In fondo,
però, ero abituato fin da piccolo ai suoi turni strani,
spesso era costretto ad andare via, magari proprio mentre tutti gli
altri si stringono attorno alla tavola con la famiglia, per
festeggiare. Mio padre, però, non era come tutti gli altri:
mio padre era un eroe, un Auror, dei più in gamba per
giunta. E gli eroi, si sa… Per tutta la cena, comprendendo e
condividendo la mia voglia di parlare e di non separarci tanto presto,
mi fece domande su quelle settimane a Hogwarts, sui miei amici e sulle
mie prime impressioni, ed io, felice, gli risposi con entusiasmo,
cogliendo l’espressione orgogliosa nei suoi occhi quando gli
avevo raccontato dei miei primi brillanti risultati a scuola, ottenuti,
tra l’altro, senza dovermi sacrificare troppo sui libri.
“Ora rimane da scoprire che
cosa è successo ai tuoi capelli, James… E
qualcosa mi dice che si tratta di una storia che terrà
allegri Fred e me, stanotte, mentre patiamo il freddo!
Ahahahah…”
Inforcai e trangugiai l’ultimo boccone, senza prestare troppa
attenzione allo sguardo sgomento che mia madre rivolse a
papà, poi cercai di riavviare all’indietro quella
foresta che mi copriva di nuovo tutta la faccia, nonostante un leggero
incantesimo di contenimento momentaneo, dandomi l’aspetto di
un Terranova: a dire il vero, forse, ormai ero persino più
peloso di un Terranova. Così iniziai a raccontare, con fare
innocente, per filo e per segno, la mia ultima disavventura notturna,
sorvolando sui fatti che avevano portato i miei amici a vendicarsi di
me, e sottolineando piuttosto la loro astuzia, la loro assoluta
mancanza di morale e correttezza, il fatto che ci fossero riusciti solo
unendo le loro forze e approfittando del mio sonno. Vidi che mio padre
faceva un “no” rassegnato con la testa, fingendo,
senza riuscirci, di credere alla mia recita, mentre mia madre, donna
solitamente molto seria e composta, si voltava ogni tanto verso la
finestra, per non far vedere che tratteneva a stento una risata
calorosa: i suoi occhi, però, lucidi di risate, la tradivano
senza possibilità di equivoci, soprattutto quando raccontai
che l’incantesimo di Black mi aveva fatto inizialmente la
testa “pelata come una palla da biliardo”.
“Quindi è solo
colpa di quel Black, dico bene?”
“Sì, esattamente,
papà ma non credere che mi sia fatto mettere sotto da lui!
È solo un damerino londinese! Voglio dire… si
è avvantaggiato col fatto che stessi dormendo, vero, ma
comunque mi sarei difeso, anche nel sonno! Però ci si
è messo pure quell’altro, quel Lupin, e ti
assicuro, papà, quello è tanto buono, calmo e
studioso, ma è tutta apparenza, ti assicuro che è
il peggiore di no…”
“Di tutti voi?”
“No… volevo dire
che tra quei due, tra Black e Lupin, Remus è di certo il
peggiore…”
“E tu naturalmente sei solo la
loro vittima innocente!”
Mi guardò complice, io non riuscii a fingere ancora e, preso
in castagna, scoppiai a ridere: i miei, d’altra parte, erano
troppo felici di riavere a casa il loro unico figlio, per voler passare
quei brevi momenti prima dell’uscita di mio padre a
recriminare su cosa avessi fatto io ai miei compagni per istigarli a
tanto e, soprattutto, a ricordarmi che si va a scuola per studiare.
Appena fu servito il dolce, cui resi istantanea giustizia, sotto gli
occhi orgogliosi di papà, la mamma guardò il
pendolo e gli fece un rapido cenno con la testa. Era il momento.
Sospirai.
“Dai, vieni con me, James,
così ti sistemo questi capelli, mentre tuo padre si
prepara…”
“Dove andrai stasera,
pà?”
“Farò un giretto a
Londra, una ronda a Diagon Alley, ultimamente di notte capita che ci
sia sempre un po’ di confusione…”
“Mi raccomando, Charlus, stai
attento…”
“Vai a caccia di mannari,
pà?”
“James, ma che dici? Non far
perdere tempo a tuo padre, che è già in
ritardo…”
“Tranquillo, James, sono solo
dei semplici controlli: finirò in fretta, anche
perché domattina voglio alzarmi presto e portarti a
scegliere il tuo regalo per Natale… perciò ora
vai con tua madre e sistemati quei capelli, o invece di un figlio
penserò di avere per casa un barboncino… Ci
vediamo domattina…”
“Come sarebbe un
barboncino?”
Mio padre mi baciò la testa, sorridente, poi andò
a cambiarsi, mia madre, esasperata, mi spinse senza tante cerimonie
verso la mia stanza: ero offeso, lui mi dava del barboncino, quando io
ero convinto di essere cresciuto tanto in quei pochi mesi!
“Dai siediti!”
La mamma parve non rendersi conto della mia delusione, decisa
com’era a non perdere altro tempo: ormai i miei capelli erano
diventati spaventosi, perciò mi fece sedere alla scrivania e
iniziò a studiare la situazione dopo aver evocato gli
attrezzi del mestiere. Temetti di vedere apparire, oltre al rasoio e
alle forbici, anche lo strano tosaerba che papà usava per
potare le siepi intorno casa. In realtà, il problema dei
capelli poteva essere risolto in via quasi definitiva solo
dall’incanto segreto ideato dai Potter alcune generazioni
prima, e ogni Strega che andava in sposa a un Potter, era messa a parte
del segreto fin dai primi tempi del fidanzamento: col tempo avevo
scoperto che la mamma era persino più brava di mio padre,
con quell’incantesimo, al punto che il suo
“intervento” poteva durare anche sei mesi, di
continuo, senza bisogno di successivi ritocchi. Da circa un anno,
però, sembrava che i miei capelli mettessero a dura prova
persino quell’incantesimo miracoloso e mio padre, sospirando
divertito, diceva sempre “Sta
arrivando la pubertà, Dorea, preparati a ridere!”.
Prima di partire per Hogwarts, non capivo
“chi” diavolo fosse questa “dannata
pubertà” che avrebbe fatto ridere tanto mia madre,
ora però che vivevo a scuola e vedevo spesso ragazzini poco
più grandi di me comportarsi in modo idiota o parlare con
voci improvvisamente strane e mi accorgevo di sentirmi, io stesso, la
faccia in fiamme ogni volta che mi passava davanti agli occhi una certa
compagna di Casa dai capelli rossi… temevo di aver compreso
di cosa parlasse. Mentre la mamma decideva con quale attrezzo iniziare,
mi scansai la frangia dalla faccia e mi guardai attorno: i poster erano
tutti al loro posto, c’era addirittura un gagliardetto nuovo,
trofeo dell’ultima vittoria dei Tornados. Ed era stato
persino firmato dal capitano per me: mio padre era un grande, lo dicevo
sempre io!
“Nessuno ti ha toccato niente,
Jamie, tranquillo…”
Le sorrisi e mi sistemai buono e dritto sulla sedia, mentre lei,
accarezzandomi ancora i capelli con amore, prendeva le forbici e
tagliava, ridandomi rapidamente un aspetto “umano”,
poi estrasse la bacchetta dalla cintola, me la puntò addosso
e formulò l’incanto di permanenza. Udii, di sotto,
la porta scattare, mio padre stava uscendo, nella notte buia e
innevata. Sentii un brivido strano e, per la prima volta, invece di
immaginare una battaglia furiosa in cui mio padre, forte come un dio,
sbaragliava tutti i suoi avversari, senza difficoltà, mi
colse la paura sorda che qualcosa potesse non andare per il verso
giusto. Il terrore che mio padre non tornasse più da me.
“Non è pericoloso,
vero? È una missione come tutte le altre, vero?”
“Certo, tesoro, non ti
preoccupare! Tuo padre sa quello che fa! Se vuoi, però,
posso restare qui con te, stanotte… T’insegno una
preghiera che recito sempre quando va al lavoro… Vedrai, il
nostro amore lo proteggerà…”
Mi prese le mani tra le sue e m’iniziò a spiegare
che la vera forza di un Mago non sta nella bravura con cui usa la sua
bacchetta, ma nell’amore che la sua famiglia prova per lui.
***
Meissa Sherton
74, Essex Street, Londra - sab. 18 dicembre 1971
Scura in volto, avvelenata da quell’ennesima, sgradita
notizia, ero corsa per le scale senza nemmeno sapere da che parte
dovessi andare: mi salvò Kreya, che apparve davanti a una
porta e la aprì, servizievole, mostrandomi la mia stanza, io
ero talmente furiosa che non solo non la salutai, ma nemmeno la guardai
in faccia e una volta dentro, non riuscii a distinguere niente, come se
il buio della mia rabbia mi rendesse completamente cieca o sottraesse
luce a ogni cosa. Alla fine, un poco alla volta, tornai in me: la mia
camera era simile alla stanza di Amesbury, ma più piccola e
senza tutti i miei effetti personali; rivolto a guardare la finestra,
c’era un baldacchino di legno decorato con i fregi dei Meyer,
con le tende di un delicato color crema e il copriletto verde smeraldo.
Di fianco, sul comodino, oltre alla lampada decorata con
l’aquila dagli occhi blu, c’erano alcuni dei miei
libri preferiti e in fondo al letto, nella cassapanca, probabilmente
c’erano anche i miei giochi; nell’armadio
semiaperto, intravidi dei vestiti invernali, alcuni sembravano abiti
babbani, mi sarebbero serviti se fossi uscita da casa. Di fianco alla
porta, poi, c’era un’alta libreria rifornita di
libri magici e babbani, romanzi e perfino fumetti e, accanto alla
finestra, il tavolo, dove avrei potuto studiare. Di sicuro avrei
passato le mie vacanze confinata lì dentro proprio a
studiare, non avrei avuto nient’altro da fare, visto che,
evidentemente, alla mia famiglia non importava più nulla di
me! Avevano Sile adesso! Ero furente, disperata, delusa.
Quando, però, il mio sguardo si posò sul
caminetto e, soprattutto, sul tappeto e i cuscini già
disposti per le serate da passare giocando a scacchi con mio padre, mi
sentii la faccia in fiamma e le lacrime di nuovo mi serrarono la gola
fino quasi a soffocarmi: mi vergognai come una ladra, per il mio scatto
d’ira e il mio egoismo!
Perché sono tanto stupida? Perché?
Perché non riesco a essere felice per Mirzam e continuo a
comportarmi come una bambina, anche se ho quasi dodici anni? Sono una
stupida, sì, solo una stupida! Si tratta di resistere solo
un paio di giorni, di affrontare solo gli ultimi necessari preparativi,
dopodiché, per il resto delle vacanze, nessuno mi
ruberàpiù le attenzioni dei miei e
staremo tutti insieme…
Tutti… certo... Tranne Mirzam…
Sospirai. Che lo volessi o no, alla fine, il giorno che tanto temevo
era arrivato: avevo nascosto a lungo i miei dubbi, angosciata
com’ero per la mamma e il bambino, per il mio smistamento e
per Malfoy, ma ora… ora non c’era più
niente cui aggrapparmi per non pensare. Quella stava per
portarsi via mio fratello e stavolta sarebbe stato per sempre. Mi misi
seduta in fondo al letto, pensierosa: sapevo che sarebbe accaduto, da
tanto tempo, ma… non era come dicevano tutti, non era per
gelosia che mi sentivo così… Ero certa che non mi
sarei comportata in quel modo con chiunque: quella che non sopportavo
era proprio lei… Sile Kelly non andava bene per mio
fratello, e per un motivo preciso: lui aveva già sofferto
troppo a causa sua… Quando era successo, ero ancora piccola,
vero, ma non abbastanza da non capire, quanto mio fratello fosse stato
male perché “quella” di colpo era
sparita dalla sua vita, né potevo dimenticare che, sempre
per colpa sua, alcuni anni dopo, era stato ricoverato a Inverness e per
un pò era andato via di casa. In seguito avevo
scoperto che lei stava per sposarsi con un altro e avevo collegato le
cose. E l’avevo odiata così
tanto… così tanto… Alla fine, quando
sembrava una storia dimenticata, quando finalmente Mirzam aveva trovato
una persona con cui essere felice, quella megera era ricomparsa ed era
riuscita a fidanzarsi con lui, quasi di nascosto: e nessuno avrebbe
mantenuto quasi segreto il proprio fidanzamento con uno Sherton! Se i
Kelly si comportavano così, celavano di certo qualcosa di
losco! Era vero, c’erano delle tradizioni particolari, nelle
Terre del Nord, di cui avevo parlato anche con Sirius, ma i Kelly erano
andati molto oltre quello che prevedeva la Regola: non avevo mai visto
Donovan Kelly mettere piede a Herrengton in quei mesi, nemmeno il
giorno delle rune di Mirzam… e noi non eravamo mai stati
invitati da lui a Doire.
Strano… troppo… persino per le Terre del Nord!
Inoltre, Mirzam una volta mi aveva detto che per lui Sile non contava
niente, che era una come tante. Allora perché stava per
sposarla? Non avevo mai avuto il coraggio di chiederglielo,
perché per tutta l’estate l’avevo visto
tanto impegnato, tra il Quidditch e i viaggi con
papà… e quando era a Herrengton, spesso era
preoccupato e “lontano”, persino triste, a
volte… Come si può essere così tristi
e preoccupati quando si è innamorati e si sta per sposare
chi si ama? C’era qualcosa che non andava, ne ero sempre
più convinta… Io non ero gelosa, io ero
preoccupata, molto preoccupata, per lui: era questa la
verità. Lo vidi solo allora, sopra un bel mobiletto di
mogano, chiuso da uno sportello e un coperchio di cristallo colorato,
pieno di un numero incredibile di dischi, vicino ai tendaggi che
celavano la finestra: il giradischi di Herrengton. Sorrisi, per la
prima volta da quando avevo messo piede in quella casa: di tutte le
cose babbane che nel tempo mio padre mi aveva fatto conoscere, quella
era l’unica che mi fosse davvero entrata nel cuore e che mi
fosse mancata tanto, a scuola. Mi alzai e mi avvicinai, notai che il
manufatto magico, necessario a farlo funzionare senza
l’elettricità ma con la nostra magia, era
già stato applicato, accarezzai le linee morbide del piatto
e la ruvidezza della testina metallica, dopodiché mi chinai
per cercare tra quei dischi: volevo sentire la voce di John Lennon, mi
avrebbe tolto quel senso di paura e malinconia che mi attanagliava
l’anima. Scorrendo le copertine, vidi, oltre a tutti i miei
dischi dei Beatles, alcuni mai visti, in particolare, uno era ancora
chiuso nel cellophane, e sulla sua copertina campeggiava il volto di
John con la scritta: “Imagine – John
Lennon”. Tirai fuori il disco, lo misi sul piatto, cercai
l’inizio della traccia e la stanza si animò della
sua voce, ondeggiai a piedi nudi sul tappeto, mentre studiavo ogni
singolo dettaglio della copertina: il disco era uscito poche settimane
dopo il mio ingresso a scuola… e la canzone era…
semplicemente bellissima... A un tratto, mentre ondeggiavo piano,
muovendomi appena su quelle note, vidi cadere a terra un bigliettino,
che era stato incastrato con la magia nella tasca interna della
copertina: lo raccolsi e l’aprii.
“Alla principessa delle serpi, con affetto Mirzam
e…” un ghirigoro strano che ... forma...
la parola... “Sile”...
Ero felice per il pensiero di mio fratello, me lo faceva sentire
vicino, anche se non era lì con me, ma anche terribilmente
triste: non volevo che lei si mettesse in mezzo anche in un gesto
semplice come quello… non volevo! Non doveva essere
così, non poteva essere così, d’ora in
poi, per sempre! Non era giusto … Tra noi doveva rimanere
tutto come prima, solo io e lui, le nostre risate insieme, i nostri
piccoli segreti, le serate passate ad ascoltare musica sul
divano… lui che mi difendeva ed io … Mi ritrovai
a piangere, in silenzio, come una stupida, di nuovo, seduta in fondo al
letto, con la copertina in mano e quell’assurdo sentimento
che non riuscivo a scacciare via… Non volevo lasciar andare
Mirzam, non potevo: lui rappresentava quel mondo felice e protetto, la
mia infanzia, che ormai mi stava scivolando via dalle dita e non
sarebbe tornato mai più… sapevo che nessuno
può opporsi allo scorrere del tempo e alla vita, ma... Tutto
il mondo intorno a me ed io stessa, anche se non volevo, stavamo
cambiando e il matrimonio del mio Mirzam era solo un tassello di quel
puzzle sconosciuto che mi appariva davanti senza forma e pieno
d’incognite spaventose… Avevo paura, paura di
quello che ci aspettava, paura che fosse solo l’inizio, paura
che dopo Mirzam, via via, tutti coloro cui volevo bene se ne sarebbero
andati, lasciandomi completamente sola. Dopo un po’, mi resi
conto che non ero più sola, alzai appena gli occhi e vidi la
figura di mia madre sulla porta: non riuscivo a capire se fosse
arrabbiata con me per la mia sceneggiata o cos’altro, ma
quando si avvicinò e venne a mettersi seduta accanto a me,
il suo silenzio raccontava più di mille parole. Le lanciai
le braccia al collo, continuando a piangere, mente lei mi accarezzava
delicatamente i capelli.
“Piangi pure, se ti fa stare
meglio, ma sappi che nessuno ti priverà mai
dell’affetto di tuo fratello, Mei, puoi stare
tranquilla…”
Mi staccai appena e la guardai, anche lei aveva gli occhi un
po’ lucidi e intuii, con sorpresa, di non essere
l’unica a sentirmi strana e confusa per quel matrimonio: Sile
mi portava via un fratello, vero, ma anche a mia madre portava via
qualcosa. Un figlio. Il suo primo figlio.
“Mi sei mancata tanto,
Mei… Avevo così tanta voglia di
rivederti…”
“Mi sei mancata anche
tu…”
Scoppiai a piangere di nuovo, non capivo cosa mi succedesse, sembrava
non fossi più in grado di trattenermi, ma a differenza del
solito, invece di ricordarmi che gli Sherton non devono mostrarsi mai
deboli, mia madre continuò ad accarezzarmi la testa e la
schiena, in silenzio, finché non mi calmai, poi mi
sollevò il viso e mi fissò.
“Mirzam farebbe di tutto per
te, Meissa, lo sai… e so che anche tu vuoi che tuo fratello
sia felice…”
“Ma lui è felice,
mamma? Lo è davvero? Ne sei proprio sicura?”
Mi guardò interrogativa, forse si aspettava altri capricci,
non quel genere di domande, rimase perciò in silenzio, per
riordinare le idee, senza scomporsi, poi mi prese le mani tra le sue e
le guardò con attenzione: seguii il suo sguardo e vidi le
nostre rune, così simili eppure diverse, io ero
così per nascita, lei, al contrario di tutti noi, le aveva
prese per amore del suo uomo. Solo per amore.
“Mirzam ama quella ragazza,
Mei, la ama da quando era poco più grande di te…
E per Sile è lo stesso. Domani sera, realizzeranno insieme i
propri sogni, dopo tante traversie, saranno finalmente
un’anima sola. So che non hai avuto modo di conoscerla, e per
questo ora sei preoccupata per tuo fratello, ma… appena
parlerai con lei, appena vedrai come brillano i suoi occhi quando sente
anche solo il nome di Mirzam, non avrai più dubbi sul loro
amore… e le vorrai bene anche tu…”
“Non è
così… Mirzam, una volta, mi ha detto che per lui
Sile era solo una come tante…”
La mamma mi guardò di nuovo poi sorrise, comprensiva: tutti
noi credevamo che il suo figlio prediletto fosse Rigel, in effetti, di
solito, era indulgente con lui anche quando meritava una lezione, ma
con Mirzam aveva un rapporto unico, sembrava in grado di
“sentirlo” anche quando era lontano, e
papà sosteneva che fosse davvero così,
perché, ed io non capivo cosa volesse dire, erano fatti
della stessa natura, più empatica, istintiva e passionale
della nostra.
“Sai quanto è
orgoglioso e riservato tuo fratello, Mei… Di certo ti ha
detto quelle parole per tranquillizzarti o quando temeva di averla
perduta per sempre. A volte… a volte cerchiamo di mentire
persino a noi stessi, per non soffrire…”
“Ma se fosse davvero amore,
non dovrebbe renderlo felice? Che amore è quello che gli
toglie il sorriso? Mirzam è sempre
così…”
“Tuo fratello non è
turbato per Sile, Mei, fidati di me: è preoccupato per delle
questioni politiche, ma vedrai che presto si risolverà anche
questo… se ne sta occupando tuo padre …”
La guardai, poco convinta, lei, però evidentemente era
decisa a perorare la causa di Sile, o per lo meno tranquillizzarmi.
“Sarebbe bello se nella vita
tutto andasse sempre come vogliamo, Mei, purtroppo non è
così, o almeno… non è sempre
così… le favole esistono solo nei libri, la vita
vera, la felicità vera le creiamo noi, giorno per giorno,
vivendo, non sventolando la bacchetta magica... Ora sei ancora piccola,
ma col tempo scoprirai che l’amore raramente è una
questione semplice, a volte amare ed essere felici non coincidono per
niente. Noi però possiamo lottare per ottenere quello che
vogliamo: questo ci fa crescere, ci fa comprendere la forza che
c’è in noi e nei nostri sentimenti…
Ricorda: quando si tiene davvero a qualcosa, non bisogna rinunciare mai
a combattere, non si deve aver paura di non riuscire o di
soffrire… è solo la paura che ci fa perdere
ciò che per noi è prezioso…”
"Però Mirzam… lui
frequentava un’altra ragazza prima di fidanzarsi con
Sile… ed era felice, lo so… io non capisco
perché…”
“Ma questo non è
vero, Mei… non è affatto vero… Non
c’era nessun’altra ragazza, prima…
Quando siamo partiti da Amesbury e siamo tornati a Herrengton, tuo
fratello è andato a Doire per conto di tuo padre, ed
è stato allora che si sono ritrovati… hanno
parlato, a lungo, hanno chiarito quello che era rimasto in sospeso tra
loro. Tuo fratello era felice perché finalmente tutto stava
andando a posto con Sile… e alla fine, appena hanno sciolto
ogni possibile dubbio, ha chiesto a Donovan di poterla
sposare…”
“Io… io
non… capisco… se sono innamorati,
perché non hanno nemmeno festeggiato? Perché
sembra che i Kelly si vergognino?”
“Ascolta Mei…
è stato un errore nostro non darvi spiegazioni, me ne rendo
conto solo adesso, era meglio parlarvene subito… ma tu avevi
già troppi pensieri, con lo smistamento e tutto il resto,
poi stava per nascere Adhara e avevamo i figli di Orion per
casa… è finita che non abbiamo affrontato con te
e Rigel questa storia…”
“Quindi qualcosa che non va
c’è… ho ragione
io…”
“Ti spiegherò
meglio quando sarai più grande, Mei, ora potresti capirmi
solo in parte… ti basti sapere che a volte si fanno delle
cose stupide e… tuo fratello, come tutti, ha commesso degli
errori, in buona fede, certo, ma… ci sono state situazioni
che non sono piaciute al padre di Sile, e a esser sincera, al suo
posto, come madre, non sarebbero piaciute nemmeno a me... Donovan Kelly
pare burbero e testardo, ma lo conosco da tanti anni, conoscevo anche
sua moglie, è un brav’uomo… uno di
quegli uomini che, proprio come tuo padre, darebbe la vita per
proteggere i propri figli.”
“Mi stai dicendo che
è lui che non vuole che Sile sposi Mirzam? Vuoi dire che
finirà come tra papà e il nonno e dovranno
sposarsi senza la benedizione di suo padre?
Salazar…”
“No, Mei, no, stai
tranquilla… Donovan magari non lo ammette ancora, ma
è contento di questo matrimonio! All’inizio, per
una serie di ragioni, non si fidava delle intenzioni di tuo fratello,
per questo ha preteso una dimostrazione, l’ha messo alla
prova con delle condizioni assurde, aspettandosi che Mirzam si
lamentasse e mandasse a monte tutto, o che chiedesse a vostro padre di
intervenire per risolvere quella situazione, come farebbe un ragazzino
viziato…”
“Mio fratello non è
un ragazzino viziato, mamma, se Kelly pensa questo di Mirzam, allora
non lo conosce affatto…”
“Proprio così, Mei,
non lo conosceva, ma in questi mesi, Mirzam ha fatto in modo che Kelly
non avesse più dubbi, si è fatto conoscere, non
ha voluto che vostro padre lo aiutasse, ha accettato tutte le
condizioni di Donovan, anche se sembravano assurde, ha persino messo da
parte il suo orgoglio, perché la cosa più
importante per lui è poter vivere con Sile, in pace e in
armonia con tutti noi. Credo tu sappia cosa significa tutto
questo… perché tuo fratello ha agito
così…”
Chinai lo sguardo: ora che sapevo come stavano le cose, mi sentivo pure
più stupida.
“Per lo stesso motivo per cui
papà ha preferito abbandonare a Herrengton che rinunciare a
te… è innamorato di lei come lo siete tu e
papà…”
“Sì…
è proprio così… e ora quando guardo
tuo fratello, vedo nei suoi occhi la stessa luce che anima tuo
padre…”
La guardai: non avevo mai visto la mamma così commossa,
aveva gli occhi così luminosi, pieni di amore e passione! Mi
sentii strana, in quel momento, perché per la prima volta,
percepii in mia madre qualcosa di diverso, non era più
quella specie di dea che mi voleva bene ma che sapeva anche incutere
timore e rispetto quando commettevo degli errori… Era una
creatura molto più vivida, così vicina a me che
la potevo “toccare” dentro, era così
umana, reale, simile a me, come non l’avevo percepita mai,
nemmeno quando quell’estate mi aveva spiegato cosa significa
diventare una donna o quando le avevo parlato di quello che provavo
quando stavo accanto a Sirius. Non era più la
divinità irraggiungibile dell’infanzia, ma un
essere umano come me, più fragile e al tempo stesso
più forte. Forse è anche questo ciò
che si prova quando si “diventa grandi”, si vedono
con occhi nuovi le cose e le persone che abbiamo sempre avuto accanto.
Anche le più vicine, soprattutto le più vicine.
Sapevo di non essere pronta a questo, a sentire questa
complicità strana, piena e completa. Ero turbata per questo
ennesimo cambiamento.
“Quanto a Sile…
merita appieno il nostro affetto, Mei, fidati di me… dalle
modo di farsi conoscere da te e scoprirai che avete molto in
comune… Sai, è stata lei a far conoscere a Mirzam
la musica che ami ascoltare con lui… e quel libro di
poesie… quello che Mirzam ti ha spedito a
scuola…”
“…era
suo…”
La mamma annuì, io non sapevo cosa pensare, anche se in
fondo in fondo, sentivo di essere più sollevata ora che
alcuni tasselli erano andati al loro posto.
“Ora basta con gli occhi
tristi, però… ho io la soluzione per farti
tornare il sorriso… non hai idea di quanto sono cresciuti i
tuoi fratelli in questi mesi… dubito che riuscirai a
riconoscerli!”
La seguii entusiasta e quando finalmente accarezzai la pelle calda e
profumata di Adhara, così uguale alla mamma stando alle foto
di quando era una neonata, e mi lasciai rapire dagli occhi di luna di
Wezen, in pratica un Mirzam in miniatura, nonostante il tumulto che
avevo nel cuore sentii che era vero. Ero di nuovo a casa, ed era tutto
come sempre, era tutto perfetto come sempre, ovunque mi girassi
c’erano le tracce di quell’amore che non sarebbe
cambiato mai, nonostante il passare del tempo e gli agguati del
destino. Un amore talmente grande che non dovevo temere di
dividerlo con altre persone, ce ne sarebbe stato sempre abbastanza per
tutti. Un amore così forte che, qualunque cosa fosse
accaduta, nessuno l’avrebbe mai spezzato. Nessuno ci avrebbe
mai diviso.
***
Sirius Black
12, Grimmauld Place, Londra - sab. 18 dicembre 1971
“È vero, la neve ha un suo
profumo…”
Non me n'ero reso conto mai, prima che Meissa me lo facesse notare,
soffiandomelo in un orecchio, quella mattina, mentre ci dirigevamo alla
stazione di Hogsmeade. Di nuovo a casa, affacciato alla finestra,
semi-intirizzito, avevo scoperto che a Londra il profumo della neve era
molto diverso da quello che avevo sentito a Hogwarts: lassù,
la neve porta in sé l’essenza della purezza e
della libertà, a casa... A casa anche la neve, pur
volteggiando leggiadra nell'aria, quando tocca il suolo si macchia, si
sporca, perde se stessa. Come me. Kreacher mi aveva chiamato a
metà serata, per ricordarmi che dovevo scendere a cena, io
non avevo alcuna voglia di rivederli, ma l'idea che mia madre potesse
arrabbiarsi di nuovo con me... No, non avevo avuto il coraggio di
ribellarmi e subire un'altra scenata da parte sua. Così
avevo percorso la scalinata, con la morte nel cuore, ma una volta
raggiunta, avevo trovato la sala da pranzo completamente vuota, c'era
solo Kreacher che zampettava qua e là per servirmi. In
lontananza, forse dalla Sala dell'Arazzo, arrivava secca e dura la voce
di mia madre, ma non capivo con chi fosse, visto che parlava solo lei:
solamente dopo una buona mezzora mio padre riuscì a
interromperla, la voce strascicata e più stanca del solito.
Stavano decidendo se fosse il caso di portarmi al matrimonio di Mirzam:
mia madre non sapeva decidersi se fosse più umiliante
portarmi con loro e dover giustificare la mia situazione vergognosa con
tutti, o far finta che non esistessi, lasciandomi a casa; mio padre
sembrava non considerare di alcuna importanza la questione:
d’altra parte, finora, non aveva dimostrato che in rare
occasioni di ricordarsi di noi, quando eravamo in pubblico. Di Regulus,
infine, non c'erano proprio tracce: di tutto il discorso di mia madre,
quel pomeriggio, la parte che mi aveva sconvolto di più era
stato l'esplicito invito a stare lontano da mio fratello e quando ero
rimasto da solo in camera, quando avevo avuto modo di comprendere come
tutte le paure provate in quei mesi fossero concrete, quando avevo
capito quanto odiassi mio padre e mia madre e non
m’importasse nulla di loro, ormai, perché infondo
lo sapevo già che avrebbero agito in quel modo…
quel pensiero era rimasto lì, conficcato nel cuore tanto a
fondo da togliermi il respiro.
E se riuscirà davvero a dividerci?
E se…
Regulus era una piattola certo, ma… era mio fratello e avevo
scoperto quanto sentissi la sua mancanza, in quelle settimane che
eravamo stati lontano. Un brivido, che nulla c'entrava con la
temperatura di quella notte, mi attraversò la schiena,
rimasi immobile, mentre la mente si riempiva ancora una volta delle
parole di mia madre e gli occhi si arrossavano di lacrime. L'abbraccio
alla stazione, con Regulus, mi aveva dato un minimo di speranza: che
cosa sarebbe successo se avessi perso anche lui? Cosa ne
sarebbe stato di noi, se ci avessero diviso? Chiusi la finestra e,
intirizzito, mi avviai a letto, mi avvolsi nelle coperte e cercai di
farmi forza, immaginandolo oltre quel corridoio, che dormiva sereno, in
attesa del nuovo giorno, per stare con me, per sapere da me i segreti
della scuola. Era solo il primo giorno, poi sarebbe stato diverso.
Tutto sarebbe stato diverso… Cercai di distrarmi,
ripercorrendo le ultime settimane, ripensando ai miei amici: mi chiesi
che cosa era successo poi ai capelli di James, e quanti dolci avesse
già mangiato Peter. E Remus... Sarebbe stato bello, in quel
momento, averlo con me, con le sue parole giuste, al momento giusto.
Chissà come faceva a essere sempre così bravo a
leggere nell'anima degli altri... Mia madre aveva sempre definito la
torre dei Grifondoro la"schifosa" casa di Godric, ero stato allevato
pensando a quell’ambiente come a un ricettacolo di persone
indegne e pericolose, ma gli amici che avevo incontrato là
dentro si erano dimostrati la mia unica vera famiglia, e quelle
settimane, al pari di quelle passate con Alshain e quella stranissima
vacanza a Zennor, con mio padre e Regulus, pochi anni prima, erano
stati i miei pochi momenti di felicità pura.
I miei pensieri, ormai confusi dall’ora tarda e dalla
stanchezza, si bloccarono all'improvviso, tornando subito chiari,
quando sentii uno scricchiolio provenire dalle scale. Rimasi con
l'orecchio teso, preda della folle paura che mia madre volesse
attaccarmi nel sonno. Spensi la luce, mi sistemai nel letto come se
stessi già dormendo, la bacchetta nascosta sotto il cuscino,
per ogni evenienza, anche se sapevo che non sarei mai riuscito a
difendermi da lei. Nel buio sentivo soltanto il cuore esplodermi nel
petto e quei passi che salivano le scale: era troppo pesante e
affaticato per essere quello di mia madre, d’altra parte mio
padre non sarebbe mai salito nel cuore della notte solo per me o
Regulus. Nemmeno per punirci: lui non era mai preda
dell’impazienza, né dell’ira. Eppure non
vedevo altri motivi per cui dovesse salire le scale a
quell’ora. I passi terminarono davanti alla camera di mio
fratello, sentii la serratura scattare, lieve, io saltai fuori dal
letto, cercando di soffocare ogni rumore, arrivai alla porta, dapprima
mi attaccai con l'orecchio per sentire, poi spiai la situazione dalla
serratura: il corridoio era completamente avvolto dalle tenebre, a
parte un lieve chiarore che s’intuiva attraverso la porta
appena scostata nella stanza di Regulus. La luce avanzava
attraversando tutta la stanza, probabilmente fino alla mensola della
finestra, di fianco al letto: mio padre si stava avvicinando a Reg. Ed
era davvero strano: non avevo memoria che avesse mai fatto qualcosa del
genere con nessuno di noi due. Forse doveva parlargli, come aveva fatto
con me quando mi aveva affidato l'anello per Alshain. Forse aveva una
missione per mio fratello, perché di certo ormai, per quel
genere di cose, non si sarebbe più rivolto a me, il figlio
rinnegato. Non sentii voci, mio padre non si trattenne a lungo,
sembrava che si fosse assicurato solo che stesse dormendo, subito la
luce aveva ripreso ad avanzare lenta verso l'uscita. Io risalii rapido
nel letto, tirandomi le coperte addosso: se avesse fatto visita anche a
me, non potevo permettermi che si arrabbiasse anche perché
lo stavo spiando. La serratura di Regulus si chiuse, con un soffio
sottile, e subito dopo percepii il cigolio lieve delle assi davanti
alla mia porta, attutito dal tappeto morbido. Attese, mentre il cuore
mi balzava fuori dal petto. Avevo paura. Paura che entrasse e mi
punisse. Ma ancora di più che non entrasse affatto, che
passasse oltre, perché per lui, io non esistevo
più, proprio come per mia madre. Lo percepivo di
là della porta, che aspettava, indeciso: non stava valutando
solo se entrare o no, valutava se considerarmi o meno suo figlio. Non
mi era importato mai, avevo sempre finto che non me ne importasse
niente, ma mentre quella porta ci divideva, sentivo le lacrime salirmi
agli occhi, affondai la faccia nel cuscino, mordendolo con i denti per
soffocare i singhiozzi. Fu allora che la serratura scattò,
con il solito sbuffo soffocato. La candela illuminò fioca la
stanza, ricca di decori e orpelli, io cercai di restare immobile, di
fingermi addormentato, confuso su cosa provassi in quel momento. Mio
padre si fermò davanti alla scrivania, al lato del mio
letto, depose il lume, poi si avvicinò ancora, lentamente:
percepivo il suo respiro affaticato, poi la sua mano che si posava,
lieve sulla coperta, tirandola appena, così da coprirmi
meglio le spalle, accostandola per bene al mio corpo, su su, fino al
collo. Aveva indugiato, sì, aveva indugiato quando, con quel
movimento leggero, aveva toccato i miei capelli. Sicuramente era stato
uno sbaglio.
Cosa prova in questo momento? Schifo per il suo figlio rinnegato? E
allora perché si trova qui? Perché ha tanta cura
che non prenda freddo e non mi ammali? Sono forse merce ancora buona
per qualcosa, io Sirius Orion Black, smistato a Grifondoro come immonda
feccia? Posso ancora tornargli utile per qualcuno dei suoi
affari?
E allora perché, se è solo questo, se sono solo
merce, perché, se mi ha sfiorato per errore, ora continua ad
accarezzarmi dolcemente la testa? E perché,
all’improvviso, le sue labbra si sono appoggiate fulminee e
tenere sui miei capelli? Perché da quelle stesse labbra,
come in un sogno, sono uscite silenziose parole d’affetto?
"Bentornato, figlio mio... "
Perché?
Perché solo adesso? Perché solo così?
Al buio, in segreto, di nascosto?
Perché?
Volevo alzarmi, voltarmi, affrontarlo, inchiodarlo con le mie
domande. Invece eccomi qui, inerme, paralizzato, incredulo,
turbato, incerto se essere felice, furioso, spaventato, mentre, rapido,
mentre mio padre riprendeva la candela e si richiudeva la porta alle
spalle.
Perché?
Se solo fossi stato abbastanza forte da affrontarlo… Se solo
avessi avuto il coraggio di parlare… Alshain dunque non
mentiva su mio padre?
Perché?
Perché il suo maledetto orgoglio Black è
più forte persino del nostro inutile Sangue Puro?
*continua*
NdA:
Eccomi qua, capitolo in cui non accade praticamente nulla, ma volevo
far vedere alcuni cambiamenti nei personaggi (infatti il capitolo nei
giorni scorsi era stato pubblicizzato su EFP con il titolo di
"Consapevolezza" o anche "Crescere", poi ho preferito privilegiare,
almeno nel titolo, Rigel e Orion). L'immagine è uno dei
capolavori di AryYuna,
potete trovarlo nella sua pagina
artista su FB o su DeviantArt.
Passo ora ai
consueti ringraziamenti a quanti hanno letto e recensito, aggiunto a
preferiti, seguiti, ricordati, ecc…
Un bacione a tutti, alla prossima!
Valeria
Scheda
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