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Autore: Terre_del_Nord    15/05/2010    15 recensioni
Sirius Black e la sua Nobile Casata; gli Sherton e la Confraternita del Nord; l’Ascesa di Lord Voldemort e dei suoi Mangiamorte; gli Intrighi di Lestrange e Malfoy; le leggende di Potere e Sangue risalenti a Salazar Slytherin. E Hogwarts, i primi passi dei Malandrini e di chi, Amico o Nemico, condivise la loro Storia. UNA STORIA DI AMORE E DI GUERRA.
Anni 70. Il Mondo Magico, alle prese con Lord Voldemort, sempre più potente e feroce, farà da sfondo dark a storie d'amicizia per la vita, a un complicato rapporto tra un padre e i suoi figli, a vicende di fratelli divisi dalle scelte e dal sangue, a storie d'amore romantiche e avventurose. Gli eventi sono narrati in 1° persona da vari personaggi, canon e originali. "Nuovo Personaggio" indica la famiglia Sherton e altri OC.
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HABARCAT (Chap. 1/20) *** ORION (Chap. 21/24) *** HOGWARTS (Chap. 25/39) *** MIRZAM (Chap. 40/52) *** STORM IN HEAVEN (Chap. 53/62) *** CHAINS (Chap. 63/X) *** FEAR (Chap.97/) ***
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VINCITRICE 1° TURNO "Harry Potter Final Contest"
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Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: I Malandrini, Mangiamorte, Nuovo personaggio, Regulus Black, Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'That Love is All There is' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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That Love is All There is
Terre_del_Nord

Slytherin's Blood

Storm in Heaven - III.001 - Ciò Che Non Sai di Me

III.001


Rigel Sherton
74, Essex Street, Londra - sab. 18 dicembre 1971

Non mi aspettavo che, di ritorno da Hogwarts, la nostra destinazione sarebbe stata non Herrengton o Amesbury, ma la casa di Essex Street, a Londra: i nostri genitori, già da qualche settimana, si erano trasferiti lì con i bambini, per permettere a papà di seguire con più costanza i suoi affari al Ministero e per lasciare da soli, in seguito, nostro fratello e sua moglie ad Amesbury, in attesa che fosse ultimata la casa che Mirzam si stava facendo costruire vicino a Maillag, sulla costa occidentale delle Highlands. Non sapevo se ero felice perché, al contrario dei più, riusciva a sposare la ragazza di cui era innamorato, o piuttosto perché finalmente me lo toglievo dai piedi; di certo quel pensiero passava in secondo piano, rispetto alla felicità di poter riabbracciare la mamma e alla curiosità di rivedere la famigerata Essex Street. L’appartamento di Londra era stato ereditato da papà da suo zio, Tobias Meyer, in quanto ultimo discendente di quella famiglia e perché Herrengton, secondo tradizione, era destinata ai maschi primogeniti, quindi a suo fratello: nostro padre vi si era stabilito quando fu cacciato da casa, nell’estate del 1948 e, un anno dopo, vivendo dei soldi del primo ingaggio al Puddlemere, aveva sposato la mamma e creato la nostra famiglia nella Londra babbana. I miei fratelli ed io eravamo nati in quella casa e lì eravamo rimasti fino alla morte del nonno, nel 1962: al 74 di Essex Street aveva perciò avuto inizio la mia storia e, anche se non ne avevo quasi più alcun ricordo, sentivo di appartenerle ancora. Avevamo preso un taxi babbano appena salutati i Black, fuori da una King’s Cross immersa nella neve: feci tutto il tragitto con il naso incollato al finestrino, trattenendomi a stento dal fare domande imbarazzanti su tutte le meraviglie che mi circondavano. Avevo già visto molti villaggi babbani e persino Londra, quell’estate, ma la Capitale, in vesti natalizie, era tutta un’altra cosa, una realtà in cui mi sarebbe piaciuto perdermi. Papà si era seduto davanti, accanto all’autista, Meissa ed io stavamo dietro; speravo che in stazione avrei rivisto anche la mamma, ma lei era rimasta a casa, impegnata con i bambini, mentre Mirzam ci avrebbe raggiunto solo il mattino successivo, al momento era a Inverness a festeggiare con gli amici. Mi scappò un sorrisetto malizioso, che lasciò interdetta mia sorella: mi chiedevo se quel barbogio si sarebbe scatenato in un vero addio al celibato o avrebbe piuttosto fatto il guastafeste pure quella sera. Certo il fatto che avesse chiesto a Jarvis Warrington, e non a Rodolphus Lestrange, di fargli da testimone, mi faceva propendere per la seconda possibilità…
  
    A meno che…
   
Scacciai subito quel pensiero molesto. No, Rabastan diceva cose assurde su Mirzam e, in effetti, spesso mio fratello era strano, ma non potevo credere che la sua fosse qualcosa di più di una semplice simpatia per quel gruppo di pazzi fanatici che andavano in giro, mascherati, a far danni. Quell’estate, a dire il vero, mi era preso un colpo quando l’avevo trovato con un giornale clandestino e mi aveva fatto il solito discorso sui Purosangue e sulla necessità di fare delle scelte consapevoli ma, conoscendolo, mio fratello restava solo un pallone gonfiato, che, per fortuna, non aveva il coraggio di mettere in pratica nemmeno un decimo di quello di cui blaterava. Ritornai al presente, mentre Meissa, contrariata per l’assenza di Mirzam, si lamentava perché non avrebbe potuto salutare nostro fratello come desiderava e perché il giorno successivo la mamma ci avrebbe trascinato dalla sarta per provare i vestiti nuovi e anche perché saremmo stati travolti dal caos degli ultimi preparativi: in realtà, era gelosa pazza di Sile Kelly e si sentiva male al solo pensiero che, l’indomani sera, avremmo dovuto prendere parte al rito di Yule e al matrimonio. Sì, i miei fratelli erano proprio fatti l’uno per l’altra, erano due perfette piattole: mi chiedevo se non ci fosse la possibilità che Mirzam si portasse via anche lei, sarei stato pronto persino a pagarlo, purché me la togliesse di torno. Ghignai e Meissa, forse intuendo che pensavo qualcosa di spiacevole che la riguardava, mi guardò storto.
Arrivati a destinazione, papà aiutò l’autista a scaricare un paio di valigie, gli diede una lauta mancia e ci avviammo, come tre Babbani qualsiasi, lungo il vialetto della nostra casa londinese. Tutto sembravamo fuorché la più potente famiglia di Maghi del Nord dell’intera Scozia: mia sorella ed io eravamo intabarrati nei nostri montgomery scuri, avvolti in sciarpe, guanti e cappucci, nostro padre era chiuso in un lungo cappotto di lana, che copriva completamente il suo vestito babbano, e aveva persino il viso in parte camuffato da un finto paio di occhiali da vista. Sorrisi tra me, immaginando le smorfie disgustate che Walburga Black avrebbe fatto se ci avesse visto conciati in quel modo. Appena Orion e i suoi figli si erano allontanati, infatti, papà ci aveva trasfigurato le vesti, così da poter passare la barriera di King’s Cross e confonderci tra i viaggiatori “normali” senza destare sospetti: io mi ero divertito a immergermi tra quella folla affannata, vestito con le loro stesse vesti, pur intimamente tanto diverso da loro. All’improvviso, mi ero sentito… libero! Era un sentimento strano, molto strano, e lo sapevo, ma non potevo farci niente: quello che mi costava, e che temevo sempre non mi riuscisse bene, a scuola, era fingere, verso quel mondo, un disprezzo che non provavo. Io ero curioso, molto curioso, volevo conoscere, volevo sapere, anche se era rischioso. A casa mia si rispettavano i Babbani, non come in una casa Grifondoro, certo, ma, pur tenendoci a “distanza di sicurezza”, si cercava di convivere con loro pacificamente e si apprezzavano alcune delle cose migliori del loro mondo. Questo, però, presso gli altri Slytherins, e non solo loro, non si poteva fare liberamente: gli altri non avrebbero capito, gli altri si sarebbero fatti strane idee su di noi, ci avrebbero chiamati traditori del Sangue Puro, rendendoci la vita un inferno. A volte, invece, io sentivo che… che quello che avevo intorno non mi bastava, avrei voluto anche di più, molto di più, qualcosa che ancora non comprendevo, ma che forse, se gliene avessi parlato, mio padre avrebbe capito meglio di me. Ero certo di aver ereditato da lui, insieme alla passione per il Quidditch, anche la curiosità per quel mondo, e da quando avevo saputo che saremmo rimasti alcuni giorni a Londra, prima di tornare a scuola, mi si era fissato nella mente il pensiero della mitica Porsche che usava da ragazzo, e che, ero certo, avrei potuto ammirare ancora, pronta e invitante, nel garage di Essex Street. Nessuno dei miei amici di Serpeverde, tanto meno la mia famiglia, lo sapeva, ma… a volte… con Emerson, ci nascondevamo in una radura impervia dietro la Guferia ad ammirare macchine e ragazze, nei giornali che William si faceva prestare da un ragazzo più grande, del sesto anno, un Nato Babbano di Corvonero. Con la coda dell’occhio, mentre schivavo una palla di neve che Meissa mi aveva tirato addosso, a tradimento, e nostro padre ci diceva di sbrigarci a entrare, perché stava ricominciando a nevicare, vidi la signora del palazzo di fronte, bigodini in testa, spiarci dalla finestra: provai a salutarla, sorridente e gentile, ma lei, invece di ricambiare, chiuse di scatto le tende ed io ci rimasi male.

    “Hai visto che buffa quella Babbana?”

Meissa lo borbottò sottovoce, in gaelico, un sorrisetto canzonatorio e divertito in faccia. Non le risposi: era giusto, dovevo mediare il mio entusiasmo con un po’ della sana cautela dei miei, di mia madre in particolare, in fondo per secoli eravamo stati trucidati dai Babbani, solo perché eravamo “diversi”, e ora che non avevano più noi da perseguitare, passavano il tempo a farsi la guerra tra loro, soprattutto contro chi appariva in qualche modo “strano”. Molti di loro non erano delle brave persone, lo sapevo, eppure non tutti dovevano essere così: mi piaceva pensare che anche tra loro, come tra noi Maghi, ci fossero caratteri diversi, curiosi, aperti a realtà imprevedibili, che… magari, un giorno, quando fossi stato più grande e più abile a capire le situazioni e le persone, chissà… forse avrei trovato dei Babbani simili a quelli che popolavano le mie fantasie e...

    “Insomma, Rigel, ti muovi?”

Mi voltai e annuii a mio padre, non prima, però, di aver prestato attenzione, di nuovo, alla casa: aveva una facciata bianca, con gli ultimi due piani, alle luci dei lampioni, apparentemente color crema, le finestre del piano terra e del primo piano a bow-windows e un terrazzino al secondo piano, due file di ampie finestre con tendaggi grigio scuro che non facevano intravvedere l’interno. Non era grande ma già mi piaceva, riconoscevo infondo qualcosa di noto, familiare, eppure non capivo, così incassata tra le altre case, come fosse possibile viverci senza correre il rischio di svelare la nostra natura ai Babbani. Superai i tre gradini all’ingresso ed entrai, oltrepassando il portone di legno scuro, con un anonimo battente d’ottone, senza fregi slytherin, ma con ornamenti floreali: non c’era nemmeno il simbolo dei Meyer, un’aquila dorata con le ali spalancate in volo e gli occhi di ossidiana blu. L’ingresso era arioso, illuminato da lampade elettriche a muro sorrette da candelieri di ferro battuto, era abbellito da palme e anthurium rossi, un portaombrelli con gli stessi motivi floreali dei candelieri e il simbolo dell’aquila, una piccola consolle con sopra un telefono babbano e un quadretto d’argento con la foto “immobile” della mia famiglia risalente a quando Meissa doveva avere appena un anno e, in fondo alla “galleria”, un antico orologio a pendolo. Il pavimento era di marmo bianco e rosa antico, a mosaico, con motivi geometrici, le pareti erano coperte di carta da parati chiara con motivi floreali, mi sembravano dei gigli: erano appesi un bellissimo specchio in una cornice decorata dal simbolo dei Meyer e dei quadri di mia nonna da giovane con la sua famiglia, in abiti babbani. Probabilmente, come mio padre, avevo preso certe strane tendenze da quel ramo della nostra famiglia. Sorrisi, mentre guardavo la foto di Tobias Meyer, da ragazzo, vestito, come la nonna, secondo la moda degli anni ‘20: era stato un grande Cercatore, aveva contribuito a fare la storia del Quidditch, due generazioni prima della mia, peccato avesse giocato nei Tornados e non nel Puddlemere e, soprattutto, che fosse morto molto giovane, durante i bombardamenti di Londra del 1940. Un’ampia arcata e una vetrata stile liberty facevano da sipario e lasciavano intravvedere l’antistante sala da pranzo, dominata da un lungo tavolo di legno, le sedie dagli alti schienali di età vittoriana e una grandiosa credenza in cui, dietro le vetrate di cristallo, facevano capolino servizi di ceramica di Delft. Alla mia sinistra si dispiegava invece la scala che portava ai piani superiori, con la ringhiera di ferro battuto, e sull’altro lato si apriva, maestoso, l’enorme salone, che dava su un giardino posteriore: anche lì c’era la luce elettrica, diffusa attraverso un maestoso lampadario che sorreggeva un numero imprecisato di candele elettriche, nascoste in una pioggia di gocce di cristallo e foglie e arzigogoli vari. Le pareti erano ricoperte da carta da parati di un leggero colore avorio con lo stesso delicato motivo del giglio, i mobili erano di legno chiaro con intarsi dorati e cobalto, e il pavimento di marmo blu notte, con un elegante ricamo sottile a greche dorate che correva lungo tutto il perimetro e si ricongiungeva al centro in una piccola aquila dorata. Per quanto riuscivo a vedere, in tutta la casa erano già stati allestiti gli addobbi natalizi e nel salone campeggiava un albero di Natale che, per grandezza e ricchezza di decorazioni, nulla aveva da invidiare agli alberi di Hogwarts e di Herrengton: in basso, erano già stati sistemati tutti i regali da aprire la mattina di festa. Sapevo che la maggior parte dei Maghi, ormai, quasi fossero comuni Babbani, si scambiava i regali il 25 dicembre, in occasione delle festività cristiane ma, per noi Maghi del Nord e pochi altri Purosangue tradizionalisti, la festa da celebrare continuava a essere, da secoli, solo ed esclusivamente quella del 21, il Solstizio d’Inverno.

    “Le vostre camere si trovano al secondo piano, io e la mamma stiamo al primo, dove c’è anche la cameretta dei bambini, nella mansarda c’è il mio studio. Prima di salire, però, ho bisogno della vostra attenzione.”

Meissa ed io ci guardammo, c’eravamo tolti i giacconi, che Doimòs aveva subito sistemato in un guardaroba che si apriva dietro all’ingresso, in posizione nascosta, quindi seguimmo nostro padre che ci fece strada diretto di nuovo alla porta.

    “Questa casa, nel cuore di Londra, è stata costruita secoli fa, molto prima che fosse firmato lo “Statuto di Segretezza Magica”: da sempre è appartenuta ai Meyer, e ora è nostra. Fin dal 1550, fu dotata di opportuni incanti che la rendessero non del tutto “comprensibile” ai Babbani: possono guardarla, possono entrarci se invitati, possono vedere qui dentro tutto quello che voi vedete in questo momento, ovvero una casa qualsiasi, con mobili qualsiasi e vestiti qualsiasi; questo perché all’ingresso opera un incantesimo “Confundus” permanente, capace di generare questo tipo d’illusione. So quello che stai per dire, Rigel, ma no, non era possibile far sparire questa casa, perché è una dimora storica. I Meyer, nel medioevo e fino a tutto il 1600, sono stati importanti mercanti e alchimisti, e nel XV, XVI secolo, in questa casa, sono passati personaggi fondamentali non solo per il mondo magico. In quei tempi lontani, alcuni Babbani illuminati, per amore della conoscenza, tenevano in gran conto i pareri di quelli che chiamavano Alchimisti e Medici: erano in realtà i nostri antenati, Pozionisti e Guaritori. Quella è stata un’epoca felice per tutti, per noi come per loro, ed è a questo che il Ministero dovrebbe mirare anche oggi, non a farci nascondere come dei delinquenti! Evidentemente, però, non tutti la pensano così… perciò…”

Sfiorò il muro accanto alla porta con la runa che portava impressa sul polso sinistro e nella casa, accanto agli oggetti finora visibili, apparvero gli altri, quelli magici.

    “Per quanto i Meyer siano tra i Maghi più abili che io abbia mai conosciuto, ho passato tutta l’estate, con Mirzam, a mettere delle precauzioni in più, perché ora ci vivrete anche voi. Questo è il vero aspetto della nostra casa, non c’è molta differenza con Amesbury o Herrengton, è solamente più piccola e invece dei fregi degli Sherton, ci sono quelli dei Meyer. La vera differenza è che abbiamo dei vicini, per cui dobbiamo comportarci usando sempre il cervello. Appena siamo tutti in casa, è sufficiente sfiorare il muro per rendere visibili le cose che ci servono, ma se qualcuno bussa alla porta, l’incantesimo di cui vi ho parlato rientra in funzione per noi e per il visitatore. Dopo il matrimonio vi farò bere una pozione che maschererà temporaneamente le vostre rune più visibili, lo farò anch’io con le mie. In questo modo possiamo vivere come vogliamo, senza correre rischi inutili. Tutto chiaro?”

Annuimmo, capii che vedere il vero volto di quella casa aveva in parte rasserenato mia sorella, ma io, interessato a vedere la mia stanza e scoprire se davvero c’era, ancora, quella macchina nel garage, stavo prestando via via meno attenzione a quel discorso.

    “Bene: la porta del giardino è dotata dello stesso incantesimo, come pure tutte le finestre, nessuno da fuori può vedere la casa per quello che è, né può vedere noi per quello che siamo. Eventuali ospiti babbani, però, non devono salire ai piani superiori o potrebbero incontrare Kreya e Doimòs: a quel punto dovremmo chiamare la squadra Obliviatori e voi sapete bene quanto mi scoccerebbe mettere in mezzo il Ministero!”
    “Beh, se è per quello… potremmo sempre obliviarli noi!”

Non so perché dissi quella sciocchezza, forse era solo l’idea di come avrebbe reagito la signora con i bigodini in testa se avesse saputo chi stava spiando, che mi faceva sghignazzare divertito, ma capii che mio padre aveva male interpretato il mio intervento e soprattutto la mia faccia insolente. Mi bastò intercettare i suoi occhi furenti per sapere che non aveva ancora dimenticato quella faccenda con Slughorn e Pascal e che correvo un serio pericolo se si fosse arrabbiato con me.

    “Non ammetterò alcun genere di scherzo, nemmeno quelli più innocenti, ai danni dei nostri vicini, da nessuno di voi due, è chiaro? Soprattutto tu, Rigel… Sto ancora pensando di spedirti tra le nevi di Durmstrang a calci, vedi di non darmi un’ulteriore scusa per farlo davvero!”
 
M’incenerì con lo sguardo ma, preso dalle novità che doveva ancora illustrarci, cambiò subito discorso, sapevo però che presto saremmo tornati sull’argomento; ci riaccompagnò quindi nel salotto, che ora aveva un aspetto tradizionalmente magico, con i fregi slytherin e ravenclaw distribuiti ovunque, il camino con la ciotola della Metropolvere, la luce a gas, il quadro di nostra nonna, il giorno del fidanzamento, a Herrengton Hill, di fianco al nonno, serio e austero, che campeggiava in tutta la sua magnificenza.

    “Pur tenendo con noi gli Elfi, ufficialmente la nostra “governante” è la signora Sheener: in questo momento si sta occupando della cena. Per quel che riguarda la corrispondenza, invece, vostra madre ed io usiamo i Patroni, il camino, i Gufi… e la posta babbana.”
    “Posta babbana?”
    “I nostri vicini troverebbero sospetto se il postino non ci consegnasse mai della corrispondenza, Mei…”

Da come ci guardò, capii che aveva anche lui qualche riserva sulla Babbana con i bigodini in testa e sorrisi appena: con stupore e un certo sollievo, mi accorsi che, a sua volta, mi sorrise, complice. Merlino solo sapeva da quanto non gli vedevo una faccia così comprensiva nei miei confronti! Dovevo fare di tutto, per non farlo più arrabbiare con me, non solo perché rischiavo serie punizioni, ma perché quando non lo irritavo, mi divertivo molto di più, visto che mi coinvolgeva nelle sue idee strane e avventurose e… Sì, evitare di farlo arrabbiare sarebbe stato il mio impegno da prendere la notte di Yule, quando le forze del nuovo anno mi avrebbero sorretto e aiutato nel mantenere i miei propositi.

    “Dobbiamo curare ogni dettaglio, ragazzi, ma non preoccupatevi, abbiamo già vissuto qui, per quattordici anni, senza problemi. Questi pochi giorni, prima che torniate a scuola, vi serviranno per conoscere meglio la città e imparare un po’ di cose sui Babbani che ancora mancano alla vostra cultura. Se non avete domande, potete salire in camera vostra: sistematevi, rilassatevi, fate ciò che volete, ma ricordatevi che alle 19 dovete essere qui, puntuali e in ordine. Abbiamo ospiti a cena.”
    “Ospiti?”

Meissa si rianimò di colpo, probabilmente al pensiero che gli ospiti, a sorpresa, fossero i Black: anche a me sarebbe piaciuto rivedere subito Sirius e Regulus e magari…
   
    Narcissa…

Sentii un groviglio strano in fondo allo stomaco, un desiderio feroce di baciarla e al tempo stesso la tristezza al pensiero che… probabilmente sarebbe stata invitata a qualche ballo con Malfoy, durante le feste, e lui ne avrebbe approfittato per… Fu un attimo e, di colpo, l’odio per Malfoy si tramutò in rabbia cieca: sentii la necessità di rovinare qualcosa di bello… come le illusioni di Meissa, perché il dolore provato sembrava sempre meno pesante da sopportare, quando anche gli altri, attorno a me, avevano motivo di essere tristi.

     “Certo sorellina: questa sera conosceremo la famiglia della misteriosa fidanzata di Mirzam, io non vedo l’ora! E tu?”

Rimase in silenzio, ci guardò tutti e due, come a chiedere conferma a mio padre, che annuì, poi fece cadere a terra la borsa con i regali per la mamma e scappò furiosa per le scale: papà rimase allibito, poi la rincorse e l’afferrò per un braccio, sul primo pianerottolo.

    “Meissa, che ti succede?”
    “Proprio stasera! Perché? Perché?”
    “Che vuoi dire? Non capisco…”
    “Non è giusto! Non vi vedo da mesi… e invece di poter parlare in pace con voi e riabbracciare Mirzam… Io… A quelli non importa niente di noi, non hanno avuto la faccia di farsi vedere per mesi… Perché proprio ora? Perché devono rompere proprio stasera? Li odio! Li odio tutti!”
    “Meissa!”

Mia sorella si divincolò e gli sfuggì di nuovo, scappando di sopra e lasciando tutti interdetti, anche la mamma che, sentito il trambusto per le scale, era uscita dalla camera dei bambini con Adhara in braccio, che scoppiò a piangere.

    “Ci penso io a Meissa… Tu vai a cambiarti che tra poco Donovan sarà qui... Quanto a te, immagino sarai contento… Vai in camera tua e cerca di non fare altri danni, per stasera! Dopo il matrimonio facciamo i conti…”

Rimasi da solo, ammutolito, ai piedi delle scale: mio padre aveva preso in braccio Adhara e la cullava, guadagnandosi subito un sorriso estatico da quel frugoletto dai capelli rossi, e non mi degnò nemmeno di uno sguardo furioso, la mamma salì di sopra a occuparsi della crisi isterica di Meissa. Era così che ero riuscito a salutare la mia famiglia, dopo mesi che non la vedevo, grazie alle mie solite, geniali, trovate da matto: avrei voluto difendermi e urlare, dicendo che non era colpa mia, ma di quell’idiota di Mirzam, se la situazione in cui ci trovavamo con i Kelly era quella, se era passato quasi un anno dall’inizio di quello strano fidanzamento e Sile non si era mai vista a casa nostra, come invece si fa in tutte le famiglie normali. Non sapevo che cosa avesse combinato mio fratello per farsi trattare in quel modo da Donovan Kelly, ma era evidente che fosse tutta colpa sua, come sempre. Per una volta, però, ebbi la prudenza di tenere per me almeno quelle riflessioni. Dopo un po’, smisi di fissare il quadro dei Meyer e salii le scale, fino al secondo piano, sentii la voce amorevole della mamma alle prese con Meissa: sembrava già più calma. Scivolai fino in fondo al corridoio, raggiunsi la mia stanza, in tutto simile a quella di Herrengton, solo un po’ più piccola. Mi stesi sul letto ammirando il soffitto decorato dall’aquila dei Meyer e lo stendardo del Puddlemere, gigantesco, che occupava tutta la parete di fronte al mio letto: fuori dalla finestra, invitante , Londra sembrava reclamarmi. Speravo di riuscire a calmarmi, ma non ci riuscii: ogni volta che la lasciavo libera, la mia mente faceva duemila voli pindarici e si fermava, alla fine, lì, ai piedi di un angelo biondo che, giorno per giorno, riempiva sempre di più i miei pensieri. E pur soffrendo per quell’insana schiavitù, mi rendevo conto che già non riuscivo più a vivere senza quel sogno: mi ero fatto imprigionare dai suoi sorrisi, invincibili carcerieri.

***

James Potter
Godric Hollow, West County - sab. 18 dicembre 1971

    “Per Godric e tutti i fondatori! Che diavolo hai fatto ai tuoi capelli?”
    “Charlus… Ti pare questo il modo di esprimerti? Jamie, tesoro… che cos’è successo?”

Avevo nascosto a lungo, agli occhi del mondo, la mia chioma selvaggia: scendendo dal treno mi ero messo un capiente berretto di lana, così i miei per un po’ non si erano accorti di niente a King’s Cross ma, una volta a casa, avevo dovuto spogliarmi. Forse i miei avevano notato qualcosa di strano, ma mi avevano visto solo di sfuggita, mentre andavo a cambiarmi nella mia stanza. E comunque… la situazione era completamente degenerata mentre ero in bagno, esattamente allo scoccare della mezzora dall’ultimo incanto di contenimento che mi aveva fatto Remus: avevo provato a pettinarmi col pettine bagnato, a bagnarmi con l’acqua per sgonfiare tutto quel volume leonino, ma ormai crescevano da un secondo all’altro e così, mezzi umidi, parevano sparati per aria e svolazzanti come i tentacoli di Medusa. Alla fine, quando mi ero presentato sconsolato in sala da pranzo, mio padre non aveva potuto fingere che fosse tutto normale. La mamma disse a Skhiat, il vecchio Elfo, di aspettare ancora un attimo, prima di servire la cena, si avvicinò e mi abbracciò amorevole, io la lasciai fare e affondai il viso nel suo collo profumato, come un povero cucciolo smarrito. Era vero, mi ero divertito come mai avrei sperato, in quelle settimane, a scuola, ma ora che ero a casa, mi rendevo conto di quanto la mamma mi fosse mancata. E a giudicare da come mi teneva stretto a sé, dovevo esserle mancato tantissimo anch’io, perciò approfittai del momento a lungo, rimandando a un’altra occasione le mie ribellioni da ragazzino ormai grande e indipendente, insofferente a quelle scene intrise di tenerezza. Mio padre tossicchiò, quella “tossetta” secca e un po’ ironica, con cui di solito m’invitava a non fare il bambino, mettendo fine a quegli atteggiamenti che non sempre riuscivo a reprimere da solo con successo; io mi staccai, rosso in viso, aspettandomi l’espressione successiva, quella che diceva “Ricordati che ormai sei un uomo”, invece, mentre lo guardavo allibito, si alzò da tavola, si avvicinò e tese le braccia verso me e mia madre.

    “Non credi sia ora di farti abbracciare anche da me? Prima non stava bene davanti ai tuoi amici, ma adesso…”

Ci strinse nel suo abbraccio, forte, inondandomi del profumo del suo dopobarba: era il suo odore, il primo ricordo che avevo da quando ero solo un bambino. Merlino, quanto amavo essere di nuovo a casa!

    “Ora però tutti a tavola, Charlus, o rischi di andare al lavoro a digiuno…”

Guardai mio padre, interrogativo, lui mi rispose con un’espressione rassegnata e colpevole: non era giusto che dovesse andare a lavorare anche quella sera, era un vero peccato, avevo così tanto da raccontare… In fondo, però, ero abituato fin da piccolo ai suoi turni strani, spesso era costretto ad andare via, magari proprio mentre tutti gli altri si stringono attorno alla tavola con la famiglia, per festeggiare. Mio padre, però, non era come tutti gli altri: mio padre era un eroe, un Auror, dei più in gamba per giunta. E gli eroi, si sa… Per tutta la cena, comprendendo e condividendo la mia voglia di parlare e di non separarci tanto presto, mi fece domande su quelle settimane a Hogwarts, sui miei amici e sulle mie prime impressioni, ed io, felice, gli risposi con entusiasmo, cogliendo l’espressione orgogliosa nei suoi occhi quando gli avevo raccontato dei miei primi brillanti risultati a scuola, ottenuti, tra l’altro, senza dovermi sacrificare troppo sui libri.

    “Ora rimane da scoprire che cosa è successo ai tuoi capelli, James… E qualcosa mi dice che si tratta di una storia che terrà allegri Fred e me, stanotte, mentre patiamo il freddo! Ahahahah…”

Inforcai e trangugiai l’ultimo boccone, senza prestare troppa attenzione allo sguardo sgomento che mia madre rivolse a papà, poi cercai di riavviare all’indietro quella foresta che mi copriva di nuovo tutta la faccia, nonostante un leggero incantesimo di contenimento momentaneo, dandomi l’aspetto di un Terranova: a dire il vero, forse, ormai ero persino più peloso di un Terranova. Così iniziai a raccontare, con fare innocente, per filo e per segno, la mia ultima disavventura notturna, sorvolando sui fatti che avevano portato i miei amici a vendicarsi di me, e sottolineando piuttosto la loro astuzia, la loro assoluta mancanza di morale e correttezza, il fatto che ci fossero riusciti solo unendo le loro forze e approfittando del mio sonno. Vidi che mio padre faceva un “no” rassegnato con la testa, fingendo, senza riuscirci, di credere alla mia recita, mentre mia madre, donna solitamente molto seria e composta, si voltava ogni tanto verso la finestra, per non far vedere che tratteneva a stento una risata calorosa: i suoi occhi, però, lucidi di risate, la tradivano senza possibilità di equivoci, soprattutto quando raccontai che l’incantesimo di Black mi aveva fatto inizialmente la testa “pelata come una palla da biliardo”.

    “Quindi è solo colpa di quel Black, dico bene?”
    “Sì, esattamente, papà ma non credere che mi sia fatto mettere sotto da lui! È solo un damerino londinese! Voglio dire… si è avvantaggiato col fatto che stessi dormendo, vero, ma comunque mi sarei difeso, anche nel sonno! Però ci si è messo pure quell’altro, quel Lupin, e ti assicuro, papà, quello è tanto buono, calmo e studioso, ma è tutta apparenza, ti assicuro che è il peggiore di no…”
    “Di tutti voi?”
    “No… volevo dire che tra quei due, tra Black e Lupin, Remus è di certo il peggiore…”
    “E tu naturalmente sei solo la loro vittima innocente!”

Mi guardò complice, io non riuscii a fingere ancora e, preso in castagna, scoppiai a ridere: i miei, d’altra parte, erano troppo felici di riavere a casa il loro unico figlio, per voler passare quei brevi momenti prima dell’uscita di mio padre a recriminare su cosa avessi fatto io ai miei compagni per istigarli a tanto e, soprattutto, a ricordarmi che si va a scuola per studiare. Appena fu servito il dolce, cui resi istantanea giustizia, sotto gli occhi orgogliosi di papà, la mamma guardò il pendolo e gli fece un rapido cenno con la testa. Era il momento. Sospirai.

    “Dai, vieni con me, James, così ti sistemo questi capelli, mentre tuo padre si prepara…”
    “Dove andrai stasera, pà?”
    “Farò un giretto a Londra, una ronda a Diagon Alley, ultimamente di notte capita che ci sia sempre un po’ di confusione…”
    “Mi raccomando, Charlus, stai attento…”
    “Vai a caccia di mannari, pà?”
    “James, ma che dici? Non far perdere tempo a tuo padre, che è già in ritardo…”
    “Tranquillo, James, sono solo dei semplici controlli: finirò in fretta, anche perché domattina voglio alzarmi presto e portarti a scegliere il tuo regalo per Natale… perciò ora vai con tua madre e sistemati quei capelli, o invece di un figlio penserò di avere per casa un barboncino… Ci vediamo domattina…”
    “Come sarebbe un barboncino?”

Mio padre mi baciò la testa, sorridente, poi andò a cambiarsi, mia madre, esasperata, mi spinse senza tante cerimonie verso la mia stanza: ero offeso, lui mi dava del barboncino, quando io ero convinto di essere cresciuto tanto in quei pochi mesi!

    “Dai siediti!”

La mamma parve non rendersi conto della mia delusione, decisa com’era a non perdere altro tempo: ormai i miei capelli erano diventati spaventosi, perciò mi fece sedere alla scrivania e iniziò a studiare la situazione dopo aver evocato gli attrezzi del mestiere. Temetti di vedere apparire, oltre al rasoio e alle forbici, anche lo strano tosaerba che papà usava per potare le siepi intorno casa. In realtà, il problema dei capelli poteva essere risolto in via quasi definitiva solo dall’incanto segreto ideato dai Potter alcune generazioni prima, e ogni Strega che andava in sposa a un Potter, era messa a parte del segreto fin dai primi tempi del fidanzamento: col tempo avevo scoperto che la mamma era persino più brava di mio padre, con quell’incantesimo, al punto che il suo “intervento” poteva durare anche sei mesi, di continuo, senza bisogno di successivi ritocchi. Da circa un anno, però, sembrava che i miei capelli mettessero a dura prova persino quell’incantesimo miracoloso e mio padre, sospirando divertito, diceva sempre “Sta arrivando la pubertà, Dorea, preparati a ridere!”. Prima di partire per Hogwarts, non capivo “chi” diavolo fosse questa “dannata pubertà” che avrebbe fatto ridere tanto mia madre, ora però che vivevo a scuola e vedevo spesso ragazzini poco più grandi di me comportarsi in modo idiota o parlare con voci improvvisamente strane e mi accorgevo di sentirmi, io stesso, la faccia in fiamme ogni volta che mi passava davanti agli occhi una certa compagna di Casa dai capelli rossi… temevo di aver compreso di cosa parlasse. Mentre la mamma decideva con quale attrezzo iniziare, mi scansai la frangia dalla faccia e mi guardai attorno: i poster erano tutti al loro posto, c’era addirittura un gagliardetto nuovo, trofeo dell’ultima vittoria dei Tornados. Ed era stato persino firmato dal capitano per me: mio padre era un grande, lo dicevo sempre io!

    “Nessuno ti ha toccato niente, Jamie, tranquillo…”

Le sorrisi e mi sistemai buono e dritto sulla sedia, mentre lei, accarezzandomi ancora i capelli con amore, prendeva le forbici e tagliava, ridandomi rapidamente un aspetto “umano”, poi estrasse la bacchetta dalla cintola, me la puntò addosso e formulò l’incanto di permanenza. Udii, di sotto, la porta scattare, mio padre stava uscendo, nella notte buia e innevata. Sentii un brivido strano e, per la prima volta, invece di immaginare una battaglia furiosa in cui mio padre, forte come un dio, sbaragliava tutti i suoi avversari, senza difficoltà, mi colse la paura sorda che qualcosa potesse non andare per il verso giusto. Il terrore che mio padre non tornasse più da me.

    “Non è pericoloso, vero? È una missione come tutte le altre, vero?”
    “Certo, tesoro, non ti preoccupare! Tuo padre sa quello che fa! Se vuoi, però, posso restare qui con te, stanotte… T’insegno una preghiera che recito sempre quando va al lavoro… Vedrai, il nostro amore lo proteggerà…”

Mi prese le mani tra le sue e m’iniziò a spiegare che la vera forza di un Mago non sta nella bravura con cui usa la sua bacchetta, ma nell’amore che la sua famiglia prova per lui.
   
***
   
Meissa Sherton
74, Essex Street, Londra - sab. 18 dicembre 1971

Scura in volto, avvelenata da quell’ennesima, sgradita notizia, ero corsa per le scale senza nemmeno sapere da che parte dovessi andare: mi salvò Kreya, che apparve davanti a una porta e la aprì, servizievole, mostrandomi la mia stanza, io ero talmente furiosa che non solo non la salutai, ma nemmeno la guardai in faccia e una volta dentro, non riuscii a distinguere niente, come se il buio della mia rabbia mi rendesse completamente cieca o sottraesse luce a ogni cosa. Alla fine, un poco alla volta, tornai in me: la mia camera era simile alla stanza di Amesbury, ma più piccola e senza tutti i miei effetti personali; rivolto a guardare la finestra, c’era un baldacchino di legno decorato con i fregi dei Meyer, con le tende di un delicato color crema e il copriletto verde smeraldo. Di fianco, sul comodino, oltre alla lampada decorata con l’aquila dagli occhi blu, c’erano alcuni dei miei libri preferiti e in fondo al letto, nella cassapanca, probabilmente c’erano anche i miei giochi; nell’armadio semiaperto, intravidi dei vestiti invernali, alcuni sembravano abiti babbani, mi sarebbero serviti se fossi uscita da casa. Di fianco alla porta, poi, c’era un’alta libreria rifornita di libri magici e babbani, romanzi e perfino fumetti e, accanto alla finestra, il tavolo, dove avrei potuto studiare. Di sicuro avrei passato le mie vacanze confinata lì dentro proprio a studiare, non avrei avuto nient’altro da fare, visto che, evidentemente, alla mia famiglia non importava più nulla di me! Avevano Sile adesso! Ero furente, disperata, delusa. Quando, però, il mio sguardo si posò sul caminetto e, soprattutto, sul tappeto e i cuscini già disposti per le serate da passare giocando a scacchi con mio padre, mi sentii la faccia in fiamma e le lacrime di nuovo mi serrarono la gola fino quasi a soffocarmi: mi vergognai come una ladra, per il mio scatto d’ira e il mio egoismo!

    Perché sono tanto stupida? Perché? Perché non riesco a essere felice per Mirzam e continuo a comportarmi come una bambina, anche se ho quasi dodici anni? Sono una stupida, sì, solo una stupida! Si tratta di resistere solo un paio di giorni, di affrontare solo gli ultimi necessari preparativi, dopodiché, per il resto delle vacanze, nessuno mi ruberàpiù  le attenzioni dei miei e staremo tutti insieme…
    Tutti… certo... Tranne Mirzam…

Sospirai. Che lo volessi o no, alla fine, il giorno che tanto temevo era arrivato: avevo nascosto a lungo i miei dubbi, angosciata com’ero per la mamma e il bambino, per il mio smistamento e per Malfoy, ma ora… ora non c’era più niente cui aggrapparmi per non pensare. Quella stava per portarsi via mio fratello e stavolta sarebbe stato per sempre. Mi misi seduta in fondo al letto, pensierosa: sapevo che sarebbe accaduto, da tanto tempo, ma… non era come dicevano tutti, non era per gelosia che mi sentivo così… Ero certa che non mi sarei comportata in quel modo con chiunque: quella che non sopportavo era proprio lei… Sile Kelly non andava bene per mio fratello, e per un motivo preciso: lui aveva già sofferto troppo a causa sua… Quando era successo, ero ancora piccola, vero, ma non abbastanza da non capire, quanto mio fratello fosse stato male perché “quella” di colpo era sparita dalla sua vita, né potevo dimenticare che, sempre per colpa sua, alcuni anni dopo, era stato ricoverato a Inverness e per un pò era andato via di casa. In seguito avevo scoperto che lei stava per sposarsi con un altro e avevo collegato le cose. E l’avevo odiata così tanto… così tanto… Alla fine, quando sembrava una storia dimenticata, quando finalmente Mirzam aveva trovato una persona con cui essere felice, quella megera era ricomparsa ed era riuscita a fidanzarsi con lui, quasi di nascosto: e nessuno avrebbe mantenuto quasi segreto il proprio fidanzamento con uno Sherton! Se i Kelly si comportavano così, celavano di certo qualcosa di losco! Era vero, c’erano delle tradizioni particolari, nelle Terre del Nord, di cui avevo parlato anche con Sirius, ma i Kelly erano andati molto oltre quello che prevedeva la Regola: non avevo mai visto Donovan Kelly mettere piede a Herrengton in quei mesi, nemmeno il giorno delle rune di Mirzam… e noi non eravamo mai stati invitati da lui a Doire.

    Strano… troppo… persino per le Terre del Nord!

Inoltre, Mirzam una volta mi aveva detto che per lui Sile non contava niente, che era una come tante. Allora perché stava per sposarla? Non avevo mai avuto il coraggio di chiederglielo, perché per tutta l’estate l’avevo visto tanto impegnato, tra il Quidditch e i viaggi con papà… e quando era a Herrengton, spesso era preoccupato e “lontano”, persino triste, a volte… Come si può essere così tristi e preoccupati quando si è innamorati e si sta per sposare chi si ama? C’era qualcosa che non andava, ne ero sempre più convinta… Io non ero gelosa, io ero preoccupata, molto preoccupata, per lui: era questa la verità. Lo vidi solo allora, sopra un bel mobiletto di mogano, chiuso da uno sportello e un coperchio di cristallo colorato, pieno di un numero incredibile di dischi, vicino ai tendaggi che celavano la finestra: il giradischi di Herrengton. Sorrisi, per la prima volta da quando avevo messo piede in quella casa: di tutte le cose babbane che nel tempo mio padre mi aveva fatto conoscere, quella era l’unica che mi fosse davvero entrata nel cuore e che mi fosse mancata tanto, a scuola. Mi alzai e mi avvicinai, notai che il manufatto magico, necessario a farlo funzionare senza l’elettricità ma con la nostra magia, era già stato applicato, accarezzai le linee morbide del piatto e la ruvidezza della testina metallica, dopodiché mi chinai per cercare tra quei dischi: volevo sentire la voce di John Lennon, mi avrebbe tolto quel senso di paura e malinconia che mi attanagliava l’anima. Scorrendo le copertine, vidi, oltre a tutti i miei dischi dei Beatles, alcuni mai visti, in particolare, uno era ancora chiuso nel cellophane, e sulla sua copertina campeggiava il volto di John con la scritta: “Imagine – John Lennon”. Tirai fuori il disco, lo misi sul piatto, cercai l’inizio della traccia e la stanza si animò della sua voce, ondeggiai a piedi nudi sul tappeto, mentre studiavo ogni singolo dettaglio della copertina: il disco era uscito poche settimane dopo il mio ingresso a scuola… e la canzone era… semplicemente bellissima... A un tratto, mentre ondeggiavo piano, muovendomi appena su quelle note, vidi cadere a terra un bigliettino, che era stato incastrato con la magia nella tasca interna della copertina: lo raccolsi e l’aprii.

    “Alla principessa delle serpi, con affetto Mirzam e…” un ghirigoro strano che ... forma... la parola... “Sile”...

Ero felice per il pensiero di mio fratello, me lo faceva sentire vicino, anche se non era lì con me, ma anche terribilmente triste: non volevo che lei si mettesse in mezzo anche in un gesto semplice come quello… non volevo! Non doveva essere così, non poteva essere così, d’ora in poi, per sempre! Non era giusto … Tra noi doveva rimanere tutto come prima, solo io e lui, le nostre risate insieme, i nostri piccoli segreti, le serate passate ad ascoltare musica sul divano… lui che mi difendeva ed io … Mi ritrovai a piangere, in silenzio, come una stupida, di nuovo, seduta in fondo al letto, con la copertina in mano e quell’assurdo sentimento che non riuscivo a scacciare via… Non volevo lasciar andare Mirzam, non potevo: lui rappresentava quel mondo felice e protetto, la mia infanzia, che ormai mi stava scivolando via dalle dita e non sarebbe tornato mai più… sapevo che nessuno può opporsi allo scorrere del tempo e alla vita, ma... Tutto il mondo intorno a me ed io stessa, anche se non volevo, stavamo cambiando e il matrimonio del mio Mirzam era solo un tassello di quel puzzle sconosciuto che mi appariva davanti senza forma e pieno d’incognite spaventose… Avevo paura, paura di quello che ci aspettava, paura che fosse solo l’inizio, paura che dopo Mirzam, via via, tutti coloro cui volevo bene se ne sarebbero andati, lasciandomi completamente sola. Dopo un po’, mi resi conto che non ero più sola, alzai appena gli occhi e vidi la figura di mia madre sulla porta: non riuscivo a capire se fosse arrabbiata con me per la mia sceneggiata o cos’altro, ma quando si avvicinò e venne a mettersi seduta accanto a me, il suo silenzio raccontava più di mille parole. Le lanciai le braccia al collo, continuando a piangere, mente lei mi accarezzava delicatamente i capelli.

    “Piangi pure, se ti fa stare meglio, ma sappi che nessuno ti priverà mai dell’affetto di tuo fratello, Mei, puoi stare tranquilla…”

Mi staccai appena e la guardai, anche lei aveva gli occhi un po’ lucidi e intuii, con sorpresa, di non essere l’unica a sentirmi strana e confusa per quel matrimonio: Sile mi portava via un fratello, vero, ma anche a mia madre portava via qualcosa. Un figlio. Il suo primo figlio.

    “Mi sei mancata tanto, Mei… Avevo così tanta voglia di rivederti…”
    “Mi sei mancata anche tu…”

Scoppiai a piangere di nuovo, non capivo cosa mi succedesse, sembrava non fossi più in grado di trattenermi, ma a differenza del solito, invece di ricordarmi che gli Sherton non devono mostrarsi mai deboli, mia madre continuò ad accarezzarmi la testa e la schiena, in silenzio, finché non mi calmai, poi mi sollevò il viso e mi fissò.

    “Mirzam farebbe di tutto per te, Meissa, lo sai… e so che anche tu vuoi che tuo fratello sia felice…”
    “Ma lui è felice, mamma? Lo è davvero? Ne sei proprio sicura?”

Mi guardò interrogativa, forse si aspettava altri capricci, non quel genere di domande, rimase perciò in silenzio, per riordinare le idee, senza scomporsi, poi mi prese le mani tra le sue e le guardò con attenzione: seguii il suo sguardo e vidi le nostre rune, così simili eppure diverse, io ero così per nascita, lei, al contrario di tutti noi, le aveva prese per amore del suo uomo. Solo per amore.

    “Mirzam ama quella ragazza, Mei, la ama da quando era poco più grande di te… E per Sile è lo stesso. Domani sera, realizzeranno insieme i propri sogni, dopo tante traversie, saranno finalmente un’anima sola. So che non hai avuto modo di conoscerla, e per questo ora sei preoccupata per tuo fratello, ma… appena parlerai con lei, appena vedrai come brillano i suoi occhi quando sente anche solo il nome di Mirzam, non avrai più dubbi sul loro amore… e le vorrai bene anche tu…”
    “Non è così… Mirzam, una volta, mi ha detto che per lui Sile era solo una come tante…”

La mamma mi guardò di nuovo poi sorrise, comprensiva: tutti noi credevamo che il suo figlio prediletto fosse Rigel, in effetti, di solito, era indulgente con lui anche quando meritava una lezione, ma con Mirzam aveva un rapporto unico, sembrava in grado di “sentirlo” anche quando era lontano, e papà sosteneva che fosse davvero così, perché, ed io non capivo cosa volesse dire, erano fatti della stessa natura, più empatica, istintiva e passionale della nostra.

    “Sai quanto è orgoglioso e riservato tuo fratello, Mei… Di certo ti ha detto quelle parole per tranquillizzarti o quando temeva di averla perduta per sempre. A volte… a volte cerchiamo di mentire persino a noi stessi, per non soffrire…”
    “Ma se fosse davvero amore, non dovrebbe renderlo felice? Che amore è quello che gli toglie il sorriso? Mirzam è sempre così…”
    “Tuo fratello non è turbato per Sile, Mei, fidati di me: è preoccupato per delle questioni politiche, ma vedrai che presto si risolverà anche questo… se ne sta occupando tuo padre …”

La guardai, poco convinta, lei, però evidentemente era decisa a perorare la causa di Sile, o per lo meno tranquillizzarmi.

    “Sarebbe bello se nella vita tutto andasse sempre come vogliamo, Mei, purtroppo non è così, o almeno… non è sempre così… le favole esistono solo nei libri, la vita vera, la felicità vera le creiamo noi, giorno per giorno, vivendo, non sventolando la bacchetta magica... Ora sei ancora piccola, ma col tempo scoprirai che l’amore raramente è una questione semplice, a volte amare ed essere felici non coincidono per niente. Noi però possiamo lottare per ottenere quello che vogliamo: questo ci fa crescere, ci fa comprendere la forza che c’è in noi e nei nostri sentimenti… Ricorda: quando si tiene davvero a qualcosa, non bisogna rinunciare mai a combattere, non si deve aver paura di non riuscire o di soffrire… è solo la paura che ci fa perdere ciò che per noi è prezioso…”
    "Però Mirzam… lui frequentava un’altra ragazza prima di fidanzarsi con Sile… ed era felice, lo so… io non capisco perché…”
    “Ma questo non è vero, Mei… non è affatto vero… Non c’era nessun’altra ragazza, prima… Quando siamo partiti da Amesbury e siamo tornati a Herrengton, tuo fratello è andato a Doire per conto di tuo padre, ed è stato allora che si sono ritrovati… hanno parlato, a lungo, hanno chiarito quello che era rimasto in sospeso tra loro. Tuo fratello era felice perché finalmente tutto stava andando a posto con Sile… e alla fine, appena hanno sciolto ogni possibile dubbio, ha chiesto a Donovan di poterla sposare…”
    “Io… io non… capisco… se sono innamorati, perché non hanno nemmeno festeggiato? Perché sembra che i Kelly si vergognino?”
    “Ascolta Mei… è stato un errore nostro non darvi spiegazioni, me ne rendo conto solo adesso, era meglio parlarvene subito… ma tu avevi già troppi pensieri, con lo smistamento e tutto il resto, poi stava per nascere Adhara e avevamo i figli di Orion per casa… è finita che non abbiamo affrontato con te e Rigel questa storia…”
    “Quindi qualcosa che non va c’è… ho ragione io…”
    “Ti spiegherò meglio quando sarai più grande, Mei, ora potresti capirmi solo in parte… ti basti sapere che a volte si fanno delle cose stupide e… tuo fratello, come tutti, ha commesso degli errori, in buona fede, certo, ma… ci sono state situazioni che non sono piaciute al padre di Sile, e a esser sincera, al suo posto, come madre, non sarebbero piaciute nemmeno a me... Donovan Kelly pare burbero e testardo, ma lo conosco da tanti anni, conoscevo anche sua moglie, è un brav’uomo… uno di quegli uomini che, proprio come tuo padre, darebbe la vita per proteggere i propri figli.”
    “Mi stai dicendo che è lui che non vuole che Sile sposi Mirzam? Vuoi dire che finirà come tra papà e il nonno e dovranno sposarsi senza la benedizione di suo padre? Salazar…”
    “No, Mei, no, stai tranquilla… Donovan magari non lo ammette ancora, ma è contento di questo matrimonio! All’inizio, per una serie di ragioni, non si fidava delle intenzioni di tuo fratello, per questo ha preteso una dimostrazione, l’ha messo alla prova con delle condizioni assurde, aspettandosi che Mirzam si lamentasse e mandasse a monte tutto, o che chiedesse a vostro padre di intervenire per risolvere quella situazione, come farebbe un ragazzino viziato…”
    “Mio fratello non è un ragazzino viziato, mamma, se Kelly pensa questo di Mirzam, allora non lo conosce affatto…”
    “Proprio così, Mei, non lo conosceva, ma in questi mesi, Mirzam ha fatto in modo che Kelly non avesse più dubbi, si è fatto conoscere, non ha voluto che vostro padre lo aiutasse, ha accettato tutte le condizioni di Donovan, anche se sembravano assurde, ha persino messo da parte il suo orgoglio, perché la cosa più importante per lui è poter vivere con Sile, in pace e in armonia con tutti noi. Credo tu sappia cosa significa tutto questo… perché tuo fratello ha agito così…”

Chinai lo sguardo: ora che sapevo come stavano le cose, mi sentivo pure più stupida.

    “Per lo stesso motivo per cui papà ha preferito abbandonare a Herrengton che rinunciare a te… è innamorato di lei come lo siete tu e papà…”
    “Sì… è proprio così… e ora quando guardo tuo fratello, vedo nei suoi occhi la stessa luce che anima tuo padre…”

La guardai: non avevo mai visto la mamma così commossa, aveva gli occhi così luminosi, pieni di amore e passione! Mi sentii strana, in quel momento, perché per la prima volta, percepii in mia madre qualcosa di diverso, non era più quella specie di dea che mi voleva bene ma che sapeva anche incutere timore e rispetto quando commettevo degli errori… Era una creatura molto più vivida, così vicina a me che la potevo “toccare” dentro, era così umana, reale, simile a me, come non l’avevo percepita mai, nemmeno quando quell’estate mi aveva spiegato cosa significa diventare una donna o quando le avevo parlato di quello che provavo quando stavo accanto a Sirius. Non era più la divinità irraggiungibile dell’infanzia, ma un essere umano come me, più fragile e al tempo stesso più forte. Forse è anche questo ciò che si prova quando si “diventa grandi”, si vedono con occhi nuovi le cose e le persone che abbiamo sempre avuto accanto. Anche le più vicine, soprattutto le più vicine. Sapevo di non essere pronta a questo, a sentire questa complicità strana, piena e completa. Ero turbata per questo ennesimo cambiamento.

    “Quanto a Sile… merita appieno il nostro affetto, Mei, fidati di me… dalle modo di farsi conoscere da te e scoprirai che avete molto in comune… Sai, è stata lei a far conoscere a Mirzam la musica che ami ascoltare con lui… e quel libro di poesie… quello che Mirzam ti ha spedito a scuola…”
    “…era suo…”

La mamma annuì, io non sapevo cosa pensare, anche se in fondo in fondo, sentivo di essere più sollevata ora che alcuni tasselli erano andati al loro posto.

    “Ora basta con gli occhi tristi, però… ho io la soluzione per farti tornare il sorriso… non hai idea di quanto sono cresciuti i tuoi fratelli in questi mesi… dubito che riuscirai a riconoscerli!”

La seguii entusiasta e quando finalmente accarezzai la pelle calda e profumata di Adhara, così uguale alla mamma stando alle foto di quando era una neonata, e mi lasciai rapire dagli occhi di luna di Wezen, in pratica un Mirzam in miniatura, nonostante il tumulto che avevo nel cuore sentii che era vero. Ero di nuovo a casa, ed era tutto come sempre, era tutto perfetto come sempre, ovunque mi girassi c’erano le tracce di quell’amore che non sarebbe cambiato mai, nonostante il passare del tempo e gli agguati del destino. Un amore talmente grande che non dovevo temere di dividerlo con altre persone, ce ne sarebbe stato sempre abbastanza per tutti. Un amore così forte che, qualunque cosa fosse accaduta, nessuno l’avrebbe mai spezzato. Nessuno ci avrebbe mai diviso.

***
 
Sirius Black
12, Grimmauld Place, Londra - sab. 18 dicembre 1971

     “È vero, la neve ha un suo profumo…”

Non me n'ero reso conto mai, prima che Meissa me lo facesse notare, soffiandomelo in un orecchio, quella mattina, mentre ci dirigevamo alla stazione di Hogsmeade. Di nuovo a casa, affacciato alla finestra, semi-intirizzito, avevo scoperto che a Londra il profumo della neve era molto diverso da quello che avevo sentito a Hogwarts: lassù, la neve porta in sé l’essenza della purezza e della libertà, a casa... A casa anche la neve, pur volteggiando leggiadra nell'aria, quando tocca il suolo si macchia, si sporca, perde se stessa. Come me. Kreacher mi aveva chiamato a metà serata, per ricordarmi che dovevo scendere a cena, io non avevo alcuna voglia di rivederli, ma l'idea che mia madre potesse arrabbiarsi di nuovo con me... No, non avevo avuto il coraggio di ribellarmi e subire un'altra scenata da parte sua. Così avevo percorso la scalinata, con la morte nel cuore, ma una volta raggiunta, avevo trovato la sala da pranzo completamente vuota, c'era solo Kreacher che zampettava qua e là per servirmi. In lontananza, forse dalla Sala dell'Arazzo, arrivava secca e dura la voce di mia madre, ma non capivo con chi fosse, visto che parlava solo lei: solamente dopo una buona mezzora mio padre riuscì a interromperla, la voce strascicata e più stanca del solito. Stavano decidendo se fosse il caso di portarmi al matrimonio di Mirzam: mia madre non sapeva decidersi se fosse più umiliante portarmi con loro e dover giustificare la mia situazione vergognosa con tutti, o far finta che non esistessi, lasciandomi a casa; mio padre sembrava non considerare di alcuna importanza la questione: d’altra parte, finora, non aveva dimostrato che in rare occasioni di ricordarsi di noi, quando eravamo in pubblico. Di Regulus, infine, non c'erano proprio tracce: di tutto il discorso di mia madre, quel pomeriggio, la parte che mi aveva sconvolto di più era stato l'esplicito invito a stare lontano da mio fratello e quando ero rimasto da solo in camera, quando avevo avuto modo di comprendere come tutte le paure provate in quei mesi fossero concrete, quando avevo capito quanto odiassi mio padre e mia madre e non m’importasse nulla di loro, ormai, perché infondo lo sapevo già che avrebbero agito in quel modo… quel pensiero era rimasto lì, conficcato nel cuore tanto a fondo da togliermi il respiro.

    E se riuscirà davvero a dividerci?
    E se…

Regulus era una piattola certo, ma… era mio fratello e avevo scoperto quanto sentissi la sua mancanza, in quelle settimane che eravamo stati lontano. Un brivido, che nulla c'entrava con la temperatura di quella notte, mi attraversò la schiena, rimasi immobile, mentre la mente si riempiva ancora una volta delle parole di mia madre e gli occhi si arrossavano di lacrime. L'abbraccio alla stazione, con Regulus, mi aveva dato un minimo di speranza: che cosa sarebbe successo se avessi perso anche lui? Cosa ne sarebbe stato di noi, se ci avessero diviso? Chiusi la finestra e, intirizzito, mi avviai a letto, mi avvolsi nelle coperte e cercai di farmi forza, immaginandolo oltre quel corridoio, che dormiva sereno, in attesa del nuovo giorno, per stare con me, per sapere da me i segreti della scuola. Era solo il primo giorno, poi sarebbe stato diverso. Tutto sarebbe stato diverso… Cercai di distrarmi, ripercorrendo le ultime settimane, ripensando ai miei amici: mi chiesi che cosa era successo poi ai capelli di James, e quanti dolci avesse già mangiato Peter. E Remus... Sarebbe stato bello, in quel momento, averlo con me, con le sue parole giuste, al momento giusto. Chissà come faceva a essere sempre così bravo a leggere nell'anima degli altri... Mia madre aveva sempre definito la torre dei Grifondoro la"schifosa" casa di Godric, ero stato allevato pensando a quell’ambiente come a un ricettacolo di persone indegne e pericolose, ma gli amici che avevo incontrato là dentro si erano dimostrati la mia unica vera famiglia, e quelle settimane, al pari di quelle passate con Alshain e quella stranissima vacanza a Zennor, con mio padre e Regulus, pochi anni prima, erano stati i miei pochi momenti di felicità pura.
I miei pensieri, ormai confusi dall’ora tarda e dalla stanchezza, si bloccarono all'improvviso, tornando subito chiari, quando sentii uno scricchiolio provenire dalle scale. Rimasi con l'orecchio teso, preda della folle paura che mia madre volesse attaccarmi nel sonno. Spensi la luce, mi sistemai nel letto come se stessi già dormendo, la bacchetta nascosta sotto il cuscino, per ogni evenienza, anche se sapevo che non sarei mai riuscito a difendermi da lei. Nel buio sentivo soltanto il cuore esplodermi nel petto e quei passi che salivano le scale: era troppo pesante e affaticato per essere quello di mia madre, d’altra parte mio padre non sarebbe mai salito nel cuore della notte solo per me o Regulus. Nemmeno per punirci: lui non era mai preda dell’impazienza, né dell’ira. Eppure non vedevo altri motivi per cui dovesse salire le scale a quell’ora. I passi terminarono davanti alla camera di mio fratello, sentii la serratura scattare, lieve, io saltai fuori dal letto, cercando di soffocare ogni rumore, arrivai alla porta, dapprima mi attaccai con l'orecchio per sentire, poi spiai la situazione dalla serratura: il corridoio era completamente avvolto dalle tenebre, a parte un lieve chiarore che s’intuiva attraverso la porta appena scostata nella stanza di Regulus.  La luce avanzava attraversando tutta la stanza, probabilmente fino alla mensola della finestra, di fianco al letto: mio padre si stava avvicinando a Reg. Ed era davvero strano: non avevo memoria che avesse mai fatto qualcosa del genere con nessuno di noi due. Forse doveva parlargli, come aveva fatto con me quando mi aveva affidato l'anello per Alshain. Forse aveva una missione per mio fratello, perché di certo ormai, per quel genere di cose, non si sarebbe più rivolto a me, il figlio rinnegato. Non sentii voci, mio padre non si trattenne a lungo, sembrava che si fosse assicurato solo che stesse dormendo, subito la luce aveva ripreso ad avanzare lenta verso l'uscita. Io risalii rapido nel letto, tirandomi le coperte addosso: se avesse fatto visita anche a me, non potevo permettermi che si arrabbiasse anche perché lo stavo spiando. La serratura di Regulus si chiuse, con un soffio sottile, e subito dopo percepii il cigolio lieve delle assi davanti alla mia porta, attutito dal tappeto morbido. Attese, mentre il cuore mi balzava fuori dal petto. Avevo paura. Paura che entrasse e mi punisse. Ma ancora di più che non entrasse affatto, che passasse oltre, perché per lui, io non esistevo più, proprio come per mia madre. Lo percepivo di là della porta, che aspettava, indeciso: non stava valutando solo se entrare o no, valutava se considerarmi o meno suo figlio. Non mi era importato mai, avevo sempre finto che non me ne importasse niente, ma mentre quella porta ci divideva, sentivo le lacrime salirmi agli occhi, affondai la faccia nel cuscino, mordendolo con i denti per soffocare i singhiozzi. Fu allora che la serratura scattò, con il solito sbuffo soffocato. La candela illuminò fioca la stanza, ricca di decori e orpelli, io cercai di restare immobile, di fingermi addormentato, confuso su cosa provassi in quel momento. Mio padre si fermò davanti alla scrivania, al lato del mio letto, depose il lume, poi si avvicinò ancora, lentamente: percepivo il suo respiro affaticato, poi la sua mano che si posava, lieve sulla coperta, tirandola appena, così da coprirmi meglio le spalle, accostandola per bene al mio corpo, su su, fino al collo. Aveva indugiato, sì, aveva indugiato quando, con quel movimento leggero, aveva toccato i miei capelli. Sicuramente era stato uno sbaglio.

    Cosa prova in questo momento? Schifo per il suo figlio rinnegato? E allora perché si trova qui? Perché ha tanta cura che non prenda freddo e non mi ammali? Sono forse merce ancora buona per qualcosa, io Sirius Orion Black, smistato a Grifondoro come immonda feccia? Posso ancora tornargli utile per qualcuno dei suoi affari?
    E allora perché, se è solo questo, se sono solo merce, perché, se mi ha sfiorato per errore, ora continua ad accarezzarmi dolcemente la testa? E perché, all’improvviso, le sue labbra si sono appoggiate fulminee e tenere sui miei capelli? Perché da quelle stesse labbra, come in un sogno, sono uscite silenziose parole d’affetto?

    "Bentornato, figlio mio... "

    Perché? Perché solo adesso? Perché solo così? Al buio, in segreto, di nascosto?
    Perché?

Volevo alzarmi, voltarmi, affrontarlo, inchiodarlo con le mie domande. Invece eccomi qui, inerme, paralizzato, incredulo, turbato, incerto se essere felice, furioso, spaventato, mentre, rapido, mentre mio padre riprendeva la candela e si richiudeva la porta alle spalle.

    Perché?
    Se solo fossi stato abbastanza forte da affrontarlo… Se solo avessi avuto il coraggio di parlare… Alshain dunque non mentiva su mio padre?
    Perché?
    Perché il suo maledetto orgoglio Black è più forte persino del nostro inutile Sangue Puro?



*continua*



NdA:
Eccomi qua, capitolo in cui non accade praticamente nulla, ma volevo far vedere alcuni cambiamenti nei personaggi (infatti il capitolo nei giorni scorsi era stato pubblicizzato su EFP con il titolo di "Consapevolezza" o anche "Crescere", poi ho preferito privilegiare, almeno nel titolo, Rigel e Orion). L'immagine è uno dei capolavori di AryYuna, potete trovarlo nella sua pagina artista su FB o su DeviantArt. Passo ora ai consueti ringraziamenti a quanti hanno letto e recensito, aggiunto a preferiti, seguiti, ricordati, ecc…
Un bacione a tutti, alla prossima!

Valeria



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